LA CARITÀ DEL PROSSIMO

ROMANZO DI VITTORIO BERSEZIO

MILANO

E. TREVES & C. EDITORI 1868

Il presente romanzo, di proprietà della Ditta E. TREVES e C., editori della Biblioteca Utile, è messo sotto la salvaguardia della legge sulla proprietà letteraria.

Milano—Tip. Bezza.

LA CARITÀ DEL PROSSIMO

I.

Siamo in una stanzaccia ampia, alta, nuda, illuminata da un lucernario di vetro a mezzo il soffitto, colle pareti grigiastre tappezzate di quadri abbozzati, di braccia e di gambe di gesso, di pipe e di ragnateli: in una parola, lo studio e l'abitazione di un pittore. Non occorre dire che ci troviamo sotto le tegole del tetto, al di sopra di quattro piani d'una gran casona, alveare umano che alberga una quantità di famiglie.

Questo studio è anche la dimora del pittore—che sto per presentarvi—e della sua famiglia; poichè il nostro eroe, per dirvela ad un tratto, possiede un gran buon cuore, buon umore da venderne, poco coraggio, non troppo ingegno, povere fortune, una moglie borbottona e quattro bimbi.

I misteri famigliari sono nascosti agli occhi dei profani che penetrano nello studio, da un lungo paravento, di dietro il quale suonano quasi senza intermittenza grida e pianti di bambini, rampogne ed impazienti esclamazioni della madre, e fanno di quando in quando irrefrenabile sortita i tre più grandicelli ragazzi a cavallo del bastone del papà, dell'ombrello della mamma e dell'appoggiamano per dipingere.

Al momento in cui vi prego di penetrar meco nello stanzone del pittore, le fortune di Antonio Vanardi—questo è il nome dell'artista—sono più povere che mai. È pieno di debiti; da ogni parte da cui si volga corre rischio di vedere la faccia corrucciata di un creditore che non può pagare; e più corrucciato e più inesorabile di tutti fra questi creditori lì il padrone di casa, a cui Vanardi deve due semestri d'affitto, e non sa dove battere la testa per avere di che pagarlo.

Questo padrone di casa—come tutti quelli delle commedie, dei drammi e dei romanzi—è un uomo che non conosce guari dove stia di casa la pietà, e non capisce che un'attinenza verso i suoi locatari: riceverne danaro per la pigione a tempo debito e scrivere loro una buona quietanza colla sua buona firma sotto, nella sua scrittura commerciale che finisce sempre l'ultima lettera con un ghirigoro pieno di eleganza: Fiorenzo Marone.

Benchè egli abbia questo nome illustre, non lo crediate già discendente dal celebre poeta mantovano. Di Virgilio il brav'uomo non aveva inteso mai nemmeno a parlare, ed i versi non sapeva che razza di bestie si fossero.

To', poichè il signor Marone mi è capitato qui sotto il becco della penna, ci stia un poco; ed abbiate pazienza, cari lettori, mentr'io mi indugio un tantino a schizzarvene il ritratto alla sfuggita.

È un uomo oltre i sessanta, grande, grosso, a faccia di villano e maniere uguali, a spalle larghe, naso lungo, occhi di gatto, denti di rosicchiante, mento quadrato, mani grosse, piedi da lacchè, sorriso falso, fronte stretta e coscienza Dio sa come. Vuole dare alla sua fisonomia un aspetto d'umiltà e di bonarietà che stona maledettamente colla grossezza delle sue forme; mette la sordina alla sua voce da boattiere, e non guarda mai negli occhi la persona a cui parla.

La sua storia è contata in quattro parole. È figliuolo d'un villano che nei primi anni del secolo veniva in Torino i giorni di mercato, spingendosi innanzi un asinello, a vendere formaggioli sulla piazza delle erbe, che ora è piazza del Palazzo di Città. Fiorenzo, sbarazzino di due lustri incirca, l'accompagnava trottando coi piè nudi, una bacchetta in mano, dando il cis-va-là e le botte al somarello restio. Più tardi successe egli, fatto giovinotto, nel commercio paterno. Seppe governare così bene e rammontare colla parsimonia, che era un'avarizia, soldo sopra soldo, che un bel dì si trovò a capo d'un certo capitale, colla buona voglia di moltiplicarlo il più possibile e coll'accortezza necessaria per riuscire in questa operazione aritmetica, per cui si sentiva una vera vocazione datagli dalla natura.

Su quella medesima piazza che lo aveva visto compagno all'asinello paterno, Fiorenzo apriva una bottega da spacciarvi formaggi, ed andatagli prospera la fortuna accresceva in poco tempo il suo fondaco e i suoi guadagni; finchè, sopraggiunta la guerra del quarantotto, egli pigliava l'impresa di provvedere di formaggi l'esercito piemontese, ed ingrassava così bene di quello che non mangiarono i nostri soldati, che rimetteva ad altri la bottega, comprava case, tenute, e cartelle del debito pubblico, e si ritirava a viverla in panciolle, ricco di più dozzine di mila lire di rendita.

Egli è solo, celibe, senza parenti. Fa il pinzocchero; non dà mai un soldo ad un povero, ma regala alla parrocchia di quando in quando od una lampada d'argento indorato, od una corona per la Madonna con gemme false, e nei giorni solenni, per esempio la settimana santa, si mette sulla porta della chiesa colla tasca in mano a gridare a chi va e viene: pel santo sepolcro! È avaro come una tigna, senza cuore, e non ama che il denaro: nessuno lo stima, meno ancora gli si vuol bene; e tutti gli fanno tanto di cappello.

Ebbene gli era a codestui che il povero Vanardi doveva duecento cinquanta lire di pigione. E meno male fosse stato quello il solo suo debito! Ma il pizzicagnolo della cantonata non voleva più vendergli nè lardo nè burro, nè niente del tutto, se non gli pagava le sessanta lire di cui andava in credito; ma il panattiere gli rompeva la testa per averne finalmente i due napoleoni d'oro (in quel tempo v'erano ancora i napoleoni) che gli si dovevano; ma il venditore di legna e carbone aveva protestato che se entro una settimana non lo si soddisfacesse dei 14 franchi ed 80 centesimi ch'egli domandava pei combustibili somministrati, sarebbe andato senz'altro dal giudice. E lascio stare il macellaio, il venditore di vino al minuto e tutti gli altri creditori, che se volessi annoverarli un per uno farei una rassegna lunga e noiosa, come quella degli eroi combattenti in un'epopea che si rispetta.

Il misero Antonio passava mogio mogio nella strada che abitava, la testa bassa e il cuore piccino piccino, e non osava guardare che di sottecchi nelle botteghe che si aprivano in quel quartiere. Da ciascuno di quegli usci a cristalli potea sbucar fuori una faccia ostile ed una voce minacciosa a domandargli del danaro.

Era solamente innanzi allo speziale, la cui bottega s'apriva proprio d'accanto all'uscio da via della casa di Marone, che Vanardi osava levare il capo e passar fiero. Di quel benedetto farmacopola egli non era debitore; anzi!…

Ai due stipiti della bottega farmaceutica stavano appiccate due tavole, in cui meditavano con faccia severa e barba grigia due uomini dipinti in vesta lunga, un grosso libraccio in mano. Erano le opere del nostro artista che da pochi dì facevano bella mostra di sè a que' pochi raggi di sole che fra i comignoli delle case trovavan modo di filtrare sino al fondo della stradicciuola: opera che lo speziale non solo non aveva ancora pagato, ma non aveva accennato nemmeno la buona intenzione di pagare.

Anche codesto signor speziale era da novella e da commedia; voglio dire che tutti s'accordavano, ed avevan ragione, in dirlo il maggior ciarlone e la peggior lingua del quartiere, come ogni speziale sulla scena o in un racconto ha lo stretto obbligo di essere.

Per poco fosse buona la stagione e tollerabile il tempo, egli si piantava sul passo della sua porta, le gambe larghe, le mani nelle tasche de' calzoni, il suo naso lungo ed acuminato all'aria, in capo il suo berretto di panno nero unto e bisunto con lunga visiera innanzi agli occhi, e arrestava al passaggio tutti quelli che conosceva—ed egli conosceva tutta la città—per offrire a ciascuno una presa di tabacco e smaltirgli la sua buona dose di chiaccole e di maldicenza.

Chiaccherava coi garzoni, chiaccherava cogli avventori, chiaccherava coi vicini, chiaccherava coi passeggieri, chiaccherava colla sua nipote (una poveretta di ragazza povera e brutta, ma buona come il pan buffetto, cui sotto pretesto d'usarle carità, egli aveva presa seco a soffrire i mali di lui tratti ed a fargli da serva senza paga), chiaccherava colla portinara (figuratevi!), chiaccherava perfino colla gatta, chiaccherava sempre da mattina a sera; sapeva i fatti di tutti i casigliani, di tutti gli abitanti di quella strada, di tutta la cittadinanza; contava non senza vivacità l'aneddoto, correva dietro a stupidi giuochi di parole che egli credeva prova d'ingegno, scoccava con qualche malizia l'epigramma, era noioso come la piova, aveva un tesoro inesauribile di curiosità e diceva male di tutto e di tutti.

A Vanardi ed a sua moglie toccava passare sovente innanzi alla farmacia. Messer Agapito (è nome classico di speziale) aveva incominciato per salutare la moglie e poi anche il marito, accompagnando però il primo saluto d'un sorriso particolare: poi aveva fermato la donna per chiederle novella del marito, l'uomo per domandargli le nuove della moglie, e se erano tutte due insieme, per informarsi della salute dei bimbi.

In quel tempo la moglie del pittore portava nel suo seno il quarto frutto dell'amore coniugale, e il farmacista mostrava sentire il più vivo interessamento per quello stato interessante della giovine donna.

Appena vedeva spuntare Antonio, cessava di rimestare colle sue dita lunghe e sporche nella sua tabacchiera di corno fuso—movimento che gli era abituale—e gli gridava fra ilare o domesticamente amichevole:

—Ebbene, caro signor Vanardi? E madama come va?

Qualunque cosa gli venisse risposta, era per lui un'occasione ad una ciarlatina d'un quarto d'ora. Madama tale in un simile stato, aveva sofferto questo, aveva sentito quello; egli l'aveva consigliata di far così, e poi così, ed erano stati meravigliosi i buoni effetti che la ne aveva provati. Madama tal'altra doveva a lui la sua salvezza; e madama quest'altra poi? Gli è vero che la poteva dirsi una smorfiosa, che la più sazievole non s'era mai vista: ed il marito era un imbecille, a cui la si dava a bevere come a nissuno al mondo; e riparava in quella casa un certo signorino coi pizzi all'inglese, e poi anche un uffizialetto coi baffetti all'insù, i quali non era senza un perchè se stringevano tanto forte la mano di quel gaglioffo di marito, eccetera, eccetera. E passava senza arrestarsi da una famiglia all'altra, da un pettegolezzo ad un maggiore, da una maldicenza ad una calunnia, con una volubilità di parola, con una facilità di discorso, con una malizia di sogghigni e di ammiccamenti, con una varietà di espressioni, con una certa bonarietà maligna che ti facevano restare sbalordito.

—Buono! diceva il nostro pittore ad ogni volta; meglio aver da fare colla prima fra le vecchie pettegole che con codesto gaio manipolatore di purganti.

E faceva di tutto a tagliar corto i discorsi e tirar via pel suo cammino.

—È molto superbo quell'imbrattatele da dozzina, diceva lo speziale a' garzoni, ai vicini, alle serve del quartiere; che cosa si crede di essere?

Un dì finalmente, messer Agapito, d'in sull'uscio della bottega, vede precipitarsi fuor di casa il pittore tutto sollecito e conturbato.

—Che c'è? gli grida dietro, lasciando cadere a terra la sua presa di tabacco, nell'eccesso della curiosità.

Vanardi agita le braccia in una risposta di mimica concitata, e seguita la sua corsa!

—Che? rigrida lo speziale, scendendo giù dallo scalino della bottega nella strada; sua moglie forse?…

Antonio fa dei cenni affermativi per isbarazzarsene, e continua il suo cammino.

—-Ah! siamo dunque al buono, eh? ripiglia messer Agapito. Non tema di nulla; vado su io. Son pratico meglio di qualunque cerusico. Lasci fare a me.

Vanardi non gli ha più badato ed è sparito: lo speziale rientra in bottega.

—La moglie del pittore qui su fu sovrappresa dai dolori: dice egli ai due garzoni che sbadigliano ai barattoli delle scansie. Datemi qui dei sali, una boccettina di cordiale, e vo in suo soccorso. Quel marito è una bestiaccia che non sa di niente. Corre in cerca chi sa di qual medico ciarlatano, o di che donnaccia ignorante che gli accopperebbero senza fallo la moglie e il bambino… Una donnina abbastanza graziosa quella signora Rosa… Non sono mai entrato nel loro quartiere. Vo' vedere come ci è alloggiato questo superbioso che mi fa grazia a colloquir meco.

Ci va diffatti, trova la donna dietro il paravento che ha pensato di sbarazzarsi d'un bel maschiotto senza aspettare aiuto di comare: e quando il marito poco dopo torna con una levatrice, ecco lo speziale che gli presenta in aria di trionfo il quarto figliuolo neonato.

Come trovar modo di mettere alla porta un uomo dopo simil fatto? Lo speziale si fece di casa come la granata: ci andava a pigliar novelle della puerpera due volte al giorno; paragonava il neonato ad un angelo, ad un amorino, pigiava le gote fra le dita agli altri tre bambini, e snocciolava fuori gli affari di tutti i casigliani.

La moglie del pittore, a metterla fra le bracone (per dirla alla toscana) non le si faceva gran torto: epperò ebbe a dilettarsi non poco delle visite e delle ciarle del signor Agapito.

Antonio, se avesse osato andar contro ai borbottamenti della sua donna, se non avesse temuto d'essere soverchiamente incivile verso il farmacista, avrebbe volentieri preso costui per le spalle e messolo fuori dell'uscio con una viva raccomandazione a non più tornarci, tanto e' gli dava sui nervi; ma il buon uomo non era e non sarebbe stato mai capace di tanta risoluzione e di tanto coraggio.

Era trascorso quasi un anno, quando una bella volta il signor Agapito fermò il pittore che passava, e gli disse con un piglio affatto nuovo, tutto piacenteria:

—Mio caro signor Vanardi, vorrei parlarle d'una cosa.

—Parli pure.

Lo speziale annasò una presa e ne offerse ad Antonio che, come sempre, fece un cenno di no, tirando in là la tabacchiera e la mano di Agapito.

—Ah, ah! Ella rifiuta, perchè non ne fiuta: disse questi grattandosi il naso lungo e sottile e ridendo grossamente. Oh, oh! il bisticcio non è cattivo. Lo dirò al suo amico il signor Selva, che passa per uomo di talento, perchè fa dei versi e scrive delle sciocchezze su pei giornali.

—Che cosa è che la mi vuol dire, signor Agapito? ridomandò Vanardi impaziente.

—Ecco qui.

Additò le due tavole di legno screpolate che ornavano i battitoi della sua bottega: sovra esse erano a mezzo cancellati due gran vasi dipinti con avvolti intorno due serpenti verdescuri.

—Ecco: queste mostre di bottega sono già un po' scadenti. Le serpi hanno perso le squame e somigliano anguille: e i vasi, altro che di marmo, paiono di gesso sporco. La mi dovrebbe, lei che ha un sì valente e facile pennello, rimpiastrarmi costassù qualche bella dipintura a suo modo, che sarebbe per me proprio quel che ci vuole. Oggidì, la vede, anche le spezierie si mettono in isfarzo e sembrano salotti da coiffeurs di Parigi: le medicine fanno competenza ai sorbetti in punto a specchi ed ornamenti delle botteghe in cui si spacciano. Lo speziale X ha addobbato il suo fondaco che pare una sala da ballo: è vero che se ne ricatta vendendo susine per tamarindi, corteccia di salice per china, ed ogni fatta porcherie per droghe… Ah, mio caro signor Antonio, non è spacciando roba buona e governandosi onestamente, come noi si fa, che si diventa ricchi di quella guisa. Il signor X ha più di ventimila lire all'anno, sa! Eh! ce ne vuole della cassia a metterle insieme! Ma quel birbo là è sempre stato un ladro, ed è perciò che ha sempre avuto fortuna. Mi ricordo che quando ha cominciato…

Vanardi a cui stava troppo a cuore un'ordinazione di lavoro, l'interruppe, ma sforzandosi a sorridere il più amichevolmente che potesse.

—Ella dunque, signor Agapito, vorrebbe ch'io dipingessi a nuovo queste mostre?

—Appunto. La vede: il legno è buono…. qualche tarlatura, ma con un po' di mastice, gli è nulla. Senta come suona!—E vi picchiava su colla nocca delle dita.—Una lisciatina di che so io, una figura, due fregi, una mano di vernice ed avranno un rispicco da farne stare ammirato chi passa.

—Bene. Lei ha detto una figura, vorrebbe dunque surrogare questi vasi?…

—Oh quanto a ciò faccia lei. Ho detto una figura così per dire…. Ma non ho voluto dire nè una figura rettorica nè un'algebrica…. oh, oh, oh! Ha afferrato il bisticcio? Non è cattivo…. Dunque, ci metta ciò che vuole, purchè sia qualche cosa d'acconcio…. Per esempio se fossero i due ritratti d'Ippocrate e di Galeno… C'è qualche farmacia che li ha… Due personaggi da capo a piedi con aria severa, una gran barba, un manto, andrebbe addirittura a meraviglia. Ma non la voglio mica legare…. L'ispirazione… Oh so anch'io cos'è l'ispirazione… Dunque la lascio affatto libero. Le manderò su di quest'oggi pel garzone al suo studio le due tavole. Non c'è nulla che prema… affatto nulla: ma se non avesse più pressanti lavori… quanto prima si può sfoggiarla e meglio è… insomma, se me le desse per la fine dalla settimana entrante, mi sarebbe molto a grado.

Vanardi in quel tempo, e già da troppo ciò gli avveniva, non aveva precisamente nulla da fare. Il bisogno di denaro cresceva in ragione inversa alla mancanza del lavoro; e questa che gli parve una bella e buona proposta dello speziale gli tornò come una benedizione della fortuna. Non istette a discorrerla davantaggio, e promise che pel tempo accennatogli i due eroi della medicina, dalle loro tavole di legno, inviterebbero i passeggeri a purgarsi colle droghe di messer Agapito.

Bene ebbe in pensiero di domandare fino dapprima un prezzo, ma secondo il solito glie ne venne meno il coraggio, e si quietò nel pensiero che per quanto poco volesse lo speziale pagarlo, n'avrebbe sempre avuto tuttavia da comprar pane per un poco di giorni alla sua famiglia.

Ci si mise intorno a tutt'uomo, impiegò in questo lavoro tutti i colori che gli rimanevano ancora e tutto il suo talento; fece due faccie storte che lucicchiavano meravigliosamente collo splendore della loro fresca vernice.

Messer Agapito lodò molto l'artista, ma non parlò di pagare. Antonio aveva sempre sulle labbra la parola per dimandargliene il prezzo, ma non la osava pronunciar mai: i debiti crescevano, i bimbi strillavano da mane a sera e la moglie borbottava senza soluzione di continuità.

Voi direte:—Questo tuo protagonista è uno scioccone che si merita la sua sorte. Perchè si è ammogliato, se non aveva fortune da mantenere la sua famiglia, se non aveva talenti da guadagnarsene il sostentamento? Perchè fare il pittore se non era buono che a scombiccherar faccie storte? Perchè ha dato la vita a quattro creature, le quali non avrebbero sofferto di miseria quand'egli non le avesse fatte venire al mondo? Perchè sopratutto ha sposato una moglie borbottona?

Egli, se vi udisse, potrebbe rispondervi:

—La mia Rosina era più mite d'un agnello quando me la sono sposata. Le volevo bene; era sola, onesta o belloccia, e perchè la era povera, avevo io da sedurla ed abbandonarla? Sono un onest'uomo, corpo di Bacco! Allora io, oltre la tanta buona volontà di lavorare, aveva le illusioni della prima giovinezza, che mi dipingevano in tinte ridenti l'avvenire; aveva la lusinga d'essere o di poter diventare un buon pittore e la speranza di poter guadagnare col mio pennello tanto quanto colla punta dei piedi un maestro di ballo. Che colpa ne ho io se le mie illusioni ebbero il torto marcio; se il lavoro non venne; se mio zio il droghiere non volle mai più perdonarmi; se mia moglie si ostinò a volermi far padre quattro volte; e se per soprammercato le sciagure la fecero dispettosa e peggio?…

Ma qui sarà meglio che, senz'aspettar altro, io entri a darvi maggiori e più intime informazioni di questo povero diavolo.

Attenti bene!

II.

Suo padre era Regio Liquidatore, e il fratello di suo padre teneva fondaco di droghe e robe vive, come dice la lingua bara delle insegne. Papà Vanardi avvezzo a liquidare gli averi e i debiti altrui, liquidò anche le sostanze proprie; e un bel giorno si trovò al verde, poco meglio di quella condizione in cui si trovava il figliuolo nel momento in cui comincia questo racconto. Suo fratello il droghiere, per contro, aveva visto prosperare benissimo il suo commercio, ed era riuscito a mettere in disparte un capitale da fare invidia ad un banchiere e ad un impresario Egli voleva bene a suo fratello, era il padrino del piccolo Antonio, e il pepe e la cannella non gli avevano guastato il cuore, Raccolse in casa sua fratello, cognata e nipote, e disse gravemente pizzicando la gota rubiconda di quest'ultimo:

—Alla sorte di questo birboncello ci penserò io. Ne faremo qualche cosa di grosso, lasciate stare… Antoniuccio, che cosa vuoi tu diventare?

Il ragazzo che vedeva quasi tutti i giorni sfilare sotto le finestre dell'appartamento paterno i reggimenti della guarnigione che andavano in piazza d'armi e che restava ammirato alla vista di quel bell'uomo grande e grosso che camminava primo di tutti con una famosa mazza in mano, e nelle occasioni solenni un gran pennacchio dritto in sul capo, il ragazzo rispose franco, levandosi in punta di piedi ed ingrossando la voce:

—Io voglio diventare tamburro maggiore.

Ma l'ambizione dello zio padrino non fu soddisfatta da queste aspirazioni d'Antoniuccio alla grandezza. Meglio che il bastone a grosso pome d'argento gliene parve il codice a legatura di pelle: meglio che la montura e la sciabola, la toga nera ed il bavero, e disse al nipote in tono di sentenza irrevocabile:

—Tu non sarai tamburo, ma avvocato.

Antonio vi si rassegnò.

All'Università s'incontrò e strinse amicizia con una frotta di capi ameni che di studiare la legale avevano tanta voglia come di intisichire, dei quali per ora non occorre nominarvi che quel Giovanni Selva, di cui già avete sentito fare un cenno lo speziale Agapito, e del quale vi avrò da parlare più a dilungo fra poco.

Di questi suoi amici l'uno voleva essere un nuovo Rossini, l'altro un Ariosto, il terzo un Alfieri: Vanardi—o fosse perchè il posto di artista non era ancora occupato, o i quadrilateri dipinti a più colori, che la sfoggiavano sopra l'uscio del fondaco dello zio esercitassero un influsso sull'incertezza della sua mente—Vanardi si cacciò in capo di voler essere Rafaello. Si mise a scarabocchiare di faccie impossibili e di figure mostruose tutte le copertine de' suoi trattati, tutte le pagine de' suoi cartolari, tutti i frontispizi de' suoi libri. Mentre i diligenti fra i suoi compagni scrivevano le spiegazioni della scienza legale che cascavano dalla bocca sapiente del professore, egli schizzava a tratti di penna la caricatura della parrucca, del naso, del berretto dottorale, della faccia ingrugnata dell'insegnante; mentre avrebbe dovuto studiare il Fabro e svolgere il Digesto, egli studiava il nudo e stringeva più o meno dimestica conoscenza colle modelle. Un orrore di condotta da mettere sulle furie anche il più zuccherato di tutti gli zii dell'uno e dell'altro emisfero.

In questa guisa il nostro Antonio avanzò sì bene che giunse a sbozzare in men che non si dice una parodia di figura e non potè andar oltre al terzo anno del corso di leggi. Rimandato tante volte di seguito, quante bastava per non poter più presentarsi agli esami, dovette di necessità raccogliere tutto il suo coraggio per dichiarare allo zio padrino che d'avere un nipote avvocato non se ne faceva più niente. Figuratevi la collera del buon droghiere, il quale a quel tempo era rimasto unico dei parenti d'Antonio e riuniva in sè tutte le autorità della famiglia!

Dopo averlo strapazzato una buona ora, chiese finalmente al nipote:

—Ebbene, disgraziato, e che vuoi tu fare al presente?

Antonio che aveva ricevuta l'intemerata colla testa bassa e colle sembianze raumiliate d'un peccatore ravveduto, alzò la faccia, esitò un pochino poi disse colla maggior fermezza che lasciava alla sua voce il cuore che gli batteva forte forte:

—Voglio farmi pittore.

Lo zio fece un trasalto che avreste detto di spavento, quale avrebbe potuto avere se si fosse trovato inopinatamente innanzi ad un matto.

—Pittore! che è ciò? Che vuol dir questa bizzaria? Pittore! Sciagurataccio! mi faresti dire qualche sproposito.

Ma il nipote, il quale, impegnata una volta la lotta, aveva sentito accrescersi un poco il coraggio, riprese più franco:

—Sì, signor zio. Sono ammesso alla scuola dell'Accademia. I professori sono contenti dei miei progressi. (E' si vantava, lo scellerato!) Diventerò un artista di vaglia, illustrerò il nostro nome e…

—Un corno! esclamò lo zio furibondo… Poichè tu non sei capace di spacciar eloquenza alla ringhiera del foro, spaccerai pepe e cannella al minuto al banco della mia bottega. Sarai droghiere come tuo zio.

Antonio volle opporsi a questa fatale sentenza, ma il vecchio fu irremovibile. La lotta durò per un poco. Il padrino era ostinato, ma il figlioccio nella sua timidità era testardo. Un bel dì, quest'ultimo scappò di casa coi suoi colori, coi suoi pennelli, co' suoi rotoli di tela, colle sue cartelle, colla sua tavolozza, colla sua cassetta, colla sua povertà e col suo buon umore, e piantò le tende in una soffitta dove non gli mancavano la luce, la vista del cielo e quella di tutti i comignoli dei camini delle case.

Lo zio gli assegnò quindici giorni di tempo per tornare all'ovile. Passato quest'intervallo, gli mandò un involto con dentrovi alcuni biglietti di banco ed una lettera per la quale lo ammoniva che l'aveva cancellato affatto dal suo cuore, che qualunque vicenda gli capitasse non voleva più saperne di niente, che per lui era d'ora in avanti come se non avesse avuto mai nè figlioccio nè nipote.

Antonio rimase afflitto della lettera, perchè in realtà allo zio voleva bene; fu consolato dai fogli di valore, perocchè gli venivano più che opportuni; e non disperò di ottenere un dì o l'altro il perdono del padrino, massime quando sarebbe stato celebre e ricco per opera del suo pennello, cosa che secondo lui non solo non poteva mancare, ma non doveva nemmeno tardare di molto.

Si presentò due o tre volte al fondaco dello zio per rappaciarsi con esso; ma l'inesorabile vecchio, seduto sempre al suo scrittoio, dietro un paravento a vetri, sporgeva in fuori la testa coperta dell'eterno berretto di seta nera, guardava chi fosse entrato; vedendo il nipote, gettava due sbruffi di tosse, s'alzava da sedere, e senza far motto, additava con tacita eloquenza di gesto la porta per cui si doveva uscire; sopra la quale pompeggiavano al di fuori nella strada sette quadrilateri, i cui rispettivi colori erano rosso, turchino, giallo, verde, arancio, violetto e terra d'Italia.

Antonio chinava rassegnatamente il capo ed usciva; finchè si stancò della monotona ripetizione di questa scena muta, e non ci venne più.

Però, di quando in quando, nelle occasioni solenni dell'anno, al Natale, alle tremende epoche in cui si ha da pagar la pigione, venivano al pittore certi soccorsi anonimi, ch'egli sapeva indovinar molto bene da che mano partissero. E questi soccorsi conferivano a giungere in capo dell'anno senza troppi stenti; soddisfatto com'egli era del poco, e sì poco veramente bastando a lui, solo, nella modestissima esistenza che menava via allegramente, senza un fastidio al mondo.

Ma i fastidii soprarrivarono pur troppo, poco tempo dopo che ebbe la cattiva ispirazione di prender moglie. Quest'essa era una povera figliuola del popolo, abilissima cucitrice, ma con poca istruzione, pochissima educazione e senza denari. Non aveva che la sua gioventù, una piacevolezza di tratti che non poteva dirsi beltà, e il suo buon cuore. Antonio la vide nell'occasione dolorosissima, ch'ella perdette l'unico parente che ancora le rimanesse. Stavano vicini d'alloggio, e il povero pittore si mise a consolare la povera orfanella. In breve dovettero sposarsi. Antonio si guardò bene dal darne avviso allo zio; ma pur tuttavia questi lo seppe la stessa cosa, ed andò nuovamente sulle furie e peggio che mai. Da quel giorno le anonime sovvenzioni cessarono; ma in compenso cominciarono a venire i figliuoli.

Il lavoro, per maledetta sorte, non imitava il bell'esempio della prole; non veniva nè punto nè poco. Un quadro su cui Antonio aveva fondato le sue più belle speranze fu giudicato unanimemente alla pubblica mostra, dove l'aveva esposto, una porcheria insuperabile. Il bisogno aveva incominciato ad insinuarsi pian piano nella casa; la miseria faceva capolino dalla finestra e digrignava minacciosamente i denti alla porta.

Aveva vissuto un po' di tempo in compagnia di quei suoi amici dell'Università, fra cui principale il Selva, che erano venuti ad alloggiare con esso lui; s'erano immischiati nella politica, ed avevano congiurato prima del quarantotto per l'unità e l'indipendenza d'Italia. Ma la rivoluzione appunto di quell'anno meraviglioso aveva disciolta e dispersa la piccola colonia. Quasi tutti quegli amici erano andati soldati; ed Antonio, trattenuto dalla sua famiglia, era rimasto solo. Di poi l'aveva aiutato assai l'amicizia d'una buona e generosa famiglia, i Cioni, di cui l'unico figlio, Adolfo, dilettante di pittura, aveva saputo trovare mille ingegnose maniere di soccorrerlo col pretesto di dargli del lavoro. Ma una sciagurata catastrofe era avvenuta in quella famiglia. Adolfo amava in segreto, e riamato, la moglie d'un vecchio e fiero capitano, il quale, scoperta la verità, aveva in un orribil duello ucciso il giovane, e la donna seco via condottasi che mai più nessuno ne aveva saputo novella. Il padre di Adolfo non molto era sopravvissuto all'unico figlio, tanto era stato il suo dolore. Antonio aveva perso il suo maggior sostegno.

Egli aveva visto chiaro le sue condizioni, ma non si era perso dell'animo ed aveva bravamente lottato. Aveva consumato colla più meravigliosa parsimonia tutto quel poco di risparmio che fino allora era riuscito a mettere in disparte con un vero miracolo di economia: poi una gran parte dei suoi mobili, cominciando dai meno necessari e venendo poi agli abiti, avevano preso il cammino del Monte di Pietà, e neppure uno aveva ancora saputo trovare quello del ritorno a casa.

Il povero Antonio, smesso ogni orgoglio, andò a dimandar lavoro a questo ed a quello. Le ripulse non lo stancavano, ebbe il coraggio di affrontare i più superbi rifiuti, e dalla sua perseveranza ottenne qualche buon risultato. Dipinse un orrido turco dall'orrida barba con una lunga pipa in bocca pel tabaccaio; una slombata fortuna (e la fece brutta per dispetto) che gettava pioggia di denari da un corno d'abbondanza, pel banco del lotto; e persino (che umiliazione!) una bottiglia che schizzava il turacciolo per aria ed il vino nei due bicchieri che gli stavano a fianco, per l'oste a cui doveva sei lire. Il tabaccaio gli diede poco, il banco del Lotto anche meno, ed il mercante di vino un bel nulla.

Come se non bastasse tutto questo, mentre la miseria cresceva, l'umore taccoliero della moglie cresceva ancor esso in proporzione. Non è già che la Rosina non volesse bene al suo Antonio, oh! per codesto ella si meritava ogni elogio, chè glie ne voleva anche troppo; da prendersi tanta cura d'ogni fatto di lui che gli riusciva fastidievole.

Guai s'egli non tornasse a casa appuntino all'ora che aveva detto!

—E dove sei tu stato? e che hai fatto? e come perdi il tuo tempo? e che pensiero ti dai della tua famiglia? E tu a spasso, ed io a rodermi qui dentro d'inquietudine con questi marmocchi intorno che mi tolgono la testa ecc., ecc.

E tocca via con un mondo di parole cosiffatte e di ragioni sragionate e di rimbrotti senza causa e di lamentazioni e di chiaccole da non finirla più.

Ad Antonio, benchè ci avesse ormai fatto il callo, quelle scene erano gravi. Aveva tentato di tutto per farla smettere alla moglie; ma sì, imporre silenzio ad una di cotali donne, era impresa da ben altri che il povero pittore non fosse. Quindi per lo migliore, ei s'atteneva il più sovente al silenzio, e lasciava passare senza ostacoli l'onda abbondevole e furiosa delle muliebri parole.

Rosina s'accorgeva d'essere grave al marito, e ne soffriva, e se ne adontava e ne imbizzarriva peggio con esso lui.

—Già tu ti vergogni di me: diceva essa delle volte, mezzo piangente, mezzo furibonda: non sono che una popolana io…. oh! lo so…. e tu sei della razza de' signori tu… Bel signorone affè mia, che lasci crepar di fame e moglie e figliuoli!… Non ho le belle maniere delle dame io!… Ma toccherà a me un bel giorno guadagnare il pane della famiglia con queste dieci dita che m'ha fatto la mamma…. O belle le cerimonie!… O care le stampite della buona società…. o grazioso il saper discorrerla in quinci e quindi!… Ed io non ne so nulla del vostro bel gergo…. Io quando parlo, tu mi fai gli occhioni che pare mi vogli mangiare cruda e fatta…. E se ti duole di me, e se te ne pesa, e tu non dovevi sposarmi…. O che son io che vi ti ho costretto col coltello alla gola forse?… T'adonti perfino di accompagnarmi per istrada… Oh! nei primi tempi del nostro matrimonio non era così che facevi…. E me lo dice persino messer Agapito, che non è di questa guisa che uno si governa colla moglie se le vuol bene.

—Messer Agapito s'immischi nelle sue spezierie e non venga a romperci le tasche: gridava a questo punto Vanardi spazientito.

—Gli è che ha ragione: ripigliava la moglie con maggior calore: tu non mi vuoi più bene… Sei un cattivo, sì… perchè dovevi lasciarmi stare… Ed io col mio ago mi guadagnerei da vivere un po' meglio…

Antonio voleva placarla. Essa lo respingeva bruscamente; afforzava i suoi rimbrotti; terminava con piangere, e si ritraeva musonando e singhiozzando in un angolo della stanza. I fanciulli vedevano piangere la madre e si cacciavano a strillare ancor essi. Vanardi faceva a calmar l'una e ad azzittire gli altri; ragionava, pregava, gridava, minacciava: niente vi riusciva, finiva per andare in collera, bestemmiava come un turco, e stucco, intronato, infastidito, si cacciava il suo cappellaccio in testa e si precipitava fuori di casa, a passeggiare, le mani in tasca, guardando da vero sfaccendato i dipinti esposti nelle vetrine di tutti i mercanti di stampe, ai quali terminava sempre per andare ad offrire un quadro di suo, cui tutti, a buona ragione, si affrettavano sempre a rifiutare con entusiasmo.

—Oh che vita! oh che vita! esclamava talvolta il povero diavolo. E pensare che la debbo all'amore dell'arte, e ad un matrimonio per amore! C'è da disgustare chicchessia dell'una cosa e dell'altra. Mah! se avessi fatto il droghiere!… Eh! via, questa è viltà! Che? Rinunzierei al nobile sacerdozio dell'artista? Mi lascierei scoraggiare dall'impertinenza della sorte? Oibò! Tutti i grandi uomini sono crepati un pochino di fame: ed Andrea del Sarto aveva una moglie peggiore della mia… Sono un pusillanime s'io indietreggio innanzi a quest'iniziazione alla gloria.

E ripigliava la sua tranquillità e il suo buon umore, che erano figliuoli dell'eccellenza del suo carattere.

III.

Ma esaminiamo più minutamente il quartiere del nostro pittore cui centosessanta scalini separano dal fango della strada.

Era una specie di gabbia quadrata che sorgeva sul tetto in mezzo alle più umili soffitte, e generosamente concedeva i buchi delle sue muraglie all'esterno alla nidificazione dei passeri. La luce, come vi ho già detto, pioveva per entro da un lucernario che si trovava a mezzo il soffitto; alcuni suoi vetri, mal difesi da una graticella rotta di ferro, erano stati fracassati da una grandinata della state e sostituiti dall'arte provvida del pittore con fogli di carta unta. Le pareti avevano su una tinta di color grigiastro, sopra il fondo della quale facevano da arazzi i ragnateli, e frammezzo ad alcune braccia e gambe di gesso appiccatevi contro si scontorcevano le più bizzarre figure disegnate dal matto pennello o dalla bianca creta di Antonio. Un gran paravento alto più che la statura ordinaria d'un uomo divideva la stanzaccia in due: dall'una parte, appena entrati dall'uscio, trovato lo studio: ve lo definiscono tosto per tale due cavalletti, di cui uno zoppo, senza tele, un alto seggiòlo senza spalliera, che perde la paglia di sotto il piano da sedere, e un trespolino su cui una cassetta di colori dalle boccettine assecchite, una tavolozza più secca ancora che pende dal muro, e un esercito—irregolare—di pennelli di ogni fatta e misura, che giacciono dispersi, come dopo una sconfitta, da tutte le parti.

Una piccola stufa in ferraccio sta lì, quasi a metà dello spazio, colla bocca aperta ad aspettare inutilmente un po' di pasto di legna o di carbone. Sopra ci si vedono in disordine l'uno addosso all'altra una tazza vuota senza maniglia, una crosta di pan secco, una pipa, una borsa da tabacco floscia ed un romanzo illustrato di Paolo di Kock colla copertina tutta strappata e i fogli laceri. La misera stufa innalza bensì un tubo di ferro che traversa per lo lungo la stanza, disposta a mandar calorico per esso; ma la deve rimanersene alla buona intenzione, e il tubo medesimo è tanto freddo da gelar la mano imprudente che si avventuri a toccarlo. Voi capite da ciò che colà dentro regna senza temperamento una atmosfera da Siberia.

Nella parte seconda della stanza, separata dal paravento, voi ci vedreste: in mezzo, un desco a cassetto; da un lato, alla muraglia, un letto pei genitori, dall'altro, uno stramazzo pei tre bambini più grandicelli; appiè del letto, la culla dell'ultimo nato. Nell'angolo destro c'è un fornelletto a due buchi, in quel sinistro un acquario; lì vicino una secchia colla tazza di latta sopravi; poi una cassapanca che fa da canterano, una scancia su cui qualche stoviglia, tre bicchieri, una bottiglia nera, una caraffa bianca incrinata e un acetabolo senz'ampollini; appesi al muro un ramino, un mestolone ed una padella. Cinque seggiole fanno meraviglie d'equilibrio per tenersi ritte sulle loro gambe scassinate.

Un solo oggetto di qualche valore si nota fra tanta miseria; ed è un quadro con una cornice dorata, che rappresenta dipinta con colori a olio una giovine donna.

Era una bella figura che aveva nell'espressione del viso alcun che di soave e di mesto per cui era impossibile il guardarla senza simpatia e quasi direi senza commozione. Vanardi teneva quel ritratto, perocchè fosse un ritratto, come cosa preziosissima. Di ogni altro oggetto, anche del più necessario, si sarebbe prima spogliato che non di quest'esso. Era il ritratto della donna che il suo amico Adolfo Cioni, che vi ho già nominato poc'anzi, aveva amato, e per cui era morto. Adolfo medesimo l'aveva dipinto, copiando l'immagine che di Gina (così aveva nome la donna) eragli così profondamente impressa nell'animo. Quando l'infelice era stato ucciso in quel duello fatale dal marito di lei, il padre di Adolfo aveva consentito che Antonio prendesse nello studio del morto amico, tutti quegli oggetti che preferisse a memoria di lui. Vanardi, fra le altre cose, aveva preso questo ritratto. Tutto il resto era sparito poco a poco sotto la crescente stretta del bisogno; ma il ritratto di Gina era ancora lì, e Antonio aveva giurato di conservarlo ad ogni patto sino alla morte.

Di belle volte per questa cagione erano già avvenute delle dispute fra Vanardi e sua moglie. Costei non sapeva il perchè suo marito ci volesse tener tanto al possesso di quell'inutile ornamento, e come mai, avendo vendute tante cose assai più necessarie, non volesse manco udire a discorrere di sbarazzarsi di quel dipinto. Inutilmente Antonio le aveva contato tutta la storia; la Rosina tentennava il capo, ne sentiva o fingeva sentirne sempre i sospetti più ingiuriosi intorno alla fede del marito, e di quando in quando ne pigliava pretesto, come se altri e troppi pretesti non ci fossero già, per una buona sfuriata.

In questo momento in cui v'introduco nel misero alloggio di questa famigliuola, intorno alla quale vedremo svolgersi le scene del dramma che ho intrapreso di raccontarvi, tutti i componenti della medesima sono raccolti nel secondo scompartimento dell'unica stanzaccia.

Antonio passeggia in lungo ed in largo, le mani in tasca, la chioma rabbuffata, le orecchie livide pel freddo, la barba ispida, una pipa spenta in bocca, battendo i piedi di quando in quando, tutto, a vederlo, rattrappito dall'intirizzimento. Rosina siede vicino al deschetto e rappezza, con mani che hanno il colore delle orecchie di suo marito, dei logori panni pei bambini; innanzi a lei v'è la culla e in essa il piccino: ella col piede lo fa dondolare perchè dorma e gli va canticchiando una tediosa cantilena che interrompe tratto tratto per discorrere coll'uomo; i tre altri bambini ruzzano qua e là per la casa e fanno un diavoleto da toglier la testa.

Come già ho accennato, la Rosina non può dirsi bella; ma possiede un'aria tra la capricciosa e l'allegra che può piacere. Ha il capo avvolto in un fazzoletto logoro di panno-cotone; le spalle e il seno ha serrati da uno scialle di lana a brandelli, e tratto tratto deve interrompersi nel suo cucire per soffiarsi sulle dita delle mani pavonazze, non bastantemente difese dal freddo per certi mezzi guanti di grossa lana in maglia.

—Sicuro! diceva essa tutto ingrognata; il signor Marone ha detto che passerebbe quest'oggi senza fallo… e non ci manca di certo… e vuol essere pagato, quell'impostore birbone… e tu sai che uomo egli è!… E tu stai lì colle mani in tasca come un melenso che tu sei; e noi ci toccherà andar nella strada con questo bel caldo… e me mi converrà trascinarmi dietro e portarmi in collo i bambini ed andare accattonando, che Dio ti… Uh! me la faresti dire.

Antonio chinava il capo e camminava più lesto.

Il bambino, cui la mamma avea cessato di cullare e che non sentiva più la cantilena della ninna nanna, si cacciava a strillare: i due più grandicelli, rincorrendosi l'un l'altro, rovesciavano una seggiola e finivano di romperle una gamba.

—Eh! vuoi tacere! esclamava impazientita Rosina, ripigliando a dondolare rabbiosamente la culla, e tirando l'ago più rabbiosamente ancora: che sbraitatore è questo biricchino! E' mi vuol far diventar tisica… La li la lerà, la li la lerà… Volete finirla anche voi altri, sbarrazzini, che ora mi alzo e vi tocco il tempo io di santa ragione!… Dio buono! Ecco che mi hanno fracassato la sedia… Volete star fermi una santa volta!… Non avrete da colazione; ecco lì… La li la lerà, la li la lerà, la li là là.

I ragazzi, all'intemerata materna, si guardavano per di sotto tra di loro, timorosi, e quietavano un poco; il bambino cullato, sentendo ripresa la cantilena, cessava dal piangere; succedeva un istante di tranquillità.

—Ma come fare? come fare? dimandava Antonio parlando a sè stesso.

—Come fare? ripigliava stizzosa la Rosina. Sta a vedere che ha da essere la donna a trar d'impiccio un omaccione di quel calibro… Ma gli è da lungo tempo che ci avresti dovuto pensare e provvedere… e non aspettare che si fosse proprio allo stremo come siam'ora… Via, sta buono, Carlinuccio… oh, oh, oh, il bel cuorino… fa la nanna, via ghiottoncello… sì, carino, sì bellino… che il diavolo lo porti; questo maledetto è il fistolo, tant'è fastidioso!

E tornava a cantare per acchetarlo.

—Papà, ho fame! gridava il primo dei fanciulli.

—Sta zitto. La mamma ti ha messo in penitenza… Non avrai da colazione.

—Ih! ih! ih! Io ho fame, io…

—Ed anch'io, ed anch'io; gridavano gli altri due marmocchi.

—Volete finirla? sclamava la madre.

—Ih! ih! ih!…

E i tre ragazzi piangevano di conserva e della più bella.

—Giuggiole! che delizia! gridò Antonio levando le mani di tasca per cacciarseli entro i capelli: e corse al desco, ne tirò fuori a mezzo il cassetto, vi prese dentro un tòcco di pane inferrigno che c'era, lo divise in tre pezzi e ne porse uno a ciascuno de' ragazzi.

I quali, con un'unanimità maravigliosa d'avviso, cessarono di botto dal piangere per mordere dentro il pane a piena bocca.

Ma non tacque la Rosina.

—Che storia è questa? saltò su essa cessando dal cucire per mettersi le mani sui fianchi, incollerita. Che cosa sono io? un ceppo forse? o un coccio? o una pantofola? Ho detto che quei furfanti sarebbero stati senza colazione; ed è a quel modo che tu insegni a' figliuoli a rispettare la mamma? Che sì, ch'io non so chi mi tenga dall'andar a levar loro quel tozzo di mano e trartelo sul naso a te che più che vizi non sai dare a que' martuffini, degni figli tuoi… E veramente che sei tu a guadagnar loro il pane! Quell'avanzo lì, sai che cos'è? È l'ultimo resto de' miei pendentini d'oro che si sono portati al Monte… Ma tu hai in dispregio la moglie…

—Ma no, ma no, protestò Antonio.

—Ma sì, ma sì; insistette la Rosina; e vuoi che anche i tuoi bambocci abbiano in un calzetto la mamma…

—Via, via Rosina: disse Antonio umilmente, stai buona; vuoi che lasciassi romperci i timpani da que' strilli?…

—Uhè! uhè! uhè! cominciò il bimbo nella cuna, il quale non era più dondolato.

—Oh che vita! oh che vita! esclamò la Rosina rimettendosi ad agitare la culla.

—Oh che vita! oh che vita! ripetè Antonio riprendendo la sua passeggiata traverso la stanza.

Così stettero un poco senza parlare nè l'un nè l'altro.

Antonio fu il primo a riappiccare il discorso.

—Se provassi ancora una volta a ricorrere a mio zio? diss'egli piantandosi innanzi alla moglie.

Questa crollò le spalle e non levò neppure il capo dal suo lavoro.

—Eh? che ne dici? insistette il marito.

—Tuo zio è un cane: rispose brusca brusca la Rosina: e tu…. tu sei un altro animale.

—Un asino: suggerì Antonio: dillo pure.

—L'hai detto tu!

—Grazie tante!

Ed Antonio si rimise ad andare e venire.

—Vuoi star fermo una volta? gridò dopo un poco la moglie. Tu sembri l'arcolaio della strega che va e che va…. e m'hai già fatto tanto di testa.

—Oh! la mia arte! la mia arte! esclamò il marito arrestandosi di botto. Che cosa fa l'arte mia che dovrebb'esser quella a darmi la salvezza?

—Bell'arte la tua! se ne vedono gli effetti.

—Oh! un'idea! gridò Antonio percotendosi la fronte.

—Che?

—Forse ho trovato il modo di farmi conoscere, di ammansare mio padrino, di trovar lavoro e di farmi aprir le braccia dallo zio.

—Sentiamolo un tratto questo modo meraviglioso: disse la moglie, e riprese a cantarellare la sua nenia fra i denti.

—Ecco! Mi metto senza indugio a dipingere per mio zio, cioè pel suo fondaco, una insegna, una bella insegna, una grande insegna, una strepitosa insegna…. Oh! la vedo già dinanzi a me come se fosse fatta: un metro di altezza su quattro di lunghezza: in essa una dozzina d'amorini, più, due dozzine, anche più, tre, quattro se occorre…. d'amorini nudi e belli come il sole. L'uno porterà una scattola di pepe, l'altro un pane di zuccaro, il terzo cioccolato, il quarto caffè, un quinto un mazzo di candele, un sesto una matassa di cotone e via dicendo…. Sarà un'opera bella, stupenda, sublime, grandiosa. Glie la mando al fin del mese come omaggio di capo d'anno. Ei la fa appiccare sopra la porta del suo fondaco. Tutto il quartiere ne va in rivoluzione: un'ammirazione universale. Ogni giorno si fa un'assembramento in istrada di entusiastici spettatori col muso in aria; e la bottega non si vuota più di gente che vuol procacciarsi l'onore di comperare all'insegna degli amorini. Chi è l'autore di quel capo lavoro? domandano tutti. Antonio Vanardi: risponde la fama. Le commissioni fioccano nel mio studio, e dietro queste i denari e la gloria. Intanto mio padrino, commosso, lusingato, avvantaggiato da questo mio successo, mi spalanca le sue braccia e la sua cassa, e….

—E tu sei un matto da legare: interruppe con impeto Rosina.

—Perchè matto? Perchè vuoi gettare un secchio d'acqua sulla fiamma suscitata dal mio entusiasmo d'ispirazione?

—L'entusiasmo non ti darà i denari che bisogneranno per comprare solamente i colori che ti occorrerebbero….

—Ah! questo è vero: disse Antonio raumiliato, grattandosi il capo.

—E d'altronde, continuava Rosina, ancorchè tu riuscissi a fare questa insegna, tuo zio la caccerebbe sul fuoco e farebbe assai bene; e non ti darebbe mai un soldo, nè più nè meno di quello che ha fatto fin adesso…. Ah! se tu volessi, lo saprei ben io un mezzo possibile di salvarci pel momento… Ma tu sei così strano, così incaponito in certi punti…

—Incaponito? Niente affatto… Suggeriscimi soltanto un mezzo conveniente, e vedrai. Se tu dunque hai un rimedio, fuori Rosina, e quando la sia cosa che io possa fare onestamente, mi ci metterò con testa e braccia e gambe, e tutto quanto.

—Se tuo zio è un uomo senza briciolo di pietà, e ci son bene ancora nel mondo certe sante persone che hanno carità pel povero prossimo…

—Buono! interruppe Antonio, crollando egli a sua volta le spalle. La carità del prossimo a questi lumi di luna!—Eh sì, valla a cercare.

—Lasciami dire in tua buon'ora, benedett'uomo che tu sei!… C'è una degna signora… o che? una marchesa in sul sodo… To', la dimora giusto qui vicino, nel palazzo qui accosto alla casa del signor Marone, il primo a man destra andando fuori.

—Eh, so bene chi vuoi dire…

—Sì, neh?… Mi dissero che il suo appartamento, lì al primo piano nobile, è tutt'oro dal pavimento al soffitto… Ebbene quell'eccellente signorona… la è vecchia ed impotente e non può più andare attorno che in un carruccio che si fa spingere da un bell'uomo più alto di te di tutta la testa, con una gran bella barba nera, e quando esce, con un gran bell'abito di color verde ricamato in oro e una bella sciabolona al fianco e un bel cappello montato a piume che pare un generale e che chiamano il cacciatore —l'uomo non il cappello…

—Oh! un bel coso…

—Bello sicuro… E quando la marchesa e' l'ha messa di peso nella carrozza, come io faccio di Carlinuccio per metterlo nella culla, e' sale di dietro su quel trespolino, e vi sta ritto, impettito, che vi fa la più bella vista del mondo. E che le male lingue gliene appiccan di sonagli, e di costei e di colei, e della moglie dell'oste, e della figlia del salumaio, e…

—Va bene, va bene: interruppe Vanardi; ma che ci avrei da fare io colla signora marchesa e col suo cacciatore?

—Sta a sentire. Ella fa carità a tutta la gente che a lei ricorre, e non v'è poveretto che entri colà dentro, il quale non esca con una bella manciata di denari… Se tu vestissi il tuo soprabito color marrone… il solo che te ne resta… e te le presentassi…

Antonio fece una smorfia.

—E che ti frulla adesso? Vorresti ch'io n'andassi a domandar l'elemosina? Piuttosto, piuttosto…

—Uh! uh! Ecco lì il superbioso!… Piuttosto lasciar schiattar moglie e figliuoli di fame neh?.. Di' che non vuoi far proprio nulla e che ti aspetti da neghittoso che ti piova la manna sulla bocca…

—Fa il piacere Rosina; non suonarmi di questo strumento, non sono fatto per codeste umiliazioni io. M'acconcerei prima a pormi sulla cantonata con una gerla sulle spalle; to', vedi quel che ti dico.

—Ed io ti ripeto che sei un basoso con delle scioccherie e dei fumi, null'altro… Oppure, se te ne paresse meglio, in faccia a noi, al secondo piano, dove vi sono quelle finestre sempre colle tendine sì accuratamente tirate ai cristalli, ci sta quell'uomo… quel grand'uomo… sai bene!… quel brutto, grosso, col capo insaccato nelle spalle, colla pelle del color del prosciutto… Ah! per brutto egli lo è daddovero… che lo chiamano fil… fal… fila… filo… com'è che si dice?… filanpetro…

—Filantropo.

—Giusto. Il quale vuole non ci sia più della povera gente, e che se badassero a lui tutti mangerebbero beccafichi, e che scrive giù un giornale, ma di quelli! su cui dice chiaro e tondo il con e il ron delle cose, come sono i signori che affamano i poveri diavoli, e che si dovrebbe…

—Rosina! Dove diavolo sei andata a pescare tutte queste fandonie?

—Gli è messer Agapito che mi ha detto…

—Ah! gli è quel caro signor Agapito! Ma e' ci viene dunque sempre in casa mia?

—Per sua bontà, tutti i giorni: egli era qui poc'anzi, prima che tu tornassi. Ed è stato lui a consigliarmi di ricorrere dalla signora marchesa o da quel signore… come si chiama? Lo speziale aggiunse che quest'ultimo fa benissimo il suo interesse parlando e scrivendo sempre di quel d'altrui: ma tu sai che quel caro uomo è un po' maldicente…

—Un po'!… Cospetto! È la mormorazione fatta uomo… Ma quel caro messer dovrebbe piuttosto pensare a pagarmi l'opera mia. Non ti ha mai detto nulla a questo proposito?

—Sì… Me ne parlava ancora questa mattina.

—Ah! E che diceva egli?

—Che avendogli tu dipinto quel suo ipocrita…

—Ippocrate.

—Sì: Iporcate e Baleno, egli ci avrebbe sempre gratuitamente resi i suoi servizi…

—I suoi servizi!… Eh! me ne infischio io de' suoi servizi… Poichè la va così, corro giù tosto e mi spiego aperto con esso lui…

In questa un discreto picchiare all'uscio li fece stare entrambi.

—O mio Dio, ch'egli è il padrone di casa: disse Rosina allibita.

—Diavolo! diavolo! sclamò Antonio grattandosi con furore il capo.

E dal di fuori si tornava a picchiare, ed una voce dolcereccia cacciava dentro pel buco della toppa queste parole:

—Aprite: son io.

—Gli è proprio lui. Mi vien voglia di rispondergli che in casa non c'è nessuno.

IV.

Antonio fece forza per darsi un contegno tranquillo ed un fermo aspetto, e si mosse per andare ad aprire. Ma egli era appena venuto fuori dal paravento che spartiva la stanza, quando il signor Marone, trovato l'uscio chiuso soltanto col saliscendi, aveva levata la stanghetta, sospinto il battente ed entrava dicendo:

—È permesso? Si può? Scusino.

—Oh, signor Marone! esclamò Antonio inchinandosi con tutta la mostra della civiltà. Sia il benvenuto; la riverisco.

Anche Rosina si levò da sedere, mosse incontro al nuovo arrivato e gli fece una bella riverenza, dicendo con un bel sorriso:

—Serva sua.

Marone si avanzava con un risolino, che voleva essere grazioso, alle labbra. Era grande e grosso come un facchino, e vestiva da sacristano: sulla sua feccia da villan rifatto voleva mettervi a forza qualche cosa di umile, di piacevole, di benigno, e non riusciva che ad una smorfia; teneva gli occhi abitualmente rivolti a terra, ma li alzava spesso verso il cielo. Le mani che ora tenevano, l'una il cappello frusto e l'altra il bastone, soleva quasi sempre intrecciare insieme come fa chi prega; aveva una voce rauca e grossolana, ch'egli si provava a rendere mite e benevola; in poche parole portava l'aspetto d'un impostore, e il suo aspetto era la cosa più franca e veritiera che fosse in lui.

S'inoltrò nel camerone e oltrapassò la linea del paravento, mettendo così il piede nella parte più intima della dimora di quella famiglia e si fermò a pochi passi dalla tavola su cui Rosina alzandosi aveva gettato alla rinfusa i panni intorno a cui stava lavorando; piantò in terra la sua mazza, vi appoggiò su le due mani una accavallata all'altra, e fatti scorrere que' suoi occhi di talpa, quasi di furto, su Vanardi, su Rosina e sui tre ragazzi che si erano fermi in gruppo, il tozzo di pane in mano e gli occhi larghi, a guardare il nuovo venuto, disse con voce tutto dolciata:

—Buon giorno, miei cari. Lei sta bene, signora Rosina?

—Benone, grazie. Oh, quanto a salute non è quello che ci manca.

—E lei, signor Vanardi?

—Benonissimo; e se si potesse batter moneta coll'appetito vorrei anch'io diventar proprietario di casa.

Marone fece una risatina falsa come una filza di perle di vetro.

—Ah, ah, ah! sempre di buon umore lei!.. Le auguro che continui…. Sì, le auguro che coll'aiuto della Provvidenza e della santa Vergine (ed alzò gli occhi al lucernario) lei e la sua famiglia possano sempre star nella grazia di Dio… Eh, eh! siamo presto al Natale ed alla fine dell'anno.

—Ci abbiamo ancora quindici giorni… disse timidamente Antonio.

—Che cosa sono quindici giorni? La vede come passa il tempo!… Sembra la settimana scorsa soltanto che l'anno è incominciato, ed eccoci già invece all'anno nuovo.

—Questo è vero.

—Dunque, buone feste e buon fine e buon principio.

—Grazie mille: rispose Antonio. Ed altrettanto a lei, signor mio, che il Cielo le mandi ogni sorta di bene.

E Rosina a soggiungere colla vivacità della sua parlantina:

—Sì, certo; quantunque lei non ne abbia bisogno, che lei è un signorone che ne ha di ogni grazia di Dio a bizzeffe…

—Cioè, cioè: interruppe Marone sorridendo, scotendo il capo ed agitando la mano; non bisogna credere tutto quello che dice il mondo delle mie fortune. Anch'io, benedetta la pazienza! ho i miei impicci… Non mi lamento già!! Curvo rassegnato il capo ai decreti della Provvidenza; ma anche per me questi sono cattivi tempi. La ricchezza vera e sola di cui posso vantarmi è una pura coscienza.

—Pura come l'acqua sporca: pensò Vanardi fra sè gettando un'occhiata impaziente e quasi indispettita sulla faccia ipocrita del padrone di casa.

—La coscienza è una bella cosa, ripigliava la Rosina, ma dei buoni redditi sicuri, come sono i suoi, non guastano la vita… Anche noi abbiamo la coscienza netta, come abbiamo ancora di tutt'oggi lo stomaco che non ha fatto colazione, ma ciò non basta a farci bollire la pignatta, noi che si manca di tutto e si stenta maledettamente la vita, sa!

Marone si pose a tossir forte, trasse di tasca il moccichino e si purgò il naso rumorosamente.

—Ehm! ehm! diss'egli poi ripiegando accuratamente il fazzoletto e rimettendolo in saccoccia: questi loro cari ragazzi son vispi come pesci nell'acqua. Gli è un piacere il vederli.

I fanciulli stavano sempre guardandolo curiosamente come una bestia rara. La mamma prese il più grandicello per un braccio, e tirandolo via di lì disse loro con accento proverbiante:

—Oh! volete levarvi dai piedi della gente, scioccherelli?

—Li lasci, li lasci, madama, la prego…

—Ma no, ma no… Venga avanti, signor Marone… La favorisca, s'accomodi… Antonio, porgi una sedia al signor Marone… che benedetto uomo! Tu stai lì interito come un piuolo. Vedi che l'è ancora rovesciata per terra la sedia che que' mariuoli hanno finito di rompere… Ah, che demonii, sa, signor Marone! Roba da diventar matti… Mi fracassan tutto qui dentro… Bisogna sempre aver la voce sugli acuti a gridare… E il loro padre che non sa farsene ubbidire!… Ecco qui una seggiola buona… voglio dire che non è sconquassata come le altre… Di grazia, la si accomodi un pochino. Vanardi, su via, muoviti; piglia il cappello e la canna del signor Marone.

—Grazie, grazie, non occorre: diceva il padrone di casa volendosene schermire; ma la Rosina s'era già precipitata sul cappello e glie lo levava a forza di mano, ed Antonio, seguendone l'esempio, s'impadroniva della mazza.

Il signor Marone sedeva, intrecciava le dita delle mani sulle sue ginocchia, si metteva a far girare i pollici, e con voce ancora più mansueta, e con aspetto ancora più benigno, guardando ostinatamente la punta dei suoi grossi scarponi, riprese a dire:

—Stamattina ho avuto il piacere d'incontrare la signora Rosina…

—Sì, signore, disse questa sollecita: andavo a fare una commissione, e se la vuol sapere, andavo a cercar del lavoro. Mi avevano detto che la sarta, la quale abita costaggiù alla seconda cantonata, cercava delle cucitrici; e siccome io, non fo per dire, ma coll'ago e il refe in mano sfido qualunque siasi ad avere un punto più sollecito e più fino e più eguale, sono andata ad esibirmi… Eh sì! la mi ha detto che ne aveva già due di troppo di operaie…

Marone trasse un sospiro e levò gli occhi al soffitto.

—Il lavoro manca per tutti, e non ci furono mai tante miserie come a questo tempo. La Provvidenza ci vuol punire tutti quanti dei nostri peccati, delle nostre empietà, della guerra sacrilega che facciamo alla Chiesa ed al clero.

Chinò il capo in aria tutto compunta, appoggiò le mani incrociate al petto curvo, e parve recitare una giaculatoria.

Antonio si morse i baffi per fermare sulle sue labbra le parole insolenti che avevano una matta voglia di venirne fuori.

—Ah, sì, disse la Rosina, ci sono molte miserie nel mondo, e non vi fu mai bisogno come ora che si eserciti la carità del prossimo.

Il padrone di casa fece un cenno affermativo col capo e colle mani, per significare che approvava vivamente quel che diceva la Rosina.

E questa continuava:

—E per fortuna ce n'è ancora di carità nel mondo.

—Dica per grazia di Dio.

—Come vuole… Di parecchie persone misericordiose si trovano in questa nostra città.

Marone strinse le spalle, allargò le braccia e mandò un'esclamazione, come per dire:

—Eh via, qualche cosa c'è pure, ma dovrebbe esserci di meglio.

—E tra queste persone dobbiamo contare anche lei, signor Marone.

Questi fece colle mani il moto vivace di chi respinge un vistoso dono che gli si offra, e con un calore di modestia ammirabile, esclamò:

—Oh, che cosa dice?… Io non sono nulla, e pur troppo non posso far nulla… Certo tutte quelle buone opere che mi si presentano da fare io non le trascuro. Posso dirmi con nobile orgoglio che qualche cosa di bene si deve pure alla meschina opera mia… La congregazione di Santa Filomena, se non fosse di me, non camminerebbe forse con tanta prosperità… Ma che cosa dico? Oh buon Gesù! Ecco che io commetto un peccato d'orgoglio.

—Eh! i suoi meriti sono conosciuti… Poc'anzi che l'ho trovato sulla porta della marchesa di Campidoro, sono certa ch'ella andava da questa brava signora per qualche opera buona.

—Sì, appunto: rispose Marone; per alcuni bisogni della nostra congregazione, di cui la marchesa è una delle socie più benemerite e generose.

—È dunque proprio vero che la vecchia marchesa è caritatevole come non si può essere di meglio?

—Se è vero? esclamò il proprietario levando le mani in atto d'ammirazione. Val quanto dire che quella donna è la carità in persona.

Rosina lanciò un'occhiata d'intelligenza a suo marito, con cui voleva dire:

—Vedi s'io t'ho parlato giusto!

Marone continuava con entusiasmo:

—È il miglior sostegno della nostra pia congregazione. Quando nasce qualche bisogno straordinario, a cui non so come parare, io vado tosto dalla marchesa; sono sicuro di uscirne sempre con quel che mi occorre.

—E quali sono le opere di carità che specialmente compie questa loro pia congregazione? domandò Antonio.

Il padrone di casa levò su il capo con mossa imponente e rispose con enfasi:

—Le migliori che si possano immaginare. Noi compriamo quanto più ci viene fatto di figliuole di mori, le facciamo battezzare ed allevare nella nostra santa religione… Noi non ci occupiamo che delle ragazze; dei maschi si dà pensiero una società sorella, quella di S. Primitivo; e così ogni anno sono delle belle dozzine di anime che noi abbiamo la viva e pura soddisfazione d'aver rapito al demonio e avviate per la strada del paradiso.

—Se non si perdono cammin facendo! disse Antonio, che fece una smorfia la quale indicava come non provasse un soverchio entusiasmo per questa bella impresa. La cosa è certamente degna d'encomio, soggiunse egli diffatti, ma mi sembra che senza andarle a cercar tanto lontano ci sarebbero delle opere di carità non meno e forse più interessanti da eseguirsi qui in paese… Non diceva ella medesima poco fa che mai non ci furono tante miserie come a questo tempo? Pare a me che prima d'occuparsi dei figliuoli dei mori si potrebbe pensare ai figliuoli dei cristiani che muoiono di fame.

Marone volse al pittore uno sguardo di freddo rimprovero e quasi di sprezzo.

—Nulla è più meritevole e più degno che togliere un'anima dagli artigli di Satanasso: la carità che vi concede qualche bene materiale, passeggero, che cos'è appetto a quella che vi apre la felicità sempiterna?

Il pittore avrebbe pure avuto ancora qualche piccola osservazioncella da fare; ma la moglie che voleva ad ogni modo abbonire il padrone di casa, disse ella per la prima:

—Questo è vero; lei ha perfettamente ragione…. Del resto si può anche fare una cosa e l'altra…. Mi dicono per esempio, che la signora marchesa di Campidoro non trascura di soccorrere anche le miserie dei poverelli di qua.

—Sì, rispose Marone masticando: la è una brava signora piena di buone intenzioni, e di denari la ne spende assai ed assai in elemosine…. Non sempre forse i frutti che ne ottiene corrispondono all'entità delle somme…. Poveretta! La se ne lascia mangiare di belli dal terzo e dal quarto.

—E forse più che da tutti, da quel bell'uomo del suo cacciatore; disse Rosina che non poteva tener la lingua a segno.

—Lei vuol dire Grisostomo? rispose Marone, chinando gli occhi sulla punta delle sue scarpe. Oh, quello è un brav'uomo che non c'è nulla da dire…. Se non avesse altri intorno che lui!… Ma ha trovato modo di ficcarlesi eziandio alle costole un certo tale, un sedicente filosofo, un umanitario: quel signor Salicotto che abita costà davanti alla mia casa, un empio che con bei discorsi e declamazioni d'una falsa filosofia cerca staccar le anime dalla vera religione e tira l'acqua al suo mulino; ma spero che coll'aiuto di quel sant'uomo del curato e di Grisostomo stesso apriremo gli occhi a quella brava signora e la libereremo da questo insidiatore…. Ma veniamo a noi. La cagione della mia venuta, loro la possono indovinare. A queste stagioni, io amo andare a vedere io stesso i miei inquilini. Passo da tutti, e porto meco per ciascuno la sua quietanza di pigione bella e fatta. Ecco qui la sua, signor Vanardi.

Trasse di tasca un portafogli, l'aprì, ne levò una carta, e, spiegatala, la porse al pittore a fargliela vedere.

—Come! già la quitanza? disse Antonio arruffandosi i peli della barba. Ma non è ancora scaduto il semestre.

—Non vi ha più che quindici giorni…. E loro d'altronde mi devono ancora il precedente.

—Questo è vero.

—Poco fa mi ha promesso lei medesimo di pagarmi in questa settimana.

—Anche questo è vero.

—Ed ecco dunque la ricevuta.

—Sì, signore: disse Vanardi puntando le due braccia alla tavola: tutto ciò va bene che non fa pure una grinza.

—Ella dunque mi fa il piacere di rimettermi la somma ed io lascio qui la ricevuta già firmata.

Antonio chiamava alla riscossa tutto il suo coraggio. Rosina si pose ad andare e venire con agitazione per la stanca, fingendo riporre delle robe e dar sesto alla casa.

—Andrebbe tutto a meraviglia, saltò su dopo un poco il povero pittore, s'io davvero le potessi pagare adesso adesso quella somma, ma essendo che pel momento proprio non lo posso, non credo che lei voglia lasciarmi lo stesso quella quitanza in sì buona regola.

Marone gettò di sbieco uno sguardo ratto sul suo interlocutore ed atteggiò le labbra al suo solito falso sorriso.

—Ah, ah! la vuole scherzare, signor Vanardi.

—Scherzare! esclamò accostandosi vivamente Rosina, a cui pareva già d'aver taciuto assai troppo.

Ma il marito le fe' cenno colla mano stesse cheta e lasciasse parlar lui: ed essa, per quella volta, fece il miracolo d'obbedire.

—No, pregiatissimo signor Marone, rispose Antonio: non ischerzo niente affatto. Quei denari non li ho, e non so donde andarli a stampare…. là!

Il padrone di casa gettò intorno a sè degli sguardi irrequieti.

—La dice daddovero?

—Daddoverissimo.

—Non può procacciarseli in nessun modo?

—In nissunissimo.

—Corbezzoli!

Marone si alzò con una fisonomia severa come quella d'un giudice convinto della colpa del reo e andò lentamente verso la tavola a prendersi il cappello e il bastone.

—Allora, diss'egli trascinando le parole e ripetendole come per farle penetrar più addentro nell'animo degli ascoltatori, allora… io sarò costretto… sì sono costretto… valermi dei mezzi che mi dà la legge… di tutti i mezzi che mi dà la legge.

Rosina, che non poteva più stare alle mosse, gli si piantò dinanzi colle mani in sui fianchi:

—Vuol dire, proruppe, che ci farà l' esecuzione, e ci venderà tutte queste poche robe che ci rimangono, e ci metterà in mezzo la strada…

—Queste robe, queste robe: disse sprezzosamente Marone, guardandosi intorno. Forse che basteranno a pagarmi del mio avere?

E Rosina che incominciava a perdere il sangue freddo:

—Eh sì, valgon poco…, sì, sono povere masserizie, ma sono di onesta gente, che non merita d'essere trattata come cani…

—Rosina! esclamò Vanardi, facendole gli occhi grossi.

—Eh, lasciami dire, chè la mi prude…

—Onesta gente: ripeteva il proprietario; certo che sì, va benissimo; io ho per loro la maggiore stima, ma quando non si paga…

—Quando un povero diavolo ha la sfortuna che lo perseguita…

—Ah! mia cara madama Vanardi, la sfortuna è una scusa bella e buona per tutti quelli che mancano ai loro impegni… Ma la si metta un poco ne' miei panni anco lei… Un proprietario… vive della pigione della sua casa; ora se il provento non gli entra in cassa, come avrà egli da fare?

—Oh bella!… Per una sì poca somma!… La stia zitto, la mi faccia piacere, signor Marone. Ricco com'è, che sì che gliene ha da far molto di questo in più od in meno.

—Io non sono ricco, le ripeto: disse bruscamente Marone; e non voglio perdere l'aver mio.

—Non si tratta di perderlo: soggiunse Vanardi con calore. Noi pagheremo senza fallo. Ci dia solamente ancora un po' di respiro.

—Eh! ve ne ho già dato di troppo… Sono sei mesi che mi menate pel naso.

—Ci mostri il suo buon cuore, disse la Rosina con un tono di supplicazione che lasciava travedere al di sotto la bizza presso a saltare.

Il proprietario si pose in testa il cappello e si mosse per uscire.

—Non lo posso: diss'egli asciutto asciutto. Provvedete ai fatti vostri, io provvedo ai miei.

—Ma signore, gridò Rosina tutto accesa in volto: vuol ella essere peggio che inesorabile! È questa la carità che ha per la povera gente?

Marone si fermò, battè in terra la ghiera della sua mazza e rispose borbottando:

—La carità! la carità!… Certo che ne ho e di molta, verso chi se la merita… Tutti lo sanno… ed anche il signor Parroco… Ma non mi tocca rovinarmi per giovare a chi non sa bastare a' suoi impegni; ma la vera carità non ha da favorire l'ozio, l'infingardaggine e la… Basta, non dico altro, appunto per amor del prossimo.

Rosina scoppiò come un petardo.

—Come sarebbe a dire? gridò essa venendo incontro al padrone di casa, con mossa quasi minacciante. Gli è a noi che fa di questi bei complimenti lei, brutto muso da torcicollo?…

—Oh, là, là! esclamò Marone diventando rosso sino alla fronte.

Antonio che offeso dalle parole di Marone voleva pure rimbeccarlo di proposito, antivenuto dall'uscita dalla moglie, pensò all'incontro suo dovere di adoperarsi a calmarla.

—Via, via, Rosina, bada alle tue parole per amor di Dio!

Ma la donna allontanandolo da sè con uno spintone:

—Eh lasciami stare, pan bollito che tu sei. Non senti le belle giuggiole che ci dà a succiare questo signor dabbene? E te le vuoi pigliare come confetti, tutto rimminchionito, che il cielo ti dia il limbo degl'innocenti!… Lasciami vuotare un po' il sacco, o schiatto.

E si rivolse di bel nuovo al padrone di casa.

Ma questi in quel punto medesimo apparve preso da una grande meraviglia. Un suo sguardo era caduto sopra il quadro dalla cornice dorata di cui s'è fatto cenno nel capitolo precedente; egli s'era fermato di botto e stava esaminandolo attentamente; poi passo a passo, come attirato da vivissima curiosità, non badando gran che alle parole della Rosina, si venne raccostando al luogo dove il quadro era appiccato alla parete.

E la Rosina colle mani in sui fianchi sbraitava inviperita:

—Ah, noi siamo infingardi, lei dice; noi siamo oziosi, noi siamo birbanti da mazzate, al suo garbato avviso! E perchè lei ha avuto la fortuna, chi sa come! di acciuffare, chi sa per che verso, la ricchezza, ci ha da trattar noi come scalzagatti e mascalzoni, che infatti in fatti poi, de' signori in giubba ne valiamo le dozzine!

Ma il padron di casa, senza darsi per inteso delle parole di Rosina, non cessava dal rimirar fiso quel quadro, e borbottava a mezza voce:

—È strana, proprio strana!

Poi si volse di pieno ad Antonio, che stava osservando con interesse queste mostre di stupore nel padron di casa.

—È lungo tempo che ella ha questo quadro?

—Sono tre anni.

—È fatto da lei?

—No: è l'opera di Adolfo Cioni… Ha lei conosciuto Adolfo?… o qualcuno di quella famiglia?

—Niente affatto; e questo è un ritratto od una figura di fantasia?

—È un ritratto.

—Di qualche signora di sua conoscenza? Scusi queste domande, ma una strana rassomiglianza…

—È il ritratto d'una giovine signora che ho conosciuto assai, e che da più di tre anni è sparita, senza che se ne sapessero più notizie nessune.

—Sparita!… Davvero…. Diavolo! diavolo!

Ma Rosina in quella con impazienza:

—Eh? che cosa mi viene, adesso a dare la volta alla frittata con quello spegazzo?

Marone con vivo interesse di curiosità, non abbadando alla donna, si rifaceva a domandare:

—E il nome? Potrebbe dirmene il nome?

—Certo che sì. La nasceva Balma e s'era sposata al capitano Orsacchio… Un vecchio scellerato, quello lì, che se mai mi capitasse nelle mani, io che non sono buono a far male ad una mosca, vorrei pur tuttavia conciare per bene… E di nome di battesimo la si chiamava Gina.

—Ah, Gina?… Cospetto… Ed è sparita da tre anni?… Oh, oh!

—Signor Marone: disse Antonio con una agitazione che non cercava menomamente nascondere. Ella conosce quella donna? Ella ne sa qualche cosa? Per carità, se così è, non mi nasconda nulla… Per la memoria del mio buon Adolfo, per la pietà che quella povera infelice deve ispirare a tutti che abbiano un cuore, in nome della carità la prego e scongiuro a dirmi tutto, e facesse Iddio che le sue parole mi potessero mettere sulle traccie di quella sventurata.

Ma qui ecco la Rosina risaltare in mezzo con una nuova inquietudine ed una nuova collera.

—Te ne preme dunque molto di codesta non so che cosa, signorino mio garbato?.. Ah! mi farai credere che gli è in memoria dell'amico, che gli è per compassione di cuore che tu la cerchi con tanta sollecitudine, allorquando gli asini voleranno… E lei signor Marone la conosce questo mobile che mi ha tutta l'aria d'essere una di quelle civettuole e peggio, per cui loro zucconi d'uomini fanno le mille pazzie… Eh già! Questa tela sporca era di troppo preziosa a messere! Avrebbe lasciato crepar di fame moglie e figliuoli piuttosto che venderla… State zitto, signor Vanardi, che ve lo siete lasciato scappar detto. Ed ora che vi nasce una speranza di saperne le novelle, ve' come v'ingalluzzite!… Oh gli uomini! gli uomini!… E sopratutto i mariti!…

—Rosina! vuoi tu sempre esserne allo solite?

—Signor Marone non gli dica niente, sa! Se ha la disgrazia di apprendergli tanto così sul conto di quella donna… senza contare che farebbe con ciò un bel mestiere… gliene cavo gli occhi.

—La non s'incomodi, signora Rosina, e non tema di nulla. Io non dirò nulla, perchè non so nulla. La signora Orsacchio, come suo marito mi dice che si chiama l'originale di questo quadro, io non l'ho mai sentita a nominare, altro che conoscerla… Ho trovato in questa figura una certa rassomiglianza con un'altra persona… una persona che ho visto una volta sola…

—Dove? dove? non potè trattenersi dal domandare Antonio: e la moglie ne lo punì con un'occhiata furibonda ed un pizzicotto.

—Non mi ricordo più nemmeno… Ma la è una donna che porta altro nome…

—E dove la si trova?

—Non saprei dirglielo: l'ho perduta, come si suol dire, di vista.

Vanardi avrebbe voluto insistere, ma la presenza della moglie sempre più sospettosa ne lo trattenne. Gli parve però che Marone mentisse per isbrigarsene, e dovesse sapere qualche cosa di più di quanto diceva. Un segreto presentimento, quasi un istinto, pareva ammonirlo che stava per iscoprire finalmente una traccia da penetrare, sapendo adoperarvisi, entro quel mistero che da tre anni gli pesava sul cuore. Determinò fra sè di non trascurare a niun modo questo leggier filo di cui pareva offrirgli finalmente un capo la sorte, e di consultare il suo amico Giovanni Selva, uomo di molto acume, intorno al miglior mezzo di procedere in proposito.

—Torniamo ai nostri affari, disse Marone cambiando però il precedente in un tono più mite ed umano. Per provarle, signora Vanardi, ch'io non manco di carità, anche a mio danno, consento ad aspettare altri quindici giorni… ma non di più, sa!… Se dopo questo intervallo non sarò pagato, allora… Intanto mi stieno bene e ricevano i miei più cordiali auguri.

Uscì con mille inchini e salutazioni.

—Bella carità! esclamò Rosina facendo il pugno dietro il proprietario partitosi; quindici giorni di tempo! Come faremo a mettere insieme i denari dell'affitto?… ed a pagare gli altri debiti?… ed a mangiare tutti i giorni?

—Mi farò pagare dallo speziale, disse Antonio.

—Sì che questo ci vorrà mantener grassi!

Vanardi prese una grande risoluzione.

—E… e scriverò anche una volta una lettera di supplicazioni a mio zio padrino.

Il signor Marone scendendo le scale borbottava fra sè:

—È proprio strana! Una rassomiglianza cotanta non l'ho mai vista. Dev'essere quella dessa… Eppure!… Orsacchio!… Non ho mai sentito questo nome… Eh, sì! un nome si fa presto a cambiarlo. Ho sempre pensato che nell'esistenza di quei due c'era un garbuglio… Sta a vedere che adesso lo vengo a scovar fuori. Certo, agirò con molta prudenza, ma ho in mente che quel quadro non mi lascierà perder nulla della mia pigione, e che anzi vi può essere qualche buon affare da trarne profitto… Giusto! Di quest'oggi stesso voglio andare a Valnota a farne motto al signor Nicolazzi… Appunto con questa occasione ne esigerò l'affitto. Vedremo! vedremo!

V.

La Rosina, dopo la partenza del proprietario, aveva accennato di voler continuare il suo repetio; ma Vanardi era allora ricorso ad un suo mezzo estremo, di cui, appunto per non ispuntarne l'efficacia, non usava che rarissimamente, nelle occasioni solenni.

Questo mezzo era il seguente.

Si piantò ritto innanzi alla moglie, arruffatesi colla destra convulsa le chiome già arruffate, rotando paurosamente gli occhi come uomo che ha smarrito il lume della ragione, ed urlò con voce di basso profondo:

—Oh, sai che tu mi hai fradicio, e ch'io sono non so se più stufo o più disperato dei fatti miei? O la smetti od io, com'è vero il diavolo che mi porti, vado via, mi getto ad affogarmi nel Po, e ti pianto te coi bambini e l'amor tuo e la tua lingua, che son peggio della versiera.

Questa minaccia, in rare dosi, faceva sempre il suo effetto sulla buona moglie che in realtà voleva a suo marito il maggior bene del mondo. Rosina s'acquetò, e tornò a' suoi panni da cucire presso il desco, dove sedutasi, riprese a dondolar la culla dell'ultimo nato.

Vanardi, commosso da tanta virtù di sommessa rassegnazione, stette un poco a guardarla, e poi le si fece presso ed abbracciatala alle spalle, la baciò amorosamente sulla fronte.

La giovane donna arrossì tutta dal piacere.

—Ah! come saresti buona, disse Antonio, se tu non fossi così spesso cattiva.

—Io sono cattiva! esclamò la moglie levando su vivamente il capo. Sei tu che…

—Zitto, zitto; non rifacciamoci da capo. Voglio scrivere la lettera allo zio; e conviene che mi ci metta con tutti i sentimenti del corpo e dell'anima.

Il bambino nella culla ricominciò in quella a strillare più forte, e Rosina dovette volgere ad esso tutta la sua attenzione.

Vanardi frugò tanto fra tutte le sue cose, che infine, per gran fortuna, riuscì a scovar fuori un biglietto di carta, che con un po' d'audacia d'espressione poteva dirsi bianco e polito; vi passo su due o tre volte la manica del vestito, come per lisciarlo viemmeglio; lo pose con una certa cura sopra la tavola; tolse d'in sulla scansia un fondo di bicchiere rotto, entro cui stava un pezzetto di spugna annerito da un inchiostro già asseccato; ci versò su alcune goccie d'acqua, e con uno spuntone di penna d'oca a barbe riccie e scarmigliate rimestò ben bene: poi sedette innanzi a quel foglio, il bicchier rotto lì vicino, la sua mano sinistra sopra la carta, nella destra quel simulacro di penna, ed aggrottò le sopracciglia in una meditazione laboriosa e profonda.

Rosina, poichè s'era accorta che nè il dondolarlo nè il cantargli la nenia valevano più a far dormire il piccino nella cuna, lo aveva levato su e lo teneva sulle sue ginocchia, parlandogli di parole senza senso e facendogli vezzi. Il bambino ora sorrideva, ora faceva greppo, ora metteva sue voci infantili, ora dava qualche pianto, in mezzo alle dolcezze, ai rimbrotti, ai parlari che gli faceva la mamma.

Gli altri fanciulli avevano ripreso della più bella il loro ruzzar per la stanza e facevano un chiasso che Dio vel dica. Tantochè il nostro Antonio, quand'ebbe scritto in alto del foglio: «Carissimo mio signor zio e padrino» e si volle concentrare per mettere insieme idee, non ne potè raccappezzare pur una in quel rumore di voci, di passi, di grida, che gli si veniva facendo dintorno.

Allora gittò con impazienza la penna sulla tavola, e ruppe fuori in queste parole:

—Eh! volete star cheti tutti quanti che il fistolo vi colga! Tonietto, sodo, dico, e va a studiar l'abbicì; tu Pippo, là in quell'angolo e fermo per mezz'ora; tu Gaetanino presso alla mamma e guai se ti muovi!… E tu pure, Rosina, taci tu stessa, se gli è possibile, e fa tacere il tuo fantolino un momento.

I bambini, alla subita sgridata paterna, stettero lì sorpresi, come e dove si trovavano, e guardavano attoniti il padre in volto senza muoversi più e senza accennar di ubbidire.

—Ebbene, avete capito o siete sordi? Corpo del diavolo! gridò Antonio, battendo sulla tavola un forte pugno che fece ribalzare quel frammento di bicchiere che faceva da calamaio.

Tonietto, il più grandicello dei bimbi, (gli aveva fatto dare a battesimo il nome suo e dello zio) non attese altro e sgusciò via lesto di là del paravento nell'altra parte della stanza; ma Pippo e Gaetanino, atterriti, cominciarono per far grosso il rifiato, poi diedero in qualche singhiozzo e finirono per iscoppiare in pianto dirotto.

—Ed ecco delle tue solite: gridò allora la Rosina: li fai sempre piangere ingiustamente tu!… Oh che uomo!… Venite qui carini, venite colla mamma, che il babbo gli è cattivo.

Ma Vanardi già s'era levato ed era corso dai figliuoli.

—Là, là, piccini: disse loro tutto amorevole: non piangete… Pippo sii buono… To' Gaetanino la chiave del papà e giuoca con essa… Da bravi, smettetela; adesso ch'io esco di casa vi andrò a comperare i confetti: che sì che vorranno esser buoni!

Ed il povero diavolo non aveva pure da comperar loro del pane!

Coll'accarezzarli, coll'abbracciarli, colle promesse, tanto ottenne che alla fine s'acchetarono; un certo silenzio relativo si stabilì nella stanza, ed egli potè dare tutta la sua attenzione alla compilazione della lettera per lo zio droghiere.

La qual lettera riusci del tenore seguente:

«Carissimo mio signor zio e padrino.

«Vengo con questa mia ad adempiere al mio dovere di augurarle il buon Natale ed il buon fine e il buon principio con tutte quelle felicità che si merita: e che Iddio gli conceda una lunga e prospera vita e una buona salute e una continua contentezza senza Dispiaceri di sorta.

«Questi augurii, oh glielo giuro, partono proprio dal cuore, e sono sinceri come se ne fanno pochi al mondo. Che io lei, mio buon padrino, non posso mai dimenticare di tutto l'anno; e ne vivessi ben cento di anni che non lo potrei mai; ma in questa stagione, in cui da tutti si pensa alle persone che ci sono più care, io ricordo anche maggiormente tutte le bontà del mio caro zio, e sento più forte ancora la riconoscenza per tanti generosi benefizi che ne ho ricevuti io specialmente, e che ne ha ricevuto la mia famiglia, e provo una pena grandissima d'aver offeso un sì buon parente e di non poterlo andare ad abbracciare, come ne avrei tanto desiderio che me ne struggo.

«Ma il Cielo, e riconosco io primo che non è stato altro che giusto e che io mi merito ogni peggio, il Cielo mi ha ben punito della mia disubbidienza, della mia ribellione all'affettuoso padrino, al mio secondo padre. E se lei sapesse tutto quello che mi è toccato soffrire e che soffro, ed anche i miei poveri bimbi, che a quest'ora ne ho quattro, e che sono innocenti, loro poverini, come agnelletti, ella ne avrebbe di sicuro compassione.

«E gli è per questi piccini che io ardisco ancora venire a pregarla una volta, assicurandola che sarà l'ultima, perchè abbia pietà di noi disgraziati, che siamo pure suo sangue, e che siamo ridotti all'ultima miseria, senza nemmeno aver pane da mangiare. E dobbiamo la pigione dell'intera annata, e non possiamo pagarla; e il padrone che è un uomo senza cuore (ella lo conosce, quell'impostore del signor Marone) ci caccia in mezzo la strada, facendoci vendere tutte quelle poche robe che ci restano, e siamo in debito verso tutti sulla strada, tanto ch'io non oso più neppure uscire per andare ai fatti miei, vergognato come ne sono.

«Insomma noi non abbiamo più nessuna speranza che in lei, e s'ella, che è la nostra Provvidenza, ci manca, io non so a qual disperato partito dovrò appigliarmi. Ma ella non ci abbandonerà, ed io ringraziandola anticipatamente, e rinnovandole tutti gli augurii, con profonda riconoscenza, mi dico

«Torino, 16 dicembre 185….

Suo umiliss. servo e nipote «ANTONIO VANARDI.»

Rilesse attentamente il suo scritto, lo lesse alla moglie che lo trovò un capolavoro d'eloquenza, e sentenziò che se lo zio non cedeva era proprio con un ghiacciuolo per cuore. Non c'erano bustine da lettera in casa, quindi convenne che Antonio ripiegasse il foglio su sè stesso nella guisa più elegante che seppe: ma quando si trattò di suggellarlo fu certificata l'assenza eziandio di un'ostia o d'un bastoncino di cera lacca. Per fortuna Vanardi si sovvenne della crosta di pane che stava sopra la stufa, ne ruppe un pezzetto coi denti, lo masticò ben bene e se ne servì per chiudere il foglio. Poscia vi scrisse su l'indirizzo: prese il suo cappellaccio senza falda, si gettò sulle spalle un misero mantelluzzo di panno logoro, e disse alla moglie:

—Vado a ricapitar questa lettera.

—Che? interrogò Rosina, pensi forse tu di recarla tu stesso allo zio?

—Oibò! fo conto di darla a Giacomo il figliuolo della portinaia qui sotto, pregandolo di recarla egli al fondaco di mio padrino.

—Giacomo è un buon diavolo….

—Un imbecille.

—Che lo farà volentieri, non ne dubito; ma sua madre è così poco servizievole….

—Per noi che non le diamo alcuna mancia, già; lo zelo dei portinai si misura agl'inquilini in ragione del denaro che ne mungono; ma questo è poi un così piccolo servizio, che spero non mi vorrà rifiutare. Intanto passerò eziandio dallo speziale per intendere un poco se mi vuol pagare, e poi farò una trottatina sino a casa di Selva.

—Salutami sua moglie, quella buona Adelina…

—Va bene.

—Eccone lì una che fu fortunata. Era una operaia come me, ed ha sposato un uomo di una ricca famiglia, un avvocato e che le fa fare una buona figura nel mondo.

Antonio si mise per traverso il cappellaccio e si morse i baffi.

—Sai tu Rosina, diss'egli con accento in cui sentivasi una vera pena, che non sei punto punto gentile? Le tue parole sono sassi tirati nel mio giardino, che mi colpiscono proprio in pieno petto. Certo, l'Adelina è da invidiare. Selva è uno dei migliori caratteri ch'io mi conosca, ed un bel talento. Lui risoluzione, coraggio, iniziativa e forza d'animo e di volontà come ne hanno pochi; io sono un meschinello, un buono da nulla, un imbecille, va bene… Ma quanto ad amore, Rosina, dovresti esser persuasa che ne hai da me tutto quel che possa averne da uomo una donna, e ciò dovrebbe farti più generosa a perdonarmi il resto.

Rosina, che in fondo aveva pure un cuore eccellente, fu tocca da queste parole del marito e più dalla commozione con cui eran dette.

—Hai ragione: esclamò ella, alzandosi col suo bimbo da un braccio e cingendo coll'altro che gli rimaneva libero il collo del marito: Hai ragione e perdonami.

Ad Antonio questo fatto della moglie produsse tanto maggior effetto quanto esso era più raro; abbracciò e baciò egli intenerito la moglie e il bambino ch'ella teneva sul petto, e partissi.

La loggia della portinaia aveva sotto il portone l'uscio d'entrata ed un finestruolo per cui si vedeva chiunque penetrasse nella casa.

Antonio sospinse l'uscio socchiuso ed entrò nel camerino. La portinaia seduta presso un fornello portatile di terra cotta era intenta a farvi cuocere su, dentro una pignatta, una minestra che mandava per l'ambiente un odore succolento e confortevole. Le nari di Antonio digiuno aspirarono con una voluttà tormentosa la tentazione di quell'odore. Un giovane dall'aria melensa e dai capelli color della stoppa stava grattandosi le ginocchia in un angolo: era Giacomo, il figliuolo della portinaia.

Questa che aveva udito entrare qualcheduno senza veder chi fosse, per avere le spalle rivolte all'uscio, aveva preparato il suo più bel sorriso con cui già da una settimana soleva salutare gl'inquilini del primo e del secondo piano in previsione e per esca delle strenne che avevano da venire alla fin del mese; ma poi visto chi era, conobbe che quel sorriso era perfettamente sciupato e decise tosto risparmiarsene la spesa: tornò di botto in tutto l'ingrognamento della scontrosa espressione di faccia che le era abituale.

Antonio, egli, salutò umilmente, e, con tutta la suggezione d'un supplicante che domanda una grazia, pregò sor Agata mandasse il figliuolo a recar quella lettera al suo indirizzo.

Sor Agata indugiò un momento a rispondere. Fu presso a dire a quel noioso che andasse con Dio, come si fa ad un pezzente che vi secca domandandovi l'elemosina; ma ebbe la generosità di non farlo; prese con isgarbo la lettera che Vanardi le porgeva e ne lesse l'indirizzo.

—Ah, ah! la scrive ancora a suo zio il droghiere… diss'ella con impertinente famigliarità: un altro foglio di carta sciupato… Bene; quando mi sarà di comodo manderò colà Giacomo.

—Se volesse aver la compiacenza di mandarlo il più presto possibile: osò balbettare il povero inquilino.

Ma la fiera portinaia lo fulminò con uno sguardo corrucciato che lo indusse subitamente al silenzio.

—Lo manderò quando si potrà: disse sor Agata con accento imponente. Spero bene che ella non vorrà che per gusto di lei si trascuri ciò che abbiam da fare!

Antonio protestò con una mimica piena di umiltà, ed uscì colla rassegnazione di chi non ha danari da pagare in altri lo zelo, l'interesse, nè anco la cortesia—perchè tutto si paga in questo mondo.

Entrò quindi nella farmacia.

Il farmacista leggeva il suo giornale seduto presso il braciere coperto da una gran campana di latta gialla traforata intorno a ghirigori, gli occhiali sulla punta acuminata del lungo naso, il solito berretto a lunga visiera in capo. Due garzoni si annoiavano colle mani in tasca ad aspettar gli avventori. Un uomo di servizio pestava nella retrobottega in un mortaio d'ottone che mandava il più assordante ed il più irritante rumore del mondo.

Al tintinnio che fece il campanello appiccato all'ascio d'entrata, lo speziale alzò il naso dal foglio e guardò dal di sopra degli occhiali chi fosse venuto.

—La riverisco signor Agapito: disse Antonio levandosi urbanamente il cappello.

—Oh, oh, caro signor Vanardi; l'è lei! E che buon vento?

Si rizzò da sedere con più gentilezza che non usasse abitualmente, si tolse di sopra il naso gli occhiali, ripose il giornale e toccò colla mano destra la tesa del suo berretto.

Ad Antonio, avvezzo oramai dappertutto ad essere accolto con insolente mancanza di riguardi, parve quello un fior di accoglimento pieno di simpatia e di stima, e sentì venirsi in cuore un po' di coraggio.

—La disturbo forse? dimandò egli come mezzo di entrare in materia.

—Niente affatto. Si figuri!… Lei non mi disturba mai… Leggevo qui il giornale… Ma gli è vuoto come una vescica… Non c'è mai nulla in que' benedetti giornali!… Ci rubano i denari vendendoceli… Eppure, che vuole? Non ne so star senza… Ah! c'è una cosa sola alquanto interessante: la novella d'un suicidio. Un povero diavolo che l'altro ieri s'è gettato in Po. Veda mò se a questa stagione può venire in testa una cosa simile!… L'hanno pescato ieri; e pare che siasi deciso a questo brutto passo per la miseria…

Antonio sentì scorrersi un brivido per tutto le membra.

—Per la miseria! diss'egli con accento profondamente commosso.

—Già! aveva una famiglia il disgraziato a cui non sapeva più come provvedere… Era operaio e non trovava più lavoro da nessuna parte. Il cervello gli è girato, e ponfate, egli andò ad affogarsi.

—Poveretto!… E la famiglia?

—Figuriamoci!… Senza pane, senza padre… Ah! ce ne sono di disgraziati al mondo!… Ma il giornale annunzia che si sono fatte parecchie collette, e che tutti si sono affrettati di venire in soccorso degli orfani.

—Povera gente! Povera gente! esclamava Antonio al quale erano venute le lagrime agli occhi.

Il pensiero di quei miseri orfani lo aveva condotto a quello dei suoi figli, a cui egli eziandio non sapeva oramai come procurar pane. E che sarebbe stato di essi, se il padre per un caso qualunque venisse lor tolto?

Lo speziale che vide l'interessamento del pittore per quel racconto, prese il giornale e glielo porse.

—Se lo vuol leggere, ecco qua il giornale. Veda lì, nella cronaca, terza colonna, seconda pagina… Ma prenda pur seco il foglio; io già l'ho letto… lo esaminerà con comodo, e lo farà leggere eziandio alla signora Rosina: ciò forse la vorrà interessare…

—Ma…

—Niente, niente, lo metta in tasca… Me lo renderà poi a suo comodo: io non ne ho punto bisogno.

Antonio prese il giornale, e si dispose a parlare di ciò per cui era venuto; ma il chiacchierone dello speziale, per cui tacere era impossibile, lo prevenne colle sue interrogazioni.

—Potrei servirla in qualche cosa, caro signor Vanardi?

—Ecco, son venuto precisamente…

—Ho capito. Le occorre qualche piccolo rimedio… Che sì che indovino! Un'oncia di polpa di cassia o di tamarindi?

—No signore.

—Olio di ricino forse?

—Oibò.

—Le mie pillole digestive?… Sono pillole che ho inventate io, e per le quali ho preso dal governo tanto di brevetto… Sono meravigliose. I ministri ne pigliano, gli ambasciatori, i procuratori ed avvocati; tutti quelli che hanno bisogno di digerir bene… E per citar gente che sta qui vicino e di nostra conoscenza, il cavalier Salicotto… Lei lo conosce bene il cavalier Salicotto?

—Di nome solamente.

—Oh! un omone… Un politico di ventiquattro carati…. Una testa monumentale… Vale dieci Cavour e cento Pinelli. Fa il giornalista umanitario; patrocina la causa dei poveri… a parole sonanti… E si fa ricco. L'hanno fatto cavaliere, riuscirà a farsi nominare deputato: un dì sarà ministro… Dev'essere nativo della mia provincia. Dei Salicotto ce n'è al mio paese, ed anzi ne conoscevo moltissimo uno che faceva l'ortolano… Ah! non voglio già dire che questo cavaliere sia discendente o congiunto in alcun modo con quell'ortolano… Ciò non gli farebbe mica torto; ma il cavaliere afferma di essere figliuolo d'un avvocato: e se lo afferma lui!… D'altronde ci sono tanti nomi somiglianti!… In ogni modo e' sa fare il signore. Bisogna vedere com'è alloggiato!… Ci vado alcuna volta io a trovarlo… ed egli mi fa l'onore di servirsi alla mia bottega: tappeti da ogni parte, masserizie d'un'eleganza!… Ebbene, ciò che volevo dire si è che il cavaliere Salicotto fa uso delle mie pillole… Ha lo stomaco debole il pover'uomo. Lavora tanto pel vantaggio altrui! E ne rimane soddisfatto—delle mie pillole—che non si può dir meglio.

—Ne sono persuasissimo; ma io non è di nulla di ciò che ho mestieri.

—No? Dica pur liberamente quella che le occorre. Son disposto a servirla in tutto…. E l'ho detto appunto a sua moglie…. Oh! per caso, non sarebbe già la signora Rosina che è ammalata?

—Ma no signore. Per grazia del cielo stiamo tutti bene.

—Tanto meglio, tanto meglio. Vedendo entrar qui lei, io m'era detto tosto fra me e me: Forse sua moglie si trova di bel nuovo…. mi capisce?

—No, per fortuna.

—Oppure uno de' suoi figli, quel demonietto di Tonietto…. Oh, oh! Ha osservato? Ho fatto una rima…. o quel furbacchiotto di Pippo che avrà mangiato troppo.

—Ama signore; s'io son venuto è appunto perchè que' poverini non mangiano abbastanza.

—Oh, oh! inappetenza?…. A quell'età è strana…. Ma stia tranquillo che le darò io qualche cosa….

—No, no, no! E' non han bisogno di nessuna delle sue droghe per aver fame….

—Ma dunque?…

—Sono venuto per finire quel nostro piccolo affare….

Lo speziale si trasse indietro il berretto e si grattò la fronte.

—Affare!… Che affare?

Antonio stava per ispiegarsi, quando l'uscio della bottega s'aprì vivamente con grande agitazione del campanello, ed una vispa ragazza entrò di fretta, salutando lo speziale e i garzoni per nome.

Sulla faccia del padrone e dei due accoliti si schiuse tosto il più grazioso sorriso di cui le loro fisonomie fossero capaci: e tutti tre si affrettarono verso la giovane con premurosa galanteria.

VI.

La nuova venuta mostrava d'avere dai diciotto ai venti anni; era assai bene impersonata di corpo, piuttosto piccina, esile alla vita, con piedi grossetti e mani tozze; vestiva da fante di ricca famiglia, pulitamente e con una certa eleganza: la vesti di lana color di granata, un bel grembiule di seta nera, un goletto bianco come neve intorno al collo, una cuffiettina bianca del paro, civettescamente posta sulle sue abbondevoli treccie bionde. Aveva la bocca un po' grande, ma candidissimi i denti, il naso volto insù, ma petulante, gli occhi bigi pieni di malizia e in tutto il volto una cert'aria spigliata e temeraria, ma buona ed allegra che la rendeva piacevole a chiunque la vedesse.

—Buon giorno, signor Agapito: diss'ella ridendo da mostrare i suoi bianchi dentuzzi. Buon giorno, signor Giannello; buon giorno signor Martino: soggiunse volgendosi all'uno e poi all'altro dei due garzoni; ed a Vanardi che non conosceva punto, guardò in viso con una curiosità interrogativa e fece una bella riverenza.

—Ben giunta, madamigella Carlotta: rispose lo speziale. Lei sta bene?

—Bene bene no… Se fosse qualchedun'altra… qualcheduna di quelle signore che non hanno nulla da fare che crogiolarsi tutto il santo giorno sulla poltrona direbbe anzi che sta male… Ma io non ci abbado.

I due garzoni fecero un moto vivacissimo d'interesse, accostandosi alla fanciulla.

—Lei non si sente bene! esclamarono all'unissono come in un duetto d'opera in musica.

—Eh sì!… Gli è che io per natura non soglio crucciarmi… Crollo le spalle e tutto passa… ma in quella casa vi hanno tante contrarietà da far intisichire un elefante.

—Davvero! esclamò con voce compassionevole il signor Giannello, facendo gli occhi dolci alla ragazza.

—Povera madamigella Carlotta! mormorò il signor Martino, traendo un gran sospiro dall'imo petto.

—Sicuro! rispose la giovane. La signora marchesa per sè non sarebbe cattiva…

—Eh no, non ne ha l'aria davvero; interruppe messer Agapito, che era già stanco di tacere. Ma sì! ha ella una volontà che sia sua? La è menata pel naso da questo e da quello: la è come un automa; come un burattino a cui si tiri il filo…

—Bravo! esclamò Carlotta, approvando col chinar del capo.

—Diciamo la parola, continuava lo speziale: la è mezzo scema.

—Lo è del tutto. Le si industriano intorno una manica di furbi che cercano di mangiarle quel poco che possono mentre vive, e di bubbolarle una parte della sua eredità quando muoia.

—È proprio così: disse lo speziale che si grattava la punta del naso studiando un motto arguto: la marchesa di Campidoro è per essi un vero campo da cui vogliono raccoltar oro… Oh oh: che cosa ne dice signor Vanardi?

La giovane cameriera continuava:

—C'è il presidente della Congregazione di santa Filomena, il signor Marone…

—Il nostro garbato padron di casa, disse Agapito ammiccando ad Antonio.

—Questi è in lega col curato; dall'altra parte c'è il cavalier Salicotto d'accordo, mi pare, col medico, il dottor Lombrichi….. e in mezzo a tutti costoro più furbo di tutti e giovandosi di tutti, quel birbaccione di Grisostomo.

—Il cacciatore? dimandò Giannello.

—Quell'omaccio dalla barba nera che fa paura? disse Martino.

—Proprio lui… Ah! chi desidera stare in quella casa deve mettersi nelle grazie di quel brigante…

—Ah! ah! è un cacciatore che fa cacciare chi vuole… Oh, oh, oh!

—Ma io non sono di quell'umore, continuava Carlotta. Eh sì ch'egli non dimanderebbe di meglio che farmi la sua favorita: brutta barbaccia, va!

—Per lei ci vogliono altre barbe che quelle.

—A me non mi importa niente di lasciar lì quella casa dall'oggi al domani. Non sono imbarazzata punto punto a trovarmi un ricapito, io; e se per poco mi si tormenta, affè li pianto!

—Benissimo! esclamò Giannello.

—Oh lei è una giovane ammodo: osservò Martino.

—E badino bene a quel che dico loro, e si troverà ch'io non l'avrò sbagliata d'un ette: quel volpone di Grisostomo sarà quello che mangerà la miglior parte dell'eredità della signora marchesa.

—Lo credo: disse Agapito. Il mariuolo ha i denti da ciò. Ah, ah, ah!

—C'è la figlioccia della marchesa… una cara personcina, la figliuola del signor Biale, sa bene? quella che ha sposato il signor Pannini, quel bel giovane che è segretario, o che so io presso il cavaliere Bancone, un banchiere che è ricco a milioni.

—Lo conosco, disse lo speziale; è uno dei primi e dei più birbi fra i nostri trafficanti di borsa.

—Ebbene, la signora Lisa—madama Pannini si chiama Lisa—era un tempo amatissima dalla marchesa, e la famiglia dei Campidoro ha non so quale obbligazione verso i Biale: era cosa quasi certa che a costoro la marchesa avrebbe lasciato una bella fortuna; ma ora io scommetterei che Grisostomo li fa stare a becco asciutto.

—Possibile! esclamò Giannello giungendo le mani e lanciando a Carlotta un'occhiata assassina.

—Che mutria! disse Martino fulminando la giovane d'un'occhiata simile a quella del suo compagno.

—Allora si può chiamare altresì cacciatore d'eredità, disse lo speziale; e rise grossamente secondo il solito.

—La signora Lisa viene sovente a trovar la madrina, ma non sempre il nostro turco… (è un nomignolo che abbiamo accollato a Grisostomo… sono io che gliel'ho dato: perchè una volta che sono andata al teatro che si cantava l' Italiana in Algeri c'era un brutto muso di turco con tanto di barba, che rassomigliava tutto tutto a lui…) non sempre e' gliela lascia vedere. Perchè nessuno, nessuno al mondo, può arrivare sino alla marchesa se il turco non ha data la sua licenza. E l'ho sentita io la signora marchesa dire alcune volte con rincrescimento: «È molto tempo che Lisa non è più venuta a trovarmi.» E quel birbaccio risponderle: «Già, adesso è maritata; le nuove affezioni le hanno fatto dimenticare le antiche…» Oh! cose da mordersi la lingua per non parlare e confonderlo. Ma sì, basterebbe una sola parola che non gli piacesse per farci dare il benservito. E così è riuscita a levargliela quasi del tutto dal cuore, e la signora marchesa non ha oramai più altra affezione che quella per la sua cagnetta, quella vecchia schifosa mimì, che io vorrei veder gettata nel pozzo nero… Ed a quella buona signora Lisa, quando viene, Grisostomo le dice che la madrina dorme, o che la non è d'umore da ricevere, o che il medico ha proibito di lasciarla parlare a chicchessia… Ah! eccone un altro che ci mangia dei bei denari e sa benissimo il suo tornaconto: il medico… A proposito, io ciarlo, ciarlo, e non ho ancora detto il motivo per cui son venuta. Il dottore ha ordinato si ripetesse l'ultima bibita calmante da prendersi a cucchiai.

Lo speziale si volse tosto ad uno de' garzoni.

—Martino, avete inteso, e preparatela subito subito: la ricetta è là nella filza colle altre, e ci è scritto in alto il nome della marchesa di Campidoro.

Martino fu sollecito ad obbedire.

Carlotta ripigliava:

—Veramente non toccherebbe a me il venire a far questa commissione. Ci sono due domestici e sarebbe affar loro: ma io non ho di queste superbie… E poi era un pretesto per uscire un poco a prender aria: che in quella casa non c'è mai un momento di libertà. E il turco per l'appunto pare che tenga schiava me più che gli altri, come se ne fosse geloso.

—Eh! lo sarà, oh! lo sarà: disse lo speziale con molta galanteria.

—Lo sarà certo: aggiunse Giannello rotando gli occhi come se avesse turbo di stomaco.

—E n'ha ben d'onde! esclamò anche Martino dal banco, dove mesceva e rimestava i farmachi per la pozione.

—E dunque, appena ho udito il dottor Lombrichi dire alla marchesa con quel suo tono magistrale da sputabottoni; «Bisogna che prima di questa sera ella pigli ancora due cucchiai di quella medicina:» ho subito sclamato: «Sì signore, corro tosto io stessa alla spezieria a prenderla;» e senza attender altro son venuta di trotto.

—Bravissima! disse Agapito leziosamente, e così ci ha procurato il bene di vederla…

—Un gradito favore che ci ha fatto: soggiunse il signor Giannello, facendo sempre più l'occhiolino.

—Oh sì, un vero favore! ripetè il signor Martino di dietro il banco, versando in un'ampollina la mistura che aveva finito di preparare.

Carlotta fece con civetteria una piccola riverenza a messer Agapito, e divise un sorrisetto fra i due garzoni; poi fissò su Vanardi, che stava là piantato, uno sguardo attonito, che pareva dire: «E costui è egli muto o sordo, o vien egli dal mondo della luna, che non ha parole fatte?»

—Vuol dire che quel calmante ha giovato alla signora marchesa? domandò lo speziale.

Carlotta crollò lo spalle,

—Giovato! Crede lei che la signora sia veramente ammalata? Da ciò in fuori che le gambe non la reggono molto più che se fossero di cenci, ella sta meglio di me e di lei e di quanti siamo. È Grisostomo che le ha ficcato questa fisima in capo, appunto per aversela anche più maneggevole ad ogni sua voglia, d'accordo col medico, il quale ne tira il suo gran profitto. E ne l'hanno persuasa così bene, che adesso non ci sarebbe miglior modo da mandar la signora in una maledetta collera che di mostrare un solo dubbio sulla realtà dei suoi mali… E sì che anche senza di questo ticchio la sarebbe già abbastanza fastidievole di per sè: chè io non ho mai conosciuto una donna più irritabile, più difficile da contentare, più esigente, più maligna… tale e quale come quella sua insopportabile cagnetta… Del resto poi una buonissima creatura… Ed è da perdonarsi, perchè la testa non c'è più del tutto a segno, e il più delle volte la non sa quel che si faccia.

—Nel quartiere, disse Martino che s'accostava tenendo in mano l'ampollina con dentrovi il farmaco, si parla molto della fiorita carità ch'ella fa a tutti i poveri che le si raccomandano.

—Sicuro! chiunque ricorre a lei può averne soccorso, purchè abbia la protezione del parroco o del signor Marone, del cavalier Salicotto o del dottore… e purchè piaccia a Grisostomo. Bisogna poi ancora capitare a parlarle in un momento che la sia di buonumore… Guai, per esempio, se fosse in un giorno in cui quella brutta e cattiva Mimì stesse poco bene!… Allora non c'è da aver speranza… Ma lei, signor Martino, ha già preparata l'ampollina. Dia qui, e vado tosto a farne bere un cucchiaio alla padrona.

—Se non vuole incomodarsi a portarla lei, disse Agapito, io gliela manderò, ed all'istante, pel servitore.

E il signor Giannello, rotando di bel nuovo gli occhi peggio che prima:

—O gliela porterò io stesso… e avrò così l'onore e il piacere di accompagnarla.

—No, no, grazie, non occorre. Siamo qui a quattro passi, in due salti ci giungo. Serva loro, signori.

Lo speziale e i garzoni s'inchinarono salutando. Ella in un balzo fu all'uscio e l'aprì; ma allora, come per nuovo avviso sopraggiunto, si fermò e si rivoltò indietro:

—Ah! mi raccomando… Di quanto ho detto silenzio per amor del cielo!… Chè, se Grisostomo avesse a sapere che io ho chiacchierato, povera me!

—Non si dubiti!

—Stia tranquilla!

—Muto come un pesce!

Gridarono in coro il principale ed i garzoni; e la giovane sgattaiolò lesta fuor dell'uscio a vetri, e sparì nella strada.

—Che ghiotto boccon di ragazza eh? disse Agapito accennando dietro a Carlotta e strabuzzendo furbescamente degli occhi.

—Ah, che cara personcina! esclamò il signor Giannello, levando lo sguardo al soffitto.

—Che fior di roba! sospirò il signor Martino giungendo le mani al petto.

—Signor Agapito: saltò su allora Vanardi; se non le rincresce, ripiglieremo il discorso che ci ha interrotto la venuta di quella giovane.

—Ah sì, ben volentieri. Ella mi diceva…

—Io voleva parlarle di quei due dipinti che ho avuto l'onore di fare per lei.

—Ah, ah! Ippocrate e Galeno?

—Giusto.

—Sono là che meditano all'aria con tutta la desiderevole gravità.

—Un artista di raro acconsente a fare di questi lavori…. Ed io se l'ho fatto…. Poichè in fine in fine, quella non è che una specie d'insegna….

—Eh! quest'insegna insegnerà al pubblico il suo merito insigne…. Ah, ah! non è cattivo il bisticcio; ah, ah, ah!

—Io l'ho fatto, prima per l'amicizia verso di lei….

—Grazie tante, caro signor Vanardi: e gli strinse la mano.

—Poi per la dura necessità in cui pur troppo mi trovo.

Lo speziale che incominciò a capire dove Antonio volesse andare a parare, divenne serio e lasciò la mano del pittore, il quale continuava con tutto il coraggio di cui era capace:

—Ed è appunto questa necessità che mi spinge a forza a venirle domandare un compenso di quel mio lavoro.

Antonio si asciugò dalla fronte il sudore che vi aveva chiamato lo sforzo che aveva dovuto fare su sè medesimo per tirar fuori queste parole. Messer Agapito si grattò la punta acuta del suo lungo naso. Poi lo speziale andò presso al braciere, ne tolse il coperchio della campana sotto cui era, e ne mosse i carboni colla palettina; e vi sedette presso con aria di profonda meditazione.

—Ah! un compenso! diss'egli: va benissimo.

Trasse di tasca la sua tabacchiera di corno bigio, ne battè con piccoli colpi secchi il coperchio ed i lati, l'aperse, col polpastrello delle dita radunò il tabacco nel centro, coll'unghia dell'indice fece ricadere quello che era rimasto nella scanalatura del coperchio e nella mastiettatura, e rimestandolo anche un pochino, ne trasse poi una grossa presa.

—Ne piglia? domandò porgendo la tabacchiera aperta ad Antonio.

—No, grazie.

Agapito serrò la scatola serrando il pugno: appoggiò quest'ultimo sul ginocchio e si mise a fiutare fragorosamente la sua presa; quindi mandò un gran sospirone: col rovescio delle quattro dita rinettò il panciotto dai granelli di tabacco che v'erano caduti, e volgendosi con un mezzo giro sulla sua seggiola verso il pittore, ripetè:

—Un compenso? Niente di più giusto. Anzi questa mattina, parlando io con sua moglie…. La signora Rosina non le ha detto nulla?

—Sì: mi ha detto ch'ella ci aveva gentilmente offerto i suoi servigi. Ed io ne la ringrazio tanto. Ma, com'ella sa, signor Agapito, io mi trovo in cattive acque…. E un po' di denaro sarebbe per me la manna del cielo…. Epperò sono venuto a domandarle dell'opera mia un discretissimo prezzo.

Lo speziale pose la tabacchiera in tasca e cacciò le dita delle due mani nelle scarselle del panciotto, rimenandovele come per farvi scorrere il denaro che contenevano.

—Va bene, va bene… Veramente io non ci pensava, ma… purchè questo prezzo sia discreto… com'ella dice…

—Ci ho messo tutta la mia abilità, e non fo per dire, ma quelle due figure mi sono riuscite per benino.

Agapito trasse una mano dal borsellino per grattarsi la punta del naso.

—Veniamo alla cifra, diss'egli.

—S'io fossi un ricco e celebre pittore, che perciò non avesse bisogno di nulla, potrei chiedergliene mille lire per cadauna…

Lo speziale fece un salto sulla sua seggiola.

—Due mila lire! Misericordia! esclamò egli spaventato, levando anche l'altra mano dal taschino.

—Ma siccome sono un poveraccio, che ho necessità di tutto, continuava Antonio, che non ha pane per sè e per la sua famiglia, che avrebbe giusto bisogno di quella somma per aggiustare a dovere i fatti suoi, così nè io oso chiederle tanto, nè lei me ne darebbe.

—Insomma, a farla breve, qual è l'ultimo prezzo?

—Duecento cinquanta lire.

—Beuh! È matto lei: disse bruscamente lo speziale, e s'alzò da sedere. Duecento cinquanta lire per l'impiastricciamento di due tavole di legno.

S'accostò all'uscio a vetri e guardò traverso ad esso le due figure che mascheravano i battenti aperti.

—Le pare che quelle faccie da scomunicati valgano cotanto?

Antonio fu punto nel suo amor proprio, di artista.

—Può darsi, rispose egli atteggiandosi il più dignitosamente che seppe nel suo mantello, che la mia opera sia cattiva, ed ella ha tutto il diritto di trovarla pessima. Lasci però a me quello di non accettare per autorevole il giudizio d'uno spacciatore di medicine.

La bizza fe' venir rossa la punta del naso al signor Agapito: parve in sul punto di ribattere con risentite parole; ma un altro sentimento, che ben presto vedremo qual sia, lo fe' fermarsi.

—Via, via, diss'egli tutt'amichevole; non la voglio mica offendere, caro signor Vanardi. Ma duecento cinquanta lire!… Corbezzoli! vede bene anche lei!… Sia buono con me che… che… non voglio mica vantarmene… era mio dovere… ci avevo troppo compenso nel piacere stesso che ne provavo… Oh che? noi si fa il bene per far bene… Ma insomma non mi sono rifiutato mai per quello che ho potuto in suo vantaggio… E alla nascita dell'ultimo figliuolo, se non fosse stato di me… senza contare che ho fornito allora delle medicine e dei cordiali…

Vanardi stava tutto immelensito non osando contraddire e non volendo accettar per vere le cose dette dallo speziale; e questi battendogli sulle spalle, continuava con un suo cotal sorriso che voleva essere piacevole ed affettuoso.

—Ci aggiusteremo all'amichevole, non è vero? Oh ci aggiusteremo. Pensi anche lei che in queste stagioni i denari scappan via come l'acqua dal ramaiuolo bucherato; l'affitto, le mancie, le liste dei fornitori, che so io… Pagarle ciò che domanda, non lo potrei proprio… Ci faremo un calo non è vero? Oh sì, sì che lo faremo.

Il povero pittore che non aveva pur l'ombra di quel muso duro che è necessarissimo in queste circostanze, esitò, tentennò, balbettò parole senza senso, che non erano nè un negare nè un accondiscendere.

Ma lo speziale fu lesto a soggiungere in tono d'allegro accordo:

—Se lo dico io che ce la intenderemo da buoni amici. Lasci stare, caro signor Vanardi, che al primo istante ch'io abbia di libero vado su a casa sua e finiamo questa faccenda con comune soddisfacimento.

Antonio non trovò più nulla da rispondere; salutò, si calcò in testa il suo cappellaccio e si mosse per uscire. Agapito lo accompagnò sino all'uscio, gli aprì la porta, gli fece un saluto pieno di affettuosa domestichezza e venendo fuori ancor egli sul passo della bottega guardò che strada pigliasse il pittore allontanandosi.

—Ah, ah! disse fra sè, salutando ancora Antonio già lontano; e' non va a casa… Chi sa se starà fuori lungo tempo!… Ho in mente che sì… Buono! buono!

Rientrò fregandosi le mani, diede qualche ordine a' garzoni e salì agli ammezzati sopra la bottega, dove ci aveva il suo alloggio.

VII.

Come vi ho già detto, Agapito viveva solo con una nipote, dalla quale, sotto pretesto d'usarle carità albergandola in casa sua, si faceva servire come e più umilmente che da una fante, senza punto pagarle il becco d'un quattrino.

Quella poveretta di ragazza poteva proprio dirsi sacrificata. Sino ai ventitre anni (ora ne aveva venticinque e da due anni dimorava collo zio) era vissuta al suo villaggio natio, a quello stesso di cui abbiamo udito lo speziale dirsi originario. La sua famiglia era di agricoltori, che traevano un modestissimo sostentamento dai proventi d'una poco estesa lista di terra cui coltivavano con quell'amore che i nostri paesani mettono alla zolla da essi fecondata col proprio sudore instancabilmente. Erano due i figliuoli che allietavano il padre e la madre; buona gente se mai fu, che amavansi tra loro grandemente ed amavano del pari la prole, un maschio ed una femmina. Difficilmente si sarebbe potuto trovare una famiglia in cui regnassero, non dico di più, ma del pari la pace, l'amore e l'accordo. La loro tenuissima mediocrità di fortune, mercè la tenuità ancora maggiore dei loro desiderii e la parsimonia del viver loro, tornava quasi un'agiatezza, che loro non lasciava sentire la mancanza di nulla. Lavoravano a gara di buon umore genitori e figliuoli in quella sana e direi allegra opera dei campi che rafforza il corpo e lascia l'anima soddisfatta e tranquilla. Si sarebbe stranamente meravigliato chi fosse venuto a dir loro che c'erano condizioni ed individui più felici e cui essi avrebbero da invidiare.

Fra le altre avevano eziandio la fortuna d'un buon amico. In buona attinenza con tutti del villaggio, era quel solo che potesse proprio dirsi un amico e teneva loro luogo di parenti che non avevan più, fuorchè lo speziale Agapito, lontano e che pensava ad essi come al taicun del Giappone. Era costui un ortolano che coltivava il verziere ed il frutteto d'un vasto tenimento che un gran signore possedeva lì presso: si chiamava Matteo, era del paese ancor egli ed ammogliato eziandio, non aveva avuto che un figliuolo, e i ragazzi dell'una e dell'altra famiglia giuocavano insieme; e i parenti, come suole, immaginavano che, quando cresciuti, il figliuolo dell'ortolano avrebbe sposato la figliuola dell'agricoltore.

Le avventure di Matteo avremo l'occasione di conoscerle più tardi, chè ancor esse fanno parte del dramma al cui svolgimento abbiamo da assistere; ma per intanto conviene ch'io vi accenni, come, mal corrisposto da quell'unico figliuolo, non solo dovesse rinunziare al vagheggiato maritaggio, ma il povero ortolano ne avesse tal dispiacere, che, natagli l'occasione di cambiar paese andando a servire altro padrone in altra e lontana località, egli abbandonasse il villaggio, deciso a non tornarvi più.

Questi furono i primi due dolori che piombarono addosso alla famiglia di Anna (questo era il nome della nipote dello speziale), sulla qual povera famiglia doveva ad un tratto abbattersi la sventura.

Il fratello di Anna dovette andar soldato benchè unico de' maschi, giacchè suo padre a quel tempo non aveva ancora l'età richiesta dalla legge per salvarnelo. Fu un dolore inesprimibile per la povera famiglia, e come potete pensare, tanto più per la madre, che lo amava supremamente: tal dolore che la poveretta si ammalò e mai più non si riebbe. Il padre rimasto solo a lavorare ci consumò le poche forze che ancora gli rimanevano, e a non lungo andar di tempo, fu ridotto cagionevole di salute ancor egli. Alla povera Anna toccava la custodia e la cura di due infermicci e il bastar essa sola, giovanetta, a tutte le bisogne famigliari.

E non era tuttavia colma la misura. Il figliuolo era stato incorporato nell'artiglieria a cavallo (di cui erano allora solo due compagnie): faticoso servizio cui egli, partito con troppo doloroso distacco da' suoi, faceva a malincuore e quindi trovava gravosissimo oltre ogni dire. In realtà faceva un indolente e poco zelante soldato, e le punizioni gli fioccavano addosso a rendergli sempre più uggiosa la vita militare, già sì poco aggradevole a chi non sia nato fatto per essa. Un giorno gli toccò di fare una tappa forzata di più e delle miglia parecchie oltre la marcia ordinaria: appunto perchè soldato meno diligente e quindi in mala vista ai superiori, eragli toccato un cavallo bizzarro cui era una fatica maggiore tenere in freno. Verso la fine della giornata il giovane si sentiva stanco da non poterne più; il cavallo secondo il suo solito adombra: egli irritato gli caccia senza pietà gli speroni nei fianchi, e la bestia impennatasi fa così bene che manda il suo cavaliere stramazzoni sul suolo. L'infelice batte col petto sopra un sasso e quando lo rialzano vomita a piene boccate il sangue, e, trasportato allo spedale, ci sta ammalato sei mesi e n'esce tisico senza più redenzione. Ottiene il congedo di riforma e torna a casa incapace al lavoro, altro malato alle cure sollecite di Anna. Stentò ancora poco meno d'un anno e morì. La madre gli tenne dietro poco tempo dopo. Padre e figliuola, consumato tutto quel poco che avevano, rimasero nella più profonda miseria.

Il padre non tardò di molto ad esser liberato ancor egli dalla morte; e il solo parente che rimanesse ad Anna, lasciata senza mezzi di sussistenza, era lo speziale Agapito. Sollecitato dal giudice di mandamento a venire, si recò lo speziale al paese, e siccome era restato appunto senza serva, si decise facilmente alla generosità di pigliar seco quella poveretta che lo avrebbe servito con tutta umiltà, e che egli non avrebbe pagato che con rimbrotti e rinfacciamenti. Si vantò di questo bel tratto come d'un eroismo degno degli uomini di Plutarco, ed ogni giorno che Dio mandava lo gettava in muso alla infelice con una crudeltà degna delle mazzate. Avrebbe sorpreso profondamente e indignato ancor più il brav'uomo, chi si fosse osato dirgli che il suo non era il miglior atto di carità che si possa vedere nel mondo.

Agapito adunque salito su nel suo quartiere quella tal mattina, da cui prende le mosse la nostra storia, si mise a gridare con voce già piena di maltalento:

—Marmotta? Dove sei, marmotta?

Questa era l'appellativo più gentile con cui egli fosse solito chiamare la povera nipote.

La ragazza era in cucina a preparare il pranzo, ed accorse lesta, tutta rossa in viso dal fuoco dei fornelli. Certo che non aveva in sè nulla di bello nè di distinto: era una villanella qualunque, non della letteratura arcadica nè dell'arte pastorale dei quadri al di sopra delle porte, secondo lo stile di Watteau, ma della realtà che si trova nelle nostre montagne: una ragazza tozza, forte, che aveva però un'aria di molta bontà e d'infinita rassegnazione. Vestiva una misera ciopperella di povera stoffa, logora e mal fatta, la quale non aveva che un pregio: la pulitezza. Stette innanzi allo zio, impacciata e timorosa, come chi s'aspetta ad ogni occasione i rimbrotti e le male parole.

—Qui c'è puzza di bruciaticcio: incominciò Agapito in tono burbero e minaccioso; me ne hai fatta qualcheduna in cucina, scimunita che sei. Già, secondo il tuo solito, chè altro che malestri non mi sai fare. Possibile che non ne indovini una, brutto mascherone!… Mi mangia il pane a tradimento questa sciagurata.

Anna chinò il capo e non disse una parola. Ma stata lì un poco senza muoversi e senza fiatare, Agapito la riscosse con uno spintone.

—Ebbene, marmottaccia, chè stai lì piantata come un cavolo? Non t'ho mica chiamata per bearmi nella contemplazione del tuo grifo.

La ragazza, colle lagrime in pelle in pelle, si fe' forza e domandò colla voce più ferma che potè:

—Che cosa mi comanda, signor zio?

—Uh! La s'è sveglia finalmente!… Portami il mio soprabito di panno verdescuro, e dagli una buona spazzolata, e va in cucina a moderare un po' il fuoco del fornello, chè tu mi consumi giorno per giorno più di carbone di quel che tu vali… E fa presto, ch'io non voglio indugiarmi qui a tua cagione.

La nipote corse lesta ad obbedire. Messer Agapito si fece innanzi a uno specchietto che pendeva all'intelaiatura de' cristalli della finestra ad aggiustarvisi con miglior garbo la pezzuola da collo.

—E così? gridò egli dopo un momento. Anna, marmottona, vieni o non vieni? Mi vuoi proprio far perdere la pazienza?

Anna entrò correndo tutta affannata con in una mano l'abito penzoloni e nell'altra la spazzola.

—Finalmente!

Agapito vestì l'abito che la nipote l'aiutò ad infilar nelle maniche, cambiò il suo solito berretto in un cappello a staio, e borbottando e rampognando dietro la nipote, uscì di casa per l'uscio che metteva sul pianerottolo della scala comune.

Non discese verso la strada, ma si avviò invece verso i piani superiori, e non cessò di salire finchè non si trovò al sommo affatto delle scale: nel corridoio delle soffitte. Andò all'uscio per cui si entrava nel gabbione del pittore e picchiò discretamente alla porta colla nocca delle dita.

—Chi va là? chiese dall'interno la voce della Rosina.

—Amici: rispose coll'accento il più grazioso che seppe fare il signor Agapito, atteggiando in pari tempo le labbra ad un lezioso sorriso.

—Entri; disse la donna: la porta è socchiusa e non ha che da spingerla.

Agapito la sospinse pianamente e sgusciò dentro con un certo mistero, aitandosi della persona non senza pretesa al garbo ed alla leggiadria.

La moglie di Antonio era seduta al suo tavolino di lavoro, e come si fa per coloro che sono di casa, non si mosse punto e salutò famigliarmente colla voce e col capo soltanto.

—Che buon vento me la porta qui di nuovo, messer Agapito?

Lo speziale diede maggior intensità alla leggiadria del suo sorriso e del suo portamento.

—Un vento, rispos'egli lanciando delle occhiate lampeggianti, che è buono sopratutto per me, e che vorrei mi fosse anche un buon evento.

Intanto s'era accostato alla donna, e le aveva preso una mano. Gliela strinse più forte che non facesse di solito, la tenne un po' fra le sue, poi mandò un sospiro, e recandosi la mano di lei alle labbra vi pose su un grosso e prolungato bacio.

Rosina, alquanto stupita, levò il suo sguardo in volto allo speziale, e gli avrebbe forse domandato spiegazione della novità, quando la vista della toilette che il suo visitatore avea fatta le destò altro stupore e le fece mandare altra esclamazione.

—Oh, oh, cospetto! diss'ella. La si è messo in fronzoli. Che cosa vuol dire codesto?

—Vuol dire, vuol dire, rispose Agapito che si grattava la punta del naso come per farne uscire le parole: vuol dire che avendo un momento di libertà… ed avendo inoltre da parlarle, signora Rosina… cara signora Rosina… mi sono procurato il piacere, il grande, il massimo piacere di venirle a fare una visita.

Rosina aveva tolto da quelle di Agapito la sua mano, ed aveva ripreso tranquillamente il suo agucchiare.

—Che? disse, la vorrebbe farmi credere che ha fatto quello sfarzo d'acconciatura per venir da me?…

—E perchè no? Gli è le persone che più si stimano, che più si amano, per cui…

—Ma s'accomodi.

—Grazie.

Prese la seggiola in migliore stato e venne a sedere vicino vicino alla donna.

I fanciulli secondo il solito erano venuti ad aggrupparsi innanzi al nuovo venuto e lo miravano a bocca larga. Lo speziale trasse di tasca un involto di carta, lo spiegò, ci prese dentro tre pezzetti di regolizia, e ne diede uno a ciascuno dei ragazzi.

—Prendete, carini.

Ripose l'involto in tasca, e soggiunse parlando alla Rosina:

—Questi bambini le par egli che facciano abbastanza di moto, sempre rinchiusi come sono qui dentro?

—Abbastanza di moto! Santa la Madonna! che sono tutto il giorno per aria da non poterli far quietare un solo momento.

—Sì; ma gli è pur sempre uno spazio chiuso, uno spazio ristretto… Io, se fossi in lei, li vorrei lasciare andare di quando in quando a ruzzare nel corridoio…

—Eh, ci fa freddo da gelare…

—Uhm! Non fo per dire, ma nemmeno qui non c'è un ambiente da stufa.

—Imbarazzerebbero i vicini, che sono la gente più intollerante e scontenta che si possa immaginare… E poi andrebbero per le scale con rischio ancora di precipitare per esse e rompersi l'osso del collo… No, no, i miei bimbi li voglio avere presso di me, sotto i miei occhi sempre.

Agapito si mise di nuovo a grattarsi la punta del naso.

—Eh! gli è bene un impiccio, alla fine, lo aver sempre appiccati alla gonnella dei marmocchi…

—Per me non è niente affatto un impiccio.

—Ma per gli altri… per chi ad esempio avesse a parlarle di cose interessanti, in segreto… come io in questo momento…

La curiosità di Rosina solleticata a queste parole, dominò di botto ogni altro pensiero. Lasciò essa l'agucchiare, e voltasi di pieno verso lo speziale, interruppe vivacemente:

—Ah, sì? Ella mi ha da dir qualche cosa? Lo volevo dire che lei mi aveva un'aria tutta strana… Parli, parli pure… Questi ragazzi non capiscono ancora…

—Ma pure… la loro presenza… le assicuro che mi impacciano.

Rosina mandò i bambini dall'altra parte del paravento.

—Parli, parli: eccomi tutt'orecchie ad ascoltarla.

Agapito chiamò in aiuto tutta la sua rettorica, e cominciò il discorso.

Che volete? Come già vi sarete accorti, cari lettori, i pigli vivaci, le ciarle volgari e spigliate, gli occhi furbeschi della Rosina avevano ferito il cuore del già maturo Agapito, celibe, avaruccio ed egoista: e di quel giorno in quell'occasione s'era coraggiosamente risoluto ad aprir l'animo suo alla donna.

Cominciò adunque con dire quanta stima, quanto interesse avessero destato in lui i fatti e i meriti della signora Rosina; ch'egli aveva scoperto come in poco prospere condizioni si trovassero i coniugi Vanardi, ed egli ne sentiva gran pena; era disposto a venire in loro aiuto in tutte le maniere che fossero in poter suo; il pittore avevagli domandato un prezzo esorbitante dell'opera sua, ed egli per carità, per l'interesse che sentiva verso di loro, per la generosità dell'animo, era disposto a pagare assai più di quello che quelle due tavole valessero; chè anzi, egli era disposto a fare altro ancora e meglio per loro; egli già non poteva di molto, ma pure, per la signora Rosina non si sarebbe rimasto a questa sola elargizione, avrebbe fatto, avrebbe detto, purchè… purchè…

Tutto era andato alla più liscia sino allora. Rosina interrompeva ad ogni momento il parlatore per ringraziarlo diffusamente, per magnificarlo con mille lodi; gli aveva pigliato la mano e gliela stringeva con riconoscenza; lo proclamava il primo speziale del mondo e il più caritatevole uomo fra quanti mai abbiano portato il naso sulla terra. Ma quando messer Agapito si fu rintoppato in quel purchè, tutto cambiò aspetto.

Che si disse egli mai? Che avvenne? Profondo mistero della storia! Ma si sarebbe potuto udire la voce dello speziale abbassarsi ad un tono più che confidenziale, e quella invece della Rosina elevarsi a seconda tant'alto da giungere poi distinta sino nel corridoio delle soffitte, sin sul pianerottolo della scala: e i bambini spaventati al collerico gridare della madre strillare acutamente ancor essi. Poscia ad un tratto si vide l'uscio spalancarsi violentemente e messer Agapito venirne fuori mogio mogio, incalzato dalla Rosina furibonda, e con una solenne graffiatura a quella punta del suo naso che l'amoroso speziale soleva grattare ed accarezzare con tanta compiacenza.

—E per chi mi piglia? gridava a testa la Rosina infiammata: ed io son quella da regalarle la lezione che si merita… Ed è codesta la sua carità, bell'arnese da spezieria?… E non mi torni più per i piedi, chè mio marito è capace di romperle sulle spalle un bel legnetto verde, ed in mancanza di lui io stessa…

—Zitto, zitto per amor del cielo: susurrava Agapito, tentando farsi piccino piccino e rinsaccando il capo fra le spalle: si calmi, non facciamo scandali, non facciamo scene…

—Ne voglio far io: gridava più forte la moglie del pittore. E non so chi mi tenga dal chiamar tutti i casigliani fuori, e contar loro le sue belle prodezze.

Qualche uscio nel corridoio incominciava a socchiudersi: qualche cuffia di comare cominciava a lasciarsi scorgere dalle aperture; Agapito avvertì dietro ogni porta un orecchio ascoltatore; non attese di più, e rimpiccinito e lesto prese di volo le scale, lasciando vincitrice sul campo di battaglia la Rosina fieramente impostata sulla soglia del domicilio coniugale.

Anna si mise a tremare solamente all'udire il colpo violento che lo zio aveva fatto battere all'uscio nel richiuderlo dietro di sè quando era entrato in casa. S'affrettò a porre in tavola, e corse alla stanza dello speziale, dove egli s'era rifugiato.

Agapito stava innanzi a quello specchietto che pendeva dall'intelaiatura dei cristalli alla finestra, e si faceva bagnòli di una sua acqua di farmacia alla graffiatura del naso.

—Signor zio, è in tavola, disse la nipote, entrando sollecita.

Ed egli volgendosele tutto invelenito:

—Chi ti ha dato licenza d'entrarmi in camera di questa fatta? Sarai tu sempre la scioccona e la villanaccia che per mia disgrazia ho stanato dal nostro paese? Buona da nulla, va! A quest'ora una bertuccia sarebbe già meglio incivilita di quello tu non sia. Levami dagli occhi il tuo brutto muso.

La poverina s'affrettava ad andarsene: ma appena era essa fuori dell'uscio che lo zio la richiamava. Anna, oppressa dalla pena e dalla vergogna, non udiva alla prima; Agapito, tenendosi con una mano il pannolino inzuppato sul naso, le correva dietro:

—Marmottona, sei sorda o non vuoi udire? Avresti l'impertinenza di mettere il broncio? Che sì ch'io ti vo' levare il ruzzo dal capo, se te ne viene… Oh vedete la signorina che fa la suscettiva!… pitocca che tu sei!… Non so perchè non ti mando su due piedi a mangiar polenta e patate nel tuo nido di montagna.

E la infelice, se l'avesse osato, avrebbe pregato lo zio, come d'una grazia, di porre in atto questa minaccia e lasciarla tornare alla miseria, ma insieme alla pace, del suo villaggio natio.

—Ma io sono troppo buono, continuava messer Agapito, e sciupo i miei benefizi con una ingrata. Bada a non istancarmi poi del tutto!… Dà in tavola pei garzoni… Io non andrò a pranzo con loro, ma mi servirai qui… Se ti chiedono il perchè, e che cosa ho, e simili domande, non risponder nulla… Va, e non farmi qualche scempiaggine delle tue solite.

Non occorre ch'io vi dica se Agapito trovò il pranzo tutto cattivo, tutto pessimo, e se coprì di villanie e di rimbrotti la povera ragazza, rimproverandola ad ogni momento persino il poco pane che ella mangiava. Comechè già avvezza a sì mali trattamenti, l'infelice ad ogni volta ne provava più e più sempre onta e dolore.

Oh! in cuor suo ella non era lungi dal maledire quella sì fiorita carità di cui ad ogni piè sospinto si vantava cotanto il signor zio.

VIII.

Vanardi intanto chiotto chiotto avea preso la strada verso l'abitazione del suo amico Giovanni Selva. Ma di necessità gli toccava passare innanzi ai principali suoi creditori.

Il venditore di legna era là che spaccava a stecche sopra un gran ceppo certe legnette rotonde. Antonio sperò poter passare di fretta innanzi alla bottega, camminando dall'altra parte della strada, senza che l'inesorabile creditore lo vedesse: ma ecco che questi alzava il capo appunto in quella e lasciava cader lo sguardo sul povero pittore.

—Oh, oh! signor Vanardi, cominciò egli, che pressa è la sua? Non è già per venir da me ch'ella corre cotanto?

—No, rispose Antonio, sentendosi spuntare alle radici de' capelli goccie di sudore per la vergogna. Ho qualche faccenda che mi preme.

—Va bene, va bene. Sa che c'è di nuovo? che mi sono stancato d'aspettare, che sono stato dal giudice e che lei si riceverà quanto prima la sua brava citazione…

Vanardi traversò la strada e venne sollecito verso il carbonaio.

—Oh, voi non farete una cosa simile, mio caro signor Gregorio. Siete padre anche voi, ed avrete un po' più di sofferenza per un povero padre di famiglia.

—Eh appunto perchè sono padre ancor io debbo pensare ai miei interessi. Ve l'ho detto tante volte! Ora non c'è più novelle che valgano; la mia istanza al giudice è già bella e data…

Antonio curvò il capo e s'allontanò senza aggiunger parola, ma con in cuore una delle maggiori pene che avesse provato ancor mai.

Alla cantonata vide con spavento il pizzicagnolo fuor della sua bottega, a discorrerla col panattiere.

—Signor Vanardi, quand'è che mi paga? cominciò il primo de' due, appena fu a tiro.

—E me? soggiunse il secondo.

—Abbiano pazienza ancora un poco: rispose il povero diavolo. Spero che…

—Ne ho avuto anche troppo di pazienza: esclamò l'uno.

—Ed ancor io, ma non voglio più averne: disse l'altro.

—L'avverto che di quest'oggi stesso mi provvederò in giustizia.

—Ed io pure.

Vanardi fece come avea fatto col carbonaio: non disse più verbo e tirò dritto.

—Facciano, diceva a sè stesso con rabbia e dolore. Animo, addosso tutti: coraggio, mi ammazzino, mi squartino addirittura. Ciò farà loro piacere, può darsi: ma farli avere il fatto loro?… Sfido io!… Di quest'oggi il mio padrino riceverà la mia lettera. Che effetto avrà essa?… Quella è l'ultima mia speranza. Se la mi fallisce non mi resterà più nessun mezzo… E che cosa dovrò fare? Ammazzarmi?

Si ricordò del fatto di cui gli aveva parlato lo speziale, narrato nel foglio ch'egli teneva in tasca.

—Quella è un'idea… Ah! se con ciò potessi dar pane ai miei poveri bimbi!

Giunse a casa il suo amico, con la faccia così turbata, che Selva gli disse tosto spaventato:

—Antonio! Mio Dio! Che c'è? Che cosa t'è capitato?

Giovanni Selva non era neanch'egli in troppo buone fortune. Aveva moglie ancor esso e famiglia, e non ricavava troppo larghi guadagni dal lavoro letterario della sua penna.

Antonio s'era proposto di non dir nulla delle sue sciagure finanziarie all'amico, appunto perchè sapeva che questi si sarebbe tosto risoluto ad ogni possibile sacrifizio per soccorrerlo, ma in quel momento la pena dell'infelice era troppo forte perchè egli la potesse nascondere, e le impressioni soverchiamente dolorose richiedevano uno sfogo. Si lasciò andare sovr'una seggiola come uomo disperato per l'affatto e contò tutto.

Giovanni l'udì in silenzio, tenendo stretta fra le sue una mano dell'amico. Quando questi ebbe finito, lo trasse a sè, lo serrò al petto e lo abbracciò come un fratello. Poscia, senz'altre parole, lo condusse seco ad uno stipetto; aprì questo stipo, ne tirò fuori un cassettino e mostrò in esso ad Antonio il tesoro di sei napoleoni d'oro.

—Eccoti il mio peculio, diss'egli. In altra occasione ti direi: piglialo, gli è tuo; ma siccome a questo tempo ho ancor io qualche spesetta, non posso che dirti: dividiamo per metà.

Antonio non voleva: ci si rifiutò lunga pezza; ma Selva gli pose a forza i tre napoleoni nelle mani, ricordandogli ch'egli era padre e che codesto era per i bambini.

—Con ciò, soggiunse, potrai acchetare i più accaniti de' tuoi creditori ad aspettare gli eventi. Durante i quindici giorni che ti ha accordato il proprietario, o il tuo padrino si commuove e ti soccorre, o noi avremo trovato qualche altro modo di sopperire all'occorrenza. L'arte, devi oramai esserne persuaso, mio caro Antonio, ti dà giusto tanto pane quanto ne danno ai poeti le rime.

—Ti capisco! esclamò Vanardi con accento quasi di dolore. Tu vorresti ch'io l'abbandonassi quest'arte ingrata, maledetta e carissima… Avresti tu il coraggio di consigliarmi a fare il droghiere?

—E perchè no? Noi viviamo in un secolo di prosa e d'interessi, in cui è solo il lavoro materialmente utile che procura guadagni. Il commercio del droghiere soddisfa a parecchi bisogni della società civile…

—Mah! disse Antonio grattandosi dietro l'orecchio. Queste buone ragioni ho paura che mi convincerebbero, se mio zio cedesse alle mie preghiere; ma è più facile che, stante la sua professione, mio padrino faccia orecchie da mercante, e allora sarà inutile che la tua eloquenza mi abbia convertito al positivismo della vita.

—Niente affatto. Se tuo zio non ti riapre le sue braccia e il suo fondaco, ho in mente un partito per te, che già da più tempo rumino meco stesso, e che se tu hai senno, non vorrai rifiutare.

—Che cosa? che cosa? chiese sollecito Antonio. Oramai son ridotto a tale che, per salvarmi dalle strette della miseria, non c'è patto, purchè onesto, a cui oserei dire di no.

—Buono! Vuol dire che t'acconcerai a far da computista, da scrivano presso un banchiere.

Vanardi fece una smorfia.

—Star chiuso tutto il giorno nell'aria mefitica d'un uffizio!… Allineare delle colonne di cifre per farle camminare in massa serrata al risultamento d'una moltiplicazione… Oh, arte mia!… E ciò dopo tanti sogni, tante speranze, dopo tanti studi!… Ah! l'è dura… E tu avresti mezzo di ottenermi un simile impiego?

—Forse sì. Qui sotto, al secondo piano, abita un uomo, a cui non so qual altro potrebbe andare innanzi in punto ad onestà, buon cuore, e tutte le meglio qualità dell'animo. Egli è oro schietto per ogni riguardo. Siamo amici quanto lo può permettere la differenza d'età che passa tra noi (ch'egli è già oltre i sessant'anni), e la profonda e riverente osservanza ch'io nutro per esso. La giovane di lui figliuola, sposa da pochi anni, è in istretta relazione con mia moglie: e due o tre sere per settimana, noi si va giù a far la vegliata in famiglia in casa Biale.

—Biale? esclamò Antonio. Oh bella! Questa figliuola di cui parli ha essa per madrina una vecchia marchesa?

—Giusto! La marchesa di Campidoro.

—Ed ha sposato un tale che è segretario d'un banchiere….

—Bravo! Pannini, segretario di Bancone…. Tu dunque la conosci questa famiglia?

—Io no. Ne ho sentito parlare son pochi minuti nella spezieria di messer Agapito, da una cameriera della marchesa.

—Spero che del signor Biale la ne avrà parlato bene, disse vivacemente Giovanni Selva.

—Non ha avuto occasione che di nominarlo; ma disse le più lusinghiere parole della signora Pannini.

—E se le merita davvero! Una cara personcina, tutto leggiadria ed affetto. E come ama suo padre e suo marito!… Il signor Biale, a cui è unica figliuola, come puoi capire, l'adora. Egli è appunto per mezzo loro che spero farti ottenere un posticino negli uffizi del signor Bancone. Pannini è assai nelle buone grazie di costui; e inoltre—ciò che vale anche più—è amicissimo del primo commesso, il quale tanto nella banca come nella casa di quel re da denari fa tutto ciò che vuole. Dirò al suocero ed alla moglie di Pannini che lo inducano a parlar per te. Non gliene parlo io stesso, perchè io e lui non ce la diciamo di troppo. Egli avvezzo alle grandigie ed agli sbarbagli della ricchezza guarda con occhio un po' troppo altezzoso le mediocri fortune d'un povero letterato come son io, e quanto ad orgoglio io non istò al di sotto di nessuno: dunque ci trattiamo freddamente, e ciascuno va per la sua strada. Ma quel giovane ama di molto sua moglie, e s'ella glielo dice farà tutto quello che può in favor tuo. Di questa sera io parlerò al signor Biale e mia moglie parlerà a madama Pannini, e domani stesso spero di andarti a portare a casa tua qualche non iscoraggiante risposta.

—Mio caro Giovanni: esclamò Antonio, gettando le braccia al collo dell'amico; non ti ringrazio nemmeno; perchè non lo potrei a dovere; ma la salvezza della mia famiglia che dovrò a te…

—Basta! Tu costeggi il pericolo d'imbrogliarti in una bella frase.

—Tranquillati, lascio lì di botto: ed anzi t'esprimerò un dubbio…. Ah! la disgrazia fa diventar scettico.

—Parla pure.

—Come mai codestoro vorranno darsi briga per uno che non hanno mai sentito nominare? A questo mondo non si fa del bene che a coloro i quali ce ne possono rendere….

—Si vede che tu non conosci quell'eccellente famiglia. Hai tu venti minuti di tempo da passare meco ancora?

Vanardi mando un sospiro.

—Ah! pur troppo ho tutto il mio tempo libero, come quello d'uomo che vive delle sue rendite.

—Ebbene, siedi lì che ti conterò in breve la storia di questa brava gente: quando la saprai, avrai finito di dubitare.

IX.

—Il signor Biale, così cominciò Selva, come già ti dissi, è un uomo che ora conta oltre a sessant'anni. Lo conosci tu di persona?

—No: rispose Antonio, non so d'averlo visto mai.

—È ancora un bell'uomo, alto di persona, a fronte calva, a faccia severa, quantunque tutto bontà, a sguardo benevolo ed occhi intelligenti. Fu militare, ed ha conservato qualche cosa della rigidità del portamento e della bruschezza di maniere del soldato. Ha la fibra di quel vero acciaio che piega, se occorre, ma fino ad un certo punto soltanto, e piuttosto s'infrange che andar sotto al livello della dignità e dell'onestà del carattere, che perdura inalterabile, ed all'influsso corrosivo delle male parti della società, delle passioni e della sciagura non si guasta nè s'infiacca. La natura gli ha regalato un'onestà a tutta prova, la disciplina militare, a cui fu soggetto ne' suoi giovani anni, gli ha aggiunto un non so che di puritanismo autoritativo che lo fa abborrire da ogni discussione, guardare con occhio acuto e sicuro dove stia il dovere, e vistolo, camminare a passo franco verso di esso, quali che sieno gli ostacoli che trammezzino.

«Il dovere è per lui la formola suprema, la regola inflessibile a cui misurare tutte le sue azioni. Esso lo fa inchinare venerando innanzi a Dio; esso lo rende caritatevole e pronto al sacrifizio verso il prossimo; esso lo fa amoroso e previdente padre di famiglia, ed insieme egregio cittadino, pronto a dare le sostanze e la vita per la patria. Per effetto della sublime bontà del suo animo, dovere ed amore si confondono per lui in una medesima cosa. Egli, quello che dice, ama di farlo. Sotto alla rigidità delle sue maniere ed alla soldatesca asciuttezza de' suoi contegni e' nasconde tesori d'amore da disgradarne l'anima della donna più pietosa e meglio fornita di affetti. Questa profonda e contenuta bontà si manifesta raro nel laconismo delle sue parole, ma prova eloquentemente nelle opere, avvolte pur sempre in quel caro e prezioso appannamento, lasciami dir così, della semplicità e della modestia.

«Suo padre era un uomo duro, a cui per contro la pietà parlava poco al cuore, troppo invece l'interesse. D'un'onestà ancor egli a tutte prove, non avrebbe fatto torto d'un centesimo ad uomo al mondo, ma non avrebbe dato nemmeno un soldo, nemmanco un suo incomodo di mezzo minuto per fare un'ombra di bene ad un suo simile, cui non avesse ragione da amare, o temere, o sperarne ricambio; non si sarebbe peritato neppure un istante a rovinare chicchessiasi, un uomo ed anche un'intiera famiglia, per soddisfare le due passioni che più violentemente possedevano la sua anima fiera: l'amor del guadagno e quello della vendetta.

«Di quest'ultima sua feroce passione ben ebbe a sentirne gli effetti la famiglia del povero Pannini…

—Pannini, interruppe Antonio, quello stesso che ora ha sposato la figliuola del signor Biale?

—Lui no; il marito della signora Lisa a quel tempo era ancora in mente dei; e suo padre medesimo non era che un fanciullo; un fanciullo era eziandio, di pochi anni anzi minore, il signor Carlo, il padre della Lisa medesima; ma gli è appunto di quella famiglia che si tratta e dell'avo del vivente signor Pannini. Fra costui e il padre del signor Carlo esisteva da tempo una ruggine che sempre era venuta crescendo. Biale era segretario ed amministratore delle fortune copiosissime della nobile famiglia di Campidoro. Pannini ne era il maggiordomo. Tutte due erano da tempo legati a quella casa e ne curavano od ostentavano di curarne gli interessi, e tuttedue avevano delle benemerenze verso i padroni che davano loro un influsso che altri non avrebbe avuto nelle loro condizioni. Pannini, quando la famiglia, per gli sconvolgimenti politici dell'invasione straniera e del dominio francese in Piemonte, aveva emigrato di paese, aveva voluto associare la sua alla sorte de' suoi padroni, li aveva seguiti, e poichè essi erano ridotti a povere fortune dal sequestro e dalla vendita dei loro beni patrimoniali, esso li aveva generosamente mantenuti, senza che loro quasi se ne avessero ad accorgere, col frutto dei risparmi che egli aveva potuto fare in addietro ed aveva seco portati in esilio. Ma Biale non aveva dimostrata minor devozione per quella stirpe: quando i beni della medesima erano stati posti in vendita, egli aveva fatto così bene, che direttamente per sè, e mediatamente per alcuni suoi fidatissimi, erasi reso acquisitore di tutto quanto, giungendo persino a salvare la parte più preziosa e che avessero più cara dei loro mobili e delle loro domestiche memorie. Quando poi i Campidoro erano ritornati col loro re, egli modestamente era andato a riporli in possesso d'ogni parte di quel patrimonio che possedevano prima della tempesta della rivoluzione. Son codesti servizi di tali che non si dimenticano più, e Pannini e Biale furono pei Campidoro qualche cosa di meglio che un ragioniere ed un maggiordomo, quasi due membri della famiglia; la quale, a quel tempo, era ridotta a due uomini, il padre vecchio cadente oramai e un solo figliuolo non più giovane, marito dell'attuale vecchia marchesa, che sarà l'ultima a portare quel nome illustre, non avendo il Cielo benedetto di figli il suo matrimonio.

«In quella situazione in cui si trovavano era troppo facile che nascesse rivalità fra il signor ragioniere ed il signor maggiordomo, e che perciò, a scavalcarsi a vicenda, l'uno tendesse a danneggiar l'altro nello spirito dei padroni; e così avvenne di fatto. Pare anzi che il primo a cominciare siffatta guerra sia stato Pannini; e Biale, accortosene, ebbe la maggior rabbia che possa tormentare anima d'uomo e giurò di fargliela pagare.

«La brutta lotta durò assai tempo con varia vicenda. Il marchese padre pareva propendere pel maggiordomo, il figliuolo e specialmente la moglie sembravano invece più inchinevoli al ragioniere. Pannini aveva un torto che pare essere un difetto inerente all'organismo di quella famiglia, poichè fu quello che menò poi a rovina suo figlio, in quel tempo appena adolescente, e che io stesso ho già avuto occasione di notare nel suo nipote Gustavo: un amore straordinario dello sfarzo di comparire in pubblico colle mostre della ricchezza e dell'eleganza e un'alterigia sciocca verso chi presumeva da meno di lui per la fortuna e pel grado sociale; onde avveniva che tra i famigli egli avesse poco o punto simpatia, e tutti invece fossero più disposti a favorire il segretario, il quale in realtà superiore di grado al maggiordomo era in fatti meno di lui altezzoso e superbo, e di cui la vita modesta non offuscava gli sguardi a nessuno, non chiamava in alcun modo l'invidia e le maligne supposizioni della gente.

«Avvenne frattanto che il vecchio marchese ammalasse e di quella malattia che esser doveva l'ultima; il maggiordomo fu pieno di cure per esso; il suo ufficio era più adatto a concedergli di star presso il malato, e questi era così contento de' suoi servigi che quasi non voleva intorno altri più che il maggiordomo. Fece il marchese il suo testamento e questo mostrò gli effetti di quel suo stato presente dell'animo, poichè mentre Biale vi era appena nominato e col legato d'un ricordo da nulla, vi si contenevano invece per Pannini alcune espressioni le più lusinghiere di riconoscenza per quanto aveva egli fatto in beneficio dei Campidoro, e il lascito d'un vistoso legato.

«Quando, morto il marchese, Biale ebbe conosciuto il tenore di quel testamento, egli provò una rabbia come forse non aveva ancora provato mai. Amante come ti ho detto esser egli del guadagno, aspramente gli cuoceva la meschinità del regalo a lui lasciato, appetto alla vistosità di quello destinato al suo rivale; gli cuoceva del pari e fors'anco più la sconoscenza che aveva fatto passar sotto silenzio i servizi da lui resi ai Campidoro per magnificar quelli di quel rivale medesimo cotanto favorito. Gli parve una vera ruberia che s'era fatta a suo danno: ruberia di denaro e ruberia di considerazione; e il colpevole di questo misfatto era Pannini, il quale se ne vantaggiava e trionfava. L'odio suo contro di costui, il qual odio non aveva pur bisogno di crescere per diventare enorme, tuttavia s'infierì vieppiù. Pannini, da parte sua, ebbe la stoltezza e l'audacia di quasi menar vampo di questo suo successo; e i suoi contegni verso Biale presero un non so che di sprezzante, che erano pel padre di Carlo una continua e reiterata e sempre più pungente provocazione.

«Biale si racchiuse in un cupo silenzio, parve cedere innanzi al rivale, ma si raccoglieva invece per trovar modo di perdere affatto l'odiato suo nemico.

«Ti ho detto che il modo di vivere di Pannini era tale da destare anche le maligne supposizioni della gente, e le aveva destate difatti. I famigli susurravan piano, e le comari del quartiere ripetevano forte che a pagare tutto il lusso del signor maggiordomo non bastavano le paghe onestamente da esso guadagnate, ma concorrevano alcune particelle dei redditi della casa di Campidoro, abilmente da esso stornate ne' suoi conti. Il male e le colpe dei nostri nemici si credono molto agevolmente e con molto diletto; Biale credeva codesto di Pannini, e determinò provarlo ai padroni e vi si accinse con tutta la pertinacia e la sagacità dell'odio.

«Non saprei dirti come ci sia riuscito; il fatto è ch'egli raccolse certi documenti e li presentò al marchese ed alla marchesa, i quali ne furono convinti che il loro maggiordomo rubava a man salva. Il modo con cui Pannini aveva ottenuto dal vecchio padrone moribondo que' vantaggi e quelle note di encomio nel testamento non era piaciuto nemmeno all'allora vivente marchese ed a sua moglie, i contegni del maggiordomo di poi avevano sempre più indisposto l'animo loro verso di esso: onde, alle rivelazioni avute da Biale, senza voler scendere a spiegazioni di sorta, senza il menomo rimprovero nè altro, il marchese e la marchesa, pagato Pannini di quanto per ogni ragione gli spettasse, gli fecero significare che aveva da considerarsi aver cessato di essere loro maggiordomo.

«A Pannini fu come una tegola che gli fosse cascata sul capo passeggiando. Capì che la sua disgrazia la doveva a Biale, e se glie ne accrescesse odio è facile pensarlo: fosse l'accoramento per questa sua sventura o la rabbia di non potersi vendicare, il fatto è che non andò molto tempo ch'egli si morì lasciando suo figlio in povere fortune e nell'animo di lui l'odio verso il Biale, maggiore ancora di quello ch'egli non avesse.

«Questo suo figlio, che è poi il padre del marito della signora Lisa, aveva ancor egli, come e più che il padre, un grande amore per lo sfarzo e per lo spendere, e trovavasi disgraziatamente al verde. Venduto quel poco che gli era rimasto dell'eredità paterna, egli era andato ad arruolarsi in un reggimento dell'esercito, e in questa carriera militare, che egli abbracciava quasi per disperazione, doveva trovarsi a fronte il figliuolo del nemico di suo padre, il quasi a lui coetaneo Carlo Biale.

«Questi aveva scelto tale carriera parte per inclinazione, parte eziandio per torsi da casa, dove l'umore diventato acre, intollerante ed ingiustissimo di suo padre, gli rendeva quasi insopportabile il soggiorno. Dopo la cacciata del Pannini e ancora più dopo la morte di lui, Biale mentre di fisico pareva invecchiato di dieci anni, di morale era divenuto il più cupo, il più irritabile, il più scontroso degli uomini. Si sarebbe detto che una pena interna lo rodeva continuamente, e ch'egli non potendo nè scacciarla nè sfogarsene altrimenti, si travagliava maledettamente in una continua rabbia contro sè stesso e contro altrui; rabbia che tutta incessantemente andava a cadere sul capo del povero Carlo.

«Non ci volle poco a far consentire il padre ch'egli andasse soldato; ma l'intervento del marchese, e della marchesa sopra tutto, la quale andava pazza per le monture militari, valsero a vincere la sua renitenza. Carlo a diciott'anni entrò semplice soldato in un reggimento di fanteria; non volle esenzioni e privilegi nella vita del soldato, benchè la protezione dei Campidoro gliene avrebbe potuto procurare d'ogni fatta, e non si distinse da ogni altro che per zelo e buona condotta. Ma tuttavia la protezione della nobile famiglia non gli fu inefficace, perchè passato rapidamente pei gradi subalterni, quattro anni dopo d'essersi arruolato, egli era promosso ufficiale. Il figliuolo del disgraziato Pannini da molti più anni si impazientava alla soglia di questa ambita promozione nel grado subalterno di sergente. Ma in quella ecco avvenire a Carlo una sciagura e svelarglisi un tremendo segreto che doveva influire su tutta la sua vita di poi.

«Era egli di guarnigione a Genova, quando riceve una lettera pressante che lo invita a venire senza il menomo indugio a Torino, se vuole ancora vedere in questo mondo suo padre, assalito da una violenta malattia, e condannato senza rimedio. Il colonnello del suo reggimento, che di molto amava e stimava il giovane Carlo, gli dà tosto di suo capo il permesso di venirsene, ed egli accorre colla maggiore rapidità che gli era concessa. Arriva che suo padre è proprio all'agonia; ma nel moribondo è ancora tutta la sua cognizione, ed è ardente, pieno d'impazienza il desiderio di veder suo figlio, di potergli dire alcune ultime parole prima di chiuder per sempre gli occhi. Carlo s'accosta al letto, tremante, piangente, e quasi non riconosce suo padre in quel cadavere in cui non c'è più di animato che due occhi sbarrati, febbrili, riarsi da un fuoco interno, agitati e quasi direste paurosi. Il morente gli fa cenno accosti più che può l'orecchio alle sue labbra, da cui greve, affannato, penoso esce il rifiato interrotto dal singhiozzo della morte, e Carlo si curva sul giacente e questi con quel filo di voce che gli rimane sussurra:

«—Non morivo tranquillo senza svelarti una cosa che da tempo mi tormenta… che è un mio gran rimorso… che temo Dio non mi perdoni…

«Un singhiozzo l'interruppe: Carlo volle dire alcune parole di conforto, ma il padre accennando cogli occhi lo lasciasse parlare, temendo di non avere il tempo di finire la fatale confidenza, si affrettò a soggiungere:

«—Pannini era innocente… Sono io che l'ho rovinato… io che l'ho fatto morire nella miseria calunniandolo… «Carlo fece un moto di sorpresa che poteva anche dirsi di orrore.

«—Ah!… potessi riparare… balbettò ancora il morente in cui la voce veniva meno, poi torse gli occhi, agitò le labbra per pronunciare altre parole, ma nessun suono ne uscì più; una lieve contrazione ne corse i lineamenti, e il capo ricadde abbandonato sul guanciale. Era morto.

«Pensate qual esser dovesse l'animo dell'onesto, intemerato Carlo, in presenza del cadavere di suo padre dopo una rivelazione siffatta!

«Il pensiero che subito sorse nella dolorosa confusione ond'era stata invasa la sua mente all'apprendere quel fatale, inaspettato segreto, siffatto pensiero era quello cui avevano accennato le ultime parole pronunziate da suo padre, le quali rivelavano di certo il desiderio con cui egli era morto; era quello che non poteva a meno di sorgere in un'anima così onesta: riparare!

«Ma come farlo? In qual modo e in qual misura? Carlo stette innanzi a suo padre morto, le mani serrate con forza di contrazione muscolare, muto, immobile, pallido, fissando quel cadavere come se da quei lineamenti distesi dalla mano della morte, da quelle labbra chiuse per sempre gli dovesse venire tuttavia un'indicazione del come eseguire il dover suo, poichè egli non aveva menomamente indugiato a sentire che quello era oramai un suo impreteribile dovere.

«Che notte fosse quella ch'egli passò dopo la morte del padre e la terribile rivelazione, egli solo potrebbe dirlo, e non disse mai a nessuno; ma il mattino la sua decisione era presa. Per prima cosa si recò dai signori di Campidoro ed apprese loro tutta la verità, perchè nel loro concetto fosse riabilitata la memoria del morto maggiordomo. Egli aveva sentito che di due sorta doveva essere la riparazione da farsi al calunniato: una morale, distruggendo il falso giudizio che di lui aveva recato chi l'aveva creduto colpevole; l'altra materiale, risarcendo per quanto a lui fosse possibile la famiglia di quella vittima, dei danni finanziari che aveva sofferto. Dopo aver dunque manifestato il vero al marchese ed alla marchesa di Campidoro, fece due parti dell'eredità che gli aveva lasciato suo padre ed una fece pervenire misteriosamente al figliuolo di Pannini. Verso di costui egli non aveva nessun debito di svelare la colpa di suo padre: purchè lo risarcisse ampiamente di quello che aveva perduto. Gli fece pervenire la vistosa somma come il pagamento d'un debitore di suo padre, che desiderava rimanersi sconosciuto. Pannini accolse questo come un bel regalo della sorte, e non cercò altro, non sospettando nemmeno che la cosa potesse venire da Biale; e siccome era sempre del medesimo umore spendereccio, si diede a farla alla grande con quei denari, per quanto gli consentiva la vita di subalterno militare. Avrebbe rinunziato a questa uggiosa esistenza, ma i Campidoro volendo alla loro volta risarcire in alcun modo il figliuolo del loro antico maggiordomo, ottenevano a poco andare anche per lui le spalline da ufficiale, ed egli trovandosi assai leggiadro e piacente sotto la montura, continuava volonteroso. Poco dopo si univa in maritaggio con una bella ragazza che gli arrecava una discreta dote, e ne nasceva un figliuolo, che è il presente Gustavo Pannini.

«Ma volle sventura che un giorno Carlo Biale, promosso ad un grado superiore, fosse cambiato di reggimento, e mandato in quello appunto in cui era Pannini. Nell'animo di costui non era punto scemato l'odio che nutriva verso il figliuolo del nemico di suo padre, di cui non sospettava, e non avrebbe creduta mai la generosa azione a suo riguardo.

«La severità di modi, l'asciutto riserbo di Carlo dispiacquero sempre più a Pannini, il quale non lasciava occasione di scoccare qualche frizzo mordace contro di lui: nè valse a placarlo il modo degno e leale con cui Carlo trattava; e tutti, in breve, nel reggimento furono persuasi che una gran ruggine era fra quei due, e che sarebbe bastata una lieve circostanza a far nascere fra loro una collisione: questa circostanza Pannini tentava ad ogni modo di far nascere, e Biale invece con pari cura e con successo migliore faceva ad impedire. Di codesto, come accade, fra gli ufficiali del reggimento si faceva un gran discorrere, e chi temeva per l'uno e chi per l'altro, con discussioni calorose che minacciavano persino produrre le più triste conseguenze; gli amici di Pannini cominciavano a tacciare di pusillanimità la prudenza di Biale, e i parteggiatori di quest'ultimo battezzavano per impertinenza la volontà provocatrice del primo. In verità Pannini aveva molti più aderenti che non Carlo, il quale, venuto l'ultimo nel reggimento, colla serietà del suo carattere allontanava da sè la famigliarità e la confidenza che sogliono aver luogo fra camerati.

«Le cose erano a questo punto, quando la circostanza tanto aspettata da Pannini avvenne pur troppo. Si era in piazza d'armi alle manovre, e Biale in mancanza dell'aiutante maggiore faceva egli siffatto servizio. In un movimento qualunque, Pannini, che comandava un pelottone, si sbagliò e Carlo l'ebbe ad ammonire: era un movimento importante, occorreva fosse eseguito rapidamente, e si era sotto gli occhi del colonnello severissimo, che avrebbe acerbamente rampognato l'errore: per ciò le parole di Biale furono forse più vivaci ed impazienti che non sarebbero state in altro momento, e Pannini sentì montarsi la stizza, offeso il suo orgoglio, che era cotanto, nell'essere rimbrottato in presenza del reggimento. Si fermò egli fuori delle righe, al posto in cui si trovava, e rispose alcune insolenti parole al suo correttore; Biale rimbeccò ordinandogli, come superiore, tacesse ed obbedisse: in quella soprarrivò il colonnello, che volle sapere ciò che accadesse: informatone brevemente da Carlo, il comandante del reggimento, il quale in siffatte cose era scrupolosissimo, disse forte colla sua voce chiara di comando:

«—Sottotenente Pannini, cinque giorni di arresto nella propria camera.

«Pannini tornò al suo posto pallido e mordendosi le labbra.

«—Biale me la pagherà: l'udirono mormorare fra i denti i suoi vicini.

«Mentre il sottotenente, era agli arresti, i suoi amici andavano dicendo a bassa e ad alta voce che appena uscitone, Pannini avrebbe domandato ragione a colui che era stato causa fosse così punito; e Biale quando questa voce gli venne all'orecchio si contentò di fare un sorriso e di crollar le spalle. Invero il signor Carlo non aveva nessun'apprensione da provare per un simile scontro, tra perchè era coraggiosissimo innanzi ad ogni pericolo, tra perchè nel maneggio d'ogni arma andava dei primi nel reggimento e di molto innanzi al suo avversario.

«La cosa avvenne infatti com'era stata prevista. Il giorno stesso in cui erano finiti gli arresti di Pannini, questi alla prima radunata degli ufficiali investiva aspramente il suo nemico e lo sfidava a duello. Biale s'era proposto d'esser calmo e di non accettare la tenzone, riparandosi dietro la buona ragione che avendo parlato a Pannini in qualità di superiore e per cose di servizio, non poteva essere il caso di darne conto con un duello, ma come si fa ad esser calmi quando un uomo vi provoca insolentemente in presenza d'una frotta di compagni che si sanno pronti a prendere la vostra moderazione per un meno nobile sentimento, e si ha il sangue di venticinque anni nelle vene? Biale dimenticò tutti i suoi propositi di mitezza innanzi alla tracotanza del suo avversario e, accettato il duello, volle che fosse alla spada, l'arma degli scontri più seri, e con tali condizioni che lo rendessero pericolosissimo.

«—Così, pensava egli, l'avrò finita una buona volta con questo matto.

«Le cose furono intese appuntino, ed il giorno dopo doveva aver luogo il combattimento. Appena calmato un poco il bollore del sangue, nel signor Carlo era tosto entrato già un rincrescimento di quanto ora avvenuto, e s'era già pentito dell'aver così facilmente ceduto all'impeto del suo momentaneo risentimento. Che? Aveva egli da battersi col figliuolo dell'uomo che doveva a suo padre la rovina? Così, se il padre aveva danneggiato questa famiglia nelle sostanze e nella fama, egli, Carlo, l'avrebbe priva del suo unico attuale sostegno? Come ti dissi, Pannini erasi ammogliato ed era da pochi mesi padre d'un bambino; Carlo pensò a questo meschinello di fanciullo, ed avrebbe dato non so che cosa per evitare quello scontro… Ma sì, come s'aveva da fare oramai? Tutto era stabilito, l'ora fissata, preso il convegno: per ritrarsene ci voleva ben altro coraggio di quello che Carlo si credeva d'avere. Affrontare la lama dell'avversarlo era un nonnulla per lui, ma affrontare i severi giudizi, lo scherno, il disprezzo di tutto il reggimento, che sapeva non gli sarebbero mancati quando egli si fosse tirato indietro, era troppo, e non gli pareva affatto di sentirsene la forza.

«Era già notte, e Carlo, solo nella sua camera, preparava alcune carte e disponeva di alcune sue cose nella previsione d'una possibile disgrazia che gli toccasse nel duello la mattina a venire, quando il soldato che gli faceva da domestico venne ad annunziargli che una signora con fitto velo sul volto domandava con viva istanza parlargli. Carlo, che non indovinava menomamente chi esser potesse, ordinò che fosse introdotta. Entrò una donna che pareva appena potersi reggere in piedi, tanto era vacillante il suo passo, e di cui le mani tremavano come foglie mosse dal vento. Mentre Biale la salutava rispettosamente e muoveva verso di lei, la dama si sorresse al mobile che trovò più vicino colla sembianza di chi ha proprio esaurite tutte le sue forze.

«—Signora, disse Biale con accento incoraggiante, con chi ho l'onore di parlare, e che cosa mi vale il favore d'una sua visita?

«La signora, il cui petto ansimava penosamente, levò il velo che discendeva dal suo cappellino e mostrò il viso pallido, disfatto, inondato di lagrime della giovane moglie di Pannini.

«Biale diede indietro d'un passo meravigliato e turbato.

«—Signora, balbettò egli, non sapendo affatto che cosa si avesse da dire: signora, lei qui!….

«La donna per tutta risposta si lasciò cader seduta, e, coprendosi col fazzoletto la faccia, ruppe in un pianto dirotto ed angoscioso.

«Carlo stette un poco dritto innanzi a quella donna, assai imbarazzato di quel che avesse da dire o da fare; ma poichè alcun tempo era trascorso in silenzio ed ei sentiva che qualche parola gli toccava pure di rivolgere a quella desolata, cominciò con voce impressa di riguardo e di pietà:

«—Signora, si calmi, faccia coraggio, la prego… La sua venuta mi fa pensare ch'ella creda ch'io possa qualche cosa per lei; mi dica ciò che ha da comandarmi, ed io la accerto che mi farò una premura di servirla in tutto quanto mi sarà possibile.

«La donna si levò con impeto, si rasciugò in fretta le lagrime, e giungendo le mani come fa chi supplica con ardore, disse con accento pieno di commozione:

«—Sì, ella può molto per me. Ella può tutto, ed io sono venuti a scongiurarla non voglia gettar nella rovina e nel dolore una famiglia.

«Per farla breve, la moglie di Pannini era venuta a pregare il signor Carlo di non battersi col marito di lei; e lo fece con tante preghiere, con tanta insistenza, con tali ragioni, che un cuore anche meno umano di quello di Biale ne sarebbe rimasto commosso. Ma quello che la povera donna domandava pareva all'avversario di Pannini impossibile: come si fa a disdire un duello senza che ne sia offeso l'onore, massime trattandosi di militari? Egli promise che avrebbe fatto di tutto per risparmiare la vita del suo nemico; ma codesta promessa non valse a tranquillare quella povera anima sgomenta di moglie e di madre.

«Quando sarebbero stati a fronte nel giuoco tremendo in cui si tratta di salvare la propria vita colla morte altrui, che sì che avrebbe avuto ancora molto potere una tale promessa! Ella aveva bisogno di sapere che non sarebbero andati sul terreno; ella si rivolgeva a quella generosità e pietà dell'animo che sapeva in Biale cotanta; ella lo pregava in nome d'un bambino che sarebbe rimasto orfano, gli svelava un doloroso segreto della sua famiglia, ed era che il marito col suo soverchio spendere aveva ormai consumato tutte le sue e le sostanze della moglie, così bene ch'egli morendo avrebbe lasciata la vedova e il figliuolino nella miseria. Avrebbe il signor Carlo voluto tanta jattura? Tu sai che eloquenza disordinata, fuori di tutte le regole, ma efficace, ha una donna commossa, che vuole arrivare a uno scopo, una donna che prega per ciò che ha di più caro al mondo. Biale aveva le lagrime agli occhi, ma non poteva dare alla supplicante una risposta qual essa desiderava.

«—Ma vuol'ella adunque, finì egli per esclamare, che io sacrifichi alla sua tranquillità il mio onore?

«—Voglio che non mi tolga il padre di mio figlio, l'unico sostegno che mi rimanga.

«E poichè vide che Carlo rimaneva irremovibile, ella con atto ed aspetto disperati partissi, ma lanciando sul giovane queste parole come una maledizione:

«—Dio non le possa perdonar mai, se ella avrà ad essere l'assassino della mia famiglia.

«Biale rimase solo sotto l'impressione di quelle crude parole che gli penetrarono profondo nell'anima.—L'assassino di quella famiglia!—Tutta notte sentì intronare nel suo cervello quest'orribile grido. Era dunque fatale che quelli del suo sangue fossero funesti ai Pannini? Quel povero bambino, quando fosse rimasto orfano, con che forza avrebbe gridato al cielo vendetta contro di lui, come aspramente il rimorso avrebbe travagliato il cuore di Carlo! Aveva egli riparato in parte al danno recato a quella famiglia da suo padre per recargliene egli stesso uno maggiore? Andar sul terreno era un esporsi a diventar omicida; la donna sconsolata che era venuta a supplicarlo aveva avuto ragione di non contentarsi della promessa da lui voluta dare di risparmiare i giorni dell'avversario; ben sentiva egli stesso che in faccia alla punta della spada nemica difficilmente sarebbe stato padrone di sè. Dunque?… Non aveva egli verso il figliuolo della vittima di suo padre doveri diversi e maggiori che non verso ogni altro?… Quando egli fosse giunto a persuadersi che questo dovere lo aveva, l'avrebbe compito senza fallo, qualunque cosa gli avesse costato; ma respingeva questa persuasione. Lottò lungamente; alla fine vinsero la pietà e quel sentimento esagerato del suo debito verso Pannini, cui la sua anima di probità dilicatissima aveva concepito: determinò che non avrebbe a niun conto incrociato la spada col figliuolo dell'antico maggiordomo di casa Campidoro. Giunto il mattino, scrisse due lettere: una ai suoi padrini, l'altra al suo avversario; diceva in entrambe che più mature considerazioni fatte lo avevano deciso a non battersi altrimenti, che molto gli doleva quanto era avvenuto fra lui e Pannini; ma di quanto riguardava il servizio, egli superiore di grado non aveva da renderne ragione nessuna, e se nei fatti suoi v'era alcuna cosa all'infuori di ciò che avesse offeso il sottotenente, egli, stato sempre lontanissimo dall'avere una simile intenzione, non esitava a dichiarare aperto la sua maggiore stima per l'avversario.

«Questo diportarsi di Carlo fu uno scandalo per tutto il reggimento, che lo tacciò senza esitazione per atto di viltà. I padrini di Biale accorsero strepitando al suo alloggio: ma un uomo come quello non aveva potuto risolversi ad un passo di tal fatta senza molto travaglio; appresero ch'egli era in letto con una febbre gagliarda e trovarono nell'anticamera il suo fido soldato di servizio che per ordine del medico non lasciava penetrare nessuno presso di lui.

«Per una settimana, durante cui Biale fu ammalato, Pannini trionfò presso i compagni, di cui non uno era disposto ad approvare la condotta del signor Carlo: non una visita venne a dimostrare al malato la simpatia e il riguardo di alcuno de' suoi compagni d'arme. Solo una donna venne copertamente una sera a ringraziarlo piangendo di riconoscenza: era la moglie di Pannini, la madre di Gustavo. Tutta l'ufficialità del reggimento aveva sentenziato che Biale era indegno di appartenere al loro corpo, e che bisognava assolutamente fargli prendere le sue dimissioni.

«Quando Carlo si presentò la prima volta dopo ciò ai suoi commilitoni, tutti gli volsero le spalle col più appariscente disprezzo, nessuno gli diresse la parola, ed a ciò ch'egli disse non fu risposto, come se da nessuno fosse udito: egli divenne più pallido di quel che già era in seguito a quella settimana di malattia, si morse le labbra, ma incrociate le braccia al petto, stette immobile senza più aggiunger verbo.

«Sopravvenne il colonnello, il quale naturalmente era stato informato di tutto. Per ragioni di servizio dovette egli rivolgere la parola a Biale, ma lo fece con più asciutta brevità e con burbero accento più che non mai prima, e innanzi di partirsi gli disse bruscamente che desiderava parlare con lui e lo attendeva ad una data ora in casa sua.

«Quando Carlo si recò dal colonnello, questi lo accolse nel suo salotto, dritto innanzi al camino, con una faccia delle più accigliate. Lasciatolo appena varcar la soglia, il colonnello interrogò Biale con impetuosa vivacità:

«—È egli vero ciò che apprendo sul suo conto, signor luogotenente?

«—Che cosa? domandò a sua volta Biale con rispetto, ma con fermezza e in contegno tutt'altro che di colpevole.

«—Che lei, sfidato da Pannini, al momento del duello ha rifiutato di battersi?

«—È vero: rispose con serena semplicità il signor Carlo.

«Il colonnello diede uno scossone e fece una fiera alzata di capo come cavallo che adombra.

«—Diavolo! esclamò egli, mandando lampi dagli occhi. Questo è grave… molto grave… Ed io che ho sempre stimato in lei un buon ufficiale!… Alla croce di Dio, avete voi paura?

«Biale arrossì fino alla radice dei capelli: ma i suoi occhi mostravano che non era di vergogna quel suo rossore.

«—No, signor colonnello, non ho paura: diss'egli fermamente, ma senza tono di millanteria.

«—Orsù, vediamo un poco… Qui sotto ci dev'essere una qualche ragione, ed io non sarò malcontento di saperla.

«—Sì signore, la ragione c'è: una ragione che mi rende la vita del signor Pannini più sacra di qualunque altra, ma questa ragione è un segreto, ed io non lo posso dire a nessuno, nemmanco a lei.

«La faccia del colonnello s'imbrunì minacciosamente.

«—Eh via, queste son favole: diss'egli crollando il capo con espressione di molto malcontento. Crede lei che la cosa possa passar così liscia senz'altro?

«Tacque, come per aspettare una risposta: Carlo rimase immobile e taciturno.

«—Avrà visto che accoglimento grazioso le hanno fatto i suoi compagni…

«Biale ebbe una dolorosa contrazione del volto, come uomo a cui si tasta aspramente una piaga; ma tornò tosto nella sua impassibilità.

«—Ho visto, diss'egli freddamente.

«—Ed hanno ragione, corpo di bacco! proruppe con collera il colonnello. Sa ella, un ufficiale che rifiuti una soddisfazione d'onore, che cosa gli resti di meglio da fare?

«—Dare le sue dimissioni, rispose freddamente Carlo.

«—Lei lo ha detto: disse con forza il colonnello, che pareva perdere la pazienza.

«Biale s'inchinò.

«—È ciò che faccio fin da questo momento. Le manderò la mia domanda per iscritto quest'oggi medesimo.

«Il colonnello aggiunse seccamente:

«—Procurerò che il Ministero soddisfi il più presto possibile il suo desiderio.

«Fece un lieve cenno del capo per indicare che il colloquio aveva da esser finito, e Biale uscì di là col tormento maggiore e la rabbia repressa che uomo possa soffrir mai.

«—Anche il colonnello mi disprezza!…. pensava egli. Oh! non ho io ripagato abbastanza il debito di mio padre?

«La notizia che Biale aveva domandata la dimissione corse sollecita per tutto il reggimento: si rise alle sue spalle e si dissero di lui le più schernevoli parole del mondo.

«Alla prima riunione degli ufficiali che ebbe luogo di poi, Carlo presentandosi ebbe un accoglimento ancora più insultante ed offensivo di prima. Ogni sguardo egli se lo sentiva addosso oltraggioso come una ceffata: una voce chiara e spiccata disse forte:

«—Eccolo qua il codardo.

«Carlo camminò con passo risoluto verso colui che aveva pronunciate cotali parole: era egli uno dei più arditi e battaglieri uffiziali dell'esercito. Tutti i presenti si volsero a prestar attenzione a ciò che stava per succedere.

«—È egli a me, domandò Biale con voce fremente ma contenuta, ch'ella ha dato del codardo?

«Quell'altro lo guardò dall'alto al basso con supremo disprezzo.

«—A lei: rispose villanamente.

«Carlo non fu più padrone di sè: gli era da parecchi giorni che soffriva cotanto, e la sua anima inasprita non ne poteva più, e il suo sangue agitato dalla febbre gli bolliva irrefrenabilmente. Alzò la mano ed un solenne schiaffo risuonò sulla guancia dell'ufficiale che aveva detta quella parola: codardo.

«Naturalmente il percosso fece per gettarsi sul suo offensore, i vicini s'intromisero perchè la lotta non si cambiasse in ignobile pugillato, e, senza lasciar tempo in mezzo, i due contendenti, accompagnati da quasi tutti gli ufficiali del reggimento si recarono fuori della città a battersi colla sciabola medesima che avevano allato.

«Ad una così seria offesa non poteva corrispondere che un seriissimo duello. Biale aveva ancora il sangue eccitato e non aveva più campo ad ascoltare voce alcuna di ragione. Si gettò contro l'avversario con tutto l'impeto d'un uomo che vuole la morte di chi gli sta di fronte, mentre l'avversario con pari ardore si slanciava contro di lui. Fu un duello breve, ma terribilissimo per furore dei combattenti. Biale più aitante di persona e più destro rimase vincitore: per una finta al capo indusse il nemico a scoprire il petto, ed allora con rapida mossa partendo a fondo lo colpiva in pieno petto con una puntata e lo passava fuor fuori.

«Fino allora la sua esaltazione feroce era durata in Carlo; a quel punto cessò ad un tratto. Nel volersi ritrarre indietro, dopo tirato il colpo, egli senti la sciabola trattenuta, e pesare grave su di essa il corpo dell'avversario. Nello stesso tempo i suoi occhi, fissi sul volto del nemico, videro i lineamenti di costui contrarsi, poi distendersi tosto, le labbra aprirsi e non mandare che un'esclamazione soffocata, ed un pallore di morte spargersi sulla fronte e sulle guancie dell'infelice. Carlo gettò un grido e spiccò un salto all'indietro, abbandonando la guardia della sua sciabola. Il corpo dell'altro ufficiale non più sostenuto cadde stramazzone per terra. Tutti, eccetto Biale, gli furono attorno. Era morto.

«L'uccisore stava là, quasi più pallido dell'ucciso, ch'egli guardava fisso con occhi sbarrati che esprimevano il più profondo orrore. Quando gli fu pôrta la sua sciabola sanguinosa estratta dal cadavere, e' la ruppe al suolo e ne gettò i pezzi lontano.

«Egli si allontanò solo di colà e lungamente si aggirò per la più deserta campagna. S'era fatto omicida volontario ed un tremendo rimorso gli tormentava l'animo: per risparmiare Pannini aveva ucciso un innocente: a cagione di costui adunque egli vedeva spezzata la sua carriera, fatto incerto il suo avvenire, chè nella vita militare non voleva più continuare a niun patto, e macchiate le mani di sangue.

«Dopo quest'orribil fatto i suoi compagni gli avevano restituita la loro stima: ma egli aveva orrore di sè medesimo. Fu mandato per tre mesi agli arresti in fortezza, ed egli sopportò la pena, a suo giudizio troppo mite, con una dolorosa rassegnazione. Il colonnello nel frattempo gli fece capire che se avesse voluto ritirare la domanda della dimissione, ciò vedrebbero molto volentieri e il reggimento ed egli stesso; Carlo rispose che non avrebbe più cinto una spada finchè non si trattasse di combattere un nemico straniero.

«Tornato alla esistenza di semplice cittadino, cercò un impiego privato e l'ottenne presso una casa di commercio. Più tardi prendeva moglie, e ne aveva un'unica figliuola, che è la signora Lisa.

«Quanto il signor Carlo amasse moglie e figliuola è superfluo il dirlo: eppure questo grandissimo affetto non lo impedì che, scoppiata la guerra dell'indipendenza in quel meraviglioso anno che fu il quarantotto, egli non avesse più bene finchè non fosse riammesso nell'esercito a spartire con esso i rischi di quella gloriosa lotta. Chiese l'antico suo grado e l'ottenne; ed a quarant'anni cominciò la guerra cogli spallini da luogotenente.

«La Lisa aveva allora poco più d'un lustro, ed era la più cara ed intelligente bambina che si potesse vedere. Ella piangeva, serrandosi colle piccole braccia al collo del padre; sua madre piangeva reclinando il capo addolorato sulle spalle del marito: ma nulla valse a smuovere il signor Carlo dal fatto proposito. Abbandonò moglie e figliuola, ed ebbe la fortuna di essere uno dei primi a varcare il Ticino e calpestare il suolo lombardo.

«Vedi stranezza del caso! Nel giugno, dopo la battaglia di Goito, dove il comandante del battaglione a cui Biale apparteneva cadde gloriosamente, fu nominato un nuovo maggiore: e questo che veniva da un altro reggimento era nientemeno che Pannini; il quale, continuata la carriera militare, trovavasi in tale occasione promosso a quel grado.

«Il nuovo maggiore, al primo presentarglisi degli ufficiali del battaglione, riconobbe tosto Biale; onde, non manifestato nulla in presenza degli altri, quando furono in sul congedarsi, egli pregò l'antico suo collega di volersi soffermare un momento con lui. Rimasti soli, gli disse che aveva gran bisogno d'una franca spiegazione da colui che al tempo della loro contesa era suo superiore, ed ora trovavasi suo subalterno. Col fatto Biale aveva dimostro che non era per nessun ignobile motivo ch'egli aveva rifiutato di battersi con Pannini, e il colonnello a costui aveva ripetute di poi le parole dettogli da Biale medesimo: che una segreta ragione gli aveva impedito d'incrociare il ferro con colui che l'aveva sfidato; Pannini ora, al momento di veder cominciare una nuova fase di necessariamente seguitate e frequenti attinenze fra di loro, desiderava sapere questa segreta ragione, od almeno conoscere se in essa v'era cosa alcuna che leder potesse il suo onore e la sua delicatezza.

«Senza punto esitazione Biale s'affrettò a dichiarare che quest'ultimo supposto non reggeva menomamente, e ch'egli di chi gli parlava aveva sempre avuto piena stima; ma poi circa allo svelare questo segreto motivo egli esitò, apparve manifestamente impacciato, e finì per dire che la memoria della stretta relazione che passava un tempo fra le loro famiglie e dell'infanzia passata insieme in gran parte, gli faceva considerare Pannini quasi come un parente e lo avea reso ripugnantissimo ad una lotta fratricida con esso.

«Il padre di Gustavo si contentò di questa spiegazione; gli anni lo avevano fatto più calmo e più assennato anche lui: tese francamente la mano al suo antico avversario, e disse che aveva riconosciuto in appresso come in quella circostanza la ragione non istesse dalla sua parte, che molto eragli doluto d'esser egli stato causa delle disavventure che n'erano successe a Carlo, che glie le perdonasse, e poichè egli aveva ricordato le antiche attinenze e l'antica amicizia d'infanzia volesse anche da canto suo far rivivere quel passato e considerar lui come suo antico camerata ed amico.

«Biale rispose, non senza commozione, a quel franco e leale parlare, ch'egli avea tutto dimenticato; che d'altra parte, egli non aveva mai dato colpa a lui dei tristi avvenimenti che gli erano capitati, ma piuttosto alla sorte, e che nulla eragli più caro di risuscitare l'antica domestichezza e l'antica affezione.

«Così fu in realtà, e da quel punto ogni rancore fra quelle due famiglie fu spento; cosa di cui non poco si rallegrò il bravo cuore del signor Carlo.

«Il quale al fuoco delle battaglie erasi mostrato uno de' più valorosi. Dopo il primo scontro a cui prese parte il battaglione, sotto il comando di Pannini, questi domandò ed ottenne pel suo antico rivale la medaglia d'onore pel valor militare; e ad un fatto d'armi posteriore, Pannini domandava ed otteneva del pari pel valoroso Biale il grado di capitano nel medesimo battaglione.

«Le loro condizioni domestiche erano quasi identiche, ed uguali le apprensioni e i timori del loro cuore di padre. Pannini aveva un figliuolo di dodici anni incirca, di cui era solo sostegno, ed a cui morendo non avrebbe lasciato che debiti; senza pur cessare d'affrontare imperterrito ogni rischio, egli temeva la morte che avrebbe lasciato solo al mondo in sì infelici condizioni il figliuolo. Biale aveva ancor egli una moglie e una figliuola dilettissime, e con pena pensava egli pure alla sorte di quelle care persone, quand'egli soccombesse. Vennero a promettersi scambievolmente che quello dei due sopravvivesse non avrebbe abbandonato la famiglia del caduto e glie ne terrebbe luogo per quanto gli fosse possibile.

«Dopo ciò Pannini, il quale da qualche tempo sembrava agitato da funesti presentimenti, fu più tranquillo, e con maggiore audacia ancora s'espose ai pericoli, pur rampognando il capitano di troppa imprudenza. La disgraziata campagna del quarantotto finì senza che nè l'uno nè l'altro fossero rimasti vittima; il signor Carlo era stato ferito bensì, ma lievemente, e dopo poco tempo aveva potuto riprendere il comando della sua compagnia.

«Durante l'armistizio, il capitano era venuto ad abbracciare la moglie e la figliuola, e Pannini, accompagnatolo in una licenza di pochi giorni, gli aveva fatto conoscere suo figlio Gustavo cui faceva educare in un collegio convitto di provincia. Il giovinetto aveva una cert'aria d'intelligenza ed un aspetto di franchezza che molto erano andati a sangue di Biale. Il maggiore aveva detto a suo figlio additandogli il capitano, che in caso egli morisse, avesse poi a considerare costui come suo padre: e il ragazzo s'era gettato al collo del genitore con tanta effusione ed aveva detto con tanta sensitività: «Oh no, papà, non morire, non dirlo nemmanco!» che il signor Carlo n'era stato commosso ed avea preso ad augurare assai bene del carattere e del cuore di Gustavo.

«I presentimenti di Pannini ebbero sfortunatamente ragione nella corta e disastrosa campagna del quarantanove. A Novara, in sul primo avanzarsi verso il nemico del suo battaglione, il maggiore cadeva colpito in pieno petto da una palla tirolese. Raccolto sanguinoso egli non fece che chiamare con tutta istanza presso di sè il capitano Biale. Venuto costui, il ferito gli disse a stento colla voce che gli mancava, mentre ad ogni parola il sangue gli sgorgava a ondate dalla bocca.

«—Ricordati di mio figlio…. per me la è finita… mio figlio… mio figlio… per carità!

«Lo sguardo inquieto, convulso, supplicante diceva assai più d'ogni parola.

«Biale gli prese una mano e stringendola pronunziò con accento solenne:

«—Sta tranquillo: gli farò da padre; te lo giuro!

«Il moribondo, chè oramai gli era tale, si rasserenò; i suoi occhi, chè la parola non poteva più, ringraziarono con effusione; fu portato alle ambulanze e dopo pochi minuti morì.

«Biale tornò incolume, e riabbracciato la moglie e la figliuola, corse al collegio a vedere Gustavo. Gli narrò la morte gloriosa del genitore, e gli confermò ch'ei non l'avrebbe abbandonato mai. Il maggiore, come già ti dissi, non lasciava che debiti; il signor Carlo sopperì del proprio alle spese degli studi del giovinetto, il quale ogni vacanza veniva a passarla in casa del capitano come se fosse la casa paterna. Quando si trattò di scegliere per Gustavo una carriera, il capitano lo lasciò libero affatto; solamente gli fece notare come il suo utile, ed anco il suo dovere, richiedessero che piuttosto s'appigliasse ad una di quelle professioni che non vogliono tanto lungo il tirocinio, per dar compenso di guadagni a chi le abbraccia. Nell'opinione del bravo capitano, Gustavo aveva l'obbligo di venir pagando a poco a poco, a seconda che guadagnasse, i debiti lasciati da suo padre, e quindi, quanto più presto egli sarebbe riuscito a far fruttare l'opera sua, e tanto meglio sarebbe stato. Gustavo scelse il traffico bancario in cui sognava più rapidi e più vistosi i guadagni, entrò negli uffizi del borsiere Bancone, seppe guadagnare le buone grazie del primo commesso fatutto, il signor Padule, e col tempo divenne segretario della banca.

«Intanto il signor Carlo aveva nuovamente rinunciato alla divisa ed al grado militare: cessata la guerra, egli aveva voluto tutto ridonarsi agli affetti ed agli interessi domestici. Colla dote recata dalla moglie e con quello che egli aveva avanzato delle paterne sostanze la famiglia possedeva una modesta agiatezza, in cui sembravagli di poter vivere tutti tranquilli e felici senz'altro; e così sarebbe avvenuto se poco tempo dopo loro non fosse piombato addosso un grandissimo dolore: la morte della madre di Lisa. Il signor Carlo ne soffrì di molto, e sulla sua faccia ordinariamente severa si stese quella tinta di profonda mestizia che più non l'ha abbandonata di poi. Suoi soli amori gli rimasero Lisa, primo ed immenso affetto, poi Gustavo. Anche questi due giovanetti s'amarono, e più e in modo diverso che non fratello e sorella. Se ne avvide il padre, e pensò che un maritaggio fra di loro avrebbe fatto la felicità dei due giovani e quindi anche la sua. Gustavo non possedeva niente fuorchè i debiti di suo padre che aveva ancora da pagare, ma era laborioso, riconoscente, di carattere buono ed amava con passione la Lisa: era bensì alcun poco intinto ancor egli della pece di suo padre e di suo nonno, vale a dire, mostravasi troppo ambizioso di sfoggio e troppo ghiotto di ricchezze: ma pure tollerava con paziente coraggio la povertà delle sue fortune; eppoi, miglior merito di ogni altro in lui, miglior ragione di tutte, Lisa lo amava…. Il capitano li unì; ed ora vivono tutti insieme le più beate creature del mondo, e dirò, senza tema d'errare, le migliori altresì.

«E adesso dubiti tu ancora, mio caro Vanardi, che il capitano sia uomo da non darsi pensiero delle disgrazie d'un pover'uomo, padre di famiglia?

—No, rispose Vanardi. Ora ho anzi speranza, e di molto; e te ne ringrazio, Giovanni, come di cosa già fatta. Sarò computista (e trasse un sospiro): ma almeno avrò assicurato il pane della mia famiglia…. Ed a proposito di pane, bisogna appunto ch'io vada a comprar qualche cosa da pranzo pei miei poveri bimbi, poichè mercè tua lo posso. Addio. T'aspetterò dunque domani con una risposta del come il capitano Biale e sua figlia abbiano assunta la protezione di questo povero individuo.

E s'avviava per andarsene, quando si ricordò di quell'altro motivo che l'aveva condotto dall'amico, quello cioè di narrargli le impressioni del suo padrone di casa alla vista del ritratto di madama Orsacchio, partecipargli i suoi sospetti e consultarlo sul da farsi in benefizio di quell'infelice ch'egli non dubitava fosse vittima dei peggiori trattamenti del crudele marito.

Selva non aveva conosciuto nè i Cioni nè gli Orsacchio, ma sapeva tutte le vicende di quell'avvenimento dalla bocca di Vanardi medesimo, e non era poco l'interesse che egli aveva preso alla sconosciuta sorte della povera Gina.

Udito ciò che in questo momento glie ne disse Antonio intorno alla visita del signor Marone, Giovanni rispose che quel fatto non era bastevole per dar fondata speranza di essere in sulle traccie della sparita donna; il padrone di casa, da qualunque interrogato, non avrebbe di certo risposto secondo i loro desiderii, poichè era più facile fosse d'accordo col signor Orsacchio che non altro; ad ogni modo egli ci avrebbe riflettuto su di meglio, e guardato se c'era possibilità alcuna d'averne un filo da potersi guidare, essendo che stimava doverosa carità d'ognuno, e tanto più di Antonio che era stato amicissimo dello sventurato amante di quella donna, il venire in soccorso della infelice, non d'altro rea che d'un innocente amore natole in cuore prima ancora che a forza le si facesse sposare un uomo indegno d'ogni affetto.

X.

Vanardi uscì dalla casa di Giovanni col cuore più leggiero e col taschino un po' più pesante. Quei tre napoleoncini, nella sua assoluta miseria, gli parevano poco meno che un tesoro. Camminò verso il suo quartiere con la testa più alta e il passo più ardito. Siccome voleva comprare per la famiglia pane, companatico e vino, pensò con qualche solletico di superbia di andare ad abbacinare il fornaio, il canovaio e il salumiere, suoi inesorabili creditori che dubitavan di lui, collo splendore dei marenghini nuovi che si faceva ballare in tasca con intima compiacenza. Ma quando già era presso alle botteghe di que' suoi creditori, si fermò ad un tratto per un nuovo, più saggio avviso sopraggiuntogli. S'egli mostrava a quei cotali di possedere del denaro, essi avrebbero preteso tanto più istantemente di venir pagati dell'aver loro, e Antonio non ne aveva abbastanza da pagarli compiutamente; e poi, se avesse loro dato quel po' di moneta che doveva alla carità dell'amico, in che modo il giorno di poi avrebbe provveduto al mantenimento de' suoi?

Si recò in fondachi dove non era conosciuto, e quando ebbe fatto compra di ciò che desiderava corse tosto verso casa sua. Per fortuna questa volta niuno de' suoi creditori era fuori a vederlo passare. Antonio si stupì forte di non iscorgere neppure dietro i cristalli dell'uscio il naso appuntato dello speziale. Corse su fino in cima della casa, pieno di buona voglia e di buon umore, e si trovò in faccia ad un tremendissimo ingrognamento della signora Rosina.

Costei, liberatasi da messer Agapito, aveva pensato che cosa le convenisse di fare, se dire o tacere al marito l'insolenza del farmacista; e la prudenza, e insieme l'affezione che aveva per Antonio l'avevano persuasa ad abbracciare l'ultimo dei due partiti, e salvare così il suo uomo da un dispiacere, ed anche dalle triste conseguenze che avrebbe potuto fruttargli la collera cui egli non avrebbe mancato di abbandonarsi contro lo speziale. Ma il silenzio era pur grave alla ciarliera donna, che non aveva mai avuto sì bell'argomento di chiacchiere da non finire! Era per essa un vero supplizio, e senza manco averne coscienza, si sentiva stizzita contro il marito a cui cagione vi si era determinata. E poi, neppure contro quello sfacciato di messer Agapito ella non aveva potuto sfogare tutta la bizza che glie n'era venuta, e bisognava bene che verso qualcheduno la si procurasse un supplemento di sfogo, se non voleva correre il pericolo di schiattarne. Incominciò coi figliuoli; e l'improvvido marito giunse giusto in tempo a prenderne la parte sua.

Rosina era seduta al suo solito luogo, coi suoi soliti panni d'intorno, occupata al suo solito lavoro; ma solo a vedere il modo brusco e violento con cui ella tirava i punti, s'indovinava il temporale che c'era in quell'anima. I bambini, la cui turbolenza era stata frenata da qualche cosa di più grave che un ammonimento, stavano aggruppati in un angolo rasente il muro, e facevan greppo in silenzio, guardando di sottecchi non senza timoroso sospetto la mano della mamma che andava e veniva nella sua opera con vivacità febbrile.

Antonio, entrando, salutò allegramente, ma la moglie non se ne diede per intesa.

—Mentre io era fuori, domandò egli, è venuto qualcheduno a cercarmi?

Rosina crollò le spalle, e un punto tirato con più violenza stracciò il filo.

—Maledetto! diss'ella con rabbia.

—Che? esclamò il marito volgendosi a guardarla con qualche stupore: con chi ce l'hai?

—Col fistolo che ti colga.

—Grazie!… Ne siamo alle solite gentilezze?

Rosina infilò l'ago e si rimise a cucire canterellando in mezzo ai denti una canzoncina arrabbiata.

Antonio che si levava dalle tasche del soprabito con precauzione, l'una dopo l'altra, due bottiglie di vino e le posava sulla tavola, si rifaceva a domandare:

—Non è dunque venuto nessuno?

—E chi vuoi tu che ci sia venuto? rispose con impazienza la moglie, a meno che non fosse qualche creditore per farsi pagare.

—Non parliamo di melanconie, per carità: esclamò Antonio, che trasse di saccoccia un bell'involto di grossa carta azzurra da cui emanava un confortevolissimo odore di salame, e lo pose sulla tavola vicino alle bottiglie.

I bambini attratti da quella vista e da quell'odore si venivano lentamente accostando, gli occhi larghi.

Antonio trasse ancora da quelle sue benedette tasche quattro pagnotte o le mise ancor esse sulla tavola.

—E Giacomo non è venuto per caso a far la risposta della commissione che gli ho data?

—Ti dico che non è venuto nessuno: ripetè con maggiore impazienza la moglie: oh che sei sordo?

Allora la si degnò di fare attenzione ai preparativi di pasto luculliano che il marito aveva disposti sopra la tavola.

—Che cosa è ciò? Dove hai tu presa tutta codesta roba? Te l'hanno ancora data a credito?

—Oibò!…. L'ho pagata bravamente con quibus sonantibus.

E fece saltare il resto dei denari che aveva ancora in tasca.

La Rosina meravigliata allargò tanto d'occhi.

—Che? esclamò, come non potendo credere a tanto miracolo, del denaro!… Come te lo sei tu procurato?

—Lo devo a quel bravo Giovanni, a cui non ho potuto tacere le mie angustie.

Rosina smise alquanto del suo tono scontroso.

—Ah, quello è davvero un buon amico!

—Puoi dirlo sul sicuro…. Non solo mi ha soccorso di metà dei denari che aveva presso di sè, ma si adoprerà in mio favore, e spero che sarà efficacemente, per farmi ottenere un impiego….

Rosina gettò via dalle sue falde il lavoro a cui stava occupata e si alzò sollecita, interrogando con molto interesse:

—Un impiego?… Possibile?… Quale?

Il marito le comunicò il progetto di Selva di farlo entrare negli uffizi dei banchiere ricchissimo che avea nome Bancone, e i mezzi che voleva usare per ciò. Il mal umore della donna si dileguò quasi per l'affatto a codesta notizia.

—Avremo per lo meno il pane quotidiano assicurato: esclamò essa lietamente; se pure tu saprai conservarcelo: soggiunse con un residuo di acerbezza.

Vanardi mandò un grosso sospiro di pena e di rassegnazione.

—Lo saprò, diss'egli, ed alla mia povera arte, darò un addio….

—E fosse eterno! interruppe vivamente la Rosina.

—Papà; entrò opportunamente in mezzo il primo de' bambini con queste parole: ho fame… Non vuoi darmi di quella buona roba che hai portato?

—È giusto: disse il padre riscuotendosi; non mi manca l'appetito nè anco a me. Non pensiamo ora a melanconie e godiamo di questo ben di Dio che la sorte ci manda.

Anche la moglie trovò questo partito il migliore che fosse, perchè si diede le mani attorno a preparare il desco, e fu così sollecita, che due minuti dopo tutta la famigliuola era seduta intorno al mantile non nuovo, nè fino, nè di bucato, e mangiavasi coll'appetito di gente che si è preparata al pasto con lungo digiuno.

Il malumore della Rosina era sparito del tutto; e quella buona gente godeva un istante di tranquillità e d'allegrezza in mezzo alle loro traversie, obliando i travagli passati, le minaccie presenti, lusingandosi nelle speranze che trasparivano nell'avvenire.

Quando più vivamente erano occupati nelle delizie del loro pasto e in quelle dei castelli in aria che venivano sognando a gara, due picchi all'uscio d'entrata annunziarono un visitatore.

—Chi viene adesso a seccarci? disse con malavoglia impaziente la Rosina.

—Ch'e' sia il figliuolo della portinaia che ci rechi la risposta di mio zio! esclamò Antonio a cui una nuova speranza venne a balenare alla mente.

—Uhm! fece la moglie movendo il capo con atto che dinotava partecipare ella assai poco in questo argomento la speranza del marito. Avrà egli risposto tuo zio?

—Avanti: gridò Vanardi verso l'uscio; e questo, aprendosi pian piano, lasciò scorgere la faccia melensa di Giacomo.

—Vedi se l'ho indovinata! esclamò con vivezza di buon umore Antonio, in cui la concepita speranza si era di subito ingrandita ed afforzata. Avanti, avanti, mio bravo Giacomo. Voi siete stato a portare quella lettera?

—Sor sì: rispose avanzandosi il giovane, i cui stupidi occhi si fissavano con manifesta ed ingenua cupidigia sui commestibili e sulle bottiglie che stavano sul desco.

—Oh che bravo figliuolo! soggiungeva il pittore. Vi ringrazio tanto… E mio zio ce l'avete trovato?

—Sor sì: ripeteva il figliuolo della portinaia non istaccando l'avido sguardo dal salame e dal prosciutto affettati che mandavano un solleticante odore dai piatti di maiolica in cui erano stati ordinatamente disposti.

—Va benissimo: disse Antonio. Voi ci direte per filo e per segno com'è andata la cosa. Prendete una seggiola… Quella appunto… Non impugnatela per la spalliera che la traversa vi resterebbe in mano… Venite a seder qui presso di me… Lì!… Piano e con precauzione, ve', perchè la è un po' scassinata… Così… Ed ora parlate.

—Sor sì… Auguro loro buon appetito…

—Grazie.

—Anche a lei, madama.

—Grazie tante.

—A proposito, disse Antonio che era di carattere il più largo e generoso, bereste una volta con noi?

Giacomo chinò la testa fra le spalle, fece boccuccia, mando giù la saliva e lo sguardo disse chiaramente quanto ciò gli sarebbe stato a grado.

—La ringrazio… Non vorrei scomodarli.

—Niente affatto. Ecco qui il bicchiere di Tonietto… I bambini beranno in quel della mamma… Assaggiatemi questo poco; ciò vi vorrà sciogliere lo scilinguagnolo.

E mescette un buon mezzo bicchiere, che Giacomo tracannò senz'altre cerimonie.

—Dunque a noi: riprese Vanardi; siete stato nella bottega di mio zio?

—Sor sì… Oh che buon odore ha quel prosciutto lì!

Chi non glie ne avrebbe offerto? Antonio non era capace di far orecchie da mercante; d'altronde pensava che non potendo dare a quel giovane la mancia, il fargli parte della loro colazione avrebbe tenuto le veci di quella, e ne avrebbe suscitato lo zelo per altre occasioni in cui si avesse ancora bisogno di lui. Offrì adunque a Giacomo di que' commestibili, che tanto manifestamente gli tiravano la gola; ed egli, senza farsi punto pregare, si mise di buon animo a mangiare a due palmenti, con qualche stizza della Rosina, meno generosa che il marito, la quale invano veniva saettando Antonio di occhiate di rimprovero ad ogni grosso boccone che faceva l'indiscreto figliuolo della portinaia.

—E mio zio era egli nel fondaco? gli domandò poi Vanardi che voleva ridurre il discorso a ciò che gl'importava.

—Sor sì: rispose Giacomo con la bocca piena; da principio, entrando, ho creduto di no, perchè non ci vidi colà che un garzone seduto dietro al banco… Se la mi favorisse un po' da bere, signor Vanardi… Grazie!

Tracannò un bicchier di vino.

—E dunque? disse Antonio per ravviare la narrazione interrotta.

—Dunque mi diressi a quel garzone e domandai se il padrone non c'era. A queste parole suo zio trasse fuori la testa da quella sua baracca di bussola dove ci ha lo scrittoio e mi domandò: «che cosa c'è? che cosa si vuole?» Io trassi di tasca la lettera ch'ella mi aveva data e risposi: «Questo per lei.» Suo zio si alzò, uscì fuori dal suo nascondiglio e venne avvicinandosi a me: «Una lettera, disse, chi la manda?» Gli risposi che era lei. Il vecchio che già aveva tesa la mano verso di me per prenderla, fece tal quale come se invece d'un pezzo di carta avesse visto ch'io gli porgeva una vipera; trasse indietro la mano e sè stesso, ed esclamò: «Mio nipote! Non voglio nulla da lui, nè lettera, nè altro. Andate al diavolo voi e chi vi manda.»

—Ah! fece Antonio con un sospiro di dolore.

—Ha detto proprio così: continuava Giacomo. Io, com'ella capisce, rimasi lì in asso, colla mia lettera in mano, che non sapevo più che cosa dire nè che fare. Suo zio si pose a passeggiare su e giù della bottega colle mani dietro le reni, borbottando fra sè delle parole che non capivo e facendo ballare il fiocco della sua berretta con iscosse di capo che mi sembrava volessero dire che era molto in collera. «Che cosa fate ancora costì? mi disse dopo un poco, più burbero che mai; non avete udito che non voglio ricever lettera di sorta di quel signore?… E ditegli ben chiaro che si risparmi la pena di scrivermene, chè di lui e delle cose sue in nessun modo non voglio più sentire a parlare.» Ripetè queste ultime parole, staccando una sillaba dall'altra e con forza: «Non vo-glio più sen-ti-re a par-la-re! Avete capito?» Avevo capito benissimo. Rimisi in tasca la lettera e me ne uscii.

—Oh diavolo! sclamò Antonio col più doloroso disappunto.

—Eh! io l'aveva previsto che sarebbe andata così: disse la Rosina tornata in tutto il suo malumore di poc'anzi.

—E questa lettera me l'avete dunque riportata? domandò Vanardi che cominciava a rimpiangere i bocconi ed il vino che ingollava con tanta voglia quello stupido di Giacomo.

—Un momento, rispose questi: mi lasci dire, chè non ho finito.

—Dunque avanti, corpo di bacco! esclamò Antonio con impazienza.

—Ecco! Avevo fatto appena una cinquantina di passi, quando sento a gridare di dietro: «Ehi, ehi, quel giovane.» Pensando che si potesse parlare a me mi volto, e vedo il garzone che correndo mi raggiunse in breve e mi disse: «Venite, il padrone vuol ancora parlarvi.» Tornammo insieme nel fondaco. «Sapete voi che cosa mi scriva quel birbante?» (ha detto proprio così) mi domandò suo zio con voce di collera. Io risposi che non sapevo di niente. «Date qui quella lettera!» soggiunse ancora più burbero e sdegnoso. Io glie la diedi: la prese, la girò e rigirò fra le mani, la spiegazzò quasi con rabbia e poi la gettò senza aprirla sopra il banco. «Che cosa fate?» mi domandò ruvidamente, vedendo ch'io non muoveva. «Aspetto la risposta,» gli dissi. «Eh! non c'è risposta da fare, mi disse di mala grazia; andate pure pei fatti vostri.» Ero già colla mano sul saliscendi per aprir l'uscio, quando egli, che pareva cambiare ad ogni momento d'idee, mi comandò brusco brusco: «Aspettate.» Prese la lettera, entrò in quel suo gabbiotto, e ci stette forse un dieci minuti e più, non dando altro segno della sua presenza che di soffiarsi rumorosamente il naso due o tre volte. Poi venne fuori ed aveva una faccia tutto diversa…

—Era commosso? domandò vivamente Antonio che ascoltava questo racconto con interesse infinito.

—Quello che fosse non so, ma non pareva più in collera. «Va, mi disse, e di' a mio nipote che una risposta glie la farò forse tra poco. Bisogna ch'io ci pensi, ch'io veda, ch'io sappia…. Infine in un modo o nell'altro gli farò conoscere le mie decisioni.» Aprì egli stesso la porta ed io me ne venni via, ed ora le ho detto tutto dalla prima parola all'ultima.

—Grazie, Giacomo: disse Antonio il cui cuore s'era aperto di nuovo alla speranza: le novelle che mi porti sono migliori di quelle che mi avevi fatto temere dapprima. Evidentemente lo zio fu tocco dalla mia lettera; il suo affetto per me non è ancora spento del tutto, e il suo buon cuore non si può smentire. Vedrai, Rosina, che di quest'oggi medesimo il padrino si rifarà vivo per noi.

La moglie non aveva così liete speranze, ma non contestava ciò nulla meno che le apparenze non fossero più favorevoli che per l'addietro. Bisognava bene far festa a questo più benigno sorriso che regalava la sorte, e ne pagarono la spesa le due bottiglie, delle quali, per zelo specialmente di Giacomo, ben presto si vide il fondo.

Ma Giacomo era tutt'altro che avvezzo a simil baldoria, obbligato dalla parsimonia della madre ad un culto esagerato della virtù della temperanza. E ciò fu causa che quando egli, dopo essere rimasto nel quartiere del pittore poco meno d'un'ora, discese nella loggia sotto il portone era in preda ad una certa vivacità, ad un certo eccitamento cui non era calunniare soverchiamente il dirlo una mezza cotta.

La portinaia scandolezzata accusò con isdegnose imprecazioni Antonio di corrompere la savia morigeratezza di suo figlio; e per punire quest'ultimo d'aver ceduto alle seduzioni del tentatore lo tenne tutto il dì chiuso in casa, senza che si discorresse altrimenti per lui nè di pranzo nè di cena.

Vanardi aspettò tutto quel giorno alcuna novella del padrino: ma invano. Nulla giunse; in nessun modo il droghiere diede segno di vita. Il domattina Antonio stette in casa fino alle dieci, nella speranza sempre che da un momento all'altro qualche cosa apparisse. Verso le dieci fu picchiato all'uscio e il pittore corse con uno slancio ad aprire: era il signor Martino, giovane dello speziale, che porse ad Antonio per commissione del suo principale una bustina di lettera suggellata, che dal peso e dal suono si conosceva contenere monete.

—Se la volesse far grazia di scrivermene una ricevuta: disse Martino.

Antonio dissuggellò tosto tosto l'involtino e ci trovò dentro quattro righe di scritto sopra un foglio di carta e due napoleoni d'oro da venti lire. Nel bigliettino Agapito diceva che la somma acchiusa era maggiore di quel che il pittore potesse pretendere, e quindi non lo seccasse più.

—Che villano! esclamò Antonio, senza che la presenza del garzone potesse più frenarlo. E mi manda quaranta lire!… Il miserabile!… Appena se mi paga i colori.

Voleva rimandargli addietro il denaro; ma pure veniva tanto opportuno! Rosina che era presente, non avrebbe lasciato passare senza contrasto un simile dignitoso atto di risentimento; si acconciò a ritenerli e farne la ricevuta, colla quale il signor Martino se ne andò.

Pochi momenti dopo era un usciere di Giudicatura che veniva cercando il povero Vanardi, e gli rimetteva in mani proprie parecchi atti di citazione provocati dal venditore di carbone, dal pizzicagnolo, dal panattiere.

Antonio guardò quelle carte, sbalordito, come se fossero una sua condanna di morte. Poi si battè la fronte, prese una subita risoluzione, si calcò il cappellaccio in testa e con quel po' di denaro che aveva corse via per ammansare mercè alcuni acconti i suoi creditori. Un quarto d'ora dopo egli si trovava precisamente nella florida condizione in cui era il giorno innanzi, cioè senza un soldo in tasca.

E non era un quarto d'ora ch'egli era uscito di casa, quando bussavano alla porta del suo alloggio, e dietro invito di Rosina vi entravano il signor Marone ed uno sconosciuto.

XI.

La sera medesima del giorno in cui Vanardi aveva parlato a Selva, questi con sua moglie discese in casa il signor Biale, come usava due o tre volte la settimana, per farvi insieme la vegliata.

Il capitano e sua figlia Lisa stavano in un modesto ma pulito salotto, in cui la tappezzeria e le masserizie mostravano, se non la ricchezza, certo il buon gusto ed il buon governo.

Un allegro fuoco fiammava nel caminetto alla Franklin, e, sedutovi presso su d'una poltrona coperta di cuoio color tané, il signor Carlo, i piedi appoggiati al paracenere, la persona avviluppata in una vesta ovattata, leggeva attentamente un volume della Storia militare del Piemonte. Vicino a lui era un tavolino da una gamba sola con tre piedi e sopravi una lampada col coprilume di carta verdescuro all'infuori, che rifletteva la luce in un ristretto cerchio tutt'intorno, lasciando nella penombra il rimanente della stanza. Dall'altra parte di quel tavolino sedeva la moglie di Pannini; aveva il suo cuscinetto da lavoro sulle ginocchia e cuciva.

Giovanni Selva nel dipingere a Vanardi l'antico capitano, Carlo Biale, non aveva detto che la verità. È una figura che a prima vista vi ispira confidenza e v'impone rispetto; una di quelle figure oneste, aperte, gravi, le quali, solamente ad incontrarle, vi fanno provare una certa soddisfazione e, nel contemplarle, vi fanno inorgoglire d'essere della loro razza.

Lisa, sua figlia, ha diciott'anni. In punto a bellezza non uscirebbe dalla mediocrità, s'ella non possedesse nello sguardo, nel sorriso, nell'espressione delle sembianze, nell'aria del volto una quasi direi malìa, la quale a chi l'accosta, a chi specialmente le parla, fa ch'ella sembri la più bella, od anzi meglio, la più cara donna del mondo. È l'eccellenza della sua anima eletta che si manifesta di quella guisa e dolcemente comanda in una l'ammirazione e l'affetto. Tenuta a battesimo dalla marchesa di Campidoro, fu fino agli ultimi tempi carissima alla gentildonna, la quale il più spesso possibile, fin da quando Lisa era bambina, la voleva seco; ed ella nel domestico e frequente praticare in casa l'aristocratica famiglia, senza pur volerlo, senza pensarci, senza accorgersene menomamente, aveva attinto un'eleganza, una distinzione, una squisitezza di maniere che meravigliosamente bene s'accordavano colla sua nativa gentilezza, cortesia e bontà. Ella è di umor lieto ordinariamente, benigno sempre. Amorevole qual'è, si compiace nelle mostre di affetto, nelle tenere cure, nelle ufficiose attenzioni agli oggetti dell'amor suo: il padre ed il marito. Poichè ebbe sposato l'amato giovane, Lisa fu pienamente felice; visse in questa terra come in un paradiso; e la sua gioia cotanta, nei primi tempi da cosa nessuna turbata, lasciò manifestarsi nella rosea freschezza delle guancie, nel brillare degli occhi vivaci, nella schiettezza del perenne sorriso, nell'allegre canzoni, nella medesima alacrità posta ai quotidiani uffizi del domestico governo.

Però da alcun tempo quella sua tanta allegria era sminuita; la sera di cui dico, sulla fronte di lei e sul volto avreste detto essere disteso un velo che ne faceva meste le sembianze. Non era già un dolore, ma una melanconia; meglio ancora era una preoccupazione non esente da inquietudine. Un poco essa lavorava sbadata, a rilento, visibilmente col pensiero ad altre ben diverse cose, un poco pareva rientrare in sè s'affrettava, s'affrettava nel suo trar d'ago: tratto tratto i suoi occhi neri ed espressivi si levavano dal lavoro e si rivolgevano intenti, non senza una specie d'ansietà, verso l'uscio che menava alla vicina stanza coniugale, in cui s'udiva un passo d'uomo che di quando in quando si muoveva e un aprire e richiudere di cassetti e uno spostar di mobili.

Di quando in quando il padre levava il suo serio e sereno sguardo dalle pagine del libro e lo faceva guizzare verso la diletta figliuola, ed era allora sollecita la buona Lisa a richiamare sulle sue fattezze la usata espressione di tranquilla e beata ilarità, ed a fare che l'occhio paterno incontrasse il più lieto di lei sorriso; imperocchè ella avrebbe voluto fare ad ogni modo acciocchè il segreto turbamento che era in lei non apparisse allo sguardo amoroso e perspicace del padre.

Di cotal turbamento che da alquanto tempo la possedeva, era cagione il marito, il quale, benchè amoroso e carezzevole sempre, pure aveva da parecchi giorni qualche cosa di nuovo e di strano nei suoi contegni, che dava mille indefinite paure alla Lisa.

Il primo lievissimo velo di nube che costei aveva visto salire sul sereno orizzonte della sua felicità coniugale era provenuto da quella sciocca ambizione di sfoggio che Gustavo pareva avere ereditata dal padre e dal nonno. Vedutolo sopra pensiero alcune volte, la giovane moglie l'aveva interrogato con ansioso affetto, timorosa che alcun cruccio ne angustiasse l'anima, ed aveva scoperto con dolorosa meraviglia come a lui non bastasse per essere felice la fortuna di quel tanto e spartito amor loro ed invidiasse nel profondo del cuore le distinzioni sociali, gli sbarbagli della ricchezza di cui godevano altri nel mondo. Rimproverato amorosamente dalla giovine donna, perchè potesse ad altro ancora rivolgere il pensiero e il desiderio, che l'amor loro non fosse, quando la Provvidenza era stata così pietosa per essi da conceder loro sì fortunata sorte, Gustavo aveva risposto che non tanto per sè andava egli desiderando la ricchezza e i suoi vantaggi, quanto per lei, sua diletta sposa, che avrebbe voluta la prima in tutto e per tutto e la più ammirata dovunque.

—Ma ciò, soggiungeva egli tutto infervorato, sta pur certa che avverrà senza fallo, o ch'io perderò il nome. Voglio mettere ai piedi della mia bella Lisa una fortuna principesca; e quando io voglio una cosa…

Con pari ardore Lisa lo interrompeva per protestare ch'ella si trovava abbastanza contenta della modesta agiatezza del loro stato, che ciò che importava al suo cuore era ch'egli l'amasse sempre e che le ricchezze, non che non desiderarle, non che non sapere che cosa farne, ma le temeva benanco quali insidie della sorte, come temeva ogni cambiamento nelle sue condizioni presenti che le tornavano le migliori possibili.

Gustavo crollava la testa, faceva un suo cotal sorriso misterioso e conchiudeva con dire abbracciandola e baciandola:

—Vedrai, vedrai; lascia fare a me e non temere di nulla.

Lisa si racchetava, ma sarebbe stata assai più tranquilla se il marito avesse rinunziato ad ogni velleità di simile ambizione. Gustavo aveva sempre usato frequentare di molto le veglie e le feste della società elegante. Aveva la sciocca smania di comparirvi riccamente vestito di tutto punto e starvi a paro coi più doviziosi; seguiva gli esempi e le traccie del signor Padule, il primo commesso di Bancone, che incarnava sempre in sè l'ultimo figurino delle mode. Non c'era convegno, non solennità, non festa, per cui egli tanto non facesse da riuscire ad avervi l'invito. La moglie aveva condotta seco alcune volte, ma poi si era dovuto a ciò rinunciare perchè le acconciature di lei costavano troppo più di quello ch'essi potessero spendere, e perchè Lisa medesima che ci trovava un mediocrissimo diletto aveva determinato assolutamente di non volerci metter più il piede. E di molto le doleva che il marito abbandonasse tutte le sere lei e suo padre soli, e non trovasse pur mai che una veglia in famiglia valesse il sacrifizio d'una di quelle concorrenze piene di soggezione; le doleva tanto più che il tempo da passare insieme coll'amato uomo fosse così ridotto sempre a meno, poichè di giorno le occupazioni di Gustavo alla Banca gli lasciavano poche ore libere, e le sere, il mondo lo toglieva affatto alla moglie.

Non andò guari che Lisa si accorse una segreta preoccupazione essere nell'animo di suo marito; allo sguardo d'una donna amorosa non isfugge mai un simil fatto. Lo interrogò: egli rispose colla più franca negativa; e qualche tempo di poi si mostrò veramente così allegro, che ogni sospetto dovette dileguarsi dall'animo di Lisa. Gustavo era più amoroso che mai; recò a casa per la moglie i più splendidi e suntuosi regali di ori, di gioie e di vesti, così bene ch'ella dovette rimproverarnelo, e non osò mostrarli al padre che più severamente ne avrebbe ripreso la follìa del genero.

Ma quest'allegria fu una fase che non tardò a passare per lasciar scorgere all'occhio scrutatore di Lisa i segni d'una nuova e maggiore preoccupazione nel marito; e tale che da alcun tempo sembrava a lei fosse addirittura un cruccio che ne tormentava l'animo. Aveva ella di nuovo interrogato Gustavo con tutto interesse e con tutta amorevolezza; ed egli a risponderle di bel nuovo press'a poco come prima: non se ne ponesse in pensiero, non essergli capitato nulla, e fra poco tempo vedrebbe che tutto andava per la meglio.

Le quali parole non avevano rassicurata l'amorosa donna che a mezzo; e vedendo essa di tanto in tanto più tristamente pensosa e più annuvolata la faccia del marito, l'inquietudine di lei ripigliava più forte, quanto più si sforzava ad immaginare ed argomentare le ignote ragioni di quella tristezza.

Il capitano, da parte sua, s'era accorto di qualche cosa riguardo alla figliuola.

—Lisa: le disse un giorno, pigliandola per mano e fissandola ben bene in volto. Tu non ridi più come per lo innanzi; tu non canti più da mattina a sera come facevi. Che cosa è capitato?

La giovane s'era fatta del color delle fragole, come una colpevole colta in fallo.

—Io, babbo? rispose ella tutto impacciata: ti pare?… Ma no… Son sempre quella io… Non è capitato niente… Che cosa vuoi ci sia capitato?

E da quel momento stette in sull'avviso per non lasciar scorgere più nulla del suo turbamento al genitore.

Quella sera adunque in cui noi penetriamo nel salotto di codesta famiglia. Lisa e suo padre erano soli presso al fuoco nel salotto, e nella vicina stanza coniugale si udiva l'andare e venire d'un uomo che non poteva essere altri che Gustavo.

Ad un punto, il signor Carlo alzò gli occhi dal suo libro, volse la testa verso sua figlia e disse con accento pacato, ma in cui era pure una leggiera tinta d'impaziente ironia:

—Che? Tuo marito non ha ancora terminata la sua acconciatura? Cospetto di bacco! Sai che non c'è donna per quanto civetta essa sia che impieghi tanto tempo alla teletta?

Lisa non sapeva che cosa rispondere; ed ecco, per fortuna, a torla d'imbarazzo entrare nel salotto i due casigliani del piano di sopra, Giovanni Selva e sua moglie Adelina.

Conosciuti quali erano dalla fantesca, i due visitatori avevano potuto inoltrarsi senz'essere annunziati. All'udir gente che entrava il signor Carlo aguzzò lo sguardo verso l'uscio; ma non vedendo bene chi fosse nella penombra prodotta dal coprilume, sollevò questo dal globo della lampada, e fece spandere la luce per tutta la camera.

—Siate i benvenuti, miei cari vicini: disse egli con molta cordialità, ravvisandoli tosto, e chiuso il libro lo ripose sulla tavola per porgere la destra a Giovanni che s'avanzava verso di lui.

Lisa, appena visto ancor essa chi entrava, s'era levata vivacemente da sedere con un'esclamazione di affettuosa letizia ed un saluto amichevole, ed era corsa incontro all'Adelina ad abbracciarla.

—Lei sta bene, signor capitano? disse Giovanni stringendo con deferenza la mano leale del padre di Lisa.

—Benissimo, grazie. Di lei non lo domando neppure; lo si vede abbastanza…. E neanche di lei signora, soggiunse con un sorriso di galanteria, volgendosi ad Adelina, la quale s'era seduta dall'altra parte del tavolino, accosto alla Lisa. Ella è un fior di rosa.

La moglie di Selva, sorridendo, minacciò scherzevolmente il signor Biale coll'indice della sua piccola mano.

—Ah, signor capitano! Lei mi vuol fare imbizzarrire.

—E il signor Pannini? domandò Giovanni.

Il capitano fece una smorfia di cattivo umore e crollò le spalle con atto di malcontento.

—È di là, rispose, in grandi occupazioni di teletta. Non so quando avrà finito. Per me gli è un'ora che m'impaziento per tanta grulleria.

Lisa arrossì, come se fosse a lei diretto il rimbrotto, e timidamente disse:

—Gustavo deve andare ad una gran festa, e….

—Sì, sì: fu sollecito a soggiungere il capitano, pentito d'aver fatto pena alla figliuola. E' va ad un suntuoso ballo d'apparato che dà non so qual principe della finanza.

—Desidererei parlargli: disse Giovanni; ma del resto ciò di cui voglio pregarlo—perchè si tratta d'un favore che ho intenzione di domandargli—posso dirlo a loro, è la medesima cosa.

—Parli, parli pure: disse con gentilezza invitatrice, non per cerimonia, ma affatto sincera, il padre di Lisa.

In questa s'udì la voce di Gustavo dalla stanza vicina.

—Lisa, hai tu veduto i miei guanti?… Non li trovo più…. Ne avevo ancora parecchie paia…

—Li ho riposti io: rispose Lisa alzandosi in tutta fretta. Vado a darteli.

E corse sollecita dov'era il marito.

Gustavo in tutto lo splendore d'un'acconciatura di rispetto più che accurata, abbagliante per i bottoncini di diamanti allo sparato della camicia, pei bottoncini d'oro al panciotto nero, per la lunga e grossa catena d'oro dell'oriuolo, dalla quale pendeva una voluminosa ciocca di ciondoli, di ninnoli, di minuterie preziose, stava innanzi allo specchio ammirando il nodo elegante della sua bianca cravatta e le volute graziose alle tempia della sua zazzera arricciata dal ferro sapiente d'un parrucchiere alla moda.

Si volse alla moglie che era entrata, e le disse con un sorriso trionfante:

—Ti pare ch'io stia bene?

—Benissimo: rispose Lisa con ammirazione innanzi alla beltà di suo marito.

—Vieni dunque a darmi un bacio.

Ella ubbidì con molto zelo. Gustavo le passò un braccio intorno alla vita e guardandola con espressione di molto amore, soggiunse:

—Ah, perchè non posso condur meco anche te, mia buona ed adorata Lisa, in una teletta che facesse stare al disotto quella di tutte le altre? La tua bellezza, cara donna mia, disgraderebbe le più superbe pretensioni di quelle poppattole che tengono lo scettro della moda…

Mandò un sospiro di sincero rimpianto, soggiungendo:

—Ah! se la fortuna mi avesse un po' assecondato!…

Sulla sua fronte venne di botto ad oscurarla quella nube che la moglie da qualche tempo ci aveva notata ad intermittenze, però fu lesto a discacciarla.

—Ma non ho perso ancora le speranze, continuò; ed anzi, chi sa che fra poco…

Fece una reticenza, la quale, più ancora delle pronunziate parole, eccitò la curiosità di Lisa.

—Che cos'è? domandò essa. Tu tenti qualche cosa? Tu hai qualche progetto? Quale?

—Nulla, nulla: rispose il marito sciogliendo l'amplesso con cui la teneva abbracciata e tornando allo specchio a mirarsi. Non andare fantasticando colla tua testolina delle cose spiacevoli, sai… Non voglio; no, cara, non voglio che la menoma ombra di cruccio passi sul cuore della mia Lisa… Ti dico solamente che il mio costante desiderio è il poter procurare a questa diletta donna tutti i piaceri e le soddisfazioni della ricchezza…

—Ma io non ci tengo: disse vivamente la donna. Io non desidero in nessun modo nè le feste nè gli sfarzi del gran mondo.

—Li desidero ben io per te… Come! a te non piacerebbe di venir meco… non foss'altro che per istare insieme?

—Ah, Gustavo! Potremmo stare insieme tanto bene e con maggior abbandono, qui, nella nostra casa!…

—Hai ragione: ma che cosa vuoi? Viviamo nella società, e non possiamo sottrarci ai legami ed agl'impegni di essa… Quanto a me, poi, alla mia carriera, al mio avvenire, è quasi una necessità il vivere quella vita.

Lisa chinò il capo sospirando come per indicare ch'ella ben vi si rassegnava, ma che penosa erale la sua rassegnazione.

—Oh, dunque, Lisa, riprese Gustavo cambiando tono: dammi i guanti.

La moglie venne a recargliene parecchie paia; egli ne scelse accuratamente due, e messone uno in tasca per servir di ricambio, si pose a calzar l'altro con tutta la cura che richiede una sì dilicata operazione.

Passarono tutti due nel vicino salotto, Lisa portando il mantello, il cachenez ed il cappello del marito.

—La riverisco, signora, disse questi ad Adelina; buon giorno, Selva, come va?

I due coniugi risposero al saluto.

Il signor Carlo guardò suo genero non senza un po' d'ironia nell'espressione del volto.

—Hai finito pur una volta, bellimbusto? gli disse tra lo scherzo e il rimprovero.

—Che volete? rispose Gustavo ridendo. Questo benedetto nodo di cravatta non lo potevo far bene. Ci ho sciupato tre pezzuole prima di venirne a capo… Hai mandato a prendere la carrozza, Lisa?

—Eh! disse con qualche impazienza il capitano: è quasi mezz'ora che sta qui sotto ad aspettare.

Gustavo trasse fuori il suo ricco orologio.

—Cospetto! è tardi. Ho promesso al signor Bancone di andar presto a fare la sua partita. Addio, Lisa; buona sera, papà; signori Selva, li riverisco.

La moglie lo aiutò a mettere sulle spalle il mantello, e gli avvolse con cura il cachenez intorno al collo.

—Non aspettarmi sai, Lisa, diceva intanto il marito, guarda che te lo proibisco!… Non so a che ora mi sarà possibile rientrare… già farò di tutto per isbrigarmi presto… ma in ogni modo, guai a te, se non ti trovo placidamente addormentata.

La moglie lo accompagnò fino al pianerottolo.

—Copriti bene, gli diceva con infinita amorevolezza, e non istancarti di troppo, che, per carità, non avessi poi da patirne; ed anche in mezzo a tutta quella folla, a tante belle signore, a tanto chiasso, pensa un poco anche a me.

—Forse ch'io ti possa dimenticar mai, anima mia? rispose con accento di sincero affetto il marito; e datole ancora un caldo bacio partivasi, mentr'ella tornava nel salotto.

Biale aveva guardato dietro suo genero che s'allontanava, tentennando un pochino la testa.

—In fondo è un buon diavolo, diss'egli, ma sarà sempre un ragazzo.

Lisa tornò con una lieve mestizia espressa nelle sembianze, la quale però sotto lo sguardo del padre si dileguò ben tosto.

Selva quindi, sollecitato dal signor Carlo, espose ciò di che era venuto a pregarli; volessero cioè raccomandare al genero e marito di procurare un posto nella banca a Vanardi, del quale Giovanni raccontò le misere condizioni. Il capitano e la sua figliuola presero il maggior interesse pel povero pittore; e l'intesa fu che Selva mandasse egli stesso poi il suo raccomandato agli uffici del signor Bancone con un suo biglietto per Pannini, al quale la mattina seguente il suocero e la moglie parlerebbero con tutto calore in pro' di quell'infelice.

XII.

Il domattina Selva s'affrettava verso la dimora di Vanardi a portargli la novella, che il signor Biale aveva assunto di raccomandarlo, e la sua lettera ch'egli doveva consegnare a Pannini.

Giunto all'uscio del pittore, Giovanni udì nell'interno la voce della Rosina e quella d'un uomo che gli parve del signor Marone, cui egli conosceva eziandio. Temendo che gli argomenti di discorso fra la moglie d'Antonio e il padrone di casa fossero di tal fatta da tornar poco graditi alla donna, Giovanni s'affrettò ad entrare, e si trovò innanzi per prima la brutta faccia d'un uomo che non aveva visto mai.

Pareva aver sessant'anni all'incirca; era alto di statura, ma curvo di petto, come se a stento si reggesse sulla macilenta persona; calvissima aveva la fronte, e il cranio diventato di color giallognolo pareva di avorio affumicato; alla nuca si rizzavano ribelli, e, per dir così, tormentate delle superstiti ciocche di capelli, il cui color fulvo era temperato dalla canutezza, folti baffi del tutto bianchi gli coprivano il labbro superiore; foltissime sopracciglia s'aggrottavano per moto abituale sopra i suoi occhi piccoli, di color bigio, infossati ed irrequieti, che dal fondo delle occhiaie risplendevano d'un luciore maligno; la faccia era incavata, e la pelle aderiva all'osso sporgente dello zigomo, piegandovisi sotto, alle gote, in una rete inestricabile di minutissime rughe; un pallore quasi livido gli si stendeva sulle sembianze. Un dolore profondo, interno, antico, appariva da quel tristissimo volto; ma non era che destasse in chi lo mirava senso alcuno di pietà, sì piuttosto di paura e di ribrezzo, perchè nello sguardo, nel cipiglio continuo di quell'uomo si leggeva una vendetta implacabile, una ferocia da non saziarsi mai.

Giovanni indietreggiò innanzi a quell'orrida figura. Il signor Marone, che parlava, troncò di subito il suo discorso; e tanto egli quanto il suo compagno si mostrarono spiacenti del sopraggiungere d'un estraneo.

—Ci pensi madama: aggiunse in fretta il padrone di casa lisciando il pelo del suo cappello colla manica del pastrano. Noi torneremo per una risposta…. o tornerò io soltanto, uno di questi giorni…. Mi saluti il signor Vanardi…. La riverisco.

E sgusciò fuor dell'uscio, come se nulla gli premesse di più che l'andarsene; lo sconosciuto lo seguì senza disserrare le labbra, senza fare neppure il menomo cenno di saluto.

—Che animale è egli codesto? disse Giovanni chiudendo la porta dietro di loro.

—Neh! com'è brutto! esclamò Rosina giungendo le mani. Quando l'ho veduto entrare, Gesummaria! mi ha fatto paura.

—E che cosa gli è venuto a far qui?

—Eh! lo so io bene? Chè qui mi ha tutta l'aria d'esserci un mistero. Si figuri che il pretesto fu quello di vedere il nostro alloggio…. Bella cosa, veramente, da vedere!… E che? io dissi subito a quella talpaccia del signor Marone; noi dunque non si conta più un cavolo e vuole addirittura spazzarci via. Quell'impostorone faceva il melato…. E l'altro, quella faccia di morto con que' suoi occhi di basilisco…. Dio! che occhi!… ha notato signor Giovanni che lanternini d'inferno sono quelli?… Quell'altro intanto, sa che cosa faceva?… Guardava tutt'intorno, alle pareti, negli angoli, da questa parte e da quella con avidità, come se ci avesse da cercare un tesoro. Il signor Marone lo fece passare di là del paravento. Io veniva loro a panni e seguitavo a tempestare a parole il padrone di casa. Quel brutto muso, appena fu di là, vide il quadro colla cornice dorata, e mandò una specie di grido, quasi un urlo soffocato, che mi fece trasaltare…

—Oh bella! interruppe Giovanni, il quale fu assalito di botto da un sospetto: e poi? e poi?

—Se avesse visto come gli occhi gli si misero a risplendere! Parevano carboni accesi, su cui si fosse soffiato forte. Corse al quadro; lo spiccò dal muro: lo guardò ben bene che pareva volesse mangiarlo. Un rosso cupo glie ne era venuto su quelle guancie scialbe, e le sue mani tremavano come se avesse il freddo della terzana. «Signore, io gli dissi, che cos'ha, che cosa vuole?» Eh sì! non mi badò più che se avessi parlato ad un ceppo. Si volse verso il padrone di casa e gli disse con una voce che pareva venirgli su dal fondo della pancia, come quella d'un raffreddato che parli in un imbuto: «Avete ragione, è lei.»

Giovanni interruppe la Rosina, battendo insieme le mani.

—Corpo di bacco! non c'è più dubbio: è lui.

—Chi lui?.

—Quel birbone d'Orsacchio.

—Orsacchio! esclamava Rosina curiosamente. Vuol dire il marito della donna del quadro?

—Quello appunto.

—Oh poveretta! Ora che ho visto il muso di codestui, comincio a compiangerla anch'io daddovero.

—Ma vive essa ancora? E dove?… Ecco quanto si ha da scoprire… Averlo avuto qui quel birbone ed esserselo lasciato scappare!… Ma poichè pare che egli è in buona relazione col signor Marone, per mezzo di costui, sorvegliando i suoi passi, potremo forse venire a capo di qualche cosa… A lei, signora Rosina, che cosa dissero d'altro?

—Parlarono di comprare quel ritratto. Io risposi che mio marito non lo voleva vendere… Noti che fu sempre il padrone di casa a parlare. L'altro non disse che poche parole colla sua voce cavernosa… N'eravamo a quel punto quando lei è venuto e loro sono scappati.

Selva non si mosse di là, finchè Vanardi non fosse tornato. Questi rientrò a casa avendo placato i suoi creditori e fattili acconsentire a sospendere l'intentata lite, ma avendo di bel nuovo le tasche asciutte.

Giovanni gli narrò subito quant'era avvenuto, lui assente, in casa sua; ed Antonio fu persuaso eziandio, e tosto, che quello sconosciuto era proprio Orsacchio, cui la fortuna gli menava finalmente tra' piedi.

I due amici furono d'accordo che conveniva profittarsi di quella proposta di compera del quadro per iscoprire la sorte di Gina: che perciò era necessario andarne dal signor Marone sotto colore di riannodare le pratiche, e governarsi di guisa da venir a scovar fuori la verità: e siccome Antonio protestava di non esser fornito della voluta accortezza a quell'uopo, Selva si profferì egli stesso, e promise ci sarebbe andato al più presto. Alla qual cosa Vanardi lo sollecitò di molto; impaziente che egli era di aver pur finalmente fra le unghie quello scellerato che gli aveva ammazzato l'amico Alfredo Cioni e di recare, se pur fosse possibile, alcun sollievo al destino certo sciaguratissimo della infelice Gina.

Esaurito questo discorso, Giovanni consegnò a Vanardi la lettera che aveva scritto per lui a Gustavo Pannini, e lo stimolò a recargliela sollecitamente, di quel giorno medesimo, s'ei potesse.

—Bisogna battere il ferro mentre è caldo, soggiunse. Questa mattina il signor Carlo e sua figlia hanno parlato di te a Pannini, ed egli è di certo disposto a far molto in tuo favore…. non bisogna lasciare che si raffreddino queste buone disposizioni.

Antonio annuì a tutto quello che Selva gli disse: ed avess'egli fatto a senno dell'amico, avrebbe risparmiati a lui ed a sua moglie alcuni brutti momenti che, come vedremo, toccò loro di passare: ma quando l'amico fu partito per le sue faccende, Antonio che, a cercare quell'impiego per cui doveva rinunciare all'arte sua, ci andava di mala gamba, si pose in tasca il biglietto introduttivo presso il segretario di Bancone, e determinò essere miglior partito l'aspettare ancora tutto quel giorno se lo zio padrino, commosso dalla lettera mandatagli, non gli rispondesse favorevolmente come glie ne avevan data speranza le parole di Giacomo, e quindi non gli rendesse inutile quel passo che gli gravava assaissimo l'aver da fare.

Ma il poveretto ebbe un bell'aspettare tutto quel giorno ed anche l'altro appresso: nessuna risposta gli giunse da quel barbaro di padrino.

Come avvenne egli mai? Il cuore dello zio droghiere, che, dietro la narrazione di Giacomo, pareva essersi aperto ad un poco di pietà, erasi egli chiuso di nuovo più inesorabilmente di prima? Ecco in che modo era andata la faccenda.

La verità era che il vecchio non aveva potuto leggere lo scritto del nipote senza sentirsi commuovere. La sua collera aveva un bel dirgli che doveva star saldo; la compassione e l'affetto che, malgrado tutto, senza che egli volesse e sapesse, gli durava nell'animo per quel cattivo soggetto d'un nipote, lo piegavano con molta forza a più miti consigli. Antonio po' poi era l'unico parente che ancora gli rimanesse: perdonargli le sue colpe, questo poi no; il fiero droghiere non lo voleva, e dicevasi che non l'avrebbe fatto mai; ma lasciarlo morire di fame poi, la gli pareva troppo dura anche al suo animo irritato.

Ed ancora: se non si fosse trattato che di quell'ingrataccio d'un figlioccio e di quella poco di buono ch'egli aveva sposato, passi: ma c'eran di mezzo dei bambini.

—In codesto ha ragione, quello scellerato: disse fra sè lo zio. I suoi ragazzi non ne possono nulla… I suoi ragazzi!.. E' son pur sangue mio… Poveri bimbi!

Per uno strano gioco di fantasia, rivide col pensiero il suo figlioccio quando ancora bambino egli stesso. Ricordò le mille piccole vicende di quel caro fanciullo ch'egli aveva preso ad amare come suo, e s'intenerì vieppiù. Tolse in un cassetto del suo scrittoio una buona manciata di monete, cambiò il berretto di seta nera col suo cappello a stajo, indossò il pastrano ed uscì di bottega, senza dire una parola ai garzoni, per alla dimora del nipote.

Ma il guaio era che il droghiere sapeva bene qual fosse la strada in cui Antonio abitava, e press'a poco a qual punto della medesima ne fosse la casa, ma non aveva mai saputo o non si ricordava più il numero della porta. Onde, giunto in quella via, rallentò il passo, parve non andar più che di mala voglia, e si diede a guardare alla scimunita di qua e di là, come se sulla facciata delle case dovesse scorgere un indizio che gli mostrasse l'abitazione del nipote.

Già nel tempo che aveva dovuto impiegare a giunger fin lì, quel suo primo impeto di pietà aveva dato giù un poco. S'era venuto via via rammentando il suo giuramento, non solo di non perdonare, ma di non voler nemmanco saper più nulla del colpevole, tutti i gran dispetti che Antonio gli aveva fatto provare, s'era detto che un uomo di carattere non deve lasciarsi avvolgere così facilmente da poche parole, le quali, chi sa ancora se fossero veritiere!

Al sopravvenire di questo dubbio, e' s'era fermato sui due piedi.

—È capace di tutto quel senza fede: aveva pensato. Può esser benissimo una lustra per bubbolarmi denari; ed io, sciocco, mi ci lascerei accalappiare?… Oh no, no. Voglio prima conoscere esattamente come stanno le cose. E se la è una trappola, mal per lui!

Così se ne veniva egli giù per la strada guardando da questa e da quella. Se la fortuna avesse voluto cessare di esser nemica al povero Antonio, l'avrebbe menato lì a quel punto, e messolo naso a naso collo zio. Ma no, essa voleva proprio vederlo alla disperazione, e, per giuocare all'infelice pittore il più brutto tiro Che potesse, trasse fuor della bottega e postò lì sul passaggio del droghiere quella buona lana di messer Agapito.

La giornata era bella, il tempo mite, la solita nebbia degl'inverni torinesi si lasciava lodevolmente desiderare, e un sole giallognolo mandava di sbieco un raggio fin sulla soglia della farmacia. Figuratevi se con un tempo simile il nostro signor speziale poteva starsene rinchiuso nella sua bottega! La graffiatura del suo naso era accuratamente coperta da un pezzetto di taffetà inglese incerottato; la voglia di ciarlare gli era tornata in corpo anche maggiore, e del doppio gli si era accresciuto il maligno talento di tagliare i panni altrui; venne fuori a respirare quelle aure tepidette e riscaldare il suo naso a quel fugace raggio di sole.

Non tardò a vedere lo zio d'Antonio, a lui perfettamente sconosciuto, il quale andava e veniva, come ho detto, col passo incerto di chi cerca una qualche cosa e non trova. Pensatevi se la curiosità di messer Agapito non doveva svegliarsi! Cominciò ad ammiccare a quell'incognito passeggero, e fargli certi cenni d'interesse e certi sorrisi di mezzo saluto, finchè vedendo che l'altro non gli badava punto, non si tenne più dal rivolgergli addirittura la parola.

—Signore, gli disse scendendo dallo scalino, e toccando per saluto la tesa del suo berretto; non vorrei essere indiscreto; ma mi pare che lei vada cercando per queste parti di qualche cosa… Io, se posso essere utile a qualcheduno, sono l'uomo più lieto del mondo… Che vuole? Son fatto così, io… Non potrei vedere un gatto negl'impacci senza andarlo a districare… Adunque, siccome questo quartiere io lo conosco poco su poco giù come la mia bottega, e so a qual ripiano di qual casa abiti questi o quegli, come so a qual ordine delle mie scansie vi è il tale o il tal altro barattolo, così se lei ha bisogno di qualcheduna di siffatte informazioni, io son qui a suo servizio, e non le accade che domandare.

Lo zio d'Antonio, al primo affacciarglisi di costui che non conosceva, fece una sosta e stette ascoltando stupito e incerto del come rispondere. Poi pensò che questo tale poteva benissimo informarlo al giusto delle condizioni del nipote; e che non sapendo affatto chi fosse a interrogarlo, era disposto senza dubbio a non falsare la verità. E come poteva mai immaginare che in quello speziale dalla faccia sorridente ci fosse alcuna animosità contro il pittore?

—La ringrazio, rispose adunque il droghiere: cerco appunto d'un tale che deve abitare qui presso, ma di cui non so il numero della porta.

—Ebbene, s'ella me ne dice il nome, io ci scommetto che so dargliene il giusto indirizzo.

—Gli è un pittore…

Agapito diede in un leggier trasalto.

—Ah, ah! interruppe. Vanardi, forse?

—Giusto. Lei lo conosce?

Lo speziale alzò le spalle, insaccò il capo, allungò il labbro inferiore e mandò una voce d'un'espressione poco lusinghiera pel povero Antonio.

—Euh!… Lo conosco pur troppo. Sta qui, in questa casa medesima, su fino al di sopra del tetto. Me lo vedo passare dinanzi ai vetri della bottega una diecina almeno di volte al giorno.

—Esce di frequente?

—Non fa che andare a zonzo.

—Non trova dunque lavoro?

—Non ha voglia di lavorare… E poi, affè che per dargli alcun lavoro bisogna proprio voler gettare via il denaro.

—Vuol dire che è poco abile nell'arte sua?

Lo speziale volle grattarsi, secondo il suo solito, la punta del naso; ma il suo dito incontrò il cerotto che copriva la graffiatura. Ciò non lo dispose ad essere benigno per Antonio, fece una smorfia e rispose:

—Poco abile!… Vorrebb'ella forse commettergli qualche lavoro?

—Precisamente.

—Ebbene, accetti un consiglio d'amico. Vada piuttosto a pigliare uno di quegl'imbianchini che scialban le case.

—Ma dunque, e' non val niente?

—Dia retta: l'espressione sarà un po' forte, ma è giusta: gli è un asino calzato e vestito.

—O diavolo! esclamò lo zio, un po' offeso contro lo speziale, ma irritato molto più contro il nipote.

—E con ciò egli ha delle pretese che a chiamarle impertinenti è dir poco.

—Davvero?

—Domanda dei prezzi impossibili… Guardi: io amo troppo il mio prossimo per non avvertirnela… E parlo per esperienza, sa!… vede questi due brutti figuri che fanno vergogna alla mia bottega e che un giorno o l'altro caccerò sul fuoco? E' non valgono quattro soldi l'uno, e quel birbone me li ha fatti pagare un occhio della testa.

—E lei, signore, ha pagato?

—Che cosa vuole?… È così insistente!… Un par mio non fa scandali, non si cimenta con di quella gente… Ho pagato.

—Sarà forse la necessità che lo spinge a domandar più che non valga il suo lavoro. Mi è stato detto ch'egli era nella massima miseria…

Lo speziale crollò le spalle e si mise a sogghignare.

—Miseria! miseria! La solita scusa di tutti codesti viziosi che amano spassarsela e non far niente.

—Ma egli ha pure moglie e figliuoli.

—Ah, sì, la moglie…. Una buona lana, anche quella… Lei la conosce?

—Io no.

—La è una pettegola che meriterebbe di stare colle rivendugliole in piazza dell'erbe. Una chiassona, un'impertinente… una linguaccia poi!… una matta, infine, senza ordine e senza giudizio: non so se mi spiego.

—Corbezzoli! La si spiega benissimo. La ringrazio di queste informazioni di cui farò mio pro.

Lasciò lo speziale e si avviò per tornarsene senz'altro a casa sua; ma il desiderio glie ne venne ancora di edificarsi di meglio intorno alle cose di suo nipote. Passando innanzi al portone, vide scritto al di sopra del finestruolo le classiche parole: parlate al portinaio, ed avvisò che niuno poteva dirgliene di più, e di più preciso, che il portiere. Entrò adunque nel camerino in cui stava, come di solito, la madre di Giacomo.

Ora, vedete accanimento della sorte contro il nostro Antonio; in quell'istante appunto, la portinaia, che, per quella tal ragione dell'assenza totale di mancie da parte del pittore, era già d'ordinario assai poco propizia a costui, trovavasi infiammata da una nuova e non piccola collera contro il nipote del droghiere.

Suo figlio, Giacomo, era tornato nella loggia dopo un troppo lungo intervallo—prima colpa che la portinaia era poco disposta a perdonare così agevolmente—ed inoltre era tornato col povero cervello offuscato dai fumi del vino bevuto ad Antonio.

La madre gittò le grida le più indignate, come se le avessero corrotta la virtù del figliuolo sino allora innocente; cominciò per isfogare il suo sdegno e correggere il traviamento del giovane coll'applicazione sonora di due schiaffi solenni, ed immediatamente relegò il colpevole nel soppalco che doveva servirgli di carcere sino alla largizione d'una generosa amnistia; ed aspettava la prima occasione per dire il fatto suo al seduttore di Giacomo, quando il droghiere, già sì poco ben disposto verso suo nipote dalle parole dello speziale, le venne innanzi ad interrogarla sul conto del pittore medesimo, contro cui essa l'aveva sì amara.

—Una poco buona razza di gente: rispose la portinaia incollerita. La mi domanda se son nella miseria…. Eh! non si meritano altro. Per pagare a cui devono, certo non si san trovare i denari, ma per far delle orgie sì che son capaci di procurarseli.

—Per far dello orgie? sclamò il droghiere meravigliato e incredulo.

—Sì signore… delle vere orgie.

E la portinaia raccontò a suo modo, come quella stessa mattina, in casa del pittore, vi fosse stato un pasto suntuosissimo, a cui suo figlio medesimo avendo preso parte vi era venuto giù con una cotta vergognosa.

Lo zio d'Antonio non volle più sentir altro. Come! Lo stesso dì, nello stesso momento quasi che scriveva a lui quella lettera così raumiliata e supplichevole nella quale narrava sì pietosamente l'infelicità de' suoi casi; mentre egli, lo zio, si lasciava da quelle parole commuovere e veniva con tanta premura verso il nipote per soccorrerlo, il tristo si abbandonava—per chiamarla colla parola della portinaia—ad un'orgia! Avevano dunque voluto beffarsi di lui: quel soccorso che sarebbero riusciti a spillargli era dunque destinato a procurare a que' viziosi nuovi piaceri di simil genere!… Ed egli, bestione, s'era lasciato intenerire! egli aveva creduto ai loro piagnistei!… L'irritazione che ne provò rese di botto il padrino d'Antonio ancora più inasprito contro suo figlioccio; e troncando in fretta il suo colloquio colla portinaia, egli se ne tornò al suo fondaco, ripetendo a sè stesso il giuramento che più volte aveva fatto e che ora pur tuttavia aveva violato, di non voler più a niun conto interessarsi nè sentir parlare delle cose di suo nipote.

E così avvenne che Antonio non ricevesse alcuna risposta dallo zio.

Il terzo giorno dopo mandata la lettera, Vanardi cominciò a perdere ogni speranza. Eppure gli pareva impossibile che il padrino, il quale un dì lo amava cotanto, ora potesse rimanere affatto insensibile a quel suo grido di soccorso. Uscito di casa, i suoi passi lo portarono senza precisa sua volontà, verso il fondaco dello zio. Quando i suoi occhi ebbero dinanzi i famosi quadrilateri colorati che il tempo aveva fatti sbiadire, al di sopra della bottega, Antonio sentì saltargli il cuore nel petto più ancora di quello che avrebbe immaginato. Da tanto tempo egli non era più entrato là dentro: da tanto tempo egli usava perfino evitar quella strada! Si fece animo tuttavia. Gli parve che passando e ripassando innanzi a quel fondaco alcuna cosa dovesse sopravvenire, ond'egli avrebbe avuto occasione d'apprendere qualche cosa della sua lettera. Ed ecco il nipote girare nelle vicinanze dell'alloggio di suo zio, come questi avea girato due giorni innanzi per la strada abitata dal nipote. Ma finalmente a costui il freddo dell'aria frizzante invernale e la necessità imperiosa diedero il coraggio di abbrancare la gruccia della serratura, di volgerla, di aprir l'uscio ed intromettersi timidamente nel tepore della bottega del droghiere.

Nulla era mutato in essa. Al solito posto c'era il solito banco, a cui con tanto suo fastidio Antonio stesso s'era provato, senza troppo buona riuscita, ad avviluppare con grazia cartocci di pepe e di cannella; dietro il suo paravento lo zio. Questi, come sempre all'udir entrar gente, sporse in fuori la testa e guardò chi fosse; vedendo suo nipote, egli arrossì di sdegno fino sulla fronte. S'alzò di scatto da sedere, rigettò con forza il seggiolone, si slanciò dietro il banco che era lì vicino, come un oratore nella tribuna, e battendo violentemente su di esso col pugno chiuso, prima che Antonio avesse tempo ad aprir bocca, gridò:

—Che cosa vuole, signorino? Che cosa viene a far qui? Questo non è luogo per lei nè pei pari suoi. Mi pigli la porta subito…

Antonio, tutto confuso e sbalordito, provò a balbettare con aspetto ed accento da supplichevole:

—Caro signor zio, caro signor padrino… E il droghiere più invelenito:

—Che zio! che padrino! Qui per lei non c'è più nè l'uno nè l'altro. Qui non c'è che un uomo il quale si vergogna di molto d'aver con lei comune un nome ch'ella disonora…

A questo punto Antonio levò fieramente il capo.

—Mio zio! diss'egli, questo è troppo…

Ma l'altro senza lasciarlo parlare:

—Vada via, vada via. Non la voglio sentire, non la voglio vedere…

E come Antonio insisteva, il droghiere con più calore:

—Vada, o la faccio cacciar fuori dai miei garzoni.

—Vado, vado: gridò Antonio, pallido per ira; ma badi bene, signor zio, che di questo indegno trattamento a mio riguardo avrà da pentirsi un giorno.

Ed uscì ratto, chiudendo con violenza l'uscio dietro di sè. Corse a casa sua in uno stato d'animo che è più facile immaginare che dire; e trovò Giovanni che veniva a dirgli il risultato della sua visita al signor Marone, ed a domandargli quello del colloquio di lui con Pannini.

Ma Vanardi era sì commosso che non potè discorrere d'altro, finchè non ebbe contato con ogni più minuta particolarità la scena avvenuta collo zio, e non ebbe dato colle sue parole un po' di sfogo allo sdegno ed al dolore che lo travagliavano per quella disgustosa vicenda.

Selva si adoperò colle migliori e più amichevoli ragioni che seppe trovare a versare alcun conforto nel povero afflitto, e la Rosina invece non si occupò che di staccar moccoli all'indirizzo di quel birbone spietato d'uno zio.

Quando marito e moglie furono un po' più calmi, Giovanni allora prese a dire:

—Tutto ciò rende più necessario che mai la tua ammissione all'impiego ch'io ho pensato di procurarti per mezzo del signor Pannini. Ti sei tu recato da lui per presentargliene la mia lettera?

Antonio confessò, non senza un po' di confusione, che non era stato colà, e che quindi quella lettera giaceva tuttavia inoperosa nel fondo della sua saccoccia.

Selva ne lo rimproverò amorevolmente: i medesimi rimbrotti, ma con meno mitezza, ripetè la moglie: e il pittore col capo chino come un ragazzo in fallo, promise che di quel giorno sarebbe andato dal signor Pannini; e intanto, non malcontento di cambiar discorso, domandò all'amico, s'egli da parte sua fosse andato, come aveva detto di voler fare, dal signor Marone ed avesse potuto parlargli.

Giovanni Selva non aveva fallito alla sua promessa, ed espose il risultamento della sua gita.

Marone non abitava mica nella casa di sua proprietà, ma prendeva a pigione tre stanzuccie ad un quarto piano non molto lontano, dove albergava i suoi miseri penati e la vecchia donna che lo serviva.

Selva n'era stato ricevuto come uno cui non si vuole fare sgarbi, ma la cui presenza non ci va troppo a' versi, e l'amico d'Antonio, mostrando di non accorgersi niente affatto di codesto, era entrato di questa guisa nell'argomento che lo interessava:

—La non si stupisca se vede venir me ad entrarle in discorsi che non mi riguardano e parlare in luogo e vece di altri: chè a dire il vero dovrebb'essere il buon amico Vanardi a venirle a domandare le spiegazioni che si desiderano; ma che cosa vuole, quel povero uomo oggi trovasi così impedito….

—Vuol dire ch'ella viene per conto del pittore? interruppe il padrone di casa coll'aria e l'accento d'un uomo che vuole sbrigarsela al più presto.

—Signor sì.

Marone volse sul suo interlocutore uno sguardo che voleva essere scrutativo ed era sospettoso:

—Non so che cosa possa esservi da trattare fra me e il signor Vanardi fuori della pigione ch'egli mi deve ed è gran tempo mi paghi… Se gli è di ciò che lei è incaricato, la cosa sarà presto fatta…

—Sì, parleremo anche della pigione, poichè lei signor Marone può essere in caso di somministrare al mio amico i mezzi di pagarla.

—Di grazia si spieghi.

—Ecco! Jeri ella è andata colà in compagnia d'un signore che manifestò il desiderio d'acquistare quel ritratto di donna che Vanardi possiede. Come lei sa, o non sa, e allora glie lo dico io, quella tela è di molto preziosa pel mio amico, tanto che non si deciderebbe a venderla se l'inesorabile necessità non ve lo spingesse…..

—Egli dunque si è deciso a venderla? interruppe Marone con qualche interesse.

—Sì, ma solamente quando da questa vendita che assai gli duole, egli possa ricavare quel buon profitto onde abbisogna.

—Bene! Vanardi mi faccia sapere le sue intenzioni; me le dica lei stesso signor Selva se le conosce, ed io guarderò d'aggiustar la faccenda.

—Scusi: ma ci piacerebbe di meglio aggiustarla noi la faccenda direttamente col compratore.

—Come sarebbe a dire? Si diffida di me?

—Niente affatto; ma siccome da una parte noi si tiene molto a quel quadro, dall'altra quel cotale ha mostrato assai desiderio di averlo, si desidererebbe trovarsi a fronte di quel signore per fargli capire che non altrimenti ci acconcieremo a spossessarci di siffatto oggetto se non ce ne viene offerto un prezzo che assesti i nostri affari, cominciando da quella benedetta pigione che dobbiamo a lei. Gli è per ciò che son venuto a domandarle, caro signor Marone, di volermi indicare dove e come potrei trovare l'uomo in quistione.

—Che cosa importa parlare con uno piuttosto che con un altro? Le dico che se comunicano a me le loro condizioni io guarderò d'ingegnarmi…

—No signore. A noi c'importa cotanto di trattar noi medesimi col compratore che questa la è una condizione sine qua non.

—E se quel compratore fossi io stesso?

Selva fece un movimento di profonda incredulità.

—Lei? Finora la fu così poco amante di oggetti artistici che non saprei proprio immaginare qual pregio potesse mettere a quel ritratto d'una persona ch'ella non ha conosciuta. Quell'altro invece, quello sconosciuto che con lei andò in casa il mio amico, può avere alcuna sua ragione particolare per volere in sue mani quel quadro; e perciò noi potremmo intenderci con esso a molto miglior vantaggio da nostra parte. La mi faccia dunque questo piacere, signor Marone, di indicarmi la dimora e il nome di colui.

Allora Marone, tergiversando, rispose che questo sconosciuto non era altro che un perito estimatore di oggetti d'arte: voler egli essere schietto del tutto, e quindi confessare al signor Selva, come al vedere quella tela incorniciata fosse colpito dal pensiero che la poteva essere di qualche valore, da assicurargli il pagamento del suo credito verso il pittore; perciò essersene interessato, perciò soltanto aver voluto esaminarla di meglio, perciò avervi condotto di poi a vederla un intelligente di pittura per sapere s'egli non era in inganno. Codesto intelligente, che non era da cercarsi se fosse Tizio, Caio o Sempronio, avendo trovato che quella tela aveva un certo valore, Marone si dichiarava pronto ad entrare in trattative per comperarla, senza che altri più ci si avessero da tramezzare.

—Come tu vedi, conchiudeva Giovanni, da quel birbo, per ora, non c'è da tirarne nulla. L'ho mandato a benedire e me ne andai pei fatti miei. Sono convinto che gli è Orsacchio quell'uomo ch'egli ha menato qui, ma che gli ha promesso di tacere ad ogni modo.

—E dunque, esclamò Vanardi con doloroso disappunto, non potremo venir mai in chiaro di nulla?

—Quanto a ciò non ho ancora perduto ogni speranza. Orsacchio ha visto quel quadro e sono persuaso che vorrà possederlo ad ogni costo. E per mezzo di Marone di nuovo, o per altro modo, tornerà all'assalto senza fallo, e noi potremo forse averne qualche bandolo da guidarci in questo intrico allo scoprimento della verità. Frattanto, mio caro Antonio, non dimentica i tuoi propri affari, che hanno pure così bisogno tu ci provveda; vanne subito subito al palazzo Bancone in cerca del signor Pannini.

Vanardi obbedì. Indossò quel certo soprabito color marrone di cui aveva parlato la Rosina, si diede una buona spazzolata dal cappello sino alle scarpe ed uscì avviandosi alla volta della casa del milionario banchiere.

XIII.

Il palazzo Bancone era in uno de' quartieri più signorili della città. Vi si entrava per un alto ed imponente portone che metteva in un vasto atrio a colonne, di severa ed elegante architettura. Era un palazzo storico che i denari del borsiere avevano conquistato dalla decadenza di un'antica famiglia. Il genio della borghesia danarosa s'era affrettato a porre il suo stampo sull'orgogliosa aristocratichezza di quelle linee architetturali. In quell'ampio atrio fastoso, accosto allo scalone di marmo, che coi suoi primi gradini più lunghi e col risvolto delle sue allargantisi balaustre a colonnette di marmo finamente scolpite, pareva espandersi sullo spazzo del vestibolo, giacevano rammontate alcune ignobili casse di legno coll'ignobile marca della dogana; ad una porta alta, con ornamenti di stucco a cartocci, era appiccata una meschina e bassa bussola di legno con uscio coperto di panno verde, e sopravi una lamina ovale in ottone che aveva incise le parole: BANCONE e C. banchieri.

Colà erano gli uffici della banca. Per impiegare più utilmente tutti i locali di pianterreno, al portinaio erano state tolte le stanze che ci aveva, e di cui una, pel classico finestrino, guardava sotto il portone. Il finestrino era stato murato, ed al portiere s'era fatto fabbricare un casotto che ingombrava e guastava l'atrio, ma che portava scritta ad alti caratteri neri l'orgogliosa leggenda: PARLEZ AU CONCIERGE.

Vanardi non ebbe bisogno di consultare quest'autorità della porta, ed entrò difilato negli uffizi.

Le sale di questi erano vaste ed altissime. Gran finestroni con inferriate a inginocchiatoio pigliavano luce dalla strada e la trasmettevano travelata da tendoline verdi pendenti ai telai delle invetriate. Tutte le stanze comunicavano tra di loro per porte di facciata l'una all'altra; dall'un uscio all'altro, in ogni stanza correva un tramezzo di legno più alto d'un uomo che ci faceva come un corridoio di passaggio, segregando il resto della sala, dove, sottratti alla vista di chi entrasse, stavano secondo lor grado ed ufficio, ciascuno ad una scrivania, i commessi della banca. Nel tramezzo, in ogni sala, s'aprivano due usciòli: sopra ognuno dei quali una lamina d'ottone indicava qual genere d'impiegati s'avesse a trovare in quello scompartimento. Sull'ultimo di questi usciòli nell'ultima stanza, siffatta lamina più grande, con caratteri più visibili, portava la magica parola: CASSA.

Gli usci d'ogni sala erano impannati di verde; sul pavimento, dall'ingresso fino al fondo di quella specie di corridoio, si estendeva una striscia larga un metro di panno verde, alle pareti di quelle tre stanze trammezzate era appiccata una tappezzeria di carta, di color bigio a fiorami bianchicci, di poco valore. Le volte, che si arrotondavano in una curva elegante sopra un cornicione a stucco bellamente lavorato, portavano traccia tuttavia d'antiche dipinture a fresco con ornamento di fogliami e dorature. Ma il dipinto era qua svanito pressochè del tutto, là sporco e affumicato, altrove scrostato e ricoperto da un'arricciatura di semplice calce per riparazione; di guisa da non potersi discernere più in nessun modo che cosa ci fosse in esso rappresentato.

Quella specie di corridoio faceva poi capo ad un salotto elegantemente arredato. C'era un camino di marmo, in cui vampava un allegro fuoco; c'erano sofà e poltrone signorilmente ricoperte di stoffa di valore; c'erano tavolini eleganti artisticamente intarsiati di legni preziosi; c'era un ricco tappeto sullo spazzo, ricche tappezzerie alle pareti, ricchi arazzi alla finestra ed alla porta, ricchi bronzi sul camino e sulle mensole. Sull'uscio che stava in prospetto a chi entrasse dal corridoio vedevasi una lastrina di metallo del colore e della lucidezza dell'oro in cui stava inciso: GABINETTO del signor BANCONE: un altr'uscio metteva nello scrittoio del primo commesso, il sig. Padule.

Nell'entrare in quelle stanze, ti pigliava al capo ed alla gola quell'afa soffocante che danno le stufe troppo riscaldate, atmosfera propria di tutti i pubblici uffici. In tutte quelle sale regnava un alto e solenne silenzio, che quasi t'incuteva reverenza: di quando in quando soltanto s'udiva un susurrar di parole a bassa voce, lo scricchiolare d'una penna corrente sulla carta, e il più sovente poi un tintinnio di monete che si maneggiavano, si contavano, si mettevano a pile, si facevano scorrere nei sacchetti.

Nel momento in cui Vanardi, il suo cappellaccio in mano, entrava timorosamente in quel tempio della moderna divinità, il rumore delle monete maneggiate era forte e spiccato da tornare a chiunque, e massime ad un povero diavolo, la musica la più seducente e la più inebriante che esser possa. Pareva una cascatella intermittente di scudi, di cui ciascuno con allegra nota cantasse i vantaggi e le glorie del denaro. Quel suono acuto, squillante, argentino, che manifestava dei vistosi valori in cui erano rappresentati gioie, soddisfazioni, agi della vita a bizzeffe, era per un ghiotto di fortune una tentazione, un immorale invito, una provocazione; per uno spiantato come il nostro pittore, uno scherno ed un'offesa.

Appena entrato, Antonio sovrapreso da quel caldo, da quell'afa, da quel suono, stette lì senza sapere nè che fare nè dove andare, nè a cui rivolgersi. Non vedeva nessuno, non osava inoltrarsi; dopo un poco tossì forte, fece due passi per vedere se qualcheduno gli badasse; niuno si mosse, benchè dietro l'assito che tramezzava udisse il bisbiglio di una conversazione. Allora si decise coraggiosamente ad aprire uno di quegli usciuoli e cacciarvi dentro la testa.

—Il signor Pannini? domandò egli.

In quello scompartimento c'erano due giovani elegantemente vestiti che discorrevano: uno seduto ad una scrivania, l'altro in piedi accanto a lui.

Quest'ultimo, all'entrare ed alle parole d'Antonio, volse con sussiego la faccia sul suo goletto duro all'inglese ed esaminò con superbo cipiglio l'interrompitore dei suoi discorsi. I poveri abiti di costui non gli valsero la cortesia del giovane commesso.

—Che cosa volete dal signor Pannini? chiese altezzosamente.

—Parlargli: rispose Antonio, e s'affrettò a soggiungere: ho una lettera da dargli in proprie mani.

—Ah! ah! fece il commesso. Andate al fondo, nel gabinetto del signor Bancone.

E senza più voltò le spalle a Vanardi.

Questi richiuse l'usciolo e s'avviò verso il fondo; passò le tre stanze e giunse nel salotto, il quale era deserto; vide la dorata lastrina coll'inscrizione che indicava il gabinetto e fece ad aprire la porta su cui ella era, ma l'uscio era chiuso a chiave. Era segno evidente non esservi nessuno: il primo proposito d'Antonio fu di partirsene; se ne rimase trattenuto dall'idea de' suoi troppo pressanti bisogni. Pensò di chiederne nuovamente a qualchedun altro meno scortese di quel primo; ma la tema di essere importuno lo trattenne. Poichè quel commesso non gli aveva detto che Pannini fosse uscito, il pittore avvisò ch'egli non sarebbe stato assente che per pochi minuti, e che il miglior partito era perciò quello di sedersi lì in una poltrona accanto al fuoco ed aspettare.

Il rumore del denaro maneggiato continuava. Vanardi gli si trovava ora vicino vicino, poichè lo scompartimento sul cui uscio stava la parola Cassa era il più accosto al salotto.

Vanardi aspettò un pezzo, e il tempo glie ne parve anche più lungo di quel che fosse realmente. Quel suono di monete continuava sempre. Dapprincipio aveva prodotto al nostro povero amico una sensazione che non era affatto sgradita.

—Eh! eh! che rotoli di denaro! andava egli pensando; ed è tutt'oro lampante! Colla somma che il cassiere conta in cinque minuti di tempo io ci avrei da vivere per un anno, e non sarei qui nell'attitudine umiliante d'uno che dimanda press'a poco l'elemosina… Pensare che forse io non arriverò mai a guadagnarmi un simile annuo reddito!… Se avvenisse un po' ch'io, adesso sul momento, mi trovassi di botto posseditore di quella cassa così ben fornita! Se per un miracolo quell'uomo che è lì dentro rimuginando denaro a piene mani venisse fuori a dirmi: «Signore, tutto questo è roba sua!» O mio Dio! Non più miseria allora, non più umiliazioni… Che direbbe Rosina?… I nostri bimbi avrebbero dei buoni abiti, e buon cibo, e buon fuoco, e buon alloggio, e buona educazione… Scommetto che ce n'è tanto di denaro in quella cassa lì, da farcene tener carrozza.

Ma qui s'interruppe ridendo di sè medesimo.

—Ve' se son matto! Sto fabbricando dei castelli in aria come un ragazzo. Gli è quel perseverante tintinnio che mi toglie il mio buon senso. Che diavolo! Non ha finito ancora quel benedetto cassiere di far danzare i marenghini? Gli è mezz'ora ch'ei se ne compiace. Pare che ci pigli il suo spasso, lui: quanto a me sono già più che stanco d'udirlo.

E difatti, durando, quel suono aveva finito per infastidirlo, e quasi lo irritava.

Gli era sembrato di poi che lo star lì ad ascoltare fosse in lui quasi una indiscrezione.

—Il cassiere non sa che qui vi sia qualcheduno: diceva egli fra sè. Sapendolo, forse cesserebbe, e farebbe venire il signor Pannini per isbrigarmi… Chi sa che questo signore non sia lì con esso lui?… Se andassi a vedere?

Ma l'aprir quell'uscio su cui era scritta la gran parola cassa, ed entrare colà dentro dove suonavano quelle cascatelle di monete gli parve una temerità senza pari; ed egli sarebbe stato lì inoperoso ad aspettare chi sa fin quando, se un nuovo personaggio sopraggiunto non fosse venuto a prestargli soccorso.

Era un uomo giovane ancora, cogli abiti dell'elegante e l'aria e il passo solleciti dell'uomo d'affare. Entrò senza levarsi il sigaro di bocca nè il cappello dal capo; non mandò non che un saluto, ma neppure un'occhiata ad Antonio, e si diresse frettoloso verso la porta del gabinetto. Trovatala chiusa fece un atto ed un'esclamazione di viva contrarietà e venne più lentamente verso il camino studiando in apparenza seco stesso quel che dovesse fare.

—A quest'ora ci dovrebbe già essere, borbottava egli fra sè. Bisogna assolutamente ch'io gli parli… e non ho mica tempo da perdere io.

Guardò l'orologio, trasse di tasca un piccolo libriccino di appunti in cui consultò alcune noterelle scritte colla matita e battè con piede impaziente il tappeto del pavimento; poi si volse tutto d'un pezzo ad Antonio:

—Saprebbe dirmi lei se Pannini tarderà molto a venire?

—Non so nulla, rispose Vanardi. Lo aspetto anch'io, e già quasi da un'ora.

—Allora domandiamone qui al cassiere.

Si diresse verso la cassa ed Antonio gli tenne dietro.

Lo scompartimento dov'era la cassa aveva in metà per tutta la sua lunghezza una specie di barriera che lo divideva in due, alta un metro; su questa barriera per l'altezza d'un altro metro si levavano infissi dei grossi bastoni di ferro, i quali avevano appiccato una fitta graticella di fil di ferro fortissimo, e dietro questa grata pendevano delle tendoline verdi che nascondevano affatto alla vista di chi fosse nella prima la seconda parte di quello scompartimento: nella grata medesima si vedevano due sportelli che s'aprivano facendo scorrere in su il piccolo battente. Di dietro a quelle tendoline veniva sempre il rumore del denaro maneggiato.

Il nuovo venuto andò ad uno di que' sportelli e, battendovi dentro colle dita, chiamò in pari tempo, colto voce dell'uomo sicuro del fatto suo:

—Signor Busca! signor Busca!

Il rumore della monete cessò di botto; dopo un momento il battente dello sportello stridette scorrendo nelle sue scanalature, e nell'apertura si mostrò la faccia del cassiere. Una faccia d'uomo innanzi negli anni, sulla quale erano tutte le mostre di poca intelligenza e di molta onestà; qualche cosa dell'espressione che ha il muso d'un cane fedele posto a custodia d'una casa; fronte stretta ma piana e liscia, senza le rughe della riflessione come senza quelle del vizio; testa piccola senza bernoccoli di facoltà intellettive, ma senza quelli eziandio dei cattivi istinti; sguardo tranquillo, sereno, senza luce; sembianze apatiche d'un uomo ridotto a macchina, che non ha nè voglie, nè desideri, nè piaceri, nè noia.

Guardò i due uomini che gli stavan dinanzi coi suoi occhi scolorati e disse con voce un po' trascinante e con accento indifferente:

—Buon giorno, signor Borgetti; che cosa comanda?

—Cerco di Pannini: rispose colui che ora sappiamo chiamarsi Borgetti; e mi stupisco che non sia ancora al suo posto.

Il cassiere trasse dal taschino del panciotto un orologio d'argento grosso come uno scaldaletto, e guardò l'ora.

—Oh oh! davvero che è in ritardo. Dovrebbe già esservi… Ma, ora che mi ricordo, oggi egli è andato a far colazione su col principale; e quelle sono colazioni che non finiscono tanto presto.

Borgetti tornò a dar segni d'una viva contrarietà.

—Diavolo! diavolo!.. Io che ho bisogno di parlargli subito subito.

—Ad ogni modo non può tardare a venire: soggiunse il cassiere.

—Od anche manderò su un garzone a farlo scendere.

—Come vuole: disse il signor Busca. E quest'oggi i fondi pubblici che cosa hanno fatto?

—Ribasso su tutta la linea… La liquidazione sarà difficile, glie lo dico io… Il riporto è disastroso… Vi saranno delle esecuzioni senza pietà.

—Ne sono persuaso.

Qui il cassiere fece un moto di capo verso Antonio.

—E lei che cosa desidera?

—Aspetto ancor io il signor Pannini.

—Ah!… Signor Borgetti, la non mi comanda più niente?

—No, signor Busca.

—A buon rivederla.

—Stia bene.

Lo sportello si richiuse, e ricominciò il suono del denaro maneggiato.

Borgetti andò in cerca d'un garzone, Vanardi tornò nel salotto.

Gustavo Pannini era stato diffatti invitato a far colezione dal banchiere, il quale, come non di rado avveniva, l'aveva preso a braccetto e l'aveva condotto seco di sopra al piano superiore ne' suoi suntuosissimi appartamenti.

Siccome gravissime vicende che avrò da raccontarvi furono cagionate dalle impressioni che il genero del signor Biale riceveva in quell'atmosfera di ricchezza e di sfarzo di cui si circondava lo sfondolato banchiere, non sarà inopportuno che saliamo anche noi quell'elegante scalone di marmo ed assistiamo al finire dell'asciolvere del signor Bancone e de' suoi invitati.

XIV.

La sala da pranzo del signor Bancone è delle più eleganti possiate immaginare. Due alte e grosse credenze di legno d'acero artisticamente ed acconciamente scolpite a rappresentare fiorami, frutta e selvaggina si drizzano alle due pareti principali, ed in questo momento in cui stanno aperte lasciano scorgere le porcellane più ricche e i cristalli più tersi, di piatti, bicchieri e bottiglie che possano servire per la sontuosa mensa d'un milionario. Alla tappezzeria di color tané, simulante cuoio cordovano, sono appiccati alcuni quadri di buon autore rappresentanti, come si suol dire, soggetti di natura morta, e al di sopra delle porte l'intelaiatura dell'uscio si termina con un quadro in cui sono dipinti dei fiori e delle frutta. Le seggiole fatte all'antica con alta spalliera e di legno scolpito ancor esse, sono coperte di cuoio cordovano attaccato con borchie di metallo dorato. Nelle altre due pareti, diverse da quelle a cui stanno appoggiate le credenze, si fan fronte da questa parte un largo camino ornato di marmo scolpito, da quella una mensola di legno intagliato e sopra ad ambedue due alti specchi nitidissimi con cornici di legno uguale a quello dei mobili ed ugualmente lavorato, che si riflettono le loro immagini all'infinito. Tanto sopra il camino quanto sopra la mensola, dei grandi e stupendi candelabri di bronzo; sul camino, un orologio compagno, di gran dimensione e di forme elegantissime; a mezzo della sala, pendente dalla volta, una bella lumiera di bronzo eziandio con una selva di candele infisse nelle sue branche.

Ora che noi mettiamo i piedi sul lucido spazzo di legno intavolato e inverniciato, il déjeuner volge al suo fine, e i convitati mostrano un'animata vivacità, di cui dànno ampia ragione il manipolo di bottiglie che drizzano il loro collo sulla tavola e la schiera un po' disordinata di bicchieri di varia forma che ciascuno ha dinanzi. Lo sciampagna spumeggia negli alti calici allargantisi a coppa; un allegro fuoco schioppetta sotto il camino; due domestici in piccola livrea vanno mescendo il biondo liquore dal collo della bottiglia coperto di carta inargentata, appena vedono vuoto il cristallo d'un bicchiere; una profusione di argenterie lucicchia sulla tavola, dove la rarità e la bellezza delle frutta in quella stagione invernale dà indizio della sontuosità di quell'asciolvere, che ora è giunto al suo fine.

La grossa persona del signor Bancone siede in capo alla tavola in un seggiolone a bracciuoli: e, come il Trimalcione del famoso festino di Petronio, anima i convitati a bere e i domestici a servire, mentre per impiacevolire viemmeglio coi discorsi il banchetto non trova nulla di più acconcio che parlare di sè, delle sue fortune, e fare con poca modestia il suo panegirico. Vezzo di parvenu. Dei personaggi che fanno corona al superbo anfitrione non ce ne sono che due, i quali hanno alcuna cosa da fare colla nostra storia: il primo è Gustavo Pannini, il secondo è un medico di cui abbiamo già udito menzionare il nome, il dottor Lombrichi; gli altri sono parassiti, più o meno spiritosi, più o meno adulatori, che pagano colla piacenteria il diritto di venire a porre al caldo i loro piedi nel folto pelo delle pelli belluine che stanno innanzi ad ogni convitato sotto la tavola da pranzo del milionario banchiere. Per costoro ogni motto dell'anfitrione è un'ingegnosa facezia, ogni sua osservazione è un ragionamento sapiente e profondo; avvicendano i loro numerosi e grossi bocconi agli scoppi di risa ed alle esclamazioni ammirative, accompagnando ogni cosa di cenni del capo entusiasticamente approvatori.

Bancone, colla sicurezza di chi sa di non poter essere contraddetto, coll'imponenza di un uomo che ha parecchi milioni di suo, parla di tutto e di tutti, e dice spropositi da cavallo sopra ogni cosa di cui possa parlare un uomo, come si suol dire, di mondo. Gustavo, abbacchiato dalla ricchezza, riconoscente al suo principale di quella preferenza che mostra per lui, crede in buona fede al merito d'un uomo che ha saputo guadagnare sì splendida fortuna; il dottor Lombrichi, tutto miele per tutti i ricchi, non ha che parole di complimento per chi gli reca o può recare quandocchessia alcun vantaggio e presenta ad ogni beniamino della sorte un bel sorriso cordiale sulla sua faccia fresca e rosata dai baffi incerati, dal pizzo ben ravviato e dai denti candidissimi; ma talvolta ascoltando le superbe grullaggini di Bancone, quando questi non vede, quel suo sorriso prende una tinta d'ironia che ben mostra com'egli apprezzi i talenti, la dottrina e l'educazione di quel fastoso rincivilito.

—Bevete, miei cari, diceva dunque Bancone adagiando la schiena sopra la soffice poltrona e mettendo in aria il suo ventre enorme: bevete, che diavolo, chè di vino come questo non ne troverete altrove, ve lo dico io.

Le teste dei convitati si chinarono con una zelante premura come una sola testa, e delle esclamazioni d'assenso partirono dai ventricoli saziati, con piena convinzione.

—Questo Champagne rosè è vero Moët… Möet et Chandon, leggete la scritta… Tutto ciò che vi ha di meglio nel genere… Me lo faccio venir io apposta di Francia… e non mi mandano che proprio il più fine… la fleur du panier. Oppure amate meglio quel vino lì del Reno?… E abbastanza grazioso, non è vero? Gli è quello che si chiama Lab… Lib … Un nome strano.

Liebe-frau-milch: suggerì il dottore Lombrichi.

—Giusto!… E non è dei migliori vini del Reno che io abbia nelle mie canove, sapete!… Sfido io che ci sia un altro nel nostro paese che abbia una provvista di vini così squisiti come ho io.

I convitati protestarono coll'accordo d'un coro d'opera che era impossibile alcuno potesse stare a paro al signor Bancone in questa come in ogni altra cosa.

Il signor Bancone sorrise e continuò:

—Solamente in compre di vino indovinate un po' quanto io spendo all'anno?

Nessuno seppe indovinare.

—Circa diecimila lire, disse l'Anfitrione per non lasciarli in pena più oltre.

Fu uno scoppio di esclamazioni ammirative e le mani dei più zelanti si levarono con mossa piena di slancio.

Bancone non l'avrebbe certo finita così presto intorno all'argomento dei vini, se in quella uno de' suoi domestici non fosse entrato coll'aria di avere qualche cosa da dirgli.

—Che cosa c'è? lo interrogò il padrone. Parla.

—È un uomo che ci ha detto di darle subito questa carta.

E porgeva verso il banchiere un foglio ripiegato.

Bancone crollò le spalle.

—Che mi venite a disturbare adesso? Sapete che voglio esser lasciato tranquillo in questi momenti.

—Scusi: ma quell'uomo ha insistito tanto, ha detto che premeva di molto.

—Uhm! Qualche seccatura… Vediamo.

Prese il foglio, lo spiegò, inforcò sul naso gli occhiali a molla e scorse lo scritto con aria disdegnosa, che si fece tale sempre più.

—Un miserabile che domanda l'elemosina, diss'egli poi, e che viene a contarmi una lunga storia di sciagure capitategli, di malattie e che so io…

Il servo commise l'impertinenza di frammettersi nel discorso.

—Ha un aspetto che fa veramente compassione, diss'egli; pare il ritratto della fame, e raccomandandosi perchè recassimo a lei quel foglio non poteva frenar le lagrime.

Le parole furono troncate in bocca all'imprudente domestico dal fulmine d'un'occhiata furibonda del padrone.

—Che è codesto? gridò egli. Di che vi immischiate voi? Andate a scacciar fuori di casa mia quel pezzente fannullone, e se un'altra volta mi verrete a seccare per una simile ragione, sarete voi che caccerò altresì.

E gettata la carta sul naso del domestico, gli additò con atto imponente la porta per cui il mal capitato s'affrettò ad uscire.

Bancone soffiò come una foca incollerita.

—Peuff! Noi poveri diavoli di ricchi siamo assediati da un'infinità di mendicanti faciniente che vorrebbero vivere alle nostre spalle… come se il nostro santo denaro guadagnatoci bravamente dovesse servire a mantenere la loro infingardaggine!… Lavorino, se ne guadagnino anche loro del denaro, che diavolo!…

Il coro unanime dei parassiti mostrò la sua approvazione alla teoria economica del banchiere.

—La carità, continuava questi col tono di un professore d'economia politica, è un incoraggiamento al vizio dei poveri… Non dico già con ciò che non si debba mai far carità… Piace anche a me il far del bene… Do cento lire all'anno al Ricovero di mendicità.

Scoppio di entusiasmo per una sì generosa larghezza.

—Oh, non è codesta la sola opera buona che faccia vossignoria: disse il dottor Lombrichi con quel suo sorriso che non si sapeva bene se era ironico o adulativo. Ne conosciamo ben altre di sue beneficenze; ed io stesso potrei raccontarvene qualcuna…

—Sentiamo, sentiamo: gridò perfettamente intonato alla piacenteria il coro de' parassiti.

Bancone si arrovesciò a suo modo sul seggiolone, e illuminando la sua larga faccia melensa d'un sorriso beato di compiacente abbandono, disse anch'egli con degnazione di principe in baldoria:

—Suvvia, sentiamo. Parli pure, dottore, e voi altri bevete, che diavolo!

Lo Sciampagna tornò a spumeggiare nelle coppe, e Lombrichi, inumiditosi le labbra e la gola, incominciò:

—Un giorno il nostro caro ed illustre ospite fu ad assistere alla distribuzione dei premi delle allieve della scuola di ballo…

—È una funzione a cui non manco mai: interruppe Bancone stuzzicandosi i denti con un piumino d'oca appuntato.

—Ella è così amante e protettore dell'arte e degli artisti! disse uno dei convitati, facendo la dedica dell'adulazione con un inchino.

Lombrichi continuava:

—Colà il suo occhio cadde per caso sopra una povera fanciulla di quattordici o quindici anni appena, che tutto timida e vergognosa si serrava alla madre e quasi pareva cercar di nascondersi: ed era perchè madre e figliuola per la loro povertà vestivano così miseramente che non osavano affatto lasciarsi scorgere. Nell'animo pietoso del nostro caro signor Bancone nacque di botto un grande interesse per quella poveretta….

Il milionario interruppe ancora per dire con tutta la franchezza d'un vecchio libertino senza pudore:

—Quella birbona di Fifina aveva un'aria così originale, sotto la sua spettinatura e con quel miserabile scialletto tirato intorno alle sue spalluccie!… Un altro non le avrebbe badato; ma non si è già conoscitori per nulla! Io indovinai in essa la stoffa d'un bel tôcco di grazia di Dio e…. Ma parli lei, dottore, poichè è così bene informato de' fatti miei.

—Il signor Bancone si accostò alla madre ed alla figliuola ed avviò con loro il discorso. Quella poveretta, un momento prima oggetto di compassione e di disprezzo di tutte le sue compagne, cominciò ad esser tosto per esse cagione d'invidia. Il generoso mecenate, udite le triste condizioni in cui quelle donne si trovavano, loro non promise ma subito accordò la sua protezione. Procurò loro un conveniente alloggio, le rifornì di quanto abbisognavano, pagò alla giovane maestri della sua arte perchè la potesse meglio progredire; breve, ne fece una delle prime, delle più nominate, delle più applaudite ballerine del nostro teatro; ed ora l'avventurata ha cavalli e carrozza ed abbigliamenti che offuscano le più splendide acconciature delle donne più eleganti. Se questa non è più che generosa beneficenza, io non so più che nome darle.

Il solito coro non mancò al dovere di esclamare la sua ammirazione.

—Oh, oh! disse il banchiere, e tutti fecero silenzio; quella biricchina mi costa abbastanza caro: un occhio della testa. Ancora questa mattina ho ricevuto per lei da Parigi una collana che ho pagata cinque mila lire…. Essa ne aveva vista una simile nella vetrina del gioielliere di corte e le era piaciuta tanto che ad ogni modo mi toccò prometterle d'andargliela a comperare. Ma vedete fatalità: il gioielliere l'aveva venduta giusto pochi momenti prima ch'io entrassi. Fifina all'udir codesto diede in ismanie, come fa lei, e dovetti giurarle che glie ne avrei fatta venire una affatto compagna da Parigi, donde veniva quella prima, perchè qui era affatto impossibile trovarla. Mi è arrivata questa mattina e stassera la farò ben contenta, quella matta…. Appunto voglio farvelo vedere questo bel gioiello. Ehi (comandò ad uno dei domestici) andate nella mia camera da letto, prendete quella busta di marocchino rosso che c'è sul cassettone e portatemela qui.

Due minuti dopo la busta domandata era rimessa nelle mani del padrone, il quale l'aprì e fece sfolgorare agli occhi dei convitati l'oro e le gemme d'un'elegantissima collana.

Tutti acclamarono alla magnificenza di quel gioiello.

Bancone lo prese per l'un dei capi e lo sollevò in aria a farvi rompere e riflettere i raggi della luce a tutti gli angoli e le faccette smaglianti; fu tutto uno scintillio.

—Che si che va ad esser contenta quella birbona! disse con un suo grasso riso il milionario, compiacendosi nel mirare quella cascatella d'oro ingemmato. Mi par già di vederla batter le mani e saltarmi al collo e fare una pirovetta per la stanza. E come la farà bella figura, scollacciata, con questa roba intorno al suo bel collo sottile!…

Gustavo Pannini guardava con occhio che avreste detto invidioso lo sfavillare di quel prezioso oggetto, e un sospiro soffocato gli sfuggiva dalle labbra. L'infelice pensava quanto più bella sarebbe stata la sua Lisa con un simile ornamento, e si doleva seco stesso di non essere in grado di far egli alla sua brava, buona e legittima donna quel regalo che il fastoso principale prodigava al sorriso d'una traviata ed alla capriola d'una ballerina.

—Ciò vuol dire, saltò fuori allora col suo sorriso malizioso il dottor Lombrichi, che di queste stupende collane ve ne saranno due nella nostra città. Sarei curioso di sapere qual sia l'altra donna che sarà compagna alla Fifina nel possedere un sì bel gioiello.

—È una curiosità che le posso levare io stesso, signor dottore: rispose Bancone riponendo nella busta la collana. È la moglie di Sgritti.

Fu uno scoppio di varie esclamazioni.

—Quella bella donna! disse l'uno.

—Quella civetta! soggiunse l'altro.

—È la più ambiziosa delle signore torinesi.

—Suo marito può pagarle tutto il lusso che la vuole, poichè è quasi altrettanto ricco quanto il nostro caro signor Bancone.

—A proposito: dicono che il di lei primo commesso, signor Bancone, quel bellimbusto di Padule le faccia una corte in piena regola, senza tregua e senza pietà.

—Tò! l'ho visto appunto, Padule, a passeggiare col marito parecchie volte.

—Ieri era nella loro carrozza al corso.

—Al teatro rimase tutta la sera nel palco della signora.

Bancone fece il suo sogghigno che voleva essere malizioso, e disse a sua volta:

—Ed io vi do una novella ancora più importante a questo riguardo. Padule abbandona la mia banca per passare nella medesima qualità in quella di Sgritti.

—Buona sera! esclamò Lombrichi. L'assedio di Padule è finito: eccolo entrato nella fortezza.

—Il nemico si sarà reso a discrezione.

—E il marito pagherà le spese della guerra.

Bancone rise sgangheratamente di questa stupida facezia.

—Ma no, ma no, diss'egli poi. Quel buon uomo di Sgritti sarà quello che in ciò guadagnerà di meglio. Certamente voi sapete che con tutta l'importanza che si dà, egli è un babbeo che non capisce nulla di nulla. Padule farà camminare i suoi affari con molto maggior intelligenza…

—Terrà il posto del principale alla Banca e presso la signora: disse Lombrichi che si piccava di smaltir delle arguzie.

—E a lei, signor Bancone, non rincresce venir privo d'un così buon commesso?

Il banchiere crollò le spalle disdegnosamente.

—Oh, io non ho bisogno che nessuno pensi, immagini e provveda per me. Non ho bisogno io che di fedeli ed esatti esecutori dei miei disegni e della mia volontà, e da questo lato Padule è facilmente surrogabile.

Puntò il dito verso Gustavo Pannini, che gli sedeva quasi di faccia, e continuò:

—Ecco un giovinetto che, se va avanti di buon animo e seguita ad andarmi a versi, potrà fra poco tempo andare a sedersi nel gabinetto che occupa adesso Padule.

Gustavo arrossì dal piacere. Quell'impiego, con tutti i guadagni diretti e indiretti che procurava, era quasi la ricchezza verso cui egli anelava cotanto, era se non l'effettuazione medesima dei suoi sogni di Creso, il mezzo facile e sicuro per avvicinarsi ad essa, per ottenerla. Dopo alcuni anni ch'egli fosse in così stretta collaborazione col ricco banchiere, a parteciparne, anco in meno proporzione, gli enormi utili, avrebb'egli potuto a sua volta regalare alla sua adorata Lisa di bei gioielli, qual'era la collana che allor allora Bancone aveva fatto brillare agli occhi meravigliati dei suoi commensali.

I suoi vicini, naturalmente, si voltarono verso il giovane a fargli complimenti; i fumi dello Sciampagna, salendogli al cervello come nubi di colore rosato, assumevano per Gustavo le forme più seduttive delle più splendide chimere, l'avvenire gli appariva come una terra promessa di delizie e di ricchezze, a cui stesse per approdare. Infelice, che non presentiva nemmeno come in quel momento medesimo venisse al pian di sotto negli uffici della banca un cotale che doveva essere lo stromento della sua rovina; e questo cotale era il signore elegante cui dal cassiere abbiamo udito salutato col nome di Borgetti.

Ma frattanto sopra ricco e larghissimo vassoio, d'argento era portato da uno dei domestici un elegantissimo servizio di chicchere di porcellana finissima della fabbrica francese di Sèvres, ed un altro domestico seguiva con una grande caffettiera di brillantissimo argento, mentre un terzo veniva portando in giro una cassetta in cui stavano dritti infissi in varie righe i più biondi e profumati sigari d'Avana. Si accesero le foglie nicoziane arrotondate, si sorseggiò il caffè caldissimo, s'ingollarono varii bicchierini di curaçao, di alchermes, dei più fini fra quanti liquori l'arte abbia inventato a solleticare il palato dell'uomo, e i discorsi continuarono animatissimi frammezzo alla maldicenza, agli aneddoti più o meno veri, alle adulazioni al padrone di casa, alle infinite chiaccole onde si compone la conversazione della gente che non ha nulla da dirsi.

Ed ecco che Gustavo non aveva ancora finito di assorbire il suo caffè, quando un domestico venne ad avvisarlo un garzone della banca essere salito di sopra ad annunziare che vi era qualcuno negli uffici che domandava di lui.

—Che cos'è? domandò Bancone vedendo il suo servitore parlar piano a Pannini.

Questi ripetè l'ambasciata che gli era stata fatta.

—Eh! sarà qualche seccatore: disse il banchiere col supremo disdegno d'un ricco che ha finito appena un suntuosissimo pasto: mandatelo al diavolo.

Gustavo fece a senno del padrone: ma quando già il domestico s'avviava per andare a far risposta, quelle persone che attendevano tornassero più tardi, ravvisatosi ad un tratto il marito di Lisa lo richiamò.

—Ehi! hanno detto chi sia che cerca di me?

—Sono due: rispose il domestico; ma il più impaziente, quegli che mandò su il garzone è il signor Borgetti agente di cambio.

Pannini piantò lì a mezzo la tazza che stava bevendo, la depose sulla tavola affrettatamente, gettò colà la servietta che ancora aveva sulle ginocchia e si levò in piedi sollecito.

—Ci vado, ci vado subito: diss'egli. A Borgetti, soggiunse rivolgendosi al principale come per ispiegargli la ragione del suo cambiamento d'avviso, debbo parlare di qualche cosa che mi preme.

—Va benissimo: rispose il banchiere dandogli quasi licenza di andarsene con un olimpico cenno di capo. Scendete per la scaletta interna che mette nel mio studiolo, e così farete più presto. Se vi sbrigate sollecitamente, potrete tornar qui che ci coglierete ancora od a tavola o nel salotto da fumare: se no, aspettatemi laggiù ch'io vi discenderò poi ed avrò bisogno dell'opera vostra.

—Sì signore: disse con premura Gustavo, e corse via senza manco finir di bere il suo caffè.

XV.

Ad un tratto Vanardi e Borgetti, che aspettavano sempre nel salotto della banca, videro aprirsi con impeto l'uscio del gabinetto del signor Bancone ed entrare sollecito con aria di assai premuroso interesse il signor Gustavo Pannini.

Il pittore si alzò, e indovinando che quello era il giovane aspettato, fece un passo verso di lui nella speranza di dover egli essere il primo a parlargli, poichè di tanto era stato il primo a venire ed a noiarsi nell'attenderlo; ma Gustavo, invece, non fece a lui la menoma attenzione, e quasi non l'avesse manco veduto, si rivolse all'altro che lo aspettava e gli disse vivamente:

—Ebbene? ebbene? come vanno le cose? che hai tu fatto per me stamattina?

Borgetti prima di rispondere, per farlo avvertito che non eran soli, gli additò con un cenno di capo Antonio che tormentava il suo cappellaccio con aria tra d'imbarazzo e tra di cattivo umore.

Gustavo non potè trattenere un atto di contrarietà e si volse al pittore con una certa impazienza, che appena era coperta da un poco di urbanità:

—Lei cerca di me?

—Sì signore, se ella è il signor Pannini.

—Lo sono appunto.

Pannini diede una più attenta guardata alla persona ed agli abiti di chi gli stava innanzi e non parve che codesta vista gli ispirasse molta fiducia.

—Che cosa mi vuole? soggiunse asciuttamente, come per far capire che gli avrebbe fatto piacere sbrigandosi in fretta.

Cotale accoglimento sconcertò un poco il nostro povero pittore.

—Ero venuto per… Credo che le abbiano già parlato di me… Il suo signor suocero, il mio amico Giovanni… Giovanni Selva, lo conosce bene anche lei?… Ed ho qui anzi una lettera per vossignoria.

Il contegno di Gustavo si fece più gentile e benigno.

—Ah! lei è il signor Vanardi?

—Sì signore.

Ed Antonio s'affrettò a trar di tasca la lettera di Selva e porgerla a Pannini; ma in quella Borgetti guardò l'orologio e fece un atto che indicava la sua premura e la sua impazienza.

—Abbia la gentilezza di aspettare ancora un momento, disse Gustavo ad Antonio. Questo signore ha da parlarmi di cose premurose che non ammettono indugio.

E senza attender altro soggiunse parlando all'agente di cambio:

—Vieni di qua Borgetti.

Passò nello studiolo con quest'ultimo: e Vanardi, rassegnandosi alla pazienza, tornò a sedersi presso il fuoco.

Tra il marito di Lisa e l'agente di cambio aveva luogo il seguente dialogo:

—Ebbene? aveva ripreso Gustavo; che hai tu fatto?

—Secondo il tuo desiderio ho comperato di nuovo per fine mese.

—Quanto?

—Dieci mila di rendita: che unite alle già comperate fanno cinquanta mila.

—A quanto?

—Mezzo punto più del corso di ieri.

—La tendenza è all'aumento, non è vero?

—Ah! non voglio ingannarti. La è invece più che mai al ribasso. I principali giuocatori al rialzo si sono voltati e tentano compensarci con vendere… ti consiglerei anche a te a far lo stesso, invece di ostinarti a comprare.

Gustavo stette un momento a riflettere.

—Compensarmi!… Ad ogni modo non potrei mai coprirmi del tutto.

—Ma la perdita sarebbe minore…

—Per esserne sempre allo stesso punto.

—Ma, mio caro, se questo ribasso continua, la differenza sarà tale che non potrai nemmeno far più il riporto … E ancora chi sa se lo si vorrà fare!

—Ebbene vada il tutto pel tutto: disse Pannini con una risoluzione a cui l'eccitamento e i fumi dei vini bevuti non erano estranei. O su o giù una buona volta. Se la mi va bene, sarò ricco… E sento qualche cosa in me che mi avverte che andrà bene. Sono entrato in una fase di fortuna. Sono persuaso che tutto mi riesce; vedrai pronunziarsi l'aumento e la liquidazione farsi a benefizio dei rialzisti

—Così pur sia! E intanto ora quali sono le tue istruzioni? fermarsi non è vero?

—No: rispose colla medesima eccitazione Gustavo. Non ti ho io detto di voler proprio tentare un colpo decisivo? Compra ancora, compra sempre.

—Diavolo! diavolo!

—Esiti?

—Se la ti va male, come farai per pagare?

—Bancone mi ci aiuterà.

Borgetti fece una smorfia molto incredula.

—Lo speri?

—Ne sono sicuro. Mi vuol molto bene; sta per darmi il posto di Padule; a lui lo anticiparmi una cinquantina di mila lire gli è come niente; va là ch'egli non mi lascierà negli imbrogli.

—Tanto meglio. Dunque comprerò ancora?

—Sì, almeno altre diecimila di rendita.

—Va bene. Addio! Corro alla piccola borsa. A rivederci domattina.

L'agente di cambio uscì frettoloso, e Gustavo, rimasto solo nello studiolo, si affondò nelle sue meditazioni, o per meglio dire nelle sue allucinazioni delle chimere che perseguiva colla mente eccitata, sognando già d'essere ricco e di sedere frammezzo ai potenti del giorno alla mensa dei diletti sociali.

Il rialzo di tanto gli avrebbe dato tanto di guadagno; quanto maggiore sarebbe stato quello, tanto più considerevole questo. Esso avrebbe potuto spingersi fino alle sessanta, alle settanta mila lire. Ciò non avrebbe ancora bastato: ma con questo capitale ch'egli avrebbe messo nella banca e col posto di Padule che gli avrebbe dato occasione di farlo meravigliosamente fruttare e gli avrebbe procurati mille altri vistosi proventi, egli poteva dirsi giunto alla conquista della ricchezza. Quanti castelli in aria non faceva di botto il suo povero cervellino eccitato!… E intanto dimenticava compiutamente che nel salotto vicino stava aspettando da due ore per parlargli l'individuo raccomandatogli dal suocero e dalla moglie.

Antonio da parte sua, visto Borgetti uscire dallo studiolo, aveva creduto che o Pannini venisse tosto a dargli udienza, o lo facesse entrare a sua volta nel gabinetto; ma nulla avvenne di codesto; onde, lasciato passare forse un quarto d'ora, l'impazienza gli diede coraggio di aprir pian piano l'uscio socchiuso dello studiolo e gettarvi dentro uno sguardo.

Pannini passeggiava in su e in giù con le braccia incrociate al petto, il capo chino, sorridendo alle liete fantasie che gli danzavano nella mente. A quel lieve rumore che fece l'uscio aprendosi, pur tuttavia si volse, richiamato a sè stesso, vide Vanardi e di subito gli increbbe d'averlo così dimenticato.

—Ah, mi scusi, diss'egli andandogli incontro. Ho qualche cosa per la testa che mi occupa di molto, e raccoglievo, come si suol dire, i pensieri a capitolo… S'avanzi, la prego, ed eccomi tutto per lei.

La gentilezza, la buona grazia e le maniere garbate di quel giovane veramente simpatico, fecero il loro solito eccellente effetto anche sull'animo del pittore; il quale senz'altro ebbe scancellato e dimenticato tutto quel po' d'irritazione che aveva il momento prima per sì lungo attendere.

—Ho letto la lettera del suo amico, ed oso dire anche mio, l'avvocato Selva. Mio suocero d'altronde mi ha già parlato di lei, e me ne ha parlato eziandio mia moglie.

Sorrise colla più franca e piacevole maniera del mondo.

—E questa, soggiunse, è per me la più valida ed autorevole raccomandazione ch'esser possa. Ciò vuol dire che io mi prendo a cuore la sua domanda, signor Vanardi, e farò di contentare i suoi desiderii.

—Oh signore, la mia riconoscenza…

Era destino che il povero Antonio avesse ogni fatta contrasti in quel suo passo di venire a parlare a Pannini. Ora che il colloquio era avviato così bene, ecco aprirsi l'uscio del gabinetto ed una voce ben nota pur troppo al nostro pittore domandare:

—Si può?

Vanardi si volse in sussulto, e si trovò a fronte il suo padron di casa, il signor Marone.

Con pari stupore quest'ultimo si vide innanzi il suo pigionante; ma l'uno e l'altro si limitarono ad esprimere la loro meraviglia con un atto onde accompagnarono il lieve saluto che fu tra loro scambiato.

—C'è il signor Bancone? domandò il nuovo venuto.

—Pel momento no: rispose Pannini; e se posso io servirla in alcuna cosa.

—Desidererei parlare proprio col signor Bancone.

—Allora s'accomodi costì nel salotto, che il signor Bancone non tarderà a discendere in ufficio.

—Grazie tante.

Marone si ritrasse nel vicino salotto, e Gustavo riprese il colloquio con Antonio.

—Vorrei poterle dir subito: la cosa è bella e fatta; ma pur troppo non è così. Pel momento non c'è posto nessuno nella banca; e proporre al signor Bancone di prendere un impiegato di più di quanto strettamente abbisogna è fare una cosa affatto inutile; ma tra qualche tempo è probabile, è sicuro anzi che si farà un posto: il primo commesso ci lascia, ed io ho più che buona speranza di sostituirlo, un altro passerà a mio luogo, e così via via: si farà un posticino da poter introdurre un nuovo… Io la terrò in memoria e farò di tutto perchè questo nuovo sia lei.

In quella fece il suo ingresso la persona imponente del signor Bancone, disceso dai suoi appartamenti.

Vanardi si ricantucciò in un angolo tutto umile innanzi a quel milione incarnato.

—Pantani, disse il banchiere, è venuto qualcheduno a cercarmi?

—C'è di là il signor Marone che desidera parlarle.

—Lo faccia entrare.

Vanardi fece un profondo inchino al banchiere che non gli badò, e seguì Pannini, il quale passò nel salotto.

—Il signor Bancone c'è: disse Gustavo a Marone. Entri pure.

Marone s'affretto a penetrare nello studiolo.

—E quando potrò sapere alcuna cosa di ciò che mi riguarda? chiese Antonio.

—Non potrei precisarle il momento: rispose Pannini; ma spero che fra una settimana o poco più… Torni fra quindici giorni, ecco, e son certo di poterle dire qualche cosa di positivo; che se mai avrò prima di quel tempo alcun che da comunicarle, glielo farò sapere per mezzo di Selva.

Antonio sentì come se un secchio d'acqua gli fosse versato giù della schiena. Quindici giorni da aspettare! E come vivere intanto?

Mentre cercava di balbettare una risposta che non sapeva nemmen egli quale avesse da essere, la voce di Bancone risuonò dal gabinetto vicino chiamando Gustavo.

—Vengo, rispose questi, e sbrigatosi sollecito di Antonio con un saluto, s'affrettò ad accorrere dal principale, mentre il misero pittore se ne partiva poco più racconsolato di quel che fosse quando era penetrato colà dentro.

Bancone giaceva mezzo sdrajato in una larga poltrona, Marone gli stava dinanzi seduto sopra una seggiola il suo cappello frusto in mezzo alle ginocchia.

—Venite un po' qua, Pannini, disse il banchiere col suo accento di superiorità e di protezione. Ecco qua il signor Marone che vuole…

—Scusi, interruppe quest'ultimo: ma gli è a lei solo che desidererei…

—Questi è il mio segretario: rispose brusco il banchiere; e l'ho chiamato appunto perchè non è di troppo.

E volto al giovane che già s'avviava verso la porta, disse con tono di comando:

—Fermatevi Gustavo.

Questi tornò presso al suo principale.

—Il signor Marone ha dei fondi nella banca?

—Signor sì, rispose Pannini: novanta mila lire….

—E gl'interessi da pagarsi adesso allo scader del semestre, soggiunse vivamente Marone.

Il banchiere fece un gesto che significava…

—Peuh! tutto ciò è una miseria.

—Ed ella, soggiunse forte, vorrebbe riaver quel denaro?

—Signor sì… Ecco: ho fatto un acquisto considerevole…. un'occasione vantaggiosissima che mi si è presentata…. Mi allargo ed arritondo per bene quel po' di possessi che ho già in Valnota….

Il banchiere l'interruppe con certo piglio di alterigia.

—Insomma vuol ritirar subito quella somma?

—Subito, subito, no… ma se me la potesse dar presto… non mi farebbe dispiacere.

E Bancone rivoltosi di nuovo al segretario:

—Quel denaro è pagabile a semplice richiesta?

Il padrone di casa d'Antonio cominciò egli una risposta: ma il banchiere, senza nemmanco guardarlo, gli fece segno di lasciar parlare Pannini.

Questi andò ad aprire certi cassettini ripieni di carte, ci rovistò per entro, n'esaminò parecchie, e finì per rispondere:

—Sì signore.

—Va bene, disse Bancone: fatemi venire il cassiere.

Gustavo andò alla scrivania, vicino alla quale, nella parete, ad arrivo di mano di chi ci fosse seduto vi erano parecchi bottoncini di metallo dorato; ma prima che ci arrivasse, Marone disse con vivacità:

—Scusi… Una delle cose che più mi secchino è d'esser tenuto per ricco dalla gente… Non lo sono diffatti… Ho qualche ben di Dio, gli è vero, ma ci ho tante passività, tanti imbarazzi!… Eppure ci sono già certi animali che vanno susurrando ch'io ho dei tesori… Se si venisse ancora a sapere ch'io riscuoto da lei novantamila lire.

—Che cosa ne vuole conchiudere? dimandò con impazienza Bancone.

—Che meno sarebbero le persone che conoscessero questo fatto e più l'avrei caro.

—Il mio cassiere non è un ciarlone, disse asciutto il banchiere; e fece segno a Pannini chiamasse senz'altro chi gli aveva detto.

Gustavo premette uno di quei bottoncini di metallo, e un campanello risuonò sopra la testa del cassiere.

Di lì a un minuto s'udì nella stanza vicina il passo lento e pesante d'un uomo, o poi la porta s'aprì e comparve la faccia stupida ma onesta del signor Busca.

—Venite qua, Bernardo, disse il banchiere. Potreste oggi stesso, o domani, pagare la somma di novantamila lire?

Il cassiere allargo i suoi occhi di vetro e rispose colla sua voce monotona:

—Nè oggi nè domani. Ella sa che abbiamo da fare quei certi pagamenti…

—Lo so, lo so: ma questo non ci ha da importare.

—Ci ha da importare, sì signore, perchè la cassa non potrà snocciolare insieme con tutto il resto altre novantamila lire.

—E allora, quando credete di poterle pagare?

Il signor Busca si serrò il mento colla mano destra, e coll'indice si pose a battere sul labbro inferiore, mentre la sua fronte stretta e piana si corrugava leggermente per effetto della meditazione. Dopo un poco alzò in faccia al principale i suoi occhi chiari ed a fior di capo.

—Fra tre o quattro giorni, disse.

Bancone si volse al suo creditore.

—Ha udito? Tre o quattro giorni sono forse troppi?

—Oh no! s'affrettò a rispondere Marone. Gli è giusto quel che mi torna.

—Ebbene, oggi è giovedì… Lunedì sera ella avrà il suo denaro. Bernardo, lunedì terrete in pronto novantamila lire… Le vuole in oro? chiese a Marone.

—Come le aggrada. Parte in oro e parte in polizze di banca, se le accomoda.

—Avete inteso, Bernardo? Quella somma la consegnerete al segretario che ve ne darà scarico. Ora andatevene pure.

Il cassiere fece un inchino e partì.

Bancone proseguiva:

—Ella, signor Marone, si darà la pena di venir qua lunedì sera, e riceverà la somma da Pannini, col quale farà tutti gli opportuni incombenti. Così le va?

—Perfettamente. Non mi resta più che ringraziarla e salutarla.

S'alzò da sedere e si curvò in un profondo inchino.

—Buon giorno: disse il banchiere senza neppure fare un saluto col capo: quindi cessando subito dal badare a Marone che se ne partiva, soggiunse parlando a Pannini: sedetevi costì, mio caro, che ho da farvi scrivere alcune lettere.

XVI.

Due giorni erano passati; e il povero Antonio, come facilmente vi potete pensare, si trovava nelle distrette più che mai.

Pressato dalla necessità egli dovette calpestare il suo orgoglio e la sua ripugnanza a codesto passo, e si decise di ricorrere alla carità delle persone generose. Fra le due di queste cotali che gli erano state suggerite aveva pensato a lungo a quale rivolgersi di preferenza, se alla vecchia marchesa di Campidoro od al giovane filantropo Salicotto, e l'aveva poi data vinta a quest'ultimo, perchè in fama di molto più accostevole, di molto affabile ed alla mano.

Ricorreva giusto una domenica, e il povero pittore, vestiti i suoi migliori panni—quel certo soprabito color marrone—s'avviava verso le dieci ore del mattino, che quello gli avevano detto essere il tempo opportuno, alla dimora del signor Salicotto, pubblicista umanitario e cavaliere.

E mentre Antonio traversa la strada, entra nella porticina della casa dirimpetto, sale sino al secondo piano ed esita a tirare il cordone del campanello, io di questo signor filantropo vi farò conoscere virtù e miracoli, contandovene la storia.

Abbiamo udito da quel ciarlone di speziale come nel suo paese, che era quello stesso della sua nipote Anna, vi esistesse una famiglia col nome di Salicotto, il capo vivente della quale era un povero ortolano; ma sor Agapito non si pensava mai più che il cavaliere fosse in alcun modo legato a quella povera gente, figliuolo com'ei si diceva d'un avvocato. Ma se Anna si fosse trovata una sola volta faccia a faccia con questo personaggio, benchè tanti anni fossero passati, benchè un sì gran cambiamento si fosse fatto in lui, non avrebbe tuttavia mancato certo di riconoscere nel cavaliere il figliuolo del vecchio Matteo, il vicino di casa, l'antico amicone della sua famiglia. Per fortuna del nostro filantropo democratico, che nascondeva con tanta cura la sua modesta origine, in que' due anni che già era rimasta in città la nipote dello speziale, stando rarissimamente alla finestra ed uscendo anche meno, non aveva ancora veduto mai colui che nell'intenzione dei parenti delle due parti doveva essere suo sposo.

Tommaso Salicotto era nato unico figlio; suo padre era un buon diavolaccio con tanto di cuore, che non sapeva più in là dei cavoli del suo orto e non desiderava altro di meglio che vender bene i suoi erbaggi al mercato, ed avere a tempo opportuno il sole e la piova sui suoi asparagi, sui suoi carciofi, sui susini, sugli albicocchi, e via dicendo. La madre era altresì una eccellente comare che non pensava oltre le poche vicende domestiche, far la cucina, rattoppare i cenci, aiutare tal fiata il su' uomo nei lavori dell'orto. Ebbene—chi può spiegare codesto mistero?—da questi due era nato in Tommaso un ambizioso, uno spirito irrequieto, ghiotto di ricchezze ed invidioso delle fortune altrui.

Già da bambino il nostro eroe guardava con occhio di livore la palazzina bianca che sorgeva di faccia al rustico casolare di suo padre, nella quale veniva ad autunnare ogni anno una famiglia di signori che abitavano la più vicina città di provincia. S'accostava cauto al muro del giardino tutto rifiorito, e pel cancello sbirciava con maligno ed invidioso intendimento le poche e modeste sontuosità di quell'abitazione che a lui inesperto pareva un paradiso di agi e di sfarzo. Quando vedeva i fanciulli dei signori pulitamente e con garbo vestiti di panni bianchi o rosati o d'altri color gai, bene ravviate le chiome, paffutelle le guancie, piene di giocattoli le mani, occupata da sollazzi la giornata, egli già sentiva entro il piccolo petto una gran rabbia che non sapeva pure spiegarsi: e se alcuno di quegli aggraziati bimbi gli accorreva all'incontro, e faceva a parlargli, e lo voleva prendere per mano, e lo invitava a partecipare ai loro giuochi, poco mancava ad ogni volta ch'egli non gli si lanciasse coll'unghie alla faccia a cavargliene gli occhi. Certo il potere, se non altro, sciupargli addosso que' panni sì acconci gli pareva un bel fatto.

Aveva ingegno pronto e svegliato: il povero maestro elementare che, per alcuni fastelli di legna l'inverno e per un po' di legumi la state, gli aveva mostrato a leggere e scrivere tutto s'era stupito ed aveva gridato al miracolo vedendo che in sì poco di tempo il fanciullo era arrivato a saperne più di lui. A far conti aveva imparato quasi da sè, e nessuno nel villaggio era capace di farsi un'addizione od una moltiplica così rapidamente e con tanta sicura esattezza come quel fanciullo di otto anni, poco pulito, meno leggiadro e molto spettinato. Per la lettura manifestava una vera passione; ogni libro che gli capitasse tra mano egli divorava con ardore instancabile, e lo riandava finchè lo avesse capito del tutto, passando e di molto la comprensività comune dei coetanei.

In breve, egli era diventato il fanciullo prodigio del villaggio: i buoni terrazzani lo citavano come una preziosa rarità del loro paese; il padre quasi lo rispettava, la madre, s'intende, lo amava più che la pupilla degli occhi suoi di quell'amor cieco onde amano le madri. E intorno ai genitori tutta la gente s'era posta d'accordo a far gli elogi del talentone del piccolo Tommaso. Aveva incominciato quel poveraccio ignorantone d'un maestro elementare, il quale gli aveva posto in mano la penna e l'abbicì.

—Voi avete in casa vostra un tesoro, aveva detto a Matteo; e se lo lasciate sciuparsi ne avrete da rendere ragione alla società ed a Dio.

—Che cosa ho da fare? domandava il dabben uomo rimminchionito.

—Fatelo studiare, per bacco! esclamava il maestro. Volete lasciar perdersi quel bell'ingegno fra le bietole e le rape?… Fatelo studiare e diventerà qualche cosa di grosso.

E il parroco che era incantato del modo con cui Tommaso sapeva il catechismo ed aveva imparato a servir la messa:

—Conviene far studiare vostro figlio, Matteo. Egli è un genio. C'è un mondo in quella testa grossa: e chi sa che cosa ne potrà venir fuori!… Mandatelo alle scuole, fategli vestir la cotta da cherico, mettetelo poi in seminario, e un giorno o l'altro voi vedrete vostro figlio… fors'anche vescovo.

Il buon villano allargava tanto d'occhi, tentennava sì un poco il capo, ma finiva per tornare a casa fantasticando di veder suo figlio ancora qualche cosa di più che vescovo.

—Il vostro Tommaso farà la fortuna di tutta la famiglia, gli diceva un'altra volta il giudice: fatelo studiare, compare Matteo, ci avete lì la stoffa d'un avvocato, e un buon avvocato, ai nostri dì, può arrivare a tutto: certo a guadagnare denari e di molto.

E il maestro di latinità, sotto cui Tommaso incominciava a declinare: haec musa, la musa:

—Matteo, diceva con enfasi ciceroniana all'ortolano, e' conviene fargli studiare le belle lettere. Vi guarentisco io ch'ei diverrà un professorone di calibro da illustrare sè stesso e la patria.

Con tante e sì importanti sollecitazioni, come resistere a quello che era pure il massimo desiderio del dilettissimo Tommaso? Dai proventi del suo orto, Matteo ricavava tanto che bastava da poter ogni anno mettere in disparte una sommetta ad aumentare il gruzzolo dei risparmi: e benchè a quel suo poco di tesoruccio ci tenesse di molto con quell'amore taccagno che è proprio dei villici, pure si decise a sminuirlo d'alquanto per mettere a studiare suo figlio. Certo il pensiero che questi sarebbe diventato un pezzo grosso e con guadagni vistosi avrebbe compensato di poi a mille doppi il sacrifizio presente; questa speranza, dico, giovò non poco di sicuro a decidere Matteo, ma la sua parte, e non da meno, l'ebbe altresì la tenerezza e quasi direi l'osservanza che egli, e sua moglie ancora più, avevano pel figliuolo.

Di vestir la cotta e farsi prete, che sarebbe stato mezzo assai più economico di far gli studi, Tommaso non volle saperne malgrado le belle parole e le sollecitazioni del parroco; innanzi alla mente del giovinetto stavano gli sbarbagli del mondo, i vantaggi della ricchezza, la leccornia degli agi signorili, e lo stato chericale era una rinuncia a tutto, od a gran parte, e la più attraente, di codesta roba. E nemmeno il padre aveva molta propensione a vedere suo figlio tonsurato. Era unico della famiglia, ed anche ad un villano è pensiero increscioso che non gli sopravvivano eredi, i quali sieno in grado di continuare il suo lignaggio. Fin dai primi anni della vita di Tommaso, col vicino padre di Anna si era detto sul più sodo che i loro figli si sarebbero sposati, e quella poca nuova ambizione entrata nell'animo di Matteo non era tale da fargli dimenticare e cessare d'aver caro quel progetto nè da persuaderlo di non mantenere altrimenti la scambiata promessa.

Tommaso fu posto in città a dozzina da un maestro, e per compensare la maggiore spesa dell'assegno mensile che conveniva pagare pel figliuolo, i genitori sminuirono a sè la pietanza e persino il pane quotidiano. L'unico che non avesse approvato questa determinazione era il padre di Anna, il quale, vero profeta, andava predicendo a Matteo che così avrebbe fatto allevare un ingrato ai tanti sacrifizi che faceva per lui. Ma l'ortolano, che in ogni altra cosa teneva in molto conto il parere del vicino, in codesta non voleva sentire osservazioni e tanto meno appunti, di tal maniera che codesta fu ragione per cui i due vecchi amici quasi si guastassero insieme, e sminuisse quella domestichezza poco meno di parentevole, che dapprima aveva luogo fra loro.

Tommaso frattanto si distingueva assai. In ogni cosa a cui bastasse la volontà e l'applicazione egli andava senza fallo il primo, non così là, dove ci occorresse ispirazione, retta percezione, vivacità d'immaginativa e fecondità di pensiero. Fra i compagni, i quali, nel portar giudizio gli uni degli altri, non si sbagliano mai o di rado, fu egli conosciuto tosto per uno sgobbone, per uno di quel gran semenzaio di pedanti e d'impostori che è la schiera di quelle mediocri intelligenze piene d'orgoglio coi compagni e di ostinazione indefessa nello studio e di piacenteria verso i superiori, le quali si guadagnarono sempre la benevolenza degli insegnanti e l'antipatia dei colleghi.

Diffatti la nota caratteristica dell'ingegno come dell'essere morale di Tommaso Salicotto era quest'essa: pedantismo ed impostura; come il movente ultimo, la susta cardinale dei suoi sforzi e delle sue azioni, erano la vanità e la voglia del denaro. Colla sua ipocrisia, aveva egli saputo ingannare tutte le persone cui s'era accostato, fin da quando era ancora bambino. Egli la sua tenacità e la sua ambizione aveva saputo fare scambiare per effetti di un'elevata intelligenza costretta dalle misere circostanze della sua condizione; egli aveva saputo comparire agli occhi altrui come un genio travelato, un diamante nella rozza sua ganga, a cui lo studio e la vita cittadina non avrebbero mancato di procurare lo sprigionarsi dall'involucro, e il raggiare di tutta la sua luce.

Forse dapprima egli neppure non conosceva bene sè stesso, e quell'inganno che produceva in altrui provava egli medesimo sul suo conto. Ma quando finite le scuole inferiori, passato il corso liceale, Tommaso ebbe intrapreso il corso, ch'egli aveva scelto, di belle lettere, allora e' fu chiaro del tutto che cosa fossero il suo ingegno e le forze della sua anima, del suo cuore e della sua natura; capì quello che valeva e che voleva, e si pentì affatto e della strada per cui s'era messo e del cammino che già aveva corso e della meta che si mirava dinanzi. Conobbe che nelle lettere non sarebbe riuscito che alla meschinità d'un rettorico; nelle lettere, in cui anche ad esser sommi, sono tanto scarsi i guadagni ed è sì poco soddisfatta l'ambizione. S'accorse che il commercio e la politica tengono il campo della fortuna e degli onori: che ad arricchire è mezzo più spiccio di tutti il primo, che a diventare uomo influente non c'è altra strada che la seconda. Se si fosse posto in qualche banca! se avesse domandato ai facili studii della legale la laurea d'avvocato! Egli avrebbe potuto conseguire in poco tempo, con non disagevol arte, il soddisfacimento de' suoi desiderii. Ora era troppo tardi. La sua mente non si prestava a quelle rapide evoluzioni per cui si può mutare indirizzo, occupazioni, abitudini. Era più saggio continuare per la strada intrapresa, e tentare d'averne ogni possibil vantaggio.

Era giovane fatto ed aveva l'inutile e fastoso titolo di professore. Vivacchiava dando lezioni che erano pagate poco e valevan meno; ma imparava ogni giorno più a conoscere il mondo, e sapeva da qual parte conviene di meglio circonvenire gli uomini per irretirli. Comprese la forza e il meccanismo, per così dire, di quella sfacciata ipocrisia moderna che si chiama ciarlatanismo, ed apprezzò tutta la potenza della leva che muove il mondo morale dell'oggi, la pubblica stampa. Domandò a questa in unione con quello la celebrità al suo nome e gli agognati guadagni alla sua povertà. Fondò un giornale, e parendogli essere nella schiera del giornalismo allora esistente un posto vuoto ancora da occupare, in cui facile il farsi discernere dalla comune e far chiasso, il suo periodico fu, meglio che politico, economico-umanitario-socialista. Non ci voleva troppa scienza: paroloni sonanti ed uno stile fragoroso bastavano: e del resto le raccolte dei giornali socialisti di Francia d'un tempo erano lì, miniera inesauribile da pigliarvi per entro articoli e declamazioni.

Le vicende non cominciarono col volgergli prospere. Dapprima non si fece molta attenzione alle sue vesciche rettoriche; ma egli non si perdette d'animo. Più d'una volta lo stampatore minacciò di far morire il giornale, rifiutandosi di metterlo in torchio se non veniva pagato almeno in parte di quanto gli era dovuto; ma Salicotto seppe sempre industriarsi così bene, che di qua o di là ottenne pur sempre qualche bocconcino da gettare nelle fauci del tipografo e tirare innanzi. Lottò con una pertinacia di che soltanto poteva esser capace la sua natura testarda di villano. Per lo meno ora egli aveva uno sfogo al suo segreto agognare ed alla rabbia della sua impotente ambizione.

Patrocinando la causa di chi non possiede, egli lusingava le proprie invidie, esprimeva i proprii tormenti. Alcune fiate, minacciando ed imprecando ai ricchi, nei limiti che gli concedeva la legge, essendo egli troppo accorto per cadere nella ragna d'un processo, Tommaso consolavasi e temperava le sue smanie di ambizioso ancora deluse. Se non la sua fame di guadagni, almeno già avevano un qualche ripago il suo livore e la sua vanità.

Intanto si cominciava a discorrere per la città del suo giornale, alcun rumore cominciava a farsi intorno al suo nome; le teorie e gli spropositi sociali, ch'egli accattava dagli stranieri per annacquarli e divulgarli nel suo stile pretenzioso e stentato, la sua politica rabbiosa avevano destata l'attenzione della gente. Capì allora il furbo l'efficacia di due mezzi che appo noi non erano ancora introdotti: la moltiplicità, la bizzarria, la impudenza dell'annunzio e l'attacco personale. Fece tappezzare tutte le cantonate di cartelloni immensi in cui spiccavano in caratteri cubitali il titolo del giornale e il nome del direttore, volse la punta d'una satira che non era ingegnosa ma insolente, non contro i vizi, gli errori, i torti, ma contro le individualità, e di queste le più spiccate e le più note. Ad ogni numero c'era qualche botta contro una di codeste, tanto se benevise quanto se in uggia al pubblico. Aveva l'accortezza di designar la persona così bene, che non vi potesse cadere sbaglio, e tuttavia non dirne il nome mai: ogni lettore ce lo metteva di per sè, trovandoci appagamento alla naturale malignità che pur troppo è comune a tutti gli uomini. Si limitò dapprima alla capitale: ma poi, visto lo spediente dar buoni frutti, lo estese anche alle provincie. Si fece una quantità di nemici, ma si acquistò una immensità di lettori: i suoi fogli il pubblico, sempre ghiotto di scandali, se li strappava di mano: si vendevano a diecine di migliaia, e Salicotto dalla soffitta che abitava dapprima era passato ad un comodo quartieretto al terzo piano.

Fu odiato da molti, fu ammirato da' più, fu temuto da tutti. Quando un uomo, nella nostra società vigliacca innanzi al si dice, è giunto a far temere la sua lingua o la sua penna, è diventato una potenza con cui le autorità medesime hanno da fare i conti. Salicotto fu accarezzato dal potere municipale, fu accarezzato dal ministero, fu adulato dai ricchi, fu adorato dai poveri che lo salutavano loro campione. Egli apparteneva oramai a tutte le commissioni di beneficenza, a tulle le amministrazioni d'opere pie, non si distribuiva un sussidio senza che il cavaliere Salicotto (la sua filantropia era stata ricompensata da una croce) non fosse chiamato a curarne l'erogazione; non succedeva un infortunio, non si lamentava una miseria senza che egli nel suo giornale aprisse una sottoscrizione per venire in soccorso ai disgraziati. I denari piovevano; e i maligni dicevano sotto voce che il filantropo sapeva molto bene trafficarli in suo vantaggio prima di farli colare là dov'erano destinati.

Con ciò il suo giornale prosperava sempre più. In pochi anni Tommaso Salicotto, il figliuolo dell'ortolano, ebbe un suntuoso quartiere per sua abitazione: quello in cui andremo or ora a trovarlo; ebbe delle buone rendite in cartelle del debito pubblico; ebbe una ben avviata stamperia ch'egli aveva stabilita pel suo giornale, e cui la sua influenza procacciava molti guadagni; ebbe la bagattella d'un'entrata annua di cinquanta mila lire.

E colla sua famiglia quest'avventurato filantropico pubblicista come s'era egli regolato?

Il buon villano, per dirla con un'espressione volgare, s'era aperte le quattro vene, affine di mantenere alla capitale il figliuolo a studiare ed a farvi buona figura. Tommaso aveva capito fin da principio che le apparenze sono tutto nel mondo, e che per farsi strada conveniva vestire e spendere come uomo che ha del superfluo. Il tesoretto delle economie di Matteo sminuiva con una rapidità spaventosa, a dispetto delle privazioni che s'imponevano i due genitori; e il buon uomo se ne desolava seco stesso, non sapendo porvi, non dico un termine, ma neppure un freno. Il figliuolo aveva acquistato sempre più sopra la sua famiglia un imperioso ascendente che di poco si scostava dall'assoluto comando. Le maniere cittadinesche e le vesti signorili di lui imponevano a quella buona gente; e quando Tommaso andava a passare alcun tempo col padre e colla madre vi era trattato come un principe che onori l'abitazione d'un suo suddito. Ed egli stava appunto in tale contegno da affermare il paragone: sussiegoso, altiero, parlando poco e con aria di degnazione, era insopportabile a chi lo vedesse, fuorchè agli acciecati suoi parenti.

Coll'andar del tempo, come gli erano rincresciuti i panni della sua nativa condizione, gliene rincrebbe forte che in faccia al mondo apparisse la rozzezza e la bassezza della sua famiglia. Di quando in quando il padre e la madre capitavano a Torino per vederlo, ed egli si vergognava troppo della pezzuola di panno cotone in testa e della vesticciuola corta di bambagia che portava la madre, e della grossolana carniera e del cappellaccio a larga tesa del padre. Li accoglieva freddamente, di mala voglia, talvolta con brusca impazienza. Le donne sono sempre più fini osservatrici che gli uomini; e la madre si accorse presto del dispiacere che le loro visite facevano a Tommaso; ne disse al marito, ma questi non volle credere.

—Eh via: rispos'egli, sei matta. Masino studia, ha sempre il capo farcito di non so quante cose e ciò lo rende distratto, ma nel cuore, l'ho per certo, e' prova, nel vederci, quel gran gusto che noi a venire.

Continuarono a visitarlo; e meno male se si fossero rimasti a passare con esso lui nel suo alloggio una giornata! Ma il padre, felice e superbo d'un tanto figliuolo, voleva uscire a braccetto con lui e farsene accompagnare di qua e di là, e la madre gli occhi larghi, con esclamazione d'ignorante stupore sulle labbra ad ogni passo, gli veniva, facendosi trascinare al braccio, dall'altra parte. Codeste passeggiate erano per Tommaso un supplizio. Egli avrebbe pure agevolmente potuto liberarsene; ma a quel tempo le cose sue non erano ancora prospere, il suo giornale lottava tuttavia con poco felice successo contro l'indifferenza del pubblico, ed egli aveva troppo bisogno della già smunta borsa paterna per arrischiarsi a scontentare addirittura del tutto il povero Matteo.

E sì che quella borsa paterna era già proprio a' suoi ultimi spiccioli. Consumati per l'affatto i risparmi da tanto tempo accumulati, il dabben padre, a pagare i debiti del figliuolo ne aveva contratti de' proprii, ipotecando il poco terreno d'un orto, che possedeva presso a quello del suo padrone. Un dì venne lettera da Tommaso che diceva con laconica disperazione come, se fra tanti giorni egli non avesse una certa somma, sarebbe costretto a darsi a qualche violento partito: il più temperato quello di fuggire dal paese per non tornarci mai più. Pensate se il misero genitore si diede con isgomento le mani attorno per trovare questa somma! E ci riuscì; e nel giorno stabilito, il poveretto se ne arrivò alla città, afflitto, spallidito, dimagrato dall'angoscia di quei pochi dì, dal dolore del sacrifizio che aveva dovuto fare, come da una malattia di mesi, a porre in mano del figliuolo i chiesti denari: ma egli per ciò era stato obbligato a vendere ogni sua masserizia, il dilettissimo orticello, ed egli e sua moglie, già innanzi negli anni, si trovavano senza asilo, senza possessi, quasi senza pane! Pure non un lamento, non un rimprovero spuntò sulle labbra del povero vecchio, e quando Tommaso, ringraziandolo con una certa effusione, lo strinse fra le sue braccia, egli quasi quasi credette di essere in abbondanza ripagato di tutto.

Matteo abbandonò il villaggio nativo, dove non c'era più mezzo per lui di ricavar da vivere, e con che dolore ciò facesse è facile pensarlo; ed ebbe la fortuna di trovare ad allogarsi, in paese dal suo non molto lontano, come giardiniere e coltivatore d'orto presso un proprietario. A Tommaso parve una buona ventura che suo padre abbandonasse il villaggio natale: così era rotta ogni sua attinenza con quel luogo e quella gente che avevano vista la sua povera infanzia e conoscevano le sue troppo umili origini.

Intanto per l'ambizioso il sacrifizio del padre parve avere aperto il corso delle prospere sorti. Egli aveva incominciato a vivere da signore, e la presenza dei genitori in mezzo al suo sfarzo gli rincresceva sempre più. Un giorno padre e madre ebbero il torto di soprarrivare a visitarlo, mentre Tommaso aveva seco una brigata di giovinotti dal più al meno eleganti, male lingue tutti. Figuriamoci di che gusto dovette riuscire a Tommaso quella visita! Accolse i genitori colla freddezza con cui si tratta un inferiore importuno, e traendoli brusco in altra stanza non mostrò solo col contegno, ma anche colle parole, quanto lo seccassero, e quindi lasciatili ambedue mortificati, senza curarsi maggiormente di loro, andò a raggiungere la comitiva.

—Chi sono quei villani? udì Matteo domandare nella stanza vicina da uno di quei signorini dagli occhiali inforcati sul naso.

E suo figlio a rispondere:

—Sono i coltivatori di una mia tenuta. E' mi hanno visto bambino, e, povera gente, mi voglion bene come lor figliuolo.

Matteo e la moglie si guardarono in volto quasi spaventati. Suo figlio li rinnegava! Da questo tratto furono loro aperti finalmente gli occhi. Tommaso era un egoista senza cuore, che non amava che sè stesso e i guadagni. Fu il peggiore dei dolori che potessero provare. A vedersi partire di mano il suo caro tesoretto; a dover abbandonare il diletto orto che amava con quell'amore tenace, appassionato dei villani per la terra, che tutti sanno; a lasciare il paesello natale dove aveva sperato di vivere e dormir, morto, in pace; a veder fatta incerta la sua esistenza e forse travagliosa la sua vecchiaia: Matteo non aveva ancora sofferto mai tanto quanto in quel momento.

Egli avrebbe voluto precipitarsi in mezzo a quella gente, ed investire lo sconoscente figliuolo colle meritate rampogne; ma la moglie ne lo trattenne. Tommaso uscì, senza lasciarsi vedere e i genitori dovettero aspettare sin tardi per averlo seco di nuovo.

Matteo appena lo scorse, non potè frenarsi e proruppe, pallido per ira e con voce tremante che pure preannunziava vicine le lagrime:

—Che? gli è proprio vero adunque?… Noi vi facciamo vergogna, noi… In questa casa i miei capelli bianchi sono accolti come un disdoro… Ce l'avevate già fatto capire colle vostre maniere, ma ora ce lo avete spiegato chiaro pur troppo!… Non abbiamo ad essere i vostri genitori, noi; appena se siamo degni d'essere i vostri servi… Ebbene sia. Il signorone stia di per sè; e noi non verremo più a seccarlo… Siamo noi, gli è il nostro denaro, gli è il nostro lavoro, gli è il sudore di queste fronti che l'ha rimpannucciato a quel modo il sor marchese… Che monta? Siam villanacci ed egli arrossisce al vederci. Vieni, vieni moglie mia… Questa casa non è fatta pei poveri diavoli come noi, e ci conviene uscirne, e non rimetterci i piedi mai più.

Si mosse diffatti: la moglie lo voleva trattenere, e supplicava cogli sguardi (che colle parole, angosciata com'era, non lo poteva) il figliuolo a voler placare la giusta collera del padre. Se Tommaso avesse detto una sola parola, avesse fatto un sol cenno di pentimento, di domandar perdono, questa gran collera sarebbe sbollita d'un colpo: il povero padre in sè stesso non aspettava che il menomo degli atti per cedere e rimanersi: ma il tristo figliuolo stette lì impietrito, l'aspetto insensibile, gli occhi a terra, senza pur muoversi. A tutta prima ben gli era venuto all'animo l'impulso di placare suo padre, ma poi tosto s'era detto fra sè, che quella era buona occasione per liberarsi una volta dal fastidio di quelle visite, e che per ciò non aveva che da lasciar andare le cose pel loro verso.

Matteo gli diede un'ultima sguardata, e lo sdegno s'accrebbe.

—Ebbene? che fai moglie mia? gridò egli trovando la sua mazza, impugnandola e camminando risoluto verso la porta. Vieni una volta, e togliamo a questo gran signore l'imbarazzo e la vergogna delle nostre persone.

La donna, poverina, piangeva senza aver parole fatte, e voleva calmare il marito; ma questi la prese risoluto per un braccio e la trasse con sè a forza.

Tommaso non si mosse: vide partire il padre e la madre a quell'ora già tarda con occhio asciutto, senza una parola, senza un gesto. Matteo comandò alla moglie che del figliuolo non glie ne parlasse più mai; quanto a sè il nome di lui non fu mai più udito sulle sue labbra.

La famiglia non seppe mai più notizie dell'ingrato figliuolo, nè questi di quella. Tommaso non cercò mai di vedere i genitori; le sue vicende frattanto andavano sempre meglio; la sua fama d'uomo amantissimo dei poveri aumentava di pari passo colle sue ricchezze, e i suoi parenti, impoveriti per causa sua, stentavano la vita senza ch'egli si curasse non che di soccorrerli, ma di saperne novelle.

Erano passati parecchi anni in questo modo, quando Vanardi, spintovi dalla rinomanza di Salicotto, suonava timidamente il campanello dell'uscio del pubblicista per supplicarne la sua generosa protezione.

Ed ora che lo conosciamo per bene, possiamo seguitare il nostro amico Antonio e penetrare con esso nel santuario del famoso filantropo.

XVII.

—Che cosa volete? chiese il domestico che venne ad aprir l'uscio, in tono orgoglioso quand'ebbe squadrato la povertà degli abiti del visitatore.

—Parlare al signor cavaliere: rispose umilmente Vanardi.

Il servo si levò di mezzo all'apertura de' battenti e lasciò il passo. Il pittore entrò levandosi il cappello e incurvando la schiena.

Attraversarono, il domestico primo e Antonio dietrogli, un'anticamera piuttosto vasta, lastricata da formelle di marmo bianco e bruno avvicendate, e intorno alla quale, alle pareti, stavano armadii di legno inverniciato di color bigio. S'intromisero in un corridoio che n'era a capo, volsero a sinistra, entrarono in un salotto ben riparato, ben caldo, con un soffice tappeto sul pavimento, con comodi ed eleganti sedili d'ogni fatta, tappezzato di fine carta azzurrina a fiorami appannati del medesimo colore ma più scuro, adorna di buone pittura di paese, appiccate con cornici alle muraglie, rallegrata da un vivace fuoco nel caminetto.

—Aspettate qui: disse il domestico a Vanardi. Il signor cavaliere è là nel gabinetto (ed additava un uscio a vetri in faccia a quello per cui erano entrati); ha seco qualcheduno; appena sarà libero, potrete parlargli.

E poste ancora alcune legne sul fuoco, se ne andò lasciando solo il pittore.

Questi cominciava a conoscere che nel mestiere di supplicante, la prima cosa da impararsi è il fare anticamera.

All'uscio a vetri, dalla parte del gabinetto, erano appese tendoline di mussolina bianca, che impedivano di vederci per entro. La serratura n'era chiusa colla stanghetta a scatto; ma pur tuttavia il suono delle parole che si scambiavano nel camerino veniva nella stanza che lo precedeva, benchè indistinto. Se ne poteva però comprendere, che un colloquio animato aveva luogo, ed una voce massimamente, che pareva quella d'un vecchio, di quando in quando s'elevava come rampognante, sdegnata e minacciosa. I due uomini che discorrevano non erano seduti, e le loro ombre si scorgevano traverso le tendoline dell'uscio, e dall'apparire e scomparire d'una di esse si capita che uno degli interlocutori andava e veniva, come se impaziente, per la camera.

Antonio s'era già rassegnato ad aspettare chi sa quanto tempo; ed invece, poco dopo ch'egli era stato introdotto, ecco aprirsi bruscamente l'uscio a vetri, e un vecchio a chiome bianche, con panni contadineschi, pallido in volto, non si sarebbe potuto dire se per dolore o per isdegno, comparire sulla soglia. Dietro di lui, discosto due passi, era il signor Salicotto, la cui prima vista fece una cattiva impressione sopra Vanardi; chè diffatti a quell'uomo in tal momento davano un aspetto tutt'altro che simpatico la fronte aggrottata, una dura espressione di fisonomia, le labbra serrate e lo sguardo incerto, che pareva non osare di fissarsi in volto al vecchio contadino.

—Non temete: diceva questi, a cui la voce tremava come la mano che teneva ancora sulla gruccia della serratura: questa sarà l'ultima volta di certo, e Dio voglia!….

Nel pronunziar queste parole aveva levato verso il soffitto la mano destra col solo indice teso, in atto solenne: ma lo sguardo del filantropo, sgusciando fra il vecchio e l'uscio, aveva visto nel vicino salotto la figura d'un estraneo, perciò si affrettò egli ad interrompere il villico, slanciandosi in quella stanza, e quasi sospingendo il parlatore verso la porta d'uscita.

—Basta! diss'egli imperiosamente. Non più una parola; vi prego di non insultarmi più oltre. So che voi non mi comprendete, vi compatisco e vi perdono, perchè è dovere di perdonar sempre ai nostri simili, ma vi consiglio a rammentare che qui sono in casa mia ed ho diritto di mandarne fuori chi mi oltraggia…. Partite; ma ciò nulla meno, ad ogni volta che avrete bisogno di qualche aiuto, potrete sempre in tutta sicurezza valervi di me.

Vanardi cominciava a trovare molto nobile e molto degno il procedere del filantropo; ma il vecchio invece arrossì di sdegno e parve sul punto di prorompere in un'acerba invettiva, pur si fermò, ed allontanandosi vivamente, quasi con orrore, da Salicotto, esclamò fremendo.

—Sciagurato! sciagurato!

E si partì senz'altro, barcollando come sotto il peso d'una soverchia emozione.

Il signor cavaliere gli tenne dietro con uno sguardo che sembrava tutto mitezza e pietà.

—Infelice, diss'egli mandando un sospiro. Ah! com'è doloroso trovare degl'ingrati….

Poi andò presso il caminetto e tirò il cordone da campanello che vi pendeva presso. Il domestico che aveva introdotto Vanardi si presentò tosto alla porta.

—Quel vecchio contadino aveva egli detto il suo nome?

—No signore: rispose il domestico.

Questa risposta parve far piacere al padrone.

—Avete voi notata la fisonomia di quell'uomo tanto da riconoscerlo un'altra volta?

—Signor sì.

—Ebbene se mai si presentasse ancora, gli direte sempre che non sono in casa… fino a che non vi dia un ordine diverso. Andate.

Il servo uscì; allora il pubblicista democratico, socialista ed umanitario si volse verso Antonio.

—Lei vuole parlarmi? gli domandò.

—Signor sì, se la mi permette.

—Si dia la pena di passare qui nel mio gabinetto.

Lo fece entrare nello studiolo, sedette nella sua poltrona innanzi alla scrivania e fece sedere Vanardi sur una seggiola vicina.

Il cavaliere Tommaso Salicotto era tal quale lo aveva descritto la Rosina: grosso, tozzo, con un testone insaccato nelle spalle larghe e rotonde, il colore ulivigno, neri i capelli che aveva abbondantissimi e portava lunghi, pioventi fin sopra il bavero del vestito, nera del pari la barba, di cui lasciava crescere i baffi ed il pizzo al mento. L'occhio era nero ancor esso, e non mancava di vivacità, ma la guardatura non n'era schietta. Le chiome aveva piantate giù verso le sopracciglia da fargli la fronte bassa, ma questa era larga alle tempia e pareva quasi una lista al di sopra della faccia che la riquadrasse. Le traccie della sua origine villereccia gli si leggevano chiare nelle sembianze e nei modi, a dispetto del suo vestire elegante onde cercava dar garbo e distinzione alla sua persona.

Stette un poco ad osservare il suo visitatore, il quale non sapeva troppo che contegno tenere, poi gli chiese con tutta cortesia.

—Con chi ho l'onore di parlare e in che cosa posso servirla?

Antonio levò lo sguardo sopra chi lo aveva interrogato, e lo sguardo di costui fu lesto a guizzar via. Il povero pittore stava pensando che la sua prima accontagione con quel famoso filantropo era bene strana; poichè era arrivato nel punto in cui scacciava di casa sua un povero vecchio. Certo tutti i torti dovevano essere dalla parte di quest'ultimo; ma pure!…

Com'egli esitava, Salicotto riprese:

—Ha ella qualche difficoltà a dirmi il suo nome?

—Oh no: rispose vivamente Vanardi, e gli disse tutto l'esser suo.

—Bene! esclamò il giornalista. Ho molto piacere di conoscerla. Ella pittore, io scrittore; siamo si può dire, artisti entrambi; siamo quasi fratelli, o d'altronde tutti gli uomini sono tali.

E tese la sua mano larga e robusta ad Antonio che con rispettosa peritanza ci pose dentro la punta delle sue dita. Salicotto le serrò forte, e le scosse più forte all'usanza inglese.

—Or dunque parli.

Antonio si sentì il sudore spuntargli a goccie alle radici dei capelli; ma si fece forza, chiamò in aiuto tutta la sua risoluzione e cominciò non senza fremito nella voce il racconto delle sue sventure.

Salicotto lo ascoltò molto attento e raccolto, senza interromperlo mai e senza guardarlo in faccia pur una volta; ma egli mostrava interessarsi in sommo grado a quell'Odissea. Scuoteva la testa, moveva le mani, mandava sospiri a seconda, come uomo che è padroneggiato da profonda emozione. Quando Antonio ebbe finito, gli prese la destra non con una, ma con tuttedue le mani, glie la serrò più forte che prima, glie la tenne così fra le sue un cinque minuti e disse con accento d'uomo che per la compassione fosse lì lì per iscoppiare in pianto:

—Poverino! Quanta sventura e quanto coraggio! Oh come io ne la ammiro! La vede. Gli stenti del povero sono per me qualche cosa di grande, di sublime, ciò che vi ha di più sublime sopra la terra. Tutte le pompe del mondo, tutti gli sbarbagli della ricchezza non valgono a farmi stimare un uomo più che i cenci della miseria coraggiosamente sopportati. I ricchi!… Oh i ricchi!… Conviene perdonarli, perchè anche loro ci sono fratelli; ma l'organismo attuale della società ne fa tanti oppressori di noi povera gente. La vede. La società va rimutata da capo a fondo. Conviene che il voto di Enrico IV di Francia sia una realtà in tutto il mondo, per tutto il genere umano: che ciascuno abbia ogni giorno che Dio manda un pollo nella sua pentola. Ecco il mio programma! Io studio con tutta la potenza del mio animo, con tutta la forza del mio ingegno ad ottenere questo risultamento. Ha ella per caso letto i miei scritti? Le presterò, se vuole, la raccolta completa del mio giornale. Vedrà come dal primo numero a quello di ieri ho combattuto e combatto in favore delle classi diseredate. Sono un missionario, sono un apostolo dell'avvenire, sono l'avvocato dei poveri. Oh i poveri! Vorrei potere aprire le mie vene e dare tutto il mio sangue per farli ricchi. Io piango caldissime lagrime sulle loro sfortune: la vede. Che? Siamo tutti figliuoli d'Adamo, abbiamo tutti un'anima immortale; la nostra vita ha in tutti i medesimi bisogni, ed io dovrò stentare un boccone di pan nero, mentre il mio vicino mangia quaglie e beccafichi?

Prese fiato in mezzo alla declamazione di questa tirata, che aveva già ammanita le migliaia di volte in articoli ai suoi lettori.

—Che rimedio trovarci? La carità? Rimedio effimero: inutile, anzi dannoso palliativo: anche gli economisti la condannano. Senza contare che la è un'umiliazione della natura umana in chi la riceve. Però in circostanze straordinarie, per eccezione, via, l'ammetto ancor io. La vede. Pochi giorni sono un povero diavolo s'è tolto di vita lasciando una famiglia all'ultima miseria. Bene! Io ho tosto aperta nel mio giornale una sottoscrizione per venire in soccorso di quei poveretti, la quale ha già prodotto una considerevol somma. Sono fatto così io!… Ma gli è alle istituzioni, la vede, che bisogna domandare il rimedio; misure radicali ci vogliono, perchè la vera uguaglianza regni una volta sulla terra e quindi la vera fratellanza e la felicità umana. A questi principii ho consacrato tutto me stesso, e non ci fallirò per Dio!

S'alzò da sedere; e Antonio dovette imitarne l'esempio. Salicotto volse al soffitto il suo sguardo e si battè sul petto con aria ispirata.

—Non ci fallirò, finchè qui dentro palpiterà questo cuore, finchè un soffio di vita animerà queste membra.

Poi la sua voce si fece piagnucolosa.

—So bene che molte delusioni e molti dolori mi aspettano. Ah! ne ho già sofferti di troppi e che avrei creduto prima insopportabili. Iddio mi darà forza anche per l'avvenire, e la mia coscienza quell'unico compenso che mi posso aspettare.

Strinse di nuovo la mano d'Antonio e glie la scosse da fargli male.

—Io sono l'amico di tutti quelli che soffrono: sono anche il suo. Mi consideri come tale, la prego. S'accerti che non avrà persona mai la quale partecipi così di cuore a' sventurati come a' prosperi di lei successi.

E in ciò dire l'aveva tratto dolcemente nel salotto che precedeva il gabinetto e stava avviandolo verso l'uscio che metteva pel corridoio nell'anticamera.

—Signor cavaliere, balbettò Antonio.

E l'altro, senza lasciarlo parlare:

—Le manderò il mio giornale; son certo che la ne piglierà alcun conforto. Vedrà, oh vedrà s'io fallisco al dovere che mi sono imposto.

Apri la porta del corridoio e pianamente vi sospinse Antonio.

—Spero che ci rivedremo, soggiunse; anzi un'altra volta potremo parlare più a lungo. Le esporrò il mio disegno di riforma sociale; confido che otterrà la sua approvazione. La riverisco.

E chiuse l'uscio del salotto alle spalle del pittore. Il domestico nell'anticamera accorse sollecito ad aprire la porta di casa. Vanardi si trovò sul pianerottolo aggirato, confuso, mezzo balordito.

Che cosa gli restava da fare? Nient'altro che allontanarsi di là. Prese le scale e cominciò a discendere lentamente, tutto mortificato.

Alla seconda branca della scala trovò seduto, o meglio accosciato nell'attitudine del più doloroso abbandono, il vecchio contadino che aveva visto poc'anzi uscire dal gabinetto del cavaliere. C'era tanta espressione di dolore nel contegno del vecchio, i singhiozzi che rompevano come a forza dal petto di lui erano così angosciosi che Vanardi ristette, e un'immensa, subita pietà l'occupò tutto e lo spinse verso quel miserello dalle chiome canute.

—Coraggio, buon uomo: gli disse con voce piena d'affettuoso interesse. Non datevi così al disperato. Io non conosco le vostre disgrazie, ma qualunque esse sieno l'abbandonarsi dell'animo non può recar loro sollievo nessuno.

Il vecchio contadino sollevò verso chi gli parlava la faccia lagrimosa. I suoi lineamenti erano profondamente turbati, e la pallidezza delle sue guancie quasi cadaverica. L'accento simpatico del pittore parve confortarlo alcun poco; pure scosse il capo disperatamente, e rispose:

—Io sono il più infelice uomo del mondo…. Vorrei esser morto…. Ah no: Dio mi perdoni…. C'è costassù, a Valnota, una povera vecchia che mi ama e mi attende. Se non fosse per lei!… All'uscire di costì m'è mancata ogni forza…. Avevo dimenticato perfino la mia povera vecchia moglie. Bisogna ch'io torni presso di lei…. E sarà il meglio ch'io mi levi presto di qui.

Fece a drizzarsi, ma lo poteva a stento; Vanardi ve l'aiutò.

—Grazie! disse il vecchio, e si mosse per discendere; ma le gambe gli vacillavan sotto, e a mala pena si teneva in piedi.

—Venite meco, soggiunse Antonio; appoggiatevi al mio braccio; così, pian pianino. Siete debole; avete bisogno di qualche cosa che vi riconforti.

—Grazie, grazie: ripeteva il vecchio commosso. Voi avete pietà d'un povero vecchio: voi che non mi avete mai visto, mentre colui… colui!…

Tentennò un momentino la testa con atto dolorosissimo; poi riprese con voce soffocata dalla soverchia commozione, stringendo forte il braccio di Vanardi:

—Colui mi ha scacciato di casa sua, come uno che gli faccia vergogna…. E sono suo padre!

Antonio mandò un'esclamazione di meraviglia e di orrore.

Il vecchio, smarrita affatto ogni forza, s'aggrappò al braccio di chi lo sosteneva, appoggiò la fronte alla spalla del pietoso e scoppiò in pianto dirotto.

XVIII.

Il mattino di quella medesima domenica, verso le ore nove, un vecchio contadino aveva aperto l'uscio della bottega di messer Agapito e aveva domandato al signor Martino, che primo gli si era fatto incontro:

—La casa del signor Marone?

—Questa.

—Dove potrei trovarne il proprietario?

—E' non abita qui.

—Lo so bene. Vengo appunto dalla sua dimora, e la serva mi ha detto che l'avrei trovato in questa casa. Ho un biglietto da dargli che preme.

Martino si strinse nelle spalle.

—Non saprei che cosa dirvi. Sarà certo da qualche casigliano a riscuoter l'affitto. Potete andar cercando di lui su per tutti i piani della casa.

Il villano s'avviava per partire, quando messer Agapito, che dal punto in cui quegli era entrato, l'osservava attentamente e con una certa sorpresa, s'alzò ratto, e fece un gesto per arrestarlo.

—Un momento, diss'egli. O io mi sbaglio, o vi conosco, brav'uomo.

—Può darsi: rispose il contadino volgendo la faccia e lo sguardo verso lo speziale.—To', esclamò egli a sua volta, appena ebbe veduto i lineamenti di costui: ella è messer Agapito.

—Bravo! E voi siete l'ortolano Matteo.

—Per l'appunto.

Agapito tese verso il contadino la sua tabacchiera aperta.

—Evviva! Mi fa molto piacere il vedervi. È un secolo che non ci siamo trovati…. E voi come la va? E la vostra famiglia? E dove state? Già siete sempre al paese, non è vero?… Che cosa c'è di nuovo per colà?… E che buon vento vi mena da queste parti?

Matteo, fra tante domande, pensò bene di non rispondere che ad una sola.

—Non sono più al paese. Sono ortolano ad una villa in Valnota.

—In Valnota? che? vi siete traslocato colà?

—Sì signore…. E son già degli anni parecchi.

—È strana. Non avrei creduto mai più che voi vi sareste deciso ad abbandonare il villaggio.

La faccia di Matteo s'imbrunì e curvando la testa fra le spalle in atto di dolorosa rassegnazione, egli rispose:

—Che cosa vuole? Non l'avrei creduto nemmen io un tempo: ma delle sventurate circostanze sopravvenute mi vi obbligarono.

La curiosità dello speziale intravide tutta una storia che fu tosto assai ghiotto di apprendere.

—Ah si? diss'egli con molto interesse: raccontatemi su, da bravo…

—Oh! gli è un affare molto lungo…

—Non importa…

—Io ho fretta…

—Lasciate un po'… Quando si trova dopo tanto tempo un compatriota!… Quella villetta dove ora siete è vostra? l'avete comperata?

Matteo scosse dolorosamente la testa.

—Oibò. Ci sono al servizio del signor Marone.

—Davvero!

—Sicuro. Saranno tre anni a San Martino.

—E vi ci trovate bene? Ci avete dei buoni guadagni?

—Eh là! non mi lamento.

—Una volta mi ricordo che la vi andava molto bene….

—Ah! questi non sono più i tempi d'una volta. Ho avuto ogni fatta disgrazie.

—Poveretto!… Ma via, sedetevi un momento qui presso al braciere, che possiamo discorrerla più comodamente…

—Grazie, non posso.

Il trovare così restio al parlare quel vecchio contadino accrebbe la curiosità dello speziale, che lo spinse fino alla generosità della seguente offerta.

—Voi berete bene un bicchierino di qualche cosa di tonico … di ratafià per esempio.

—Grazie tante. Lei è molto buono; ma sono ancora digiuno: e poi non posso fermarmi. Conviene ch'io trovi il padrone per dargli la lettera del signor Nicolazzo.

—Nicolazzo! chi è costui?

—È i! pigionante della villetta. Questa lettera preme di molto, a quel che mi ha detto, consegnandomela; e mi ha comandato di recargliene la risposta il più presto possibile.

—Alla campagna?

—Già!

—Forse ch'egli abita colà?

—Sicuro.

—A questa stagione?

—Sono due anni ch'ei non se ne move nè state nè inverno.

—Che gusto! È matto?

—Egli no: ma sua moglie pare di sì.

—Ah, ah! c'è anche una moglie?

—Sì signore.

—E vivono colà soli?

—Come i gufi, tutto l'anno, schivando perfino la compagnia nostra, di me e di mia moglie.

—Cospetto!… A proposito; e la vostra famiglia? Non ve ne ho manco ancora domandato. Come va?

Il pover'uomo trasse un sospiro.

—Mia moglie sta bene, povera vecchia!… Grazie!

—E vostro figlio?

La faccia del vecchio mostrò un certo imbarazzo che eccitò grandemente la curiosità di messer Agapito, il quale ci travide un segreto da apprendere.

—Che riuscita ha egli fatto? continuò egli non istaccando i suoi occhietti dal volto sempre più turbato di Matteo. Eh, eh! sono secoli che io non l'ho più visto; da dopo ch'egli era solamente alto così… Ma mi ricordo benissimo che prometteva di farsi un gran talentone, e che tutta la gente vi consigliava di farlo studiare.

L'infelice Matteo trasse un sospiro più profondo del primo:

—Ho dato retta ai consigli della gente, e l'ho fatto studiare.

—Da prete?

—No… da professore.

—Ed ora, dove si trova egli?

—Ma!… Non so bene… Credo sia qui in città.

—Oh bella! Non sapete dove sia vostro figlio? forse che non vi scrive?

—No… cioè… voglio dire raramente.

—E non va a trovarvi qualche volta?

—Egli ha molto da fare; è sempre occupato…

—Vuol dire adunque che ha fatto davvero una buona riuscita?

Il villano tornò a sospirare.

—Oh sì, disse: guadagna di molto. Se la vive da gran signore—lui: soggiunse con amarezza.

—E voi continuate a far la vita faticosa d'un tempo?… Oh, perchè non andate a vivere con lui, riposandovi pur una volta per passare in santa pace quegli anni che vi rimangono?

Matteo si volse in là per nascondere una lagrima, che lo speziale vide pur tuttavia.

—Sentite: riprese Agapito con un calore che pareva cortesia di buon cuore, ed era invece solletico indicibile di curiosità. Il vostro padrone deve senza fallo venir da me questa mattina per esigere il semestre della pigione: il mezzo più sicuro di trovarlo gli è dunque d'aspettarlo in casa mia. Venite su, e perchè il tempo vi sia men lungo diremo due parole davanti un fiasco ed una fetta di salame.

L'ortolano se ne schermì, ma lo speziale ebbe in quella una vera, ispirazione!

—Vostro figlio vive da ricco, ed è professore?… Sta a vedere che gli è quello che abita qui di facciata che si fa dare tanto di cavaliere e si spaccia figliuolo d'un avvocato.

Matteo non potè e non cercò neppure dissimulare l'emozione che lo prese.

—Abita qui di facciata? Lui!…

—Vostro figlio si chiama egli Tommaso?

—Sì.

—È dunque lui, lo scommetto: esclamò Agapito trionfante. Matteo, assolutamente voi avete da far colazione con me: parleremo di codesto e d'altro.

Il contadino che amava pur sempre l'ingrato figliuolo, e che da tanto tempo non ne aveva più avute notizie, desiderosissimo di udire dei fatti di lui, accondiscese all'invito, e fu tratto dallo speziale nel suo alloggio agli ammezzati.

—Anna, Anna: gridò Agapito entrandovi.

La ragazza accorse sollecita.

—Ecco qui un brav'uomo del nostro paese; soggiunse lo zio: vedi un po' se lo riconosci!

—-Compar Matteo! esclamò Anna giungendo le mani e quasi non credendo agli occhi suoi.

—Sì, sì, son io, disse il contadino ancora tutto turbato, e a cui anzi la presenza di quella giovane, rammentandogli il passato, accresceva la passione della sua presente sciagura. Buon giorno Anna; la ti va bene?

Per la povera giovane la vista di quel suo compaesano fu una gran gioia. Le parve ch'egli le portasse un po' dell'aure di quella diletta contrada ch'ella aveva abbandonata sì a malincuore e per essere poi tanto disgraziata in città, un po' di quella libertà ch'ella aveva dovuto scambiare con una sì trista e dolorosa schiavitù. I giorni gai della sua infanzia le sorsero innanzi con tutte le loro care memorie di luoghi, di tempi, di piaceri; dove avesse osato si sarebbe slanciata al collo del vecchio contadino ad abbracciare in lui tutto quel passato così rimpianto; la si rimase a pigliargli con effusione una mano e serrargliela con forza fra le sue, mentre gli occhi le si inumidivano per tenerezza.

La voce burbera dello zio venne a richiamarla brusco al presente.

—Va a prepararci un boccone da colazione: presto!

Durante il pasto, che non fu nè sontuoso nè abbondante, non si parlò d'altro che di Tommaso Salicotto. Il padre era ansioso d'apprenderne ogni cosa; lo speziale era curiosissimo di trarre di bocca a Matteo il segreto delle relazioni che passavano fra lui e il figliuolo. Più nissun dubbio rimaneva in Agapito che il cavaliere, sedicente figliuolo d'un avvocato, non fosse il legittimo ed unico discendente di quel villano, e si prometteva di avere da questo argomento l'occasione d'una infinità di ciarle piacevoli ed interessanti con tutto il vicinato, cogli avventori, coi medici che capitavano a bottega.

Ma nel migliore delle sue suggestive interrogazioni a Matteo, ecco la nipote interromperlo per annunziargli che c'era il signor Marone.

—Venga: disse lo speziale; poi volgendosi al contadino: Eh ve l'ho detto io che l'avreste visto senza fallo, aspettandolo qui.

Marone si stupì molto di trovar lì il suo ortolano, prese la lettera che questi gli porse, la lesse, meditò un poco, poi disse:

—Da qui a mezz'ora passate da me, dove io abito, e vi darò una risposta da portare al signor Nicolazzo.

Poi si volse allo speziale domandandogli la pigione. Matteo comprese che non aveva più nulla da far lì e tolse licenza. Agapito chiamò la nipote, perchè lo scortasse fuori.

Quando furono all'uscio che metteva al pianerottolo, Anna disse sottovoce e tremando a Matteo:

—Ripartite presto?

—Fra un'ora al più tardi.

La ragazza giunse le mani in atto di preghiera e levò gli occhi lagrimosi in volto al villano con espressione così supplichevole che egli se ne sentì commosso:

—Ho bisogno di parlarvi, diss'ella, tanto bisogno! È il cielo che ho pregato così di cuore che vi ha mandato… Prima di partire, venite qui, ve ne scongiuro, e battete un legger colpo colle dita nell'uscio, io sarò dietro il battente ad aspettarvi… Venite per amor di Dio, ve lo domando come una grazia.

—Va bene, rispose Matteo, ci verrò.

—Sicuro?

—Sì, sì, ve lo prometto.

—Dio vi benedica, compare Matteo.

A che cosa il buon villano avrebbe impiegata quella mezz'ora che gli restava prima di andare a prendere la risposta scritta dal suo padrone? Se ne venne nella strada, guardando di qua e di là, come uno sfaccendato. Dallo speziale aveva appreso che nella casa precisamente di facciata abitava suo figlio; e quando egli giunse all'altezza di quel portone una forza superiore lo fece piantarsi là davanti, come se ci avesse da mettere le radici.

Da tanto tempo non aveva più visto quel figlio che in fondo al cuore gli era caro pur sempre! Chi sa che Tommaso non fosse pentito del suo fallo, e una sola parola di lui, il solo vederlo, non glie lo gettasse amoroso di nuovo fra le braccia! Senza un atto ben preciso di sua volontà, Matteo pur tutta via entrò sotto il portone, e come il portinaio che per caso usciva dalla sua loggia lo guardava con aria interrogativa, egli disse, quasi balbettando:

—Il signor Salicotto abita qui?

—Il cavaliere Salicotto, rispose il portinaio, sta al primo piano nobile.

Matteo salì le scale, suonò il campanello ed entrò nella casa del figliuolo con quella emozione che potete immaginarvi.

Il domestico, che lo aveva introdotto in quel salotto in cui abbiamo accompagnato Vanardi, passò nel gabinetto del padrone ad annunziargli che un contadino cercava di lui.

Tommaso, come soleva fare per ogni nuovo visitatore gli capitasse, se ne fece descrivere in digrosso le sembianze e il portamento. Il dubbio che potesse esser suo padre nacque di subito in lui; s'accostò cautamente all'uscio a vetri, e levò un poco una delle tendine per veder nel salotto. Al primo sguardo gettato su quel vecchio di cui l'impacciato contegno e il tremito delle mani che sostenevano il cappello dinotavano la commozione profonda, Tommaso lo riconobbe. Il primo pensiero di quel tristo, dello scellerato figliuolo, fu quello di farnelo rinviare dal servo; poi temette il vecchio rompesse in isdegnose parole che svelassero la verità e ne nascesse uno scandalo, disse adunque al servitore:

—Andate pure ai fatti vostri; farò venir qui fra un momento quell'uomo io stesso.

Quindi il miserabile stette alcuni minuti pensando quale accoglienza gli fosse più utile di fare a suo padre, e si risolvette per una brusca e scortese, affine di togliere al povero vecchio la volontà di tornarci un'altra volta.

Aprì l'uscio del gabinetto e disse al padre in tono burbero:

—Venite.

Il buon vecchio, che ad una sola parola amorevole si sarebbe slanciato verso il figliuolo a braccia aperte, ferito dolorosamente da quell'accento, s'inoltrò esitando, quasi timoroso.

—Ah siete voi, rispose Tommaso; che volete?

Matteo vide svanire di botto tutte le illusioni che s'era fatte venendo. Suo figlio non esisteva più per esso. Fissò ben bene i suoi occhi sul volto scuro di Tommaso, e disse:

—Ero venuto per vedere se qui trovavo ancora mio figlio, vedo ch'io non son più che un estraneo. Ho avuto torto a venire. Da voi non voglio niente.

E si mosse per partire senz'altro.

Il filantropo non si commosse punto. Soltanto, quando il padre aveva già una mano sulla gruccia della serratura, tese la destra verso di lui e disse:

—Le nostre esistenze corrono in due strade affatto diverse: sono quindi le circostanze, e non la mia volontà, che ci separano. Se mi ostinassi a voler camminare accosto a voi, farei danno alla mia fortuna, senz'altro pro. Che volete? Il mondo è così fatto…

Queste frasi spazientirono il vecchio contadino; rialzò egli la testa più risoluto, ed interruppe:

—Va bene. Risparmiate le vostre belle parole ch'io non capisco. Voi non volete aver più nulla di comune colla vostra famiglia, e checchè avvenga di noi ve ne lavate le mani. Che v'importa che vi sieno due poveri vecchi soli al mondo, senza conforto nessuno nella loro età cadente? È giustissimo: avete ragione: l'educazione signorile vi ha forse mostrato di queste belle cose, che noi gente alla buona chiameremmo… Ah! Dio mi perdoni!…

Il pover'uomo cominciava a scaldarsi. Tommaso fraintese affatto il sentimento del vecchio dabbene, e soggiunse col piglio dolcereccio da impostore con cui soleva smaltire le sue filantropiche tiritere:

—Io non ho mai detto di volervi abbandonare nei vostri bisogni. Voi forse siete venuto da me per avere denaro, ed io…

Ma il padre non lo lasciò continuare. Era l'amore del figlio, era la doverosa di lui gratitudine ch'egli era venuto a cercare. Diede sfogo a tutto lo sdegno doloroso che da tanti anni la condotta del figliuolo verso i genitori aveva ammassato nel suo animo. La verità parlò per la bocca di lui coll'accento della più viva rampogna, e la severa condanna paterna cadde, come una maledizione, sull'ingrato figliuolo.

Tommaso incrociò le braccia al petto e si mise a passeggiare pel gabinetto con fredda indifferenza.

—Dopo questa intemerata, pensava egli, ne sarò liberato per sempre.

Ma come l'intemerata durava troppo, ed egli cominciava a stancarsene, il tristo decise di farla finita. E poi, gli pareva che alcuno fosse entrato nel vicino salotto, e troppo temeva che quella scena facesse scandalo. Si piantò innanzi al padre e gli disse in tono risoluto:

—Ora basta. Sono in casa mia ed ho il diritto di farmi rispettare.

Il vecchio volle insistere.

—Basta! gridò più forte il figliuolo. Ho il diritto a chicchessia m'oltraggi di mostrare la porta.

Matteo indietreggiò d'alcuni passi, innanzi al viso fosco del figliuolo.

—Voi mi scacciate! esclamò egli. E sia: ma il cielo…

—Si: interruppe Tommaso con rea ironia; facciamo il cielo giudice fra noi. Ci acconsento, e intanto la sia finita.

Il misero padre uscì dal gabinetto e dalla casa del figliuolo in quella guisa che vi ho narrato nell'altro capitolo. L'angoscia del suo cuore chi la potrebbe esprimere? Ma nel piangere fra le braccia del buon Vanardi che, senza pur conoscerlo, gli aveva mostrato tanta pietà, alcun sollievo n'era disceso all'anima del povero vecchio:

—Via, fatevi animo: dicevagli Antonio; venite meco, appoggiatevi al mio braccio; avete bisogno d'un qualche corroborante. Andiamo lì dallo speziale…

Ma l'idea di ricomparire innanzi ad Agapito in quel momento riuscì assai sgradevole all'ortolano.

—No, diss'egli, piantandosi in mezzo la strada. Non ho bisogno di nulla.

Il nostro pittore era così commosso della sciagura e del dolore del povero vecchio che non l'avrebbe lasciato andare per tutto l'oro del mondo.

—Sì, sì che avete bisogno di qualche cosa: insistette egli, venite dal liquorista a prendere almeno un bicchierino.

E nella foga della sua caritatevole premura il dabbene dimenticava che non aveva allato nemmeno un centesimo.

—Grazie, grazie: rispose Matteo; ma non ho tempo da indugiarmi. Conviene ch'io vada in cerca del mio padrone per riceverne una lettera, e poi tosto che me ne parta.

In quella Giovanni Selva usciva dalla porta da via di Vanardi, vedeva costui e lo accostava sollecito.

—Una novità: gli disse affrettato: una brutta novità…

—Che cosa? domandò con isgomento il pittore avvezzo dall'infelicità della sorte a temer sempre il peggio. O Dio! ci è capitata qualche altra disgrazia?

—Non a te nè ai tuoi, rispose Giovanni. Rassicurati: la disgrazia c'è, ma è piombata addosso al signor Marone.

A questo nome l'ortolano allargò le orecchie.

—Il signor Marone! Che cosa gli è accaduto?

—Egli è costassù in casa tua, sul tuo letto, con una gamba rotta o slogata che sia.

—La vuol dire il proprietario di questa casa? domandò Matteo intromettendosi.

—Precisamente.

—Egli è appunto il mio padrone di cui debbo cercare.

—Ebbene, lo troverete lassù al sesto piano che grida come un dannato.

—Ma come fu? chiese Vanardi.

—È scivolato giù dalla scala. Il piede gli è smucciato sopra un ghiacciolo. Ti racconterò poi meglio la cosa. Ora corro in fretta a far venire una barella per trasportarlo e ad avvisare la serva di lui, perchè prepari l'occorrente.

E scappò via con tutta sollecitudine.

—Non avete di meglio a fare, disse Vanardi a Matteo, che venir su meco a vedere che cosa è capitato, poichè quello è il vostro padrone.

L'ortolano accettò il partito.

Ed ecco in che modo era avvenuta la disgrazia.

XIX.

La lettera che Matteo aveva recata a Marone era del tenore seguente:

« Pregiatissimo sig. Marone,

«Vengo a sollecitarla ancora una volta a proposito di quel tal quadro, di cui ella non mi ha più fatto saper nulla.

«Il mio desiderio di possederlo si è accresciuto a mille doppi, ed io sono disposto a pagarlo qualunque prezzo. Siccome non vorrei a niun modo trovarmi a fronte di quel Vanardi, ho accettato volentieri l'offerta che ella mi ha fatta di agire in questa occorrenza per conto mio; ma sono troppo impaziente per istar tanto tempo ad attendere senza risultato. Abbia dunque la compiacenza di mandarmi scritto qualche cosa intorno a ciò pel medesimo ortolano al suo ritorno qui, e mi creda

«Suo devotissimo «NICOLÒ NICOLAZZO.»

Marone, in conseguenza di questa lettera, esatti dallo speziale i denari della pigione, si era risoluto ad andare di bel nuovo in casa il pittore, a tentare la prova.

Saputo dalla portinaia che Antonio era uscito, tanto più sollecito e volentieri il padron di casa aveva salite le tante scale che conducevano all'alloggio del pittore, in quanto che sapeva che l'uomo era poco disposto a spogliarsi di quella tela e sperava invece molto più arrendevole la moglie. Rosina infatti trovò una proposta degna di accettazione quella che le venne fatta di dare quel quadro in pagamento dell'affitto dovuto, ma pur tuttavia non osò acconsentire al patto senza prima averne parlato col marito.

Marone adunque doveva partirsene senza aver nulla concluso; e se ne andava per rispondere al signor Nicolazzo: quando in alto di quell'ultima ripidissima branca di scala che metteva nel corridoio delle soffitte si trovò faccia a faccia con Giovanni Selva che saliva. Quest'incontro gli piacque poco; avrebbe desiderato che non si fosse saputo di questa sua venuta, e tanto meno da codesto amico del pittore con cui aveva avuto pochi giorni prima, riguardo a quel ritratto, l'abboccamento che fu narrato. Marone salutò in fretta: si strinse al muro, e fu sua intenzione sgusciar via per discendere sollecito; ma egli non aveva più l'agilità d'un giovinetto, e sugli scalini eravi ghiacciata l'acqua caduta dalle secchie portate su dai casigliani: al povero Marone mancarono di botto i piedi di sotto, ed egli rotolò con tutto il peso della sua grossa persona quasi fino al fondo di quella branca di scala.

Giovanni corse a ricoglierlo su, chè l'altro urlando disperatamente non poteva levarsi da solo. Ma quando si trattò di star sulle gambe e di muovere il passo, non ne fu niente: un piede gli doleva di guisa che non poteva nemmanco appoggiarlo per terra. Marone gridava più forte che mai, e Selva non sapeva che cosa farsene.

Tutte le comari delle soffitte, all'udire il rumore della caduta e le grida, erano corse fuori a vedere che fosse, e fra loro prima la Rosina, che a capo scala mandava esclamazioni, interjezioni e parole ammirative, offrendo però con quel buon cuore, che era sua dote precipua, la sua casa e tutte le sue robe in sollievo del mal capitato.

Selva, il quale si reggeva fra le braccia il non lieve peso del padrone di casa, non vide altro partito migliore che quello di accettare lo offerte di Rosina, ed aiutato da alcuno degli accorsi trasportò Marone che urlava come un indemoniato sino sul letto di Antonio, dove allogatolo, Giovanni discese tosto nella spezieria di messer Agapito, perchè vi corresse a prestare al caduto i soccorsi dell'arte.

La spezieria era piena di gente e ci aveva luogo un'animata conversazione, in cui teneva il campo messer Agapito, che gestiva colla sua presa di tabacco fra le dita.

Si parlava della meravigliosa scoperta fatta quella mattina medesima dallo speziale intorno al famoso cavaliere Salicotto, e se ne facevano i più caritatevoli commenti, e se ne deducevano le più innocenti conseguenze che sappiano la malizia umana, l'invidiosa maldicenza e la malignità pettegola.

Tra questi accusatori insieme e condannatori, il più gentilmente maligno e severo si mostrava l'elegante dottor Lombrichi, il quale ravviandosi con un pettinino di tartaruga i peli dei suoi baffetti e del suo pizzo, guardandosi con ingenua compiacenza nello specchiettino che stava sul manico custodia del piccol pettine, facendo vedere in un grazioso sorriso i suoi denti bianchissimi, provava chiaro come il sole, che il filantropo, nuotando nell'oro, lasciava morire di fame suo padre, la qual cosa era l'azione più scellerata che uomo potesse commettere.

Tutti approvavano con entusiasmo siffatte conclusioni, ed era cosa certa che di quella mattina medesima, per opera di quella brava gente raccolta nella farmacia, la notizia dell'essere e della condotta di Salicotto si sarebbe sparsa per tutto il quartiere, il che non avrebbe però impedito menomamente che quegli stessi valentuomini, trovando per caso il signor cavaliere, non l'inchinassero con tutta riverenza.

Fece diversione al discorso Giovanni Selva entrando ad annunziare la disgrazia di Marone.

—Come! Il mio buon amico Marone, esclamò con interesse il dottor Lombrichi, mettendo in fretta il suo pettinino richiuso nel taschino del panciotto; poi si alzò da sedere, s'abbottonò il pastrano e con gesto che non sarebbe stato disacconcio ad un eroe che partisse pel campo di battaglia, soggiunse:

—Andiamo un poco a vedere; messer Agapito, veniteci anche voi con qualche vostro cordiale.

Ad Agapito non tornava gran che il rimettere la punta del naso nell'alloggio della Rosina, e se ne sarebbe volentieri astenuto, dove la sua benedetta curiosità non lo avesse spinto ad andare sollecitamente a vedere coi proprii occhi ciò che era capitato. Diede dunque di piglio ad alcuna delle sue boccette di spezieria, e seguì Giovanni ed il dottore su per le scale.

Rosina si affaccendava con tutto zelo intorno al signor Marone, il quale non cessava di lamentarsi come un uomo alla tortura, e la non mostrò neppure d'aver visto lo speziale che era entrato chetamente in coda agli altri.

Il giacente, appena scorse il medico, tese verso di lui le braccia ed esclamò quasi piangendo:

—Ah, mio caro dottore, mi salvi lei… Sono un uomo rovinato… Oimè! oimè! Sono tutto fracassato.

Lombrichi aveva incontrato nella visuale de' suoi occhi il piccolo specchio che a Rosina serviva di teletta e vi si era dato un sorriso; di poi fece scorrere questo sorriso e il suo sguardo verso il malato, e rispose:

—Su via coraggio, mio bravo signor Marone… vogliamo sperare che non sarà nulla.

—Sì, speriamo che non sia niente: disse a sua volta lo speziale.

—Niente! niente! gridò Marone. Se sapessero come mi duole… Ahi! ahi! Lo provasse lei messer Agapito… Ohi! ohi!…

Lombrichi si curvò sul giacente.

—Oh! bisogna guarir presto, mio caro; c'è gran bisogno ch'ella sia in gambe.

E soggiunse piano che nessun altro potesse udire:

—Ci abbiamo un mezzo sicuro da rovinare affatto Salicotto nello spirito della marchesa di Campidoro.

Non ostante i dolori del suo piede, queste parole ebbero forza di scuotere Marone.

—Davvero! esclamò egli facendo un movimento come per alzarsi. In che modo?

—Le dirò tutto poi a miglior occasione. Per ora stia tranquillo, ed esaminiamo un poco questa gamba. Dov'è che le duole?

Tastato ben bene di qua e di là, in mezzo agli omei del paziente, il signor dottore si dirizzò sulla persona con piglio d'importanza, guardò intorno a sè con aria trionfale, e sentenziò gravemente che quella gamba doveva dolere, perchè la si era fatta male.

—È rotta? dimandò Marone tremante.

Lombrichi si lisciava la barba guardandosi di nuovo nello specchio.

—No, rispose, frattura non c'è, ma lussazione completa.

Soggiunse che da solo non avrebbe potuto rimettere l'osso a posto, ma che ci sarebbe occorso un chirurgo; e siccome l'operazione non sarebbe tanto facile, e poteva anche essere penosa, stimava fosse meglio che Marone venisse trasportato nella sua abitazione, il che secondo lui, si poteva fare senza inconvenienti, purchè coi dovuti riguardi. Selva si offrì di andare a provvedere al bisognevole, e la sua offerta venne accettata.

Agapito, che in quel luogo ci stava con non poco disagio, propose di far discendere frattanto l'infermo sino al suo alloggio agli ammezzati, che là avrebbe potuto esser meglio coricato per attendere la barella, e tutte quelle scale già discese sarebbero un tanto di fatto, quando poi questa fosse giunta. Il medico non dissentì, e tosto si accinsero a trasportarlo i garzoni dello speziale, che erano venuti su ancor essi ed alcuni uomini fra i vicini accorsi.

In quella sopraggiunsero Vanardi e l'ortolano Matteo.

—Ah! siete qui voi? disse a quest'ultimo Marone, il quale stava per essere sollevato a braccia dal giaciglio. Vedete in quale stato io sono ridotto… Ahi, ahi!… fate piano per carità!… Ditelo a chi vi ha mandato… e che per un poco non posso occuparmi nè di lui nè del quadro che gli preme…

Ma queste ultime parole gli erano appena sfuggite ch'egli, vedendo lì accosto anche Vanardi, si morse le labbra. Per Antonio queste parole non erano passate inavvertite.

Quando Marone fu portato fuori, e dietro di lui furono usciti lo speziale, il medico ed i curiosi, il pittore arrestò Matteo che voleva partirsi ancor esso.

—Una parola se vi aggrada, gli disse.

—Parli, parli pure: rispose il contadino con tutta premura.

—Scusate se v'interrogo, ma si tratta di cosa che mi preme assai. Voi siete stato mandato al vostro padrone da qualcheduno per cagione d'un quadro?

—Non so per che cosa sia. Il signore che appigiona la villa mi ha dato una lettera pel padrone e mi ha detto venissi giù a portargliela e ne aspettassi la risposta.

—Chi è questo signore?

—Il signor Nicolazzo.

Rosina, che era lì ad ascoltare, interruppe vivamente.

—Nicolazzo!… Tò, tò… non mi sbaglio, questo è il nome che il padrone di casa dava a quel brutto signore che è venuto qui pochi giorni sono, e che rimase incantato innanzi a questo ritratto.

L'attenzione e lo sguardo di Matteo dall'atto di Rosina furono chiamati sopra il quadro che ben sappiamo; appena l'ebbe osservato, l'ortolano fece un gesto di sorpresa.

—Oh bella! esclamò. Loro li conoscono dunque i signori Nicolazzo?

—No… Perchè mi chiedete ciò?

—Se qui ci hanno il ritratto della signora.

—Della signora Nicolazzo?

—Sicuro. La è tutto dessa, se non che qui in questa pittura la sta bene, e laggiù poveretta, pare a due dita dalla fossa.

Vanardi si sentì tutto commuovere.

In quella si aprì l'uscio ed entrò Selva che tornava dall'aver adempito l'assuntosi incarico.

Antonio si slanciò verso di lui, esclamando vivamente:

—Mio caro, finalmente la povera Gina è trovata!

Giovanni domandò spiegazione delle pronunziate parole a Vanardi, il quale gli disse in breve ciò che testè era intravvenuto con Matteo: Selva si volse a quest'ultimo.

—Da quanto tempo, gli chiese, codestoro sono in quella villa?

—Da due anni e più… sì, saran due anni all'autunno scorso.

—E' converrebbe, brav'uomo, che voi ci raccontaste per filo e per segno tutto quello che riguarda codesta gente, dal dì che li conoscete. Non e vana curiosità la nostra, ma ci sono in giuoco dei tremendi interessi, e voi, parlando, ci aiutate forse a compire un'opera buona.

Matteo non si fece pregare; e, recatosi alquanto sopra sè, fece di poi il racconto seguente:

—Questi signori arrivarono a Valnota una sera di tardo autunno, che le foglie erano già quasi tutte cadute. Il padrone era venuto pochi giorni prima a far mettere in ordine il casino, e non ci aveva detto altro se non che dall'oggi al domani sarebbero capitati dei pigionanti ai quali egli stesso avrebbe rimesso le chiavi… Quando giunsero, ventava forte e cominciava far piacere lo stare presso al fuoco. C'eravamo appunto mia moglie ed io e Gaspare, un bardotto di garzoncello che mi tengo per aiutarmi nei lavori più grossi. Sento la trottata di due cavalli… che da noi la notte è tanto quieta da sentire il soffio della grisa, che è la nostra cavalla, ad un centinaio di passi lontano… Sento adunque il trotto di due cavalli e il rotolare d'una carrozza che si ferma all'altezza della palazzina civile. Pan, pan, pan: si picchia forte al portone… Convien sapere che il casolare che noi abitiamo è in fondo al cortile; il palazzotto è verso la strada, e il suo portone ci mette; il giardino è da una parte e l'orto dall'altra della palazzina; noi, dal nostro casolare, abbiamo anche un'uscita di dietro che dà sopra una viuzza per cui si va ai campi.

«—Sono i forestieri che il padrone ci ha annunziati: dico subito alla moglie.

«—Può darsi, risponde essa.

«—Accendi un lume; le dico: io e Gaspare andiamo ad aprire.

«La moglie accende una lucernetta che dà in mano al garzone, io do mano ad un randello ch'è sempre dietro l'uscio, perchè in quel luogo solitario, con tanta gente senza timor di Dio, non si sa mai, e ci avviamo verso il portone. Traversavamo il cortile ed ecco il picchio ripetersi più forte.

«—Buono! dico a Gaspare, pare che la pazienza non sia la virtù di questa gente—Chi è? dimando giunto alla porta.

«—Siamo i pigionanti, mi risponde una voce cupa e rauca. M'affretto ad aprire, prendo il lumicino dal bardotto, metto la palma della mano dietro la fiammella per veder bene, e mi si presenta innanzi una faccia così poco da cristiano ch'io fui ad un pelo da ribattergli lo sportello sul muso e tornarmene senza altro al mio fuoco.

«Sulla strada era ferma la carrozza: l'usciòlo n'era aperto e dentro ci si vedeva un inviluppo che pareva un fardello di stoffe buttato là. Il signor Nicolazzo, che era quel brutto che mi si era presentato, mi disse imperiosamente con quella sua voce cavernosa:

«—Aprite tutto il portone, che la carrozza possa entrare sotto l'atrio.

«In un momento fu fatto. Allora la carrozza entrò e si fermò in faccia la scala. Il signor Nicolazzo mi disse:—Al primo piano c'è una stanza da letto che guarda nel giardino.

«—Signor sì, risposi.

«Ed egli:—Mandate tosto ad accendervi un buon fuoco e prepararvi il letto.

«—Il letto è bello e pronto: dissi; e il fuoco in due minuti è acceso.

«Ci mandai Gaspare: il signore riprese vivamente:

«—Ci avete bene la moglie?

«—Sì signore: dissi.

«—Mandatela lei colà, disse, e che aspetti in quella stanza, e quel giovinetto, disse, venga ad avvertirci quando tutto sia pronto.

«Fu fatto a suo senno. Teresa, che è mia moglie, andò su, e mentre s'aspettava il tornare di Gaspare, io aiutai il cocchiere a levare dalla carrozza i bauli. Nella carrozza nulla non si mosse mai, come se non vi fosse anima viva: quel mucchio di panni era sempre immobile. Quando Gaspare venne a dirci che si era in ordine, il signore pose il capo nell'interno della vettura e chiamò:—Gina!… Gina!…

—Ah! interruppe Vanardi con emozione, l'odi tu Giovanni? Non c'è più dubbio. Poscia, volgendosi a Matteo;—Era la moglie a cui dava questo nome?

—Sì signore: e la moglie era quel certo fascio di robe che ho detto. Nello stesso tempo che il marito la chiamava per nome, io avanzava il lucernino a fare un po' di lume. Al suono di quella voce, oppure a quel subito chiarore, la signora diede in un improvviso scossone e mandò un picciol grido, come spaventata. Vidi drizzarsi della persona una donna macilenta, pallida, con sembianze di sofferente, che girava intorno degli occhioni larghi, ardenti, come li vidi già a taluno che aveva le febbri nella testa e spauriti come quelli di uno spiritato.

—Poveretta! esclamò Antonio.

—Guardò essa il marito, mandò un altro grido e si ricacciò indietro rincantucciandosi, tremando, sclamando con voce rotta dallo spavento:—«No, no, lasciatemi.»—Il signor Nicolazzo se la prese con me—«Che fate voi qui? disse, niquitoso come un basilisco. Le avete scaraventato sulla faccia il vostro lume, disse, che l'avete fatta destarsi in soprassalto. Traetevi in là, disse, e non vi accostate più ch'io non vi chiami.» Ubbidii. E' si mise con mezzo il corpo nella carrozza e parlò tanto piano che non ne udii sillaba. Dopo un poco si drizzò e si rivolse verso di me e del garzone che stavamo chiotti chiotti, in un angolo:—«Venite qua, disse; bisogna levarla di là pian pianino, com'ella è, e trasportarla sul letto. La è svenuta, disse. È malata da lungo tempo, e la fatica del viaggio, disse, l'ha indebolita troppo più che non credessi.» Diedi il lume a Gaspare e la presi pianamente dov'ella era: la poverina non pesava guari più che un cuscino di piume; la portai su delle scale e il marito dietromi, fino alla stanza preparatale, dove Teresa stava aspettando.

«Ed ecco in che modo arrivarono. La carrozza se ne partì per donde ella era venuta, ed essi non si mossero mai più, senza che noi ne sapessimo altro…. Ah! soltanto pochi giorni sono, il signor Nicolazzo s'allontanò dalla villa e stette fuori un giorno: è la prima volta che ciò gli avvenne. Il padrone era venuto a riscuotere l'affitto, come fa ad ogni semestre; chè sono le sole occasioni in cui egli ci mette il piede; ed egli è la sola persona che ci venga. Adunque egli era venuto, e quando fu per ripartirne, il signor Nicolazzo venne da me e mi disse che si sarebbe allontanato per alcune ore—e se n'andò via diffatti col padrone—badassi bene alla casa ed a sua moglie, e le mandassi presso a custodirla la mia Teresa, perchè quella poverina avendo perso il ben dell'intelletto….

Antonio e Giovanni mandarono un'esclamazione.

—Sicuro! riprese Matteo. E dapprincipio conveniva sempre esserle a' panni, perchè la voleva scappare ad ogni modo e da ogni finestra voleva buttarsi. La mia buona moglie le ha fatto un'assistenza!… Perchè il signor Nicolazzo non vuole servitù per la casa, e, tolta una meschinella fante che non esce fuori della sua cucina, siamo noi che facciamo tutto. E la prima cosa che il signor Nicolazzo disse a mia moglie mettendola presso alla sua, si fu questa:… «Badate bene, disse, che di quanto possiate udire da quest'infelice, voi non avete da tener memoria nè ripeter verbo con persona al mondo, chè altrimenti, disse, mal per voi!…» Teresa promise e tenne così bene la parola che nemmanco meco non si lasciò sfuggire mai pure una sillaba. Del resto, poverina!… la sua pazzia è la più innocua che esser possa, e la non sarebbe capace di far male nè anche ad un moscherino. Certi giorni non fa che piangere, piangere; certi altri, ma sono i meno, ride e canterella come un bambino ancora nell'innocenza. Delle intiere notti sta in piedi, e va e viene per la sua stanzuccia che pare una fantasima; e il marito allora veglia ancor esso, ma nella camera vicina, che la non lo soffrirebbe nella sua per nissun patto, e parecchie volte ch'egli le si accosta essa da in convulsioni tremendissime che sono una pietà e uno spavento a vederla. A poco a poco però la si è avvezzata a que' luoghi, non ha più cercato di scappare, ed ora anzi la ci si piace…. Ma, forse io faccio male a raccontar loro tutte queste cose.

—No, brav'uomo: disse Giovanni, voi fate invece un'opera buona, perchè ci aiuterete a levar dalle mani d'un mostro una povera innocente ch'egli tormenta.

—In vero che la mi par così anche a me, se ho da dire proprio ciò che penso; quel signor Nicolazzo io non lo posso soffrire… E poi lei signore (ed accennò a Vanardi) è stato così buono per me, che io mi sono sentito di botto una gran confidenza a suo riguardo…. Ma intanto il tempo se ne va, e non vorrei perdere il vapore. Mia moglie mi aspetta e manderà il garzone colla carrettella alla stazione della ferrata, e se poi la non mi vedesse arrivare, la buona vecchia non se ne darebbe pace.

Tolse commiato, che fu da tutte due le parti affettuoso come fra gente che si conosce da un pezzo, e discese le scale più affrettate che ei poteva. Ma giunto Matteo al pianerottolo degli ammezzati, ecco un altro intoppo ad arrestarlo.

L'uscio dell'alloggio d'Agapito s'aprì di botto e comparve Anna colla sua pezzuola da villanella in testa ed un fardelletto sotto il braccio.

—Eccomi qui, diss'ella vivamente. Lo zio per fortuna non è in casa, andiamo, andiamo presto, che mi par mill'anni di esser lontana di qui.

—Ma dove abbiamo da andare? chiese Matteo.

—Ve lo dirò quando saremo per istrada.

E, senz'aspettar altro, Anna si chiuse l'uscio dietro di sè, e preso il contadino per un braccio, lo trasse seco giù della scala.

Camminarono un poco per la strada senza parlare. La giovane andava di buon passo e con sembianza irrequieta, come se temesse di essere seguitata e raggiunta. Matteo l'arrestò.

—Mia cara, le disse, io vorrei sapere dove andiamo: non ho tempo affatto da indugiarmi se non voglio perdere il vapore.

—Noi ci andiamo appunto al vapore, rispose la ragazza guardandosi attorno timorosa; venite, venite… Io partirò con voi, e voi mi farete la carità d'accompagnarmi.

Matteo allargò tanto d'occhi.

—Partire!… E lo zio lo sa?

—No. Egli non mi lascerebbe andare, ed io ne ho bisogno. Non posso più durarla così, non posso più viver qui.

—Volete dunque abbandonare la casa dello zio?

—Sì.

—Ma, mia cara: cominciò il vecchio con accento di rampogna.

—Ah! non mi farete cambiar pensiero, Matteo: interruppe Anna. Da lungo tempo meditavo di far così.

—Lo zio vi tratta dunque ben male?

—No, no: rispose la giovane impacciata. Ma io sono avvezza alla vita del paese, ho bisogno di quell'aria, qui in città soffoco.

—Eh! c'è un altro guaio, disse Matteo: gli è che io non istò più al paese.

Anna impallidì, giunse le mani, e con tanta passione che il vecchio ne fu tocco, esclamò:

—Oh mio Dio!

—Io sto a Valnota….

La faccia della giovane tornò ad illuminarsi d'un raggio di speranza.

—Oh non importa. È sempre dalle nostre parti; non è lontano dal paese che dieci miglia. Ci andrò bene di colà al villaggio da me sola.

—Ma che cosa volete farvi al villaggio?

—Lavorerò, mi metterò da serva presso qualcheduno, andrò da manovale in giornata, farò di tutto, purchè me ne viva colà.

—Voi siete dunque ben infelice qui? disse il vecchio commosso.

—Oh tanto! oh tanto! esclamò la poveretta; poscia, prendendo una mano del contadino e serrandola: per amor di Dio non mi abbandonate!…

Matteo fu vinto.

—Ebbene, venite, disse bruscamente; siete una buona e brava giovane, me lo ricordo, che il lavoro non ispaventa. In un modo o nell'altro si troverà bene dove allogarvi e forse, forse… Basta, non sarà mai Matteo che lascierà mancare d'aiuto una sua compaesana.

XX.

Matteo ed Anna arrivarono sull'imbrunire al paese a cui dovevano discendere dal treno della ferrovia, affine di recarsi poi per una strada comunale alla villetta in territorio di Valnota.

La giovine incominciava a riconoscere i luoghi della regione a cui apparteneva il suo paesello e il cuore le palpitava dolcemente. Ella poteva già scorgere le sue montagne, le sue valli, le dilette pendici; e quei luoghi le richiamavano vivo vivo il passato alla mente, e la ritornavano, come dire, nella tranquillità e nelle gioie d'una esistenza ch'ella aveva affatto perduta da quel momento, in cui ella aveva dato l'addio al suo villaggio. Gli occhi le si inumidivano di lagrime, ed ella, stringendo il braccio del vecchio contadino che le stava accosto, designava col dito ogni picco, ogni punta di collina che le apparisse, dicendone il nome con vero affetto.

Commozione siffatta si comunicava al buon Matteo che amava pur esso di pari amore quella contrada, e quasi pareva anche a lui di rivederla con nuovo e maggior diletto, e un medesimo sentire attemperando quelle due anime faceva nascere tra di loro una più spiccata simpatia. E poi, al povero vecchio, cui tanto dolore aveva dato un figliuolo, la confidente amorevolezza e la quasi figliale osservanza con cui quella giovane lo trattava riusciva come un sollievo, leggero sì, ma pure non inefficace. Ed alla giovane, avvezza ai mali trattamenti d'Agapito, priva da tanto tempo di ogni mostra non che d'affezione, ma del menomo interesse, il piglio buono, famigliare e schietto del vecchio era una squisita e cara amorevolezza.

Uscirono dalla stazione il vecchio prima e la ragazza dietrogli. Gaspare era fuori sulla spianata, ritto sulla carrettella, che faceva chioccare la frusta a tutt'andare di braccio per annunciare la sua presenza, e il cavallo bigio dell'ortolano, fra le stanghe del veicolo, teneva giù la testa verso terra, senza commuoversi punto a quello schioppettio.

In breve furono saliti nella carrettella, il vecchio e la giovine ch'egli conduceva seco, a veder la quale Gaspare il garzone si era stupito non poco, non sapendo chi ella potesse essere e per qual modo avere col suo padrone attinenza.

Non ci volle molto tempo, benchè il cavallo non fosse de' più veloci corridori, per giungere alla loro destinazione. Il bianchiccio del palazzotto cominciava ad apparire nello scuro della notte, che era discesa intieramente. Non un lume ci si vedeva, non una riga di luce che filtrasse pel fesso d'una imposta di finestra. Gaspare fece voltare il cavallo in una straduccia più angusta, peggio mantenuta, sfondata e guasta, la quale menava alla porta per cui s'entrava nell'abitazione rustica, e per cui passavano sempre i contadini. Quella porta era chiusa, ma Teresa, avendo udito il rotolare della carrettella sul suolo ineguale e ronchioso della stradicciuola, si veniva affrettando ad aprirne i battenti. Gaspare fermò la grigia e saltò giù ad aiutare la padrona a spalancare le pesanti imposte del portone.

—Buona sera, Teresa: disse l'ortolano dal suo posto.

—Buona sera, Matteo: rispose la donna. Hai fatto buon viaggio? La ti va bene?

—Sì, grazie…. Eccoci qui sani per grazia di Dio.

Ma nella pronunzia di queste parole l'affetto della donna sentì l'accento d'una profonda mestizia dell'animo, onde alzò ella il lumino che teneva in mano per vedere in faccia il suo uomo, disposta, come pareva, ad altre interrogazioni in proposito; ma i raggi della lucerna caddero sulla giovane rincantucciata nel carrozzino.

—Oh, oh! disse Teresa, tu ci meni qualcheduno.

—La è un'antica nostra conoscenza, rispose Matteo; sai bene, la piccola Anna del nostro vicino Gianantonio.

Teresa alzò di meglio il lume e fece sbatterne la luce nuovamente sulla faccia della giovane.

—Che! diss'ella, proprio dessa?

Anna sportasi in fuori, accennava di sì, sorridendo mestamente.

—E come qui da noi? domandava la donna di cui s'era desta vivissima la curiosità. Dove l'hai rintoppata Matteo? Eravate, se non la sbaglio, allogata a Torino presso un vostro zio. Ve ne siete dipartita? E dove siete diretta? forse al paese?

Mentre la Teresa faceva queste interrogazioni, Matteo era disceso dalla carrettella ed aveva aiutato la giovane a venir giù essa pure.

—Per ora la è qui con noi: disse il vecchio ortolano, interrompendo alquanto bruscamente le ciarle della moglie: dove l'abbia da andare e quel che da fare ne discorreremo poi a miglior agio; frattanto entriamo in casa, chè qui tira un maledetto venticello che ti figge i fianchi.

Mentre Gaspare staccava la grigia, e la menava in istalla, e le metteva innanzi l'abbondante profenda, Matteo, Teresa e la loro ospite s'intromisero nella cucina a pian terreno, rallegrata dalla vampa d'un bel fuoco fiammante nell'ampio camino, dove cuoceva in un capace paiuolo la cena.

Fecero sedere la ragazza presso al focolare e Matteo le si pose in faccia sul basso sgabello che gli serviva di solito. Teresa, per riscaldar di meglio gli arrivati, riempì due scodelle di quel brodo che bolliva nel paiuolo a cuocere la minestra, ne diede una prima ad Anna, e l'altra poi al marito, dicendo:

—Bevete, che ciò vi vorrà far bene. E intanto la cena sarà presto all'ordine. Avrai fame tu Matteo, non è vero?

Il vecchio scosse la testa e mandò un sospiro: allora la moglie notò sul volto di lui le traccie d'un dolore profondo.

—O mio Dio! che cosa ci hai? dimandò essa con affannosa sollecitudine. T'è capitato qualche cosa?

Matteo si sforzò ad abbozzare un calmo sorriso.

—Nulla, nulla: diss'egli.

Ma la donna guardandolo fiso:

—Sì che c'è qualche cosa… Ah! che indovino…. Tu hai saputo di quell'altro… tu lo hai visto….

Il marito mostrò colla sua emozione come bene la Teresa si fosse apposta, ma l'interruppe bruscamente.

—Per adesso lasciamo stare codesto; ne parleremo poi.

In quella entrò Gaspare.

—Sentite Matteo, diss'egli, c'è qui fuori il pigionante che v'aspetta e vuol parlarvi.

—Ah! disse l'ortolano levandosi in fretta: ei viene a cercar la risposta al suo biglietto; ed io bestia non mi ricordavo manco più di lui.

Uscì sollecito; il pigionante andò vivamente incontro all'ortolano, appena lo vide comparire.

—Ebbene? diss'egli: la lettera di Marone?

—Non ne ho di sorta: rispose Matteo.

Nicolazzo, o per meglio dire Orsacchio, perchè oramai per noi egli si cela invano sotto quel finto nome, alzò impetuosamente la testa, come cavallo che adombra e mandò un lampo dagli occhi.

—Come mai?

—Se vuol favorire un momento in mia casa… Qui fa un certo freddolino…

—No, interruppe il burbero, dite su, e siate spiccio.

Matteo contò più breve che seppe ciò che era accaduto a Marone; Orsacchio mozzicò una bestemmia fra i denti.

—Converrà dunque che ci vada io stesso, diss'egli parlando a sè medesimo; poi volto a Matteo e facendogli un piccolo cenno del capo come a congedarlo, soggiunse: va bene.

L'ortolano fece un rispettoso saluto e stava per rientrare; il pigionante lo ritenne con una esclamazione:

—Ah! diss'egli: mia moglie sta peggio. Se lungo la notte avessi bisogno d'alcuno di voi, come dovrei fare?

—Mandi senz'altro la fante a picchiare al nostro uscio; qualcheduno di noi sentirà di sicuro, e ci affretteremo a' suoi cenni.

Ritornando nella cucina, Matteo disse di botto alla moglie:

—Madama Nicolazzo sta male, e il marito teme d'averci da chiamare sta notte.

Teresa giunse le mani e scosse la testa.

—Poverina! esclamò: son due giorni che soffre più dell'usato. La è proprio una compassione il vederla.

La cena era pronta. Anna fu posta a sedere tra Matteo e sua moglie, al fondo della tavola sedette il garzone: la ragazza aveva bisogno grandissimo di sostentamento, e la buona Teresa la sollecitò con ogni amorevolezza a saziarsi. Matteo potè appena trangugiare qualche boccone: e la moglie inquieta, che non ispiccava il suo sguardo dalla faccia pallida del marito, non fece neppur essa molto onore alla gustosissima minestra che spandeva un consolante odore per tutta la cucina, ed a cui, per parte sua, Gaspare mostrò col fatto una stima tutto particolare.

Teresa si levò la prima di tavola; la mestizia del suo uomo, di cui ella pur troppo indovinava la cagione, si era riflessa nel volto e nell'animo di lei. Ella accese un altro lume, e sulle mosse per uscir dalla stanza, disse ad Anna:

—Vado a prepararvi un letto… Ah! non sarà, nè esso nè la camera, da signori, sapete… Siamo povera gente noi…

Anna l'interruppe pigliandole amorevolmente la mano.

—Ah, Teresa, credete voi ch'io sia stata nella bambagia fin adesso? Sapete anche voi se sin da piccina ho dovuto sì o no far conoscenza colla povertà: e dacchè le buone anime dei miei si partirono di questo mondo, se sapeste come ho vissuto!… Mi metteste anche sullo strame, sotto la tettoia, ci starei meglio… Non è di ciò che mi vorrei lamentare. Sono avvezza da tempo a cosiffatte cose. Per me, nessuna sorta d'agi richiedo, ma solo un po' di pace e d'affetto…

E le lagrime le brillavano in pelle in pelle.

—Pover'anima! disse Teresa commossa; ne avete ingollate di amare.

Anna sentì che aveva quasi il dovere di spiegare alla buona massaia com'ella fosse venuta colà e in tal modo, e che quello era per ciò il momento opportuno.

—Oh non dirò ciò che ho sofferto: rispose. Voglio dimenticarlo, e l'ho già perdonato. Forse il torto era mio più che d'altrui. Ma non potendo più reggere mi sono risoluta, qualunque cosa dovesse avvenire, di tornare a vivere nel mio paese. Colà almeno qualcheduno mi conosce, qualcheduno forse mi vorrà un po' di bene. E me ne siete prova ed augurio voi che mi avete accolta così generosamente.

—Eh! lasciate un po' stare, disse la donna: vedete mo' se gli è il caso di simili discorsi.

Anna riprese narrando come la vista di Matteo in casa lo zio avesse di botto reso più violento il suo desiderio di tornarne al villaggio, come quella le fosse parsa un manifesto eccitamento ed un aiuto al suo disegno mandatile dalla Provvidenza, e quindi ella si fosse determinata a non lasciare sfuggire l'occasione.

—Non ho pur tentato, soggiuns'ella poscia, di continuare il mio cammino per il villaggio, chè l'ora era troppo tarda e sapevo non me l'avreste permesso; ma domani io torrò congedo da voi, dolente di non potervi lasciare altro attestato della mia gratitudine che i miei ringraziamenti.

—Zitto lì, saltò su di nuovo la Teresa; voi parlate come se foste in città fra quella bella gente dalle frasi colle stampite. Eh! con noi è un altro par di maniche; noi abbiamo il cuore alla mano, e quel che facciamo non è per esserne ringraziati.

—Domani, disse a sua volta Matteo, lasciamolo stare il domani. Badate a riposarvi adesso, e non ponetevi in pensiero del resto. Quando ci saremo, a domani, ne discorreremo dell'altro.

La donna s'avviò: Anna rattamente le fu accosto e le tolse il lume di mano.

—Vengo con voi, Teresa, diss'ella, se me lo concedete, vi ci aiuterò per quanto valgo.

Scambiati gli auguri per la notte con Matteo, la ragazza uscì colla Teresa.

Matteo si ridusse ancor egli nella stanza coniugale. Quando Teresa entrò poscia colà, lo trovò abbandonatamente seduto sulla cassapanca appiè del letto, la testa fra le mani e le lagrime agli occhi. Era egli immerso in riflessioni che parevano altrettanto tristi quanto erano profonde: teneva le braccia appoggiate alle sue ginocchia, il corpo accasciato sulle reni, il capo chino e gli occhi, con quello sguardo atono che nulla vede, fissi innanzi a sè.

Teresa gli si accostò pian piano, e lo toccò leggermente sur una spalla; il vecchio si riscosse in sussulto e levò verso la moglie la sua faccia melanconica e gli occhi inumiditi.

—Matteo, disse la donna, io ho indovinato… Tu colà a Torino hai avuto novelle di Tommaso.

A questo nome l'ortolano sorse in piedi con impeto.

—Taci lì: gridò con accento che pareva sdegnato. Te l'ho pur detto, e più d'una volta, che di colui non volevo più che mi si parlasse, che non volevo più mai udire quel nome.

Teresa rimase un poco in silenzio quasi mortificata; poscia riprese a parlare con tutta amorevolezza:

—Tu hai lì dentro una gran pena, lo vedo, e tacere non ti giova, ma ti fa anzi maggior male ancora. Sono certa che tutto ciò proviene da…. da colui che non vuoi che io nomini; e se non è così non dovresti aver nessuna ripugnanza a dirmi la ragione di quella tua melanconia che vorresti, ma non puoi nascondermi.

Matteo non era uomo da resistere inconcusso alle amorevoli sollecitazioni della moglie; finì per narrarle tutto quanto gli era occorso coll'ingrato figliuolo, e di belle lagrime ne versarono insieme quegli infelici genitori.

Anna, da canto suo, benediceva e ringraziava intanto il Signore, perchè il suo disegno fosse così felicemente riuscito, e quella sera le si accordasse sì benevola e gradita ospitalità.

La stanza in cui l'avevan posta era modestissima, imbiancata a calce, non d'altro fornita che d'un letto, di poche seggiole e d'un cassone, ma pulitissima. A capoletto c'era il solito aquasantino, il ramoscello d'ulivo benedetto e un quadro a cornice grossolana di legno non inverniciato, in cui ci era la stampa orrendamente colorita di rosso, di celeste e di giallo della Madonna dai sette dolori. La finestra guardava nel cortile, precisamente in prospetto all'angolo del palazzotto dalla parte del giardino. La nostra giovane guardando traverso i vetri vide che una camera sola del palazzotto era illuminata, quella appunto che si trovava l'ultima verso il giardino e, posta in sulla cantonata, aveva un'apertura a ciascuno dei lati, un verone sopra il giardino, una finestra verso il cortile.

Dietro i cristalli di quella finestra, Anna vide un'ombra, che conobbe tosto per quella d'una donna, andare e venire irrequietamante, e le parve smaniasse e si muovesse come persona assalita da turbamento fortissimo. Talvolta la si fermava innanzi alla finestra e levava le braccia agitandole, poi si cacciava le mani sul capo, come per istracciarsi e sciuparsi i capelli, e ad un tratto le braccia le ricadevano come svigorite subitamente. E sembrava ad Anna che questi atti di maggior dissennatezza fossero accompagnati da certe voci, da certi lai, che non ostante la distanza e l'esser chiuse le due finestre, giungessero pur tuttavia fiochi e rotti sino a lei.

Anna aprì i vetri. S'era messo un tempo fosco, basso e d'un freddo umidiccio che penetrava nelle ossa e gelava il sangue. Un nevischio minuto minuto turbinava sotto le folate d'un vento del nord che fischiava fra i rami secchi degli alberi e alle cantonate delle case. La nostra giovane non udì voce umana, e facilmente si persuase che il sibilo del vento l'aveva tratta in inganno.

La donna della camera in prospetto parve pure tranquillarsi in quella; essa s'era ritratta e non compariva più che a maggiori intervalli lenta e quieta come persona che passeggi sovrapensieri. Anna si tolse alla finestra mezzo abbrividita, richiuse le imposte, e quando si trovò poi ben coperta e ben riparata nel suo letto benedì anche una volta il Signore che le avesse concessa una tanta fortuna.

XXI.

Quanto tempo avesse dormito, Anna non lo avrebbe saputo dire; quando fu svegliata nel cuor della notte da un forte e pressante picchiare all'uscio da basso.

Saltò su sollecita, mentre udiva la voce del servitore Gaspare che gridava:

—Chi va là?

—Son io, sono la Menica: rispose una voce di donna.

—Vengo subito.

—Oh, non occorre. Io scappo tosto, chè qui c'è da agghiadare… È la padrona che sta male, e non vuol più veder nessuno intorno a sè, e la Teresa è la sola cui forse la soffrirà d'avere allato. E il padrone mi manda a pregarla volesse un poco venire….

La Teresa medesima, che aveva udito il dialogo, qui entrò in mezzo.

—Ci andrò tosto che potrò: diss'ella aprendo una finestra; ma gli è che anche il mi' uomo non istà bene, e mi levavo appunto per scendere in cucina e fargli una scodellata di caffè.

—Fate più presto che potete: disse dal cortile la voce della serva d'Orsacchio, che ne abbiamo gran bisogno di voi, e il padrone mi ha proprio detto di pregarvene con tutta istanza.

La fante si partì, Teresa richiuse la finestra. Nel silenzio che succedette, alle orecchie di Anna che si vestiva in fretta, senza pur sapere che le toccasse di fare, giunsero alcune grida strazianti tra d'orrore e di spavento. Non era, no, una illusione; quelle grida venivano proprio da quella camera del palazzotto, la quale, già prima d'andare a letto, aveva attirata l'attenzione della ragazza.

Costei frattanto, dovendo vestirsi allo scuro, perchè non aveva fiammiferi da accendere il lume, aggirandosi a tentoni per la stanza a trovar l'uscita e poi ad imboccar la scala, non potè scendere in cucina prima che Teresa avesse già acceso il fuoco, e postovi sopra, appiccato alta catena, un ramino, che in mancanza di cuccuma, le serviva per fare il caffè.

—Voi qui, figliuola mia! disse Teresa meravigliata di vederla. Che cosa siete venuta a fare?

—Ho udito che son venuti a chiamarvi per la signora del palazzo; udii pure che compar Matteo non istà bene, e son qui per vedere se posso essere utile in alcun modo.

—Vi ringrazio… Ma coll'aiuto qui di Gaspare…

—Oh, non mi rinviate, vi prego… In tre potremo far meglio che in due.

—Ebbene, come volete: ecco qui l'acqua che sta per bollire; fateci il caffè: la scatola del macinato è qui sulla tavola. Lo porterete caldo caldo al mi' uomo… Ed io frattanto correrò a vedere la signora.

—Spero che il malessere di Matteo non sia nulla: disse Anna mentre la Teresa già s'avviava per uscire.

—Ah! pur troppo il pover'uomo ha molto male: disse la donna fermandosi. Egli ieri ha avuto un gran colpo… Soffre, poveretto!…. Siamo ben disgraziati, cara la mia fanciulla.

—Voi? esclamò Anna. Voi così buoni e pietosi verso gli altri!

—Dio ci ha dato una gran croce… Pazienza!… Non restiamo più che noi due vecchi soli a volerci bene… Povero Matteo!… Ah! non fo bene a lasciarlo adesso per quell'altra, che in fin dei conti non mi è nulla di nulla.

Anna fu pronta a suggerire ciò che di certo passava per la mente della donna e che non osava manifestare.

—Se provassi a recarmi io in vostra vece presso quella signora? diss'ella. Di buona pazienza e di buona volontà per accudire ai malati oso assicurare che non ne manco.

—Ecchè! esclamò Teresa: voi ci andreste?

—Certo che sì. Solo che Gaspare mi venisse a guidarci.

—Siate benedetta, la mia brava figliuola! Possiamo tentare. Se poi la povera inferma non vi vuole nemmanco voi, allora vedremo… E può anche darsi che frattanto Matteo migliori, ed io possa andarci senza più scrupolo. Tu, Gaspare, va ed accompagna questa buona ragazza, e menala innanzi al signor Nicolazzo, e contagli il fatto, e digli che non ha da riguardarsi per niente a metterla intorno a sua moglie, che glielo affermo io e che gli è come se ci fossi io stessa. Voi, poi, mia cara figliuola, ci rendete un servizio proprio di quei famosi.

Anna e Gaspare uscirono. Nevicava tranquillamente: il vento aveva smesso e i fiocchi cadevano larghi, lenti, con una specie di silenzio solenne. La finestra della camera di Gina era aperta non ostante l'ora e la stagione, e l'infelice stava là, al davanzale, disfatte e sparse le chiome, nudo il collo, discinte al seno le vesti, alla fredda temperatura di quella notte d'inverno. Parlava con una volubilità straordinaria, ora sommesso, ora forte, ora lentamente, ora con una rapidità convulsa. La sua voce a volta a volta era un mesto sospiro, un grido di collera, un lamento, una imprecazione; ora la si sfogava in pianto tranquillo, ora rompeva in urla disperate. Ma quello che dicesse non poteva capirsi bene, cotanto erano affollate le parole, tanto molteplici, varie, intralciate le idee.

I due giovani studiarono il passo per attraversare il cortile, e furono in un attimo al palazzotto.

La Menica attendeva al pian terreno. Si stupì assai nel vedere una giovane che non conosceva punto; ma Gaspare avendole spiegato la cosa in poche parole, essa li lasciò montare ambidue al piano di sopra.

Appena ebbe udito i passi di due persone che si accostavano, il marito di Gina, che vegliava nella stanza precedente a quella dell'inferma, corse loro incontro ed aprì l'uscio.

Anna, all'aspetto di quell'uomo, fu per indietrare dalla paura. La poca luce che mandava dall'interno della stanza la lampada accesa faceva parere più infossate, più livide, più cadaveriche le guancie di lui; l'occhio fosco, affondato, irrequieto, brillava d'una fiamma sanguigna; il contrarsi delle mascelle e delle labbra aveva qualche cosa di spaventato e di spaventoso, di feroce e di doloroso insieme. Dalla stanza di Gina venivano più miserevoli, più strazianti i lamenti.

—Che volete? chi siete? chiese bruscamente quell'uomo, vedendo la faccia sconosciuta di Anna.

Gaspare entrò innanzi ed espose l'ambasciata. Orsacchio appena lo lasciò finire.

—Che storia è questa? esclamò egli ruvidamente. Lo sapete ch'io non voglio gente estranea per casa. La Teresa non vuol venire? E se ne stia… Andatevene, non ho mestieri di nessuno.

Ma in quella la povera Gina gettò un grido più acuto d'ogni altro: la si udì sclamare:

—Sangue! sangue alle mani! Ah, quel sangue!

Ed un tonfo che risuonò fece capire ch'ella aveva dato uno stramazzone per terra.

Accorsero tutti nella stanza vicina senza più parole. La misera donna si giaceva disanimata, bianca come un sudario, gli occhi chiusi attorniati da un livido cerchio, uno de' smagriti e deboli bracci sotto il capo abbandonato: nel suo deliquio doloroso, nell'eccesso del suo male pur bella tuttavia.

Il marito le fu primo dattorno, e presala alla vita, la sollevò e la trasse sopra un divano che era lì presso. Anna aveva visto per colà un fazzoletto ed afferratolo tosto, l'aveva immerso nell'acqua e ne veniva bagnando la fronte e le tempia della svenuta.

Dopo un poco, Gina aprì gli occhi e girò intorno uno sguardo smemorato ancora, ma non più dissennato. Vide prima d'ogni altro il marito, e se ne discostò ratta con immenso orrore. Avvisò accosto a sè dall'altra parte una donna, e senza nemmeno guardarla in viso, le si gettò fra le braccia, e nascondendole il volto in seno, esclamò in tono di commovente supplicazione:

—Salvatemi! salvatemi!

Ma Orsacchio sapeva che la crisi, una di quelle a cui l'infelice andava soggetta, era passata oramai, e quindi quel po' di ragione che era sopravvissuta ai colpi crudelissimi di tanti dolori, tornava a pigliare il governo della povera vittima. Le pose una mano sulla spalla e con accento pieno d'intenzioni, e quasi direi di minaccia, disse lentamente:

—Gina! ora la ti va meglio; tranquillati… Ora ben riconosci chi son io.

La misera, al tocco di quella mano, al suono di quella voce, s'era messa a tremare di tutte le sue membra. Quand'egli ebbe detto, ella rimase un poco senza muoversi, quasi meditasse seco stessa sulle parole di lui; poi rialzò lentamente la testa e guardò. Ma non si volse dalla parte dov'era Orsacchio; fissò alquanto Gaspare, il quale s'accorse in quel punto d'avere ancora piantato sulla nuca il suo cappellaccio, e se lo tolse di fretta facendo uno stupido sorriso ed un goffo inchino.

—Lasciatemi, diss'ella con fievol voce appena intelligibile.

Orsacchio commentò quella parola, mostrando la porta con un gesto che non aveva mestieri d'ulteriore spiegazione.

Gaspare non se lo fece ripetere, e scomparve guizzando via fra i battenti semichiusi dell'uscio.

Anna, a cui l'inferma si teneva ancora abbracciata senza badarci, capì che quest'atto del marito era un comando anche per lei, e fece a spiccarsi dalla poveretta. L'attenzione di costei da questo moto fu tratta a quella donna che essa non aveva ancora neppure guardata. Stupì nel vedere una persona che non conosceva; ma sulla faccia di questa persona c'era tanta benevolenza, tanta generosa pietà, tanto interessamento per lei, che la povera Gina ne fu tocca di botto. E come la ragazza voleva dipartirsi, l'ammalata la ritenne dolcemente e le disse con ineffabile tenerezza, guardandola fiso, e, per così dire, bevendo cogli occhi la simpatia dal volto di lei:

—No voi, non mi abbandonate!

Anna diresse uno sguardo al signore, per interrogarlo sul come la dovesse fare; Gina comprese, e volgendosi al marito, pur senza levargli in viso gli occhi.

—Oh lasciatemela: disse vivamente.

Orsacchio si tacque.

—Lasciatemela.

Il marito le si accostò vieppiù, ed alzando un dito come a segno di ammonimento, disse fissandola:

—Ma!…

Gina, sollecita soggiunse:

—Non parlerò; ve lo prometto.

L'uomo fece un cenno approvativo col capo, quindi si ritrasse lentamente non cessando di tenere il suo fosco sguardo sulla moglie. Anche costei guardava fiso lui, paurosa, seguitandolo in ogni suo moto; quando egli fu fuori ed ebbe rabbattuto dietro sè l'imposta dell'uscio, ella si drizzò un poco della persona e mandò un sospiro come se sollevata dalla gravezza d'un peso che l'opprimesse; poscia si volse ad Anna, le prese le mani, la trasse a sè, le fece un po' di luogo sul divano al suo fianco e ve la fe' sedervi; allora, guardandola ben bene con curiosità infantile e benevola, le disse:

—Vi ho già vista alcune volte io? Mi par di no… Se non vi riconosco bisogna perdonarmelo… Ho tante cose nella mia povera testa… Non domandatemi quali, perchè non ve le direi… Oh no certamente… l'ho promesso… Siete forse la figliuola di Teresa? È una molto buona donna Teresa, e le voglio bene… Vorrò bene anche a voi se ne vorrete a me… I vostri occhi mi piacciono… Come vi chiamate?

—Anna.

—Anna: ripetè l'infelice chinando il capo in atto di meditazione: non ho mai sentito questo nome… Dite, mi vorrete bene?

La giovane levò le mani pallide e macilenti di Gina all'altezza delle sue labbra e le baciò con effusione.

—Oh sì, diss'ella, tanto, tanto!

Gina liberò le sue mani e le battè palma a palma con gioia fanciullesca.

—Brava! staremo insieme, sempre insieme. Vi torna? Ne ho tanto bisogno! Io sono sempre sola con…. Zitto! Non parliamo di ciò…. Saremo amiche… Ne avevo una di amiche…. Come la mi amava!… Mi hanno detto che è morta.

E due lagrime silenziose le vennero agli occhi. Essa le lasciò gonfiarsi, traboccar dalle ciglia, colar lentamente giù per le guancie, senza badarci. Poi cambiando ad un tratto di tono, domandò quasi brusco:

—Chi siete?

—Una povera orfanella che va cercando di guadagnarsi il pane col suo lavoro.

—Un'orfanella! esclamò Gina, rifacendosi affettuosa. Ancor io sono tale. Da giovine sono rimasta sola. Niun appoggio, niun consiglio, niuna difesa… Povera Gina!

Appoggiò il mento al petto e stette assorta. Anna le si pose intorno con mano delicata a rassettarle i panni, a ravviarle i capelli, ad accarezzarne la fronte. La povera donna sentiva una destra amichevole e gentile occuparsi di lei, ed una soave sensazione se ne diffondeva per tutto l'esser suo; gli era come una graduata invasione d'un fluido magnetico affettuosissimo. Riappoggiò la testa al petto della giovane, adagiò mollemente sopra il divano le sue membra stanche, e con carezzevole intonazione di voce:

—Contatemi la vostra vita, Anna, diss'ella; mi farete piacere.

Anna obbedì pronta. Narrò le poche vicende della sua semplice esistenza. Quando ebbe finito si chinò verso il volto della signora. Essa aveva gli occhi chiusi, l'aspetto tranquillo, calmo ed a cadenza il rifiato. Stretta al seno della ragazza, la s'era dolcemente addormentata.

XXII.

Orsacchio, scoperto che sua moglie amava, riamata, Adolfo Cioni, aveva costretto quest'ultimo a battersi con lui in un duello che era stato un assassinio, ed uccisolo. Poscia, preparato già tutto per una pronta partenza, s'era presentato alla moglie, le mani lorde di sangue del giovane, e seco l'aveva tratta ferocemente per torla al resto del mondo e farla vivere sola con lui, col suo rimorso, col suo dolore, coll'immagine tormentosa e la memoria dell'ucciso amante.

Quell'orrenda sciagura era caduta ad un tratto sul capo della povera Gina. Al venirle innanzi del marito, tremendo in vista e sanguinose le mani, un doloroso orrore l'aveva invasa, una di quelle inesprimibili strette di angoscioso raccapriccio che tutto sconvolgono un essere umano, e al cui urto sembra impossibile non si rompano le vene ed il cuore. Essa avea indietreggiato innanzi all'assassino, come favoleggiavano i Greci che si dovesse fare all'apparire della testa di Medusa, mezzo impietrita, mezzo fuor di senno; ed egli l'aveva afferrata ad un braccio ed a forza trascinatala e cacciatala in una carrozza, l'aveva fatta partire, ella non sapeva per dove.

Pensate che viaggio dovette esser codesto per l'infelice donna! L'unico uomo che essa amasse era spento, e l'uccisore era lì, presso di lei!… Non le sembrava avesse ad esser vero. Credeva d'essere come in un tristissimo sogno, oppressata dall'incubo, e che uno sforzo di volontà dovesse bastare a destarla e rimetterla in una meno angosciata condizione. Si riscuoteva tratto tratto sotto questo pensiero dal cantuccio in cui la si rannicchiava, ma il suo occhio smarrito incontrava tosto quello feroce, sanguigno, inesorabile d'Orsacchio, il quale tacitamente le affermava la di lei sciagura e il suo delitto. Allora si tornava ad acquattare più stretto, per così dire, nel suo angolo, sentendosi correre spasimi e brividi entro le vene all'accidentale scontrarsi pur delle sue vesti ne' panni di quell'uomo, che tutto le appariva alla mente turbata grondante del sangue d'Adolfo…

Di tutta la notte che seguì non parlarono mai, non chiusero mai l'occhio nè l'un nè l'altra; passarono crudelissime ore orrendamente lunghe. Gina teneva gli occhi sbarrati, privi d'ogni espressione che non fosse un alto terrore; e il volto pareva, ad ogni minuto che trascorresse, incavarsele, spallidirsi vieppiù, improntarsi dei segni della morte.

Nel suo interno succedeva un dolorosissimo e strano travaglio. Il più forte sentimento, il solo anzi a tutta prima, in lei, era stato l'orrore, quindi era venuto a pareggiarlo, se non a sopravanzarlo, l'odio. Oh! se quell'uomo che le aveva detto «io ho ucciso il tuo Adolfo» ella avesse potuto vederlo cadere fulminato ai suoi piedi! Oh! se avesse potuto versar sangue per sangue, rispondere con delitto a delitto! Nel caos turbinoso di pensieri che con tormentosa ressa le avevano assalita e posta sossopra la mente, anche quest'esso ci venne e ci stette chiaro e distinto un po' di tempo. Ma le idee s'erano tosto siffattamente scombuiate nella sventurata, che più niuna distinta vi ci rimase. Nel suo capo si fece come un vuoto, ma il quale pure era un importabile dolore. Non sapeva più di niente, non pensava più niente, non si ricordava più nemmanco, la misera: solo soffriva e sentiva di soffrire immensamente. Quindi questo immenso spasimo poco a poco prese una nuova tinta, e si congiunse ed anzi fu predominato da un immenso terrore.

Orsacchio pigliava nella mente esagitata di lei le proporzioni colossali d'un mostro; esso le tornava come qualche cosa di più tristo e di più feroce di quel che uomo esser possa. Lo stesso mistero del destino ch'egli le preparava, l'incognita meta a cui erano diretti, le riuscivano di maggiore spavento che non una realtà cui si trovasse dinanzi, per quanto crudele la fosse.

Questo alto terrore cresceva nella povera donna ad ogni momento. Le si affannava il respiro, le si smarriva il senno, le mancava il cuore. Ad ogni mossa dell'uomo che le stava accanto, ella si riscuoteva in sussulto. La era sempre nello stato doloroso di chi sia per isvenire, e non isveniva pur mai. Oh! almeno avesse potuto perdere i sensi! Avesse potuto morire!

Orsacchio, prima del duello con Adolfo, annunziando alla moglie la partenza per la sera, le aveva detto sarebbero andati alla campagna. Ma quello non era il suo proposito. Egli voleva togliersi ad ogni conseguenza che potesse nascere dall'uccisione del Cioni; voleva condurre la moglie là dove nessuno più potesse frammettersi tra lei e la sua vendetta. Correva le poste diretto all'estero: il suo viaggio era una fuga.

Non si fermarono che a mezzo il giorno successivo alla partenza. Nè all'uno nè all'altra l'interna passione lasciava sentire la fatica. Scesero al meschino albergo d'un piccolo villaggio fuor di mano. Orsacchio non avea voluto viaggiare per le vie ferrate, dov'è impossibile esser soli e non esser visti, ed aveva scelto strade non frequentate per incontrare meno gente. Saltò giù dalla carrozza egli primo. Per quanto facesse forza a sè stesso, gli eventi del giorno innanzi e quella lunga notte avevano stampato sul suo volto certi segni ch'e' non valeva a nascondere. Si volse all'interno della carrozza e porse a Gina la mano, per invitarla ed aiutarla a scendere. Essa lo guardò spaventata, e con raccapriccio trasse indietro le sue mani e sè stessa.

—Scendete! disse il marito in tono basso, ma imperioso e concitato.

E le presentò nuovamente la destra.

Gina mosse le labbra livide per parlare, ma non uscì suono alcuno dalla sua bocca; fe' cenno cogli atti egli si scostasse, la lasciasse, sarebbe discesa da sè.

Orsacchio si pose dallato allo sportello. La povera donna, radunò tutte le forze che le rimanevano, si spiccò dal posto in cui stava accasciata, e discese. Appena il marito ebbe veduto alla più piena luce i guasti dello scarno viso di Gina, le si fece innanzi per toglierla agli sguardi d'ognuno.

—Abbassate il vostro velo, diss'egli, e come la misera indugiava, forse non avendo neppure capito, Orsacchio prese ratto il velo scuro che pendeva all'indietro dal cappello di lei, e glielo calò innanzi al viso.

—Venite: soggiunse additandole la porta della locanda, sulla cui soglia l'oste stava facendo de' grandi inchini per accoglierli.

Gina si provò a camminare, ma le gambe si rifiutavano all'ufficio loro; Orsacchio passò una mano sotto il braccio di lei a sorreggerla: a quel tocco un raccapriccio scosse tutti i nervi dell'infelice, le forze le tornarono di subito; si sciolse bruscamente e disse con una certa forza:

—Vado… vado.

—Una camera: comandò il marito all'oste entrando; ci fermeremo due ore.

Quando furono soli, rinchiusi in una stanza della locanda, per la povera Gina fu peggio ancora. Si sentiva come affatto disgiunta da tutto il mondo e in balìa assoluta dell'odio di quell'uomo; trovavasi press'a poco come l'agnella serrata nella gabbia con una tigre, che s'aspetta ad ogni momento essere sbranata. In sè stessa voleva pure riagire contro quello spavento che pareva quello d'una rea cui vincesse il rimorso, mentre, fuorchè d'un affetto purissimo fin dalla prima giovinezza entratole in cuore, ella di nulla poteva accagionarsi; ma pure invano cercava sollevar l'animo a un po' di coraggio: sentiva sempre più venirle meno ogni forza.

Gina s'era lasciata andare sulla prima seggiola che le era capitata, rimanendo vestita così appunto come essa era, senza nemmanco levare il velo che la mano del marito le aveva poc'anzi abbassato sulla faccia.

Orsacchio le si pose innanzi fulminandola collo sguardo feroce, e con una barbara gioia, con un'ironia spietata le disse:

—L'avete udito?… ve l'ho detto io stesso, signora….. Adolfo Cioni è morto ieri sera….. Morto d'una palla di pistola che gli ha attraversato il cuore. Che peccato eh! che disgrazia!… Egli era pure più giovane di me… oh assai più giovane… e più bello di me… oh assai più bello, non è vero? Ed io sono qua vivo e sano per vivere chi sa fin quando… non vi fate lusinghe su questo punto, chè conto invecchiare di molto… Adolfo invece è steso nella bara… a questo momento gli salmodieranno gli uffici de' morti… stassera gli faranno la sepoltura… Mi par di vederlo… bianco bianco… le sue belle chiome nere scomposte… Aveva delle belle chiome il leggiadro giovine…

Nel dire queste scellerate parole, pareva al trist'uomo di godere un'orribile gioia, gli sembrava di gustare ardentissima la voluttà dell'odio e della vendetta. E' teneva fiso lo sguardo sulla donna per coglierne ogni menomo trasalto, ogni mossa, ogni mostra di dolore, onde apparisse ch'egli feriva proprio nel vivo il cuore di quella sventurata. Essa dapprima udiva paziente, sommessa, quasi avvilita. Od udiva ella veramente? Quelle parole piuttosto le ronzavano penosamente all'orecchio senza che le capisse; producevano sì un accrescimento di tortura in lei, ma traverso la confusione di tutto il suo essere non giungevano pur tuttavia a far apprendere chiaro e preciso il loro senso all'intelletto sconvolto dell'infelice…. Ma ci giunsero alla fine. Allora tutto quello che c'era ancora in lei di forza e di vigore si ribellò contro cotanta infamia; ella sorse con nobile impeto, levò il velo e mostrò lo scarno volto colorito di viva fiamma, e l'occhio incavato ebbe un lampo di indignazione violenta.

Tese vivamente una mano verso il marito con tanta imponenza che questi ne troncò il suo dire. Fece un passo contro di lui, e parve pensare quale arma migliore dovesse scegliere ad opporre a quella con cui egli la veniva trafiggendo, con qual più acconcio colpo rispondere ai colpi di lui; ma la trovò di botto e con accento animato e con ineffabile scoppio d'amorosa passione, esclamò:

—Ebbene si, Adolfo, l'ho amato… più che ogni cosa al mondo… e lo amo… e l'amerò sempre… sì l'amo anche morto… il suo cuore vive nel mio, il suo spirito è qui meco… Io lo vedo e gli parlo… T'amo, Adolfo, t'amo!… Uccidetemi, io l'amo.

Per Orsacchio fu come, in una lotta, per l'atleta che ad un nuovo e più vigoroso assalto dell'avversario dapprima cede e indietreggia, poi tosto, ripresa nuova lena, si rifà più ardimentoso e più accanito alla pugna. Gli si erano allividite e contratte vieppiù le sue guancie, e il suo sguardo non aveva potuto reggere a quello avvampante di Gina; ma il furore in lui non era stato tardo a sovraggiungere, si slanciò su di lei, la afferrò alle braccia, le serrò i polsi e scuotendola senza un riguardo, ruggì, accostando a quello di lei il suo volto terribilmente impresso dall'ira:

—Sciagurata! sciagurata!

La donna, per un istante, pensò a resistere. Ebbe l'ardimento d'incrociare il suo con lo sguardo furibondo di lui; ma non potè oltre, tutta la sua forza ella aveva esaurita in quel momentaneo slancio. Nel sentirsi stringere da quelle mani ch'essa la sera innanzi aveva vedute rosse di sangue, e di qual sangue! le nacque tale un orrore che per poco non ne perdette gli spiriti. La si gettò all'indietro, si accasciò su sè medesima, gettò un grido di spavento disperato e con voce arrangolata dallo spasimo, esclamò:

—Misericordia! misericordia!… Oh abbiate compassione di me!…

Ella pendeva colle braccia tese, non sostenuta che dalla ferrea morsa delle mani d'Orsacchio che le facevano lividi i polsi; egli incombeva sovr'essa, a mezzo chinato, improntata la faccia della più ria ferocia. Stette così un poco, mentr'ella si dibatteva sotto di lui nelle convulsioni della paura, poi la ributtò villanamente, ed ella cadde come corpo morto sul suolo.

Orsacchio incrociò le braccia al petto e la sogguardò un istante in silenzio con un satanico ghigno.

—Alzatevi: diss'egli poi duramente.

Gli scotimenti che facevano trasaltare tratto tratto il corpo di Gina mostravano ch'ella era in sensi; ma tuttavia la non si mosse, nè accennò in alcun modo aver udito.

—Ah! voi l'amate, voi l'amate anche morto: ripigliava quel feroce: sta bene; siate pur lieta e superba del vostro infame amore. Vorrei aver potuto portar meco quel cadavere e gettarlo fra le vostre braccia amorose e dirvi: «Eccovi il vostro drudo, abbracciatevelo…» Vorrei potervi rinchiudere con esso, perchè ne aveste sempre innanzi agli occhi la bara, come ne avete nella memoria il pensiero…. Udite intanto com'egli sia morto. Ciò vi vorrà dare diletto non poco.

E l'iniquo, curvo sulla caduta, si pose a raccontarle divisatamente, con una lentezza crudele, tutto l'orrendo fatto: la provocazione sua, i rifiuti d'Adolfo, gli oltraggi a cui egli dovette ricorrere per obbligarlo ad impugnare un'arma; le descrisse il terribil momento in cui i due rivali stettero a fronte la pistola appuntata al petto l'un dell'altro, il colpo, il subito imbiancarsi della faccia d'Adolfo, il gemito di lui, il cadere… E' pareva compiacersi con orribil diletto nel minutamente esporre ogni cosa: era per lui come un trovarsi nuovamente a quell'atto, un uccidere di bel nuovo l'odiato rivale. I suoi detti cadevano fieri, spietati, incisivi sulla povera donna. Ella nel delirare del suo spirito intenebrato, non li capiva bene del tutto quelli accenti, ma li sentiva piombare dolorosissimi sull'anima. La era come il misero condannato alla flagellazione, il quale, dopo un certo numero di sferzate, più non sente quasi il batter della verga sulle lacere carni, ma ne sente al cuore più doloroso e più intollerabile il colpo.

Quand'ebbe finito il suo racconto, quando ebbe così un poco sazia quella esecranda sete d'odio e di male che lo rodeva, Orsacchio si chinò verso la moglie giacente tuttavia, e guardò s'ella fosse svenuta. Gina avea gli occhi larghi, stupiditi, riarsi, senza una lagrima, senza lume più d'intelligenza.

—Su via, alzatevi: disse l'uomo.

Ella non mostrò avere inteso.

—Alzatevi: ripetè più villanamente il marito, urtandola col piede.

Gina non si mosse.

Un passo d'uomo pel corridoio dell'albergo s'accostava all'uscio di quella stanza.

Orsacchio si curvò vivamente e prese la moglie alla vita per sollevarla; ma a quel tocco essa tutta si riscosse. Un tremito generale l'assalse; si rizzò di scatto come per nuova forza entratale subitamente: si sciolse dalle braccia di lui e corse a riparare nell'angolo il più rimoto. Colà, gli occhi spaventosamente fuor del punto, la faccia disperata, i denti che battevano insieme dal terrore, ella gridò:

—Non toccatemi… non toccatemi!

Il passo s'accostava sempre più.

—Silenzio! intimò il marito andandole incontro minaccioso.

Ed ella, peggio atterrita che prima:

—State in là….. state in là… Aiuto! aiuto!

—Silenzio! ripetè Orsacchio venendole sopra.

L'infelice si rannicchiò tutta nell'angolo, tremando, palpitando, senza più forza, non che a mandare un grido, ma ad avere il respiro.

Un colpo fu picchiato all'uscio colla nocca delle dita. Orsacchio fu d'un balzo ad aprire. Era l'oste che veniva ad avvisare i cavalli essere attaccati alla carrozza e il postiglione già in sella.

—Sta bene: disse Orsacchio; noi scendiam tosto.

Richiuse la porta e si riaccostò a Gina. Gli occhi e la guardatura della misera erano quelli di un dissennato. Le riabbassò il velo innanzi al volto, le fe' cenno d'avviarsi ed essa obbedì; le fece scendere le scale, la invitò a salire nella carrozza ed essa ci montò, ma schivando di toccar la mano ch'egli le porgeva; e' sedette presso di lei, e fu ripreso il viaggio.

Qualche tempo essi dimorarono in un riposto casolare della Svizzera. Che vita fosse quella dell'infelice donna, immaginatelo voi. Vivevano affatto soli, ella ed il suo carnefice, segregati dal mondo; ed ogni ora, ogni istante era un tormento per lei. Nel farla soffrire cotanto, il crudele marito soffriva ancor egli; ma questi patimenti a lui erano cari, si facevano ogni dì più una necessità dell'anima intristita.

Ma il cielo ebbe pietà della misera Gina. Le tolse a poco a poco la ragione.

Allora alcuna ora di riposo, anche di bene, le fu concessa. Anzi tutto Orsacchio si atterrì la prima volta ch'ei fu chiaro di questa tremenda verità. Parve anche a lui un momento che la sua vendetta fosse ita tropp'oltre: ebbe del suo fatto come l'ombra di un rimorso. Inoltre, quella donna, cui egli ferocemente godeva di straziare, per uno di que' strani misteri che ha il cuore umano, egli insieme odiava ed amava più che non l'avesse amata mai prima. Temette morisse, e questo pensiero gli fu dolorossisimo; lasciò che all'infelice non venisse più altro tormento da lui fuor quello della sua vista e della sua presenza. Poi la pazzia, che ad intervalli assaliva la sventurata, non sempre le recava penose fantasie e tristi vaneggiamenti. Alcune volte ella si credeva fanciulla ancora, libera di sè, lieta, amante ed amata, e in isplendide, dilettose visioni, le appariva più bello, più caro, più amoroso il suo Adolfo a vagheggiarla, a sorriderle, a susurrarle incantevoli parole d'amore. Allora fra l'uomo e la donna rimanevano scambiate le parti, e questa diventava involontario tormentatore, e quegli soffriva i più acuti spasimi d'una gelosia da non potersi dire. Invano tentava egli rompere quei sogni dilettosi e trarre la riconfortata donna nella tristizia della realtà; la dissennatezza era più potente di lui, ed ella, non turbata punto, continuava il suo cantico d'amore e le sue felici visioni. Dopo queste benefiche crisi, Gina cadeva in una mestizia profonda, ma mite, che le concedeva per giorni parecchi sfogo d'abbondevolissime lagrime. Era ciò che la teneva in vita.

Di quando in quando, per contro, l'assalivano smanie tormentosissime, e delirii, e convulsioni che erano una compassione e uno spavento a vedersi. Era durante uno di siffatti assalti del male che abbiam visto Anna introdotta presso di lei. In quei momenti la vista del marito le tornava assolutamente incomportabile; un vigore straordinario, una febbrile vivacità la occupavano; i deliri della sua mente si traducevano in fiotti tumultuosi di parole insensate, confuse, in grida, in ispasimi di contrazioni quasi epilettiche, in isvenimenti da ultimo. Voleva uccidersi, chiamava con angosciose supplicazioni la morte. Succedeva poi un abbattimento, una prostrazione in cui completa era in lei la conoscenza delle sue condizioni, e tornava in tutta la sua forza il terrore che le ispirava il marito.

Trascorsi parecchi mesi, Orsacchio pensò di tornarsene celatamente in patria, e di trovarci un ripostiglio in cui nascondersi così bene che nessuno mai più avesse il menomo sentore de' fatti loro. E ciò era facile ad ottenersi. Gina non aveva parenti che lontani, i quali, dopo accasatala, non s'erano più dato il menomo pensiero di lei, e ch'ella esistesse o no, non si curavano punto. Egli aveva rotto col mondo ogni attinenza, ed il mondo oblia sì presto quelli che lo abbandonano!

Per maggior cautela cambiò nome, e prese le mosse per tornare in Piemonte. Gina s'era assuefatta alla dimora in quel pulito casolare svizzero e alla bella campagna che lo circondava. Come quella che in alcuna persona viva, fra le poche ond'era accostata, non poteva più mettere amore, l'anima della povera insensata aveva posto un certo affetto a que' luoghi, a quel cielo, a quelle aure. Per costringerla a dipartirsene ce ne volle e di molto. Orsacchio dovette impiegare tutta la tremenda autorità che gli davano su lei lo spavento e l'orrore ch'ella ne sentiva. La decise a spiccarsi di là, e la tenne quieta e sottomessa lungo il viaggio colla pressione continua delle sue minaccie e con certe tremende parole che, ricordando il passato, andavano dritto, traverso alla sua follia, sino all'anima della poveretta.

Orsacchio non iscrisse a nessuno, non commise ad alcuno di cercargli il suo ricovero: volle far tutto da sè. Condusse la moglie in una città dove non potessero essere conosciuti da anima viva; e colà, visto sugli annunzi dei giornali l' appigionasi della villetta di Valnota, ch'egli sapeva in luogo montagnoso e solitario quant'altro mai del Piemonte, si recò difilato dal proprietario a trattarne l'affitto.

Marone, dalle informazioni che gli furono chieste intorno alla casa ed alle vicinanze, dalla figura del pigionante, dalla facilità medesima di accettare ogni patto, capì che c'era lì sotto un mistero, e ne trasse partito per rincarare l'affitto. Orsacchio acconsentì all'esorbitanza del prezzo dimandatogli. Abbiamo udito dall'ortolano di che modo egli giungesse e si stabilisse nella villetta, come la moglie da principio non ci volesse stare, ma poi a poco a poco vi si acconciasse, come durassero sempre in Gina le vicende di umori lieti e tristi, interrotte di quando in quando da qualcuna di quelle crisi tremende, durante le quali il marito era costretto ad allontanarsi e la moglie di Matteo soltanto poteva accostare la inferma.

Ultimamente abbiam visto l'infelice donna sentirsi attirata di subito da una simpatia che era in lei come un istinto, verso di Anna, che il caso soltanto le aveva menato daccosto.

Ora vediamo un poco quei due bravi e generosi cuori, Vanardi e Selva, che cosa pensassero di fare in pro della sventurata, di cui avevano finalmente scoperto l'esistenza e il ricetto.

XXIII.

Giusta il comune avviso di Antonio e di Giovanni, il liberar Gina dalle mani del fiero marito era la prima e la sola cosa da farsi. Conveniva a quest'effetto, anzi tutto, assicurarsi, senza possibile errore, che quella di cui l'ortolano aveva loro parlato si fosse propriamente la Gina cui essi cercavano, esaminare cogli occhi propri, per quanto potesse loro venir fatto, come stessero le cose, e poscia, se occorreva, ricorrere alle autorità e chiamare sulla misera donna la protezione della legge.

Determinarono adunque i due amici, che il domani, che era un lunedì, sarebbero partiti ambidue per alla volta di Valnota, e là governatisi secondo l'occasione e i luoghi e le circostanze avrebbero loro consigliato e concesso; e siccome Selva per ragione de' suoi impegni non era libero tutta la giornata, stabilirono di partire al pomeriggio, di fermarsi colà la notte e tornarsene il mattino successivo.

Ma se per Giovanni v'era l'impedimento dei suoi affari a restar fuori un giorno intero, il buon Antonio, che non aveva codesto, e l'avrebbe voluto avere, si trovava impacciato da un altro ben più grave e più assoluto che è facile ad indovinarsi; il manco di denari. Essere del tutto a carico dell'amico gli rincresceva troppo, avendo da lui avuto sì generosi soccorsi, e parendogli che Selva facesse assai più di quanto gli toccava a metterci la sua parte in quel viaggio, egli che non aveva vista neppur mai la persona di cui trattavasi e che non aveva con lei altra attinenza fuori della compassione d'un cuor generoso per una soverchia ed immeritata sventura. Onde, sollecitato da questo bisogno che si aggiungeva agli altri della famiglia, Vanardi umiliò anche una volta la sua dignità innanzi alla necessità e si risolvette di andare per soccorsi dalla marchesa di Campidoro cotanto in fama di generosa.

Ah! ben gli sapeva d'amaro questo nuovo sacrifizio, e, per quanto rammollito e ricurvo dalla sventura, il suo animo aveva fieramente riluttato un bel pezzo; ma poi aveva fatto come il malato che ha da tracannare una disgustosissima bevanda, il quale chiude gli occhi e la caccia giù; e il mattino del lunedì si presentava vergognoso e raumiliato nell'anticamera della signora marchesa.

Dei supplicanti al par di Antonio ve n'era già un buon numero. Per essere intromessi al cospetto della vecchia signora occorreva o venirci con una commendatizia del parroco, oppure del presidente della congregazione di Santa Filomena, che era il signor Marone, oppure del filantropo cavalier Salicotto, od anche del dottor Lombrichi, o in difetto di alcuna di queste tornar accetti al signor Grisostomo. Antonio non aveva il primo requisito, ed era molto da temersi non avesse neanche il secondo.

Quand'ebbe detto al domestico che lo interrogava, nome, cognome e condizione, egli sedette in un canto e rimase ad attendere con tutta la paziente rassegnazione che nella sua corta carriera di supplicante aveva pur già dovuto imparare.

Ed aspettò tanto, che la mattinata omai era oltre e l'anticamera a poco a poco si era vuotata, senza che egli, rimastoci ultimo, fosse pur mai introdotto.

Antonio voleva appunto rivolgersi di nuovo al domestico, cui vide accostarsi a quella stanza, quando il servo stesso lo prevenne, e andandogli incontro, mezzo brusco, gli disse:

—Che cosa fate ancora voi lì?

—Aspetto sempre per parlare alla signora marchesa.

—Adesso è tardi, buon uomo; la non riceve più. Potete andarvene.

Primo pensiero del pittore fu di scappare di trotto; ma la ragione lo soprattenne.

—Ho tanto, tanto bisogno di parlarle! diss'egli.

Il servo si strinse nelle spalle.

—Eh! dicono tutti così. Chi è che vi manda?

—Come? chi mi manda?

—Sì, voglio dire da cui siete raccomandato.

—Da nessuno.

—Ah! allora avrete parlato col signor Grisostomo.

—Non lo conosco.

—In tal caso, mio caro, non sarete ricevuto mai.

—Diavolo! Come ho da fare? Menatemi dal signor Grisostomo.

—In questo momento è fuori di casa: tornate dopodomani.

—Dopodomani! ripetè il poveretto lasciando cadere la testa e mandando un sospiro desolato che diceva tutta la sua disperazione.

In questa attraversava l'anticamera quella vispa fanciulla che abbiamo veduta nel fondaco di messer Agapito incontrarsi appunto col nostro disgraziato pittore. Ella udì quelle due parole pronunziate con tanta mestizia e quel sospiro tirato con tanta doglianza, e il suo buon cuore ne fu commosso. Si fermò a guardare chi le aveva dette.

—Voi volete parlare alla signora marchesa? disse la brava giovane accostandosi ad Antonio, e ravvisandolo di subito.

—Sì, madamigella.

—E vi preme?

—Oh tanto! esclamò il povero diavolo; e l'umiliazione, la vergogna, la confusione davano al suo accento una efficacia anche maggiore.

—Voi siete quel pittore che abita nella casa del signor Marone qui presso?

—Per l'appunto.

—Padre di famiglia?

—Quattro figli.

Carlotta non istette a pensarci nè tanto nè poco; fece un attuccio graziosissimo colla testa, come per dire «voglio così» e prese per mano senz'altro il pittore.

—Venite, disse, vi menerò io dalla marchesa.

Il domestico ch'era lì presente si mostrò tutto scandolezzato.

—Carlotta! esclamò egli in tono che significava: «Guarda che fai! questa è troppa temerità.»

La giovane rispose crollando vezzosamente le spalle.

—Eh! lasciatemi fare… il turco è fuori di casa, e quando venga… se questi ci è ancora… ebbene gli diremo… gli diremo che son io che l'ha fatto entrare… oh bella!

E trasse Antonio nella stanza della marchesa.

Era un antico salone, proprio di quelli degli antichi palazzi in cui non si misurava con avara parsimonia lo spazio come nelle costruzioni moderne, con antichi mobili, antiche tappezzerie, antichi quadri, si sarebbe detto antica atmosfera. Entrando colà vi sareste creduti trasportati nel secolo scorso, e in mezzo a quell'ampio ambiente, fra tutta quella roba alla rococò, vi sareste aspettati da un momento all'altro di veder comparire un guardinfante od una parrucca incipriata.

Quasi ugualmente antica come le cose che l'attorniavano era la padrona di quel palazzo e di quelle ricchezze. Ella, meglio che seduta, sepolta in una gran poltrona, con attorno un esercito di cuscini, stava presso alla gran caminiera, entro la quale ardeva un fuoco poco meno che spaventoso. A ripararsi dall'ardenza che mandavano esorbitante le legna cui consumava la fiamma vivace e le braci accese, aveva innanzi un parafuoco di legno di mogano nella intelaiatura, con una stoffa di seta ricamata a personaggi sbiadita nel colore. Comechè regnasse in quella stanza una caldissima temperatura, la marchesa era tuttavia sotterrata da una montagna di varie pelliccie e scialli e mantelletti coll'ovatta; così bene che la non appariva che come un enorme fagotto di robe da cui sporgesse una testolina, con una gran cuffia bianca a ricciatura di tulle tutt'intorno, con una faccetta sottovi, ammencita, ossea, del color della pergamena, corsa in tutti i sensi da minutissime rughe. Questa testolina si dondolava di continuo per un moto meccanico e involontario; e per questo medesimo le mascelle non cessavano mai da un atto che sembrava un masticare.

Antonio, appena messo il piede riguardoso e peritante sul morbido e spesso tappeto che in quella stanza impediva affatto il rumore del passo, sentì una tossetta secca, e poi una voce fessa, debole, stonata, che quasi non aveva più nulla di femmineo, la quale diceva:

—C'è qualcheduno costì?

—Sono io, rispose la Carlotta accorrendo sollecita presso la padrona.

La marchesa volse all'insù più che potè il suo capo dondolante, e disse trascinando le parole e stentando nel pronunziare:

—Dov'è?… dov'è Grisostomo?

—È fuori di casa.

—Gli è mezz'ora che chiamo, e nessuno viene… Non ho più il mio campanello… È un ora che lo cerco… chi l'ha preso?

—Eccolo qui: disse Carlotta raccogliendolo in terra e porgendolo alla signora; le era caduto.

—Mi si lascia sola come un appestato… È questo il vostro dovere, canaglia?… Nessuno ha cura di me… Fatemi venire Grisostomo.

—Le ho già detto, signora marchesa, che egli non era in casa.

—Dove è andato?

—Non lo so.

—Ancor egli mi abbandona… L'ingrato!… Datomi da bere, Carlotta… Quel Grisostomo è un ingrato… Non è vero che gli è un ingrato?

La giovane era andata a prendere un gotto sopra un vicino tavoliere, e lo porgeva alla vecchia.

—Eccole da bere.

—Ma ditemi se quel Grisostomo non è un ingrataccio.

Carlotta sapeva troppo bene che non le conveniva a niun modo sparlare del favorito servitore, anche quando la marchesa pareva più disposta a sentirne dir male, epperò rispose con accortezza diplomatica:

—Forse la signora marchesa lo avrà mandato essa stessa a far qualche commissione.

La vecchia parve riflettere profondamente.

—Io? disse, come parlando fra sè; l'ho mandato io?… Mi par ben di sì… Oh la mia povera testa!… Non mi ricordo più di niente… Sì, sì, l'ho mandato a prender nuove del presidente della Congregazione di santa Filomena che s'è rotto qualche cosa… che cosa s'è rotto?

—Si è slogata una gamba.

—Giusto: e poi doveva andare in un altro sito.. Dove l'è che doveva andare? Ah! dal notaio… Sicuro, ora mi ricordo, dal notaio… Vogliono che io rifaccia il mio testamento.

Guardò con una specie di curiosità maliziosa la cameriera.

—Sapete che mi vogliono far cambiare il mio testamento?

—So di nulla, io.

—E lo rifarò… E se siete buona, e se mi servite bene, ci sarà qualche cosa anche per voi.

Un accesso di tosse la colse. Carlotta le pose innanzi la tazza che aveva sempre tra mano.

—Beva!

—Che cos'è quella bevanda? dimandò la marchesa.

—Gli è sempre quel calmante che il dottore ha ordinato si ripetesse, perchè dice che le fa tanto bene.

La testa della vecchierella s'agitò in un modo assai vivace, e la sua vocina si fece tutta irritata.

—Non lo voglio più, non lo voglio più… Mi sento sempre più male, io… Pare a voi che esso mi faccia bene?

—Io non saprei…

—Siete una sciocca: interruppe stizzita la marchesa.

—Però credo di sì: s'affrettò a soggiungere Carlotta.

—Voi non sapete di niente… chiamate Grisostomo; domanderò a lui.

—È la terza volta che ho l'onore di dirle che Grisostomo non è in casa.

—È vero… è vero… Mi pianta sempre così sola… Riponete pure quella droga… Non voglio attossicarmi… Aspetterò a bere che Grisostomo sia tornato e mi dica lui come debbo fare… Ah! è una gran brutta vita la mia!… Povera donna!… In mano d'una gentaglia… Non ho una persona a cui fidarmi… E quella senzacuore di mia figlioccia che non si lascia mai vedere!… Tutti mi fuggono… Mi vedono malata da morirne… Ho proprio assai male, sapete… E il dottore? Non s'è ancora lasciato vedere il dottore?

—È presto l'ora in cui è solito a venire, e credo che non mancherà.

—Anche quel dottore è ingrato; sono io che l'ho messo all'onor del mondo; ne prenderò un altro. Tutti ingrati, tutti!… Non c'è che quella povera Mimì che mi sia fedele. Mimì, Mimì, dove sei Mimì?

E la testolina oscillante della marchesa si chinò verso il suolo da una parte e dall'altra della poltrona, poi s'agitò vivamente irrequieta.

—Oh mio Dio!… Dove l'è?… Mimì, Mimì. Non c'è più… Cercatela.

La cagnuola dormiva raggomitolata sopra uno sgabello lì vicino.

—La è qui: disse Carlotta additandola alla marchesa.

—Povera piccina! esclamò la vecchia con un'intonazione di tenerezza, di cui si sarebbe creduta incapace quella voce squartata. Portatela qui, adagiatela sulle mie ginocchia.

Carlotta prese quell'informe ammasso di carne grassa e spelata che era la cagnolina, e non ostante la protesta ch'ella, destandosi di botto, fece con un vociare che somigliava ad un grugnito, venne a deporla sulle pelliccie della marchesa.

—Non farle male: esclamò questa commossa a quel lamento della brutta e schifosa bestiola.

Questo fatto, chi lo avrebbe detto? tornò in aiuto di Vanardi; il quale si stava là nel fondo della stanza dritto, impacciato, col suo cappello in mano, senza sapere se meglio era inoltrarsi o partirsene chetamente senz'altro.

Mimì, appena svegliata e sulle ginocchia della padrona, avvertì la presenza di un estraneo; onde senza acquattarvisi tosto come soleva, ma stando invece sulle sue piote podagrose, cominciò a ringhiare fra i pochi denti che le rimanevano, poi volti in giro gli occhi cisposi e visto lo sconosciuto, si mise ad abbaiare con tutta la forza di cui essa era tuttavia capace.

—Che cosa c'è? domandò la marchesa agitata. C'è qualcheduno qui.

E volse la testa dalla parte verso cui abbaiava la cagnetta.

Vanardi vide innanzi a sè la pelle d'alluda di quel viso da mummia con due occhi semi-spenti senza luce e senza vita, e si piegò in un profondo inchino.

—Chi è costui? chiese la vecchia quasi atterrita: come qui? chi l'ha fatto entrare?… chiamate Grisostomo, Carlotta.

E la buona ragazza che era Carlotta diede una pasticcina a Mimì per farla tacere; poi rispose alla padrona:

—Gli è uno di quei poverelli cui ella fa tutti i giorni la carità di accordare udienza.

—Ah sì? disse la marchesa che non aveva cessato di fissare il suo sguardo vitreo sul pittore. È raccomandato dal parroco?

—Credo di sì: rispose la giovane con imperturbabile franchezza.

—Come si chiama?

Antonio disse il suo nome.

—Non me ne ricordo… Dev'essere scritto su quella lista che c'è lì sul tavolino. Ah no, quella lì è dei raccomandati da Salicotto… Se non isbaglio, Grisostomo mi ha detto che Salicotto è un poco di buono… Come può mai essere?… Io mi confondo… Voi dunque siete raccomandato dal parroco?… Ah! se ci fosse Grisostomo!… Perchè venite quando non ci è lui?

Vanardi non sapeva che cosa rispondere e si tacque.

—Accostatevi: disse la marchesa.

Il pittore ubbidì. Allora si vide quell'involto di pelliccie e di coperture d'ogni fatta agitarsi per un moto interno che durò alcun tempo, finchè una mano scarna, magrissima, dal color della cera antica ne venne fuori. Questa mano si diede tosto a cercare, frugare e rifrugare qua e là per la poltrona.

—I miei occhiali, Carlotta; dove sono i miei occhiali?

Erano sul tavolo vicino. La cameriera li prese e li diede alla padrona; la quale messili a cavalcioni sul naso si pose a squadrare l'uomo che le stava dinanzi.

Fortuna volle che Mimì, abbonita dalla pastina di Carlotta, sentisse non so quale simpatia o curiosità per quell'uomo che non avea mai visto: onde guardando verso Antonio prese ad agitarsi sulla farragine delle pelliccie della padrona ed a gemicolare sommesso.

La marchesa non tardò ad accorgersi di questi diportamenti della sua favorita.

—Carlotta, diss'ella, vedete che Mimì la vuol scendere. Suvvia, prendetela adagino e mettetela a terra.

E con occhio irrequieto tenne dietro all'operazione che la cameriera s'affrettava ad eseguire.

Appena la cagnetta ebbe tocco il tappeto del pavimento, la corse, come le concedevano la pinguedine e la gotta, verso Vanardi, e per benigna protezione di non so qual nume, giuntagli ai piedi, si pose a fargli quel tanto di festa ch'ella sapeva, a dimenare un simulacro di coda e tentare di drizzarsi sulle piote deretane per appoggiare le anteriori alle gambe di lui.

Vanardi, benchè molto glie ne pesasse, e gli paresse quasi una viltà, si abbassò verso la bestiola e ne accarezzò con la mano il dorso sconciamente grasso e privo di peli. La vecchia signora che aveva guardato con interesse sempre crescente i moti e gli atti della Mimì, drizzò al volto d'Antonio la sua faccia impresciuttita, sulle cui labbra tirate c'era la smorfia di un sorriso.

—Oh, oh! esclamò essa in sul piacevole; Mimì vi protegge. Vieni qui Mimì … Da brava, vieni qui…. Accostatevi ancora, mio caro… Come vi chiamate?

Antonio ripetè il suo nome.

—Avanzatevi…. ancora un po'… lì, più presso a me… così… Carlotta date un'altra pasta alla piccina… Com'è cara, neh? soggiunse volgendosi a Vanardi… Poi tosto di nuovo a Carlotta che offriva la pasta alla cagnetta: non la vuole?… Guardate se la preferisce un pezzetto di zuccaro.

La schifiltosa bestiola si degnò finalmente di accettare una zolletta, e quando la padrona ebbe visto che i pochi avanzi dei denti di Mimì si erano cimentati vittoriosamente colla durezza dello zuccaro cristallizzato, tornò badare ad Antonio.

—Ebbene, brav'uomo, gli disse, contatemi su i fatti vostri.

Mentre egli s'accingeva a parlare, la marchesa nascose accuratamente sotto le pelliccie la destra che aveva tratta fuori poco prima e si scosse come se un brivido l'avesse assalita.

—Carlotta, diss'ella, aggiungete della legna; fa freddo qui dentro.

La giovane s'affrettò ad ubbidire, quantunque ce ne fosse già una catasta ad ardere sugli alari.

—Parlate pure: soggiunse tornando rivolgersi al pittore.

Antonio apriva la bocca, quando l'uscio della stanza s'aprì ed entrò la superba, imponente ed importante persona del signor dottore. Vanardi rimase in asso, e Carlotta disse alla marchesa:

—Ecco il dottore.

La vecchia s'agitò sotto il monte delle sue pelliccie, più che non avesse fatto per l'innanzi e fece con ogni suo sforzo a volgere il capo tremolante della parte da cui veniva il medico.

—Ah dottore! diss'ella: è questo il modo? Mi lascia qui senza darsi un pensiero di me…. Ho un male addosso, sa…. Sono due ore che l'aspetto.

Lombrichi non si turbò niente affatto della sua placidità olimpica. Continuò ad inoltrarsi col suo passo grave e ben appoggiato per terra, sorridente in volto e colla coda dell'occhio cercando la sua bella immagine nello specchio.

—Che cosa c'è? dimandò egli con sussiegosa gentilezza. Cara marchesa, io son qui tutto per lei… Si figuri che per venir qui ho lasciato la contessa A., che voleva seco ritenermi a viva forza, ho trascurato di andare dalla baronessa B, che mi attende, ed ho mandato dire a madama C, la moglie del banchiere, che mi trovavo impegnato tutto il giorno.

Così dicendo, aveva deposto sul tavolino il suo cappello, e colla mano aveva dato una ravviatina ai baffi ed al pizzo: poscia sbirciò un momento con piglio altezzoso Vanardi, fece un amorevole sorriso a Carlotta e presa una seggiola, dopo recatala vicino vicino alla poltrona della vecchia, vi sedette con le arie d'una affettuosa dimestichezza.

—Ebbene? ebbene? soggiuns'egli allora, andando a cercare sotto alle coperture la mano gialla e gelata dalla marchesa, e stringendola fra le sue. Il nostro male è dunque cresciuto?

La vecchia fissava i suoi occhietti semi-spenti sulla faccia rubizza, prosperosa e con gravità sorridente del signor dottore.

—Tanto, tanto: rispose ella con voce più fiacca e senza vibrazione affatto.

E Lombrichi con piglio dottorale:

—Già, me ne avvedo. Il fiato è più difficile?

—Sì.

—Il sonno irrequieto?

—Sì, sì.

—La digestione grave?

—Sì, sì, sì.

—Sa che cosa? Abbiamo fatto lavorar troppo quella benedetta testolina. Ci siamo occupati soverchio questa mane per le solite nostre opere di beneficenza…. Quel gran buon cuore lì ci fa di questi brutti tiri alla nostra salute…. Abbiam bisogno di calma noi, di aver tutte le nostre faccende assestate, tutte le nostre disposizioni prese, di non dover più pensare a nulla…. Ed anche nelle opere di carità ci conviene mettere un freno, fare più per mezzo degli altri che da noi stessi, e poichè ci sono intorno delle persone degne di tutta confidenza, affidarci in loro e lasciar fare…. Oggi, per esempio, son persuaso che abbiam parlato più del dovere, ascoltato un subbisso di nenie da quei piagnoloni, ricevuto ogni sorta di gente….

E dava un'occhiata di traverso a Vanardi, il quale avrebbe voluto essere le cento miglia lontano.

—È vero, è vero: disse la marchesa dondolando vieppiù la testa; ma quella è l'unica mia distrazione; eppoi abbiamo sempre fatto così in questa casa…. fin da quando c'era ancora la buon'anima di mio marito…. La colpa è di quell'ingrato di Grisostomo. È lui che dovrebbe vegliare sulla mia salute, ed egli mi abbandona…. È tutta la mattinata che è fuori…. Gli è un ingrataccio… ecco.

Lombrichi prese con zelo le difese dell'assente.

—Quel buon Grisostomo! esclamò egli. Non dica così di lui, cara signora marchesa. Il brav'uomo è tutto divoto alla signoria vostra, e se quest'oggi s'è allontanato da lei gli è perchè il servizio e gli ordini di vossignoria ve l'hanno costretto. L'ho trovato non è guari in casa del nostro buon amico, quel sant'uomo di Marone, dove era venuto a prendere notizie di lui da parte della signora marchesa.

—Ah! è vero…. sicuro…. l'avevo dimenticato…. Ce l'ho mandato io per sapere come quel povero Marone sta del suo braccio….

—Della sua gamba, vuol dire; la è una gamba quella che s'è slogata….

—Sì, sì: è ben ciò che intendo io, una gamba.

—Glie ne posso dar io novelle fresche e precise; e' va un po' meglio, ma per alcuni giorni è condannato a non uscire di casa. Uscendo di là Grisostomo andava a parlare col notaio per quel certo affare che ella ben sa….

—Sì, sì: so certo, quell'affare, il mio testamento….

Lombrichi diede una guardata sospettosa alla figura impacciata di Antonio, ed interruppe:

—Ma ora parliamo di questa preziosa salute. Ci abbiamo dunque una leggiera recrudescenza?… Già…. già…. Vediamo un poco…. Euh! euh!

—Ebbene?… Che cosa mi ordina lei per rimettermi un po' meglio?

Il medico stette un minuto col polso della marchesa fra le dita, corrugando la fronte in sembianza di gravissima meditazione; poi rinascose egli stesso la mano di lei sotto le pelliccie e ve la coprì bene.

—Uhm! diss'egli con gran sicumera, come se dicesse chi sa che profonda sentenza; vi è stato un po' di agitazione, si ha bisogno di calma, dopo la fatica occorre il riposo.

Trasse di tasca il suo pettinino di tartaruga e lo passò due o tre volte nei baffi e nel pizzo, poi si mirò nello specchietto del manico e riprese:

—Quella pozione l'ha già finita?

—No signore, saltò su Carlotta; anzi la non ne vuol più. Io glie ne aveva mesciuto qui un bicchiere….

—Creda a me, disse Lombrichi alla marchesa: la ne prenda chè le gioverà sicuro.

E tolto il bicchiere dalla fante, lo porse egli stesso alla vecchia che lo bevette senza più renitenza.

Ma ecco a questo punto aprirsi di nuovo la porta, ed entrare sollecita una giovine signora, vestita con modesta semplicità di buon gusto, avvenevole senz'esser bella, con nelle fattezze, nello sguardo, nell'atteggio delle labbra, l'espressione d'una meravigliosa bontà.

Essa accorse vivacemente presso la marchesa, esclamando con una voce soavissima e piena d'affetto:

—Cara santola!…

E chinatasi ad abbracciarla, le depose sulla fronte e sulle guancia una mezza dozzina di baci.

—Ecchè? disse la vecchia un po' stordita, traendo in là più che poteva il suo capo: sei tu Lisa? Gran miracolo che ti sei ancora ricordata di me!… È un mese…. sì, certo, un mese che non ti vedo…. Già…. una vecchia madrina…. che importa alla signora?…. La si dimentica….

Lisa s'era ritratta alquanto per deporre il cappellino che s'era slacciato e la mantellina che s'era tolta dalle spalle.

—Come! interruppe essa vivamente. Non lo sa? Vengo due o tre volte la settimana; sono venuta anche jeri.

La marchesa scosse la testa dondolante.

—Jeri! diss'ella. Non mi ricordo.

—Non ho potuto venire sino a lei, perchè Grisostomo, come da un pezzo mi viene dicendo, mi disse che il signor dottore aveva proibito di lasciarla parlare a chicchessia. Io ho insistito e pregato vanamente….

Lombrichi, il quale all'entrare della signora Pannini s'era levato da sedere per salutare con cerimoniosa freddezza, s'inchinò un poco ed interruppe:

—È vero che io ho data questa proibizione. La signora marchesa ha bisogno d'essere lasciata tranquilla e non aver disturbi di sorta.

Lisa volse al medico uno sguardo dignitoso e ribattè con giusta alterigia:

—Spero, diss'ella, che non conterà fra i disturbi una figlioccia che viene per accudire alla sua santola.

Il dottore s'inchinò un'altra volta e fece un atto come per dire: «Non voglio mica alludere a lei.»

Allora Lisa scorse la figura impacciata del povero Vanardi.

—Ma io, diss'ella con isquisita cortesia, sono venuta proprio a disturbo di lei, signore, che stava discorrendo colla marchesa. Non voglio essere d'impaccio, e piuttosto mi ritiro.

—No, no, sta qui: proruppe la vecchia. Quest'uomo può benissimo parlare anche in tua presenza…. Dite pur su…. Com'è già che vi si chiama?

Antonio ripetè per la terza volta il suo nome. Lisa si ricordò di presente come la persona che portava quel nome fosse stata vivamente raccomandata a lei ed a suo padre da Selva e da sua moglie.

—Ella è pittore? domandò con interesse ad Antonio.

—Signora sì.

—Ed amico dell'avvocato Selva?

—Per l'appunto.

—Ah, ah! tu lo conosci? interrogò la marchesa.

—Sì, santola, e sapendo ch'e' merita la sua protezione, glie lo raccomando.

—Bene, bene: disse la vecchia volgendo il suo capo tremolante ad Antonio, Eh, eh!… Sai tu Lisa che un'altra me l'ha giù raccomandato?… Non indovineresti mai più chi…. Mimì, la brava Mimì …. L'hai già veduta, Lisa? Essa è sempre più cara che è una meraviglia; Mimì, Mimì, dico, vieni a salutar Lisa.

La cagnuola s'avanzò lentamente alla chiamata della padrona; la quale, curvando più che le venisse fatto la testa, le faceva quella sua smorfia grinzosa che equivaleva un sorriso.

Lisa si risolvette a passare la sua manina inguantata sul dorso della bestiola, ma non con troppa buona voglia; Lombrichi invece chiamò a sè la podagrosa cagnetta, la tolse sulle sue ginocchia e le fece un mondo di carezze e di feste. La marchesa guardava con occhio tutto compiacenza gli atti del dottore. Lisa ne volle richiamare l'attenzione al povero Antonio.

—Ebbene, diss'ella, l'istinto non ha ingannato Mimì, quando essa notò il signor Vanardi come degno del suo interesse.

A questo punto Lombrichi credette doversi degnare di riconoscere il pittore.

—Se non isbaglio, disse, voi abitate una soffitta in casa del signor Marone?

—Signor sì.

—Ah, ah! esclamò la marchesa con una specie d'interesse: in casa di quel sant'uomo. Siamo dunque vicini?

—E fu in casa vostra, soggiungeva Lombrichi, che venne ricoverato Marone allorchè cadde giù della scala.

—Appunto.

—Oh, oh! tornò ad esclamare la vecchia; siete voi che avete soccorso quella santa persona!…

Le cose parevano incamminate il meglio del mondo in favore del nostro povero Antonio, quand'ecco la sua cattiva stella, per rovinarlo, mandar in iscena un nuovo personaggio: il signor Grisostomo.

Era un uomo grande, grosso, a lunga barba nera, a spalle quadre, a faccia e modi volgari, non privi d'impertinenza. Entrò con una certa padronanza, e gettò intorno uno sguardo scrutatore.

—Oh, oh! quanto gente c'è qui! diss'egli di subito, senza nemanco salutare. Evviva signora marchesa! La compagnia non le manca.

All'udire la voce di costui la vecchia aveva voltato ratto la testa tremolante, e lo guardava con quegli occhietti spenti che parevano in tal momento animarsi un poco.

—Ah siete qui buona lana? disse la marchesa. Sapevate ch'io stava peggio, lo sapevate, e m'avete lasciata sola tutta la mattina.

E Grisostomo, venendo accosto alla padrona con molta famigliarità, e rassettandole le robe ond'era coperta, ch'essa, nell'atto del rapido voltarsi, aveva un poco disacconciate:

—Eh! sono stato fuori per suo servizio e dietro suo comando, sa bene?

—Sì, sì; mi ricordo…. ma siete stato tanto tempo!…

—Se ho tardato un po', disse Grisostomo, gli è perchè ho pensato bene di fare insieme un'altra commissione in servizio di lei.

—Che commissione?

—Sono andato per que' cavalli più queti ch'essa desiderava alla sua carrozza. Ho finito tutto, e di quest'oggi saranno nella scuderia.

La vecchia curvò il capo sul petto e d'infra le sue mascelle, che masticavano col loro moto abituale, non uscirono che parole indistinte.

—Eh lo sapeva io, s'affrettò a dire Lombrichi tutto sorridente, deponendo a terra la cagnolina che teneva ancora sulle ginocchia; lo sapeva bene che il bravo Grisostomo non poteva indugiare che per servire la signora marchesa.

E tese amichevolmente la mano al domestico.

—Buon giorno, Grisostomo.

—La riverisco, signor dottore: poi girando di nuovo uno sguardo all'intorno: ma dica un poco lei, non siamo in troppi qui dentro per la quiete della signora marchesa?

A queste parole due persone arrossirono, Lisa e Vanardi.

—Ehm, ehm: rispose il medico guardandosi nello specchio; potrebbe anche darsi…. certo che…. il troppo parlare e il troppo sentire a parlare….

Lisa corse dalla marchesa, l'abbracciò amorevolmente e le disse con caldo accento:

—Santola, vuole che io parta o che rimanga a farle compagnia?

La vecchia posò un momento il suo sguardo sul volto della figlioccia, che stava lì innanzi e presso al suo; quelle sembianze giovanili ed allora animate, quell'aria d'affetto che ne spirava, tornarono piacevoli a mirarsi alla madrina.

—Rimani, rimani: rispose ella con qualche po' d'effusione. Mi fa piacere il vederti, e tu vieni sì di rado!

Grisostomo fece una smorfia, e non ebbe neppure la cura di celare il suo dispetto. Per isfogarlo si volse a Vanardi.

—E voi, gli domandò bruscamente, che fate qui, chi siete?

Antonio rispose non senza fierezza:

—Gli è alla signora marchesa che ho da parlare, ed a lei ho già dato conto dell'esser mio.

—Oh, sentite che tono! esclamò il villano servitore imbizzarrito. Chi vi ha introdotto?

Lisa già voleva intromettersi, ma a questo punto successa al malavventuroso pittore una tanta disgrazia che la sua causa fu compiutamente perduta. La cagnetta, posta in terra poc'anzi dal dottore, s'era avvicinata ad Antonio, il quale, non badandole punto, nel fare un passo indietro, calpestò con un piede una delle piote podagrose della bestiola. S'elevò tosto un alto guaito; e la vecchia si riscosse sulla sua poltrona, che più non avrebbe potuto fare se a lei medesima avessero pestato un callo.

—Che cosa avete fatto a Mimì? Vieni qui, carina…. O Dio, come zoppica!… Siete stato voi che me l'avete rovinata…. Insolente! andate fuori… ch'io non vi veda più… Grisostomo, fate uscire costui.

Antonio, senz'attender altro, si precipitò fuor della stanza con una rabbia ed una vergogna nell'anima che Dio vel dica; già toccava all'uscio del pianerottolo, quando Carlotta lo raggiunse, e in fretta in fretta, senza dargli tempo nè a pensare nè a parlare, gli pose in mano un involtino di alcune monete e gli disse:

—La vecchia è scema, Grisostomo è un birbone, ma la signora Lisa è un angiolo; è lei che vi manda questo.

Ed ella era veramente, come diceva Carlotta, un angelo, quella brava signora Lisa, cui que' tristi, uniti in empia lega, avevan fatto di tutto per allontanare dalla presenza, non che dal cuore della marchesa. Grisostomo non si mosse più dal fianco della vecchia fin che la figliuola del capitano Biale rimase colà; ed ella in vero, impacciata e infastidita dalla vista e dalle maniere di quel tracotante, non tardò a partire.

—Signora marchesa, disse il cacciatore, quando appena fu fuori la Lisa, il notaio oggi non può venire, ma verrà domani senza fallo.

—Il notaio! balbettò la marchesa, perchè cosa il notaio?… Ah! mi ricordo. Ho da rifare il mio testamento. Volete proprio ch'io rifaccia il mio testamento?… Oh poveretta me!… Ma ciò mi farà morire…. Ah, mi sento male, sapete Grisostomo.—E diffatti dopo poche ore la si pose a letto colla febbre.

Nel pomeriggio di quel giorno medesimo, che era il lunedì, Selva e Vanardi si recarono a Valnota, e per una strana combinazione, che pareva un aiuto della Provvidenza, trovarono che Orsacchio erasi partito di là, per una misteriosa gita alla capitale. Matteo, tuttavia riconoscente al pittore delle generose mostre d'interesse che ne aveva ricevute, non pose ostacolo a che egli vedesse la signora della palazzina, ed Anna, dietro i cenni di Antonio, si recò da Gina a prepararla a riceverlo.

La infelice, ancora affranta dall'ultima crisi passata, era del corpo più inferma, ma quasi del tutto in senno, come da lungo tempo non era stata. Accolse Anna con un amichevole sorriso.

—Ho udito il baroccio a partire, diss'ella: egli s'è dunque allontanato… Sono sola!… Quanto tempo starà?

—Credo tutta la giornata.

Gina trasse un sospiro di sollievo.

—Signora, rispose la ragazza esitando, c'è qui un cotale che vorrebbe parlarle.

—Parlarmi! esclamò la misera. A me! Ma non c'è nessuno che venga a parlarmi. E chi ci verrebbe?… Non ho più alcuno al mondo io che si ricordi di me….

—Sì, signora, disse Anna dolcemente. C'è ancora qualcheduno che si interessa per lei… Qualcheduno ch'ella ha conosciuto in altri tempi.

Gina si riscosse tutta e si gettò ratta giù del sofà, su cui giaceva. Pigliò le mani della giovane e lo strinse forte; poi guardandola con occhio ardente dimandò ansiosa, agitata, tremante:

—Chi?… oh, chi?… Rispondi!… Sarebbe?… O Dio! o Dio!…

E la sua faccia s'illuminò d'un lampo di gioia sì eccelso che Anna ne fu, come dire, abbagliata. Ma sparì tosto; il volto di lei tornò all'espressione di profonda mestizia, e lasciandosi ricadere sul sofà mormorò:

—È impossibile, è impossibile… Sono folle.

Antonio, che non poteva più stare alle mosse, s'inoltrò pianamente: Gina vide l'ombra d'un uomo, trasalì, alzò vivamente la testa, quasi per un miracolo riconobbe di subito chi ei si fosse. Sorse di scatto, gettò un grido, si slanciò verso di lui, cadde nelle sue braccia esclamando:

—Siete voi!… E Adolfo? e Adolfo?… Parlatemi di Adolfo.

Vanardi non aveva parole fatte a rispondere. Le lagrime gli cascavano silenziose giù per le guancie. E' guardava quella misera donna così dal dolore distrutta, e una massima compassione l'occupava.

Ella sollevò il volto verso quello di lui, lo guardò un poco, e poi disse con un accento in cui parevano lottare la ragione e la pazzia:

—Voi piangete!… voi piangete!… E perchè?

Ad un tratto si spiccò vivamente da lui e mandò un grido:

—Ah! egli è morto!… È dunque vero? Voi piangete Adolfo… Perchè siete venuto allora?… Lasciatemi morir qui.

E si buttò sul sofà con disperato dolore, tutta la persona riscossa da un penoso singhiozzo. Antonio le si inginocchiò presso e si pose a parlarle: ciò che a quel punto gli dettassero la commozione e la pietà non l'avrebbe saputo ripetere egli medesimo di poi. La donna si calmò a poco a poco; ma il suo occhio era più smarrito e le sue parole più sconnesse e più tronche.

—Siete venuto a recarmene novelle, disse; vi ringrazio… Alzatevi, signore… S'accomodi, la prego… Mio marito è fuor di casa, ma non tarderà… Potete dire ad Adolfo che ho da parlargli… Conviene che s'allontani da me… Mi avevano detto ch'era morto… Non l'ho mai creduto, sapete… Signor Vanardi, ella è suo amico intimo. Le parla alcune volte di me?…

Antonio volle persuaderla a venir via con lui, ad abbandonare quel luogo e fuggire il suo carnefice, ma non ci potè riuscire. Gina aveva posto a quel luogo un materiale attaccamento, e spiccarsene non poteva, e non volle. Antonio dovette lasciarla, e ritornare in Torino con Selva, deciso a denunciare all'autorità Orsacchio l'uccisore d'Adolfo.

Ad una stazione intermedia della strada da percorrersi incontravansi i due treni, l'uno che veniva, l'altro che andava alla capitale. In questa sosta di pochi minuti in cui i due treni si trovavano allato, Vanardi, guardando per caso nell'altro treno, vide due occhi grifagni che stavano fisi su di lui, e riconobbe la brutta faccia di Orsacchio; bene si ritrasse egli vivamente all'indietro, ma era troppo tardi: il marito di Gina l'aveva visto e riconosciuto ancor'egli.

La cagione che aveva menato Orsacchio in città era sempre quel benedetto ritratto che egli voleva possedere ad ogni costo. Informatosi se il pittore fosse in casa, e saputo dalla portinaia ch'egli era assente, Orsacchio era salito al quartieretto di Vanardi, ed alla Rosina aveva detto senza preamboli, additandole il quadro:

—Datemi questa tela e vi pagherò cinquecento lire….

La donna allargò tanto d'occhi.

—Cinquecento lire! ripetè essa.

Orsacchio scambiò la meraviglia di lei per irrisoluzione, e pressato qual era di finirla, soggiunse:

—Seicento… ottocento, via, e non esitate più…

Rosina non esitò punto.

—Manderò a prenderlo domani o dopo domani. Lo consegnerete a chi ve ne recherà il denaro.

—Mandi al mattino dallo dieci alle undici; a quell'ora mio marito non c'è.

—Va bene.

Alla vista di Antonio che veniva dalla direzione di Valnota, un subito sospetto entrò nell'animo di Orsacchio. Un istinto lo avvisò che gli era per lui che quel maledetto pittore aveva fatto tal viaggio, che il suo asilo era scoperto, e che contro di lui l'amico d'Adolfo avrebbe eccitata la vendetta della legge. Provò una tal rabbia che dirlo è nulla. Quel mondo ch'egli aveva con tanta cura sfuggito tendeva ancora un braccio a ghermirlo…. Che fare? oh non si lascerebbe prendere. Fuggire di nuovo, ramingar sempre, cercare un ancora più nascosto ricetto in estera contrada!

Giunse a casa con un turbinio di siffatti pensieri pel capo che non gli lasciavano requie. Andò diviato verso la camera di sua moglie, e in quella che precedeva si arrestò e tese l'orecchio. Gina piangeva e andava pronunziando tratto tratto con immensa effusione di affetto il nome di Adolfo.

Al vedere entrare inaspettato il marito, la donna si drizzò pallida e spaventata cessando immantinente dal piangere, quasi dal rifiatare. Anna, che le era compagna, si ritrasse in un angolo timorosa ancor essa.

L'uomo guardò intorno con occhi che mandavano luce di sangue. Indovinò tutto. Incrociò le braccia al petto, si rivolse ad Anna, e fulminandola con quel suo sguardo tremendo, le disse:

—Un uomo è entrato qui, quest'oggi, ed ha parlato a mia moglie.

Anna non ebbe neppure in pensiero di negare, curvò il capo e si tacque.

—Uscite! soggiunse imperiosamente Orsacchio: e qui dentro non verrete più.

La fanciulla partì, Gina guardava stupidita e non si mosse. Orsacchio fece due o tre giri per la camera, poscia piantandosi ritto innanzi a lei:

—Domani, le disse, noi ripartiremo.

E la lasciò sola.

Il domani infatti Orsacchio fu alla più vicina città, e verso sera ne tornò con una carrozza a due cavalli di posta. Aveva messo in poche valigie egli stesso tutto ciò soltanto che poteva dirsi indispensabile; e quando le ebbe fatte caricare sul legno, entrò nella stanza di Gina, e senz'altri preamboli le disse brusco:

—Venite.

La donna alzò il capo, guardò un poco il marito e parve tutto disposta ad obbedire.

Orsacchio s'avviò primo verso l'uscio, ed essa lo seguì; ma quando il suo piede ebbe tocca la soglia, Gina s'arrestò.

—Dove andiamo?

—Che v'importa saperlo? Noi partiremo di qui.

Ella indietreggiò.

—Partire di qui! esclamò. Non voglio.

Orsacchio la prese ad un braccio e ripetè più fieramente:

—Venite!

Ma ella, scrollando il capo, con una pacatezza da scema, rispose:

—No, no, non voglio… sto bene qui… sto molto bene… amo il mio giardino… benchè ci sia la neve… ma la neve andrà via e torneranno i fiori…

Il marito le strinse violentemente il braccio e accostando le sue labbra all'orecchio di lei, quasi da toccarlo:

—Non obbligatemi a mezzi di rigore, le disse. Voglio essere ubbidito, lo sapete.

La poveretta diede in uno scossone come chi da una placida quiete venga improvvisamente turbato per un alto terrore. Mandò un grido, e fece a sciogliersi dalla stretta della mano di lui.

—Lasciatemi, lasciatemi!… Ah, voi mi fate male… Lasciatemi stare per carità.

La si dibatteva per divincolarsi; egli s'avviò verso la porta, trascinandola a forza dietro sè: Gina gettava grida di spavento e s'attaccava dall'uno all'altro a tutti i mobili della stanza.

—Tacete! tacete! le diceva sommesso il feroce.

—No, no, urlava essa: non voglio partire, voglio rimaner qui… Uccidetemi piuttosto.

Orsacchio l'afferrò per le due braccia, la tirò violentemente a sè, la strinse riluttante al suo petto, le pose innanzi al volto il suo orribilmente contratto, e con accento crudelissimo le disse spiccato:

—Sì… come ho ucciso Adolfo.

Gina puntò le sue deboli braccia alle spalle di lui per rigettarsene indietro, si dibattè per isciogliersi da quell'orribile amplesso, ma le forze le mancarono a un tratto, e svenne.

Così priva di sensi ei la portò sollecito nella carrozza.

—A Torino, diss'egli al postiglione: e di galoppo.

Quindi si slanciò nella vettura che partì di furia.

L'infelice donna abbandonava quella casa come c'era arrivata, svenuta.

XXIV.

Due giorni dopo, era il mercoledì, Antonio, che non poteva pagare il padrone di casa non ostante la dilazione, si vedeva in giudizio condannato al pagamento mediante lo staggimento e la vendita delle sue poche robe.

Vanardi, che il giorno prima erasi tutto occupato per Gina, presentando all'autorità competente una sua denuncia contro Orsacchio, ora pensò di tornare agli uffizii del signor Bancone a ricevere da Gustavo Pannini la promessa risposta.

Vedendo uscire il marito per tempo, Rosina si rallegrò molto; perchè essa aspettava ogni mattina l'acquisitore del quadro, il quale venisse a pigliar questo ed a recarne il prezzo, e assai si turbava al pensiero che in tal momento Antonio si trovasse in casa.

Vanardi camminava inquieto alla volta del palazzo del banchiere. Era l'ultima sua speranza, era l'ultimo filo di salute; se quella riesciva a non altro che ad un disinganno, se questo gli si rompeva tra mano, egli era senza redenzione perduto. La sua famiglia sarebbe stata cacciata sulla strada, e il freddo e la fame si sarebbero disputato a chi più tosto l'avrebbe morta.

Introdottosi nell'afa calda di quegli ufficii, dov'era già penetrato una volta, Antonio si ricordò che il meno scortese di tutti colà dentro era stato il cassiere; epperò tirò dritto sino allo scompartimento di lui, e venuto alla cancellata, dimandò:

—Ci sarebbe il signor Pannini?

Il cassiere sussultò come se gli avessero dato all'impensata un forte pizzicotto.

—Pannini! gridò egli con accento tra la meraviglia e l'indignazione. Voi cercate di Pannini?

La fronte stretta del brav'uomo aveva una certa ruga che poteva credersi volesse significare severità e corruccio, e gli occhi di vetro del buon cassiere avevano una certa fissità a cui se si fosse potuto attribuire un'espressione, si sarebbe detto esser quella del dubbio e del sospetto.

—Sì signore: aveva risposto Antonio.

Il signor Busca parve meditare una qualche cosa importante da dire, e come meglio dirla; ma due minuti di riflessione evidentemente profondissima non gli valsero che a trar fuori la seguente richiesta:

—Sapete voi dove sia Pannini? Ne avete voi novelle?

Fu per Antonio la volta di mostrarsi meravigliato.

—Eh no! esclamò: se vengo qui a cercarlo….

—Qui! qui! proruppe il signor Bernardo; ma non sapete dunque niente voi? Ah! quel birbone certo non metterà più i piedi qui dentro, a meno che due carabinieri ve lo menino…. Il ladro è lontano chi sa quanto!… È scappato chi sa dove!… Lo scellerato ci ruba dai cencinquanta ai dugento mila franchi.

Vanardi cadde dalle stelle. Oh sì che adesso poteva servirgli la protezione di quel tale per entrare negli uffizii della banca! Si partì di là disperato del tutto, persuaso che oramai per lui non c'era più scampo di sorta, e la sciagura lo voleva senza riparo nel fondo della miseria.

S'avviò per tornare a casa che non aveva più la testa a segno; ed entrò nel suo camerone sui tetti colla faccia d'un Amleto che si apparecchia a dire il famoso monologo. La Rosina, che da un momento all'altro aspettava chi venisse a pigliare il quadro, si stupì sgradevolmente e si stizzì maledettamente del così sollecito ritorno del marito. Egli entrò nel secondo scompartimento della stanza e si buttò a sedere senz'aver pure il coraggio di parlare; essa cercava modo di mandarlo via di nuovo, quando venne a turbarla per l'affatto un picchio dato all'uscio.

Era il padrone d'un piccolo e riposto albergo a cui Orsacchio, arrivato il mattino, era andato a pigliare stanza sotto un supposto nome. Per non abbandonare la moglie egli aveva pregato il locandiere di recarsi colà, a quell'ora, ed alla donna dare i denari ritirandone il quadro; che se ci trovasse il marito fingesse uno sbaglio, non parlasse di nulla e se ne venisse via tosto tosto.

L'albergatore, che non era de' più furbi, entrato, e non visto innanzi a sè che la Rosina, credette poter parlare senza più cautele.

—Siete voi la moglie del pittore Vanardi?

—Sì signore.

—Bene: vengo per quel certo quadro che avete venduto l'altro jeri, e qui ci sono i denari.

Antonio udì queste parole e saltò fuori con impeto di dietro il paravento; l'oste rimase in asso, guardò la donna, la vide farsi bianca bianca, poi rossa rossa di volto, capì che l'aveva sgarrata e non pensò ad altro che a battere in ritirata.

Se Vanardi fosse stato in chiaro dei patti, chi sa se l'assoluto bisogno non l'avrebbe fatto cedere: ma egli non dovette nemmanco cimentarsi con siffatta tentazione, perchè l'oste che ricordava le pressanti raccomandazioni del suo committente di non dir nulla al marito, accortosi che giusto quest'esso gli stava dinanzi, non attese altro, e già era fuor dell'uscio che Antonio aveva ancor da aprir bocca.

Marito e moglie si trovarono a fronte e si guardarono tra impacciati e stizzosi. Ma nella Rosina non fu tarda a dominare del tutto la stizza; ne nacque una lite del diavolo, in cui anche il marito, che aveva l'anima per traverso, fece la parte sua, e che finì colla partenza di Antonio il quale, dato di piglio al suo cappellaccio, fuggì protestando che piuttosto che vivere con un basilisco simile di donna gli era più caro qualunque caso, mentre la Rosina gli gridava dietro che il fistolo lo portasse; sapete bene, i soliti spropositi che fa dire la collera e che a sangue raffreddo pare impossibile si sieno potuti dire.

Antonio girò lungamente pei viali fuor di città come una mosca senza capo. Ad un punto si lasciò cadere sopra un panca, e coprendosi colle mani la faccia si domandò con infinita angoscia dell'animo:

—Ed ora che cosa debbo fare?

Di botto mandò un'esclamazione, fece un trasalto e si battè la fronte come uomo a cui si affaccia l'inspirazione d'un'idea. Si frugò in tutte le tasche finchè da quella del petto nel soprabito trasse fuori un giornale ripiegato: era quello che parecchi giorni prima gli avea imprestato messer Agapito, perchè facesse leggere alla moglie il pietoso caso di quel povero diavolo che non sapendo più come provvedere alla sua famiglia s'era buttato nel fiume. Dopo il luttuoso avvenimento, narrava il giornale come la carità dei concittadini si fosse desta ed avesse provvisto agli orfani ed alla vedova del disgraziato.

Vanardi lesse e rilesse quell'articoletto; si vedeva che ci faceva su delle meditazioni profondissime; ma in mezzo alla serietà del suo aspetto passava tratto tratto un lampo di malizia, quasi di buon umore. Dopo una buona ora di siffatta meditazione, ripiegò accuratamente il giornale, lo ripose in tasca, s'alzò e si diresse verso l'abitazione di Giovanni Selva.

Questi era eziandio molto conturbato ed afflitto a cagione dell'orrenda disgrazia avvenuta alla famiglia del signor Biale, disgrazia che vi racconterò nel capitolo venturo; ma alla vista della desolazione impressa sul volto di Vanardi obliò tutto il resto per non darsi cura che di lui.

Il pittore espose come quella medesima disgrazia della famiglia Biale togliesse anche a lui ogni speranza, raccontò la scena avvenuta colla moglie e finì per confessare che aveva presa una grande risoluzione.

—Quale? domandò con inquietudine Selva.

Antonio mostrò all'amico l'articolo del giornale che glie l'aveva ispirata, e soggiunse:

—Un uomo, perchè il mondo lo soccorra e i nemici lo perdonino, conviene che muoia… Io non ho che un mezzo per ridurre mia moglie un agnellino, per fare che mio zio torni un padre ai miei figli, perchè tutto si aggiusti in bene della mia famigliuola: e questo mezzo è quello di morire.

XXV.

Se vi ricorda, gli era il lunedì a sera che Marone doveva recarsi da Pannini per averne le sue novanta mila lire, e quel giorno medesimo un agente di cambio era venuto a portare delle cartelle del debito pubblico pel valore di sessanta mila franchi.

Ora quel giorno, Gustavo Pannini, infelicissimo nelle sue speculazioni di borsa, doveva pagare dalle sessanta alle settanta mila lire di differenza per la liquidazione di fin di mese. L'infelice era disperato, e benchè non sapesse come trovarci un rimedio, aveva pregato quell'agente a cui doveva pagare tal somma, quel cotal Borgetti che ci avvenne d'incontrare in quegli uffici quando la prima volta ci entrammo in compagnia di Antonio, di tornare verso sera che in qualche modo avrebbe provvisto.

Pensò ad implorare il principale, e fattosi coraggio salì al piano superiore dove il signor Bancone, tormentato dalla podagra, stava sdraiato nella sua camera. Il milionario banchiere non lo lasciò manco terminare; disse a Gustavo che gli era un babbuino ad aver giuocato al rialzo, mentre egli, Bancone, aveva giuocato al ribasso: che quel tanto e più cui Pannini perdeva era egli a guadagnarlo, e che non lo avrebbe soccorso manco d'un centesimo per mostrargli ad essere più accorto nell'avvenire: intanto pensasse a pagare, perchè in difetto egli non avrebbe più tenuto nella sua banca un tale che non avesse fatto onore ai propri impegni, altro che dargli il posto di primo commesso; e con questa pillola confortativa, facendo smorfie orribili per la gotta, lo congedò.

Pagare! come lo poteva Gustavo? Era dunque l'onore perduto e l'impiego?.. In quella gli venivano ricapitate quelle tali cartelle che ho detto. Se avesse potuto disporre delle medesime!… Cotal pensiero si era appena affacciato alla sua mente che Borgetti sopraggiungeva ad esigere la somma dovuta. Fu un atto più d'istinto che di ragionamento. Gustavo prese quelle cartelle e le pose in mano all'agente di cambio che lieto di vedersi così assicurato s'affrettò a partirsi colla sua preda. Fu quando Borgetti era partito che Gustavo si rese conto dell'azione che aveva commessa. Raccapricciò. Che cosa direbbe al principale? che cosa allo suocero? sentì la testa dargli in ciampanelle. Non c'era che un modo: partire, allontanarsi, fuggire. Ma come, se non ne aveva manco i mezzi?… In quella ecco aprirsi l'uscio e il signor Bernardo Busca, cassiere della banca, presentarsi con fra mano alcuni sacchetti ed un grosso viluppo di biglietti di banca.

—Ecco le novanta mila lire richiestemi per questa sera. Vuole che le riscontriamo insieme?

—Oh, non occorre: rispose Gustavo; le deponga costì, ed io glie ne do tosto il discarico.

—Le cose in regola, disse il formalista cassiere. Potrei aver commesso un errore nel contare, ed ella non deve accettare la somma senz'esser certo del fatto suo. Verifichiamo.

—Lei non commette errori, signor Busca, ne son di là di sicuro. Pure, se ciò le garba…

Il cassiere si pose a versare sulla scrivania i sacchetti di napoleoni. Fu un'onda d'oro che coprì il tappeto verde, fu un suono d'armonia seduttiva che, ripercossa dalle pareti di quel camerino, destò, per così dire, il demone della voluttà del guadagno. A quel rumore ed a quella vista gli occhi di vetro del cassiere rimasero quei medesimi; ma le pupille di Gustavo s'accesero stranamente, mentre le sue guancie impallidivano. Nel toccare, nel fare scorrere, nel rammentare a pile quelle lucenti e tintinnanti monete, le dita del giovane fremevano; con una tenacità carezzevole e desiderosa esse palpavano i dischi metallici e la carta delle polizze di valore.

Quand'ebbero finito di contare, Bernardo rimise i napoleoni ne' sacchetti, sovrappose l'una all'altra le polizze di banco, lasciò il tutto lì dinanzi a Gustavo e si ritrasse.

Il marito di Lisa rimase solo. Solo? No: v'era colà dentro un tremendo demone tentatore, e quei sacchetti e quei pezzi di carta esercitavano sul suo spirito un funesto fascino irresistibile.

Lì avrebbe potuto avere i mezzi per fuggire: lì avrebbe potuto avere almeno assicurata la sua esistenza avvenire… S'alzò e si pose a passeggiare per la stanza agitato:

—Perduto ad ogni modo, lo sono: disse egli ad un punto, tanto vale adunque…

S'arrestò e passò la destra sulla fronte madida di freddo sudore.

—Fra poco Marone verrà a pigliare i suoi denari… tanto meglio!.. Oh venga presto…

In quella si picchiò all'uscio del gabinetto.

—Gli è lui, pensò Gustavo, il sogno è finito; e ratto il suo sguardo corse al denaro, e, come un lampo, gli passò per la testa l'idea di gettarvisi su, d'arraffarlo e fuggire per l'altra porta.

Fermò il viso, mandò un sospiro, e con voce non calma del tutto, disse:

—Avanti.

Ci entrò, non Marone, ma la vecchia di lui fante.

Voi sapete che il giorno innanzi il padrone di casa di Antonio era caduto giù dalle scale e s'era slogato una gamba; non potendo quindi venire, mandava la serva con una sua lettera in cui, narrando la disgrazia avvenutagli, pregava il signor Pannini a volergli recare a casa la somma in discorso, che glie ne avrebbe fatta una fiorita compitezza.

Negli occhi di Gustavo balenò una fiamma di gioia. Non fu riflessione, fu come una trista ispirazione dell'inferno. Si mise alla scrivania, e rispose a Marone, quella sera non poter egli rendersi alle brame di lui, ma il domani senza fallo sarebbe ito col denaro. Piegò la carta, vi pose il suggello e la diede alla fante la riportasse al padrone. La sua mano tremava un pochino. Quando la donna fu uscita, il giovane, pallido e cogli occhi sconvolti, corse al tavolo, abbrancò sacchetti e involti delle polizze, serrò tutto fra mani, fra le braccia, al suo petto, con febbrile passione.

—Tutto questo è mio, esclamò; fuggirò… Prima di domani a sera non si saprà nulla… Andrò in America… Là in pochi anni mi farò ricco a milioni… Ricco!.. ricchissimo!..

Pose nelle sue tasche l'oro e le carte di valore; tremava come assalito dalla terzana: non era più in sè: uscì ratto e dovette tornarsene indietro a prendere il cappello che dimenticava. Aveva sulla faccia l'impronta più della pazzia che del delitto. Quando fu nella strada vide passare una carrozza da nolo venturosamente vuota; la chiamò, ci saltò dentro e diede l'indirizzo per a casa sua. Era l'imbrunire e i lampioni delle strade cominciavano ad accendersi qua e colà. A casa lo aspettavano pel pranzo. Nello scendere di carrozza egli ci pensò. Con che viso sarebbe venuto innanzi allo suocero ed alla moglie? E poi conveniva partire il più presto possibile, e che i suoi, cercando di lui, non dessero l'allarme; e s'egli parlava loro di partenza l'avrebbero oppresso di richieste e postolo troppo agevolmente in imbarazzo. Tutto questo gli passò pel capo in un baleno; e il suo partito fu preso di botto. Entrò dal portinaio e chiese un fogliolino di carta: ci scrisse su poche righe in cui diceva alla moglie, per ragione del suo ufficio aver egli da partir tosto e star assente alcuni giorni, non volesse quindi darsi pena del non vederlo, e lo scusasse anche presso lo suocero dell'allontanarsi così senz'altri saluti, ma necessità lo voleva.

Diede la lettera al portiere perchè la recasse tosto su a Lisa, e tornato nella carrozza ordinò al cocchiere lo menasse in fretta allo scalo della ferrovia, da cui stava giusto per partire a quell'ora un treno.

Al ricevere di quel biglietto, Lisa, col meraviglioso istinto di donna amante, presenti che quella era una disgrazia; non sapeva capire come, venuto fin sotto alla porta, Gustavo non fosse salito a darle almanco un bacio d'addio. Passò una notte agitatissima ed insonne, e pareva, tanta era la sua inquietudine, che ad ogni momento s'aspettasse lo scoppio del fulmine che doveva distrarre ogni suo bene terreno.

E il fulmine precipitò verso mezzogiorno. Lisa e suo padre, dopo l'asciolvere stavano nel salotto, quando una violenta scampanellata risuonò dall'uscio dell'appartamento. Lisa, senza sapere il perchè, sentì il suo cuore mettersi a palpitar forte. Si udì nella stanza precedente il passo concitato d'un uomo ed una voce aspra ed affannata che diceva:

—Non c'è?… È partito?… Voglio veder sua moglie… suo padre… voglio parlare a qualcheduno, io!

Il signor Biale voleva andare a vedere egli stesso che cosa fosse, quando la serva entrò di fretta.

—Gli è un signore tutto accalmanato, disse, che dimanda di sor Gustavo, e vuole ad ogni modo venire innanzi.

—Introducetelo, comandò l'antico capitano.

In questo mentre lo sguardo di costui si posò sulla figliuola. Ella era sì pallida e turbata ch'egli se ne atterri.

—Lisa, esclamò, c'è qualche cosa? che sai tu?…

—Niente, niente: ebbe tempo appena di rispondere la donna.

Il signor Bernardo, il cassiere di Bancone, si precipitava nella stanza coll'impeto d'un masso che precipita giù da una china.

—Signora! gridò egli avanzandosi quasi minaccioso verso Lisa: dov'è suo marito? Ho bisogno di parlargli, ho bisogno d'averlo qui subito.

Lisa confusa, quasi spaventata, non seppe nemmeno rispondere. Il capitano, facendo un passo verso il nuovo venuto, disse con accento asciutto e risentito:

—Signore, mio genero non è a Torino.

Busca si volse di scatto verso di lui.

—Ah, proruppe, il birbone è proprio scappato…

Il signor Biale gli troncò aspramente la parola.

—Chi siete voi? che modo è codesto? che impertinenza è la vostra?

E il dabbene Bernardo con tutto il calore di cui era capace:

—Chi sono? Sono il cassiere della banca a cui vostro genero ha portato via cencinquanta mila lire.

A questa brutale sortita, Lisa cadde seduta, mandando un grido: Biale indietrò come colpito a mezzo il petto da una botta.

—Signore! sclamò quest'ultimo: voi mi darete ragione di queste parole.

Il cassiere contò senz'altro come la mancanza di Pannini dal suo posto e quella delle cartelle del debito pubblico avessero già desto alcun sospetto in Bancone; come una lettera di Marone avesse avvisato che egli non aveva ricevuto i denari; come la misteriosa partenza di Gustavo troppo confermasse i concepiti sospetti.

—È impossibile, è impossibile, disse Biale diventato pallido, che pure sentiva entrare in suo cuore lo spavento che quella potesse essere la verità.

Lisa si drizzò con impeto, presa da nuova energìa, e gettò le braccia al collo del genitore.

—Sì, è impossibile: grida ella: oh! difendetelo voi, padre mio, non lasciatelo calunniare il mio Gustavo. Egli è innocente, ne sono sicura…

E la meschina ruppe in pianto.

—Sta di buon animo: le disse il capitano abbracciandola; sarà uno sbaglio che tosto si metterà in chiaro… Io vengo con voi, signor cassiere: voglio parlare al vostro principale.

Ed abbracciata amorosamente la figliuola, partissi tosto col signor Bernardo.

XXVI.

Bancone soffriva della podagra anche più del giorno precedente; e il fatto della fuga di Gustavo l'aveva mandato in un'irritazione da non dirsi.

Bernardo entrò primo nel gabinetto del banchiere.

—Ebbene? dimandò Bancone appena lo vide: quel mariuolo ce lo menate voi qui per le orecchie?

—Egli è fuggito davvero: rispose Busca, coll'aria mortificata d'un segugio che si lasciò scappar la lepre.

Bancone mandò una grossa bestemmia da scandalizzare un vecchio caporale.

—Ma c'è qui suo suocero: continuò Bernardo.

—Suo suocero! esclamò il banchiere. E che cosa m'importa dello suocero? Andate a chiamare l'assessore di pubblica sicurezza.

Biale s'avanzò.

—Un momento, di grazia, diss'egli con nobile accento: la prego.

Bancone mirò il volto pallido e commosso del capitano: quelle sembianze severe ed oneste gli imposero.

—Che cosa la mi vuole?

—Prima di gettare il disonore sopra un nome ed una famiglia si compiaccia riflettere.

—Riflettere! proruppe Bancone trasalendo sulla poltrona: e intanto il merlotto se la batte col bottino… Fossi matto!

—Ma se fosse un equivoco?

—Non c'è equivoco: la cosa è chiara come il sole….

E raccontò al capitano come Gustavo giuocasse alla borsa, avesse perso, avesse pregato lui di soccorrerlo, e si fosse soccorso poi colle sue mani, rubando.

L'infelice padre di Lisa sentì la vergogna affogarlo; con voce che stentava ad uscir dalla gola, disse allora:

—Ebbene, la prego in nome della carità a voler soprassedere… Pensi che vi sono degli innocenti.

—Penso che ci perdo centocinquanta mila lire: interruppe ruvidamente il banchiere.

—Signore… tutto quello che ho son pronto a dare per indennizzarla.

—Eh si, parole! Il suo patrimonio è egli bastevole a ciò?… Non ne so niente io, e non voglio perdere tempo in inutili incombenti.

Biale non pregò più. La pena che l'opprimeva era incredibile. Una vergogna dolorosa, più che parola umana possa esprimere, gli gravava l'anima eletta; il rossore, senza colpa, gli faceva abbassare quella nobile fronte che sino allora aveva portata alta innanzi a tutti, nel fuoco delle battaglie, nelle vicende della vita civile.

—Faccia a sua posta, diss'egli con dignità. Eseguisca lei ciò che crede suo diritto, io non mancherò di fare quel che penso mio dovere.

E fatto un leggiero inchino se ne partì, la morte nell'animo, ma fermo tuttavia nel viso.

Con quanta impazienza Lisa attendesse il ritorno di suo padre è più facile immaginare che dire. Quand'egli giunse si precipitò verso di lui, e venne a cadere fra le sue braccia.

—Gustavo è innocente, esclamò ella. Non è vero che Gustavo è innocente?

—Voglio ancora sperarlo, rispose il padre, non osando dire la tremenda verità: ma intanto conviene tosto provvedere che niuno pel fatto suo abbia danno. Tutto ciò che io posseggo è tuo, sei tu pronta a sacrificarlo?

Lisa non lo lasciò terminare.

—Tutto, tutto, diss'ella. Purchè Gustavo sia salvo… e torni presto… O cielo! s'egli non avesse a tornar più?

Intanto l'autorità a cui s'era sporta denunzia avvisava per telegrafo tutte le stazioni di carabinieri, lungo la linea di ferrovia per cui si appurò essere partito Gustavo, perchè si cercasse del fuggitivo e lo si arrestasse.

Un giorno solo era trascorso e la povera Lisa pareva aver passati anni di dolore: anche suo padre era disfatto e scoraggiato. Il bravo uomo già aveva date tutte le disposizioni per vendere il suo piccolo avere, e si addolorava forte perchè non bastasse a pagare l'intiera somma da Gustavo derubata.

Verso le dieci ore padre e figliuola furono riscossi dal suono del campanello. Questa volta era Carlotta, la cameriera della marchesa di Campidoro, che domandava sollecita di parlare alla signora Pannini.

Venuta innanzi a Lisa ed al capitano, la giovane cominciò a chiedere scusa del presentarsi così di suo capo, non mandata da nessuno, ma soggiunse non averci potuto resistere, aver ella troppo interesse e troppa simpatia per la buona signora Lisa da vedere con indifferenza la solenne birbonata che si voleva compire a danno di lei. Pregata di spiegarsi, raccontò come da un pezzo ci fosse intorno alla marchesa una gara fra Grisostomo, il curato, il dottor Lombrichi, il signor Marone e il cavalier Salicotto a dar la caccia all'eredità dei Campidoro: che negli ultimi giorni i fili s'erano venuti stringendo, che fattasi una lega fra tutti, escluso Salicotto, cui avevan trovato modo di levare ogni considerazione nello spirito della marchesa mercè la storia narrata dal dottore del modo di governarsi di quel tale verso suo padre, aveano deciso di spartirsi fra loro la torta; che da un po' di tempo stavano a' panni alla marchesa perchè rifacesse dietro loro intenzione il suo testamento, che per una ragione o per l'altra non ci avevano mai potuto riuscire, ma che di quel giorno medesimo, premendo la cosa perchè la vecchia era molto giù, si voleva finire la bisogna. La buona Carlotta pertanto veniva ad avvisare la signora Lisa perchè accorresse subito presso la santola, la quale vedendola o non avrebbe più fatto il nuovo testamento od almanco non ci avrebbe più dimenticata la figlioccia, come quei brutti musi la volevano indurre a fare.

Detto ciò, la buona ragazza scappò tosto per tornare a casa prima che la sua mancanza vi fosse avvertita.

Padre e figlia rimasero senza parlare per un po': Lisa aveva sentito che il suo dovere era di accorrere ad assistere la santola che stava male, ma ora il suo cuore era preso da tanto affanno che non aveva risoluzione e coraggio a pur pensare ad altro che quello non fosse: il capitano appariva preoccupato assai. Fu egli finalmente a rompere il silenzio.

—Conviene tu ci vada dalla marchesa, prima perchè è tuo debito, poi…

Ristette come se le parole che avevano da seguire gli fossero penose da pronunziare, e in vero non fu senza sforzo ch'egli soggiunse:

—Perchè se tua matrina ti volesse favoreggiare, ciò ne gioverebbe assaissimo…

Arrossì come uomo in colpa e s'affrettò a soggiungere:

—Non già per noi… ma per poter riparare a tutto… il danno fatto da Gustavo.

Lisa non rispose parola, ma diede in una esclamazione, e corse a vestirsi.

Dieci minuti dopo, ella era pronta ad uscire quando la sorte le mandò un ostacolo ad impedirnela. Era l'autorità giudiziaria che si presentava per procedere ad una perquisizione domiciliare.

La brava Carlotta intanto aspettava l'arrivo di Lisa a casa della marchesa con vera impazienza. Ma il tempo passava, ed ecco alle undici il notaio arrivare ed essere introdotto tosto nella stanza dell'inferma, dove già erano il curato ed il dottore. La signora Pannini non s'era ancora fatta viva.

La stanza dell'inferma era in una oscurità quasi completa; nel fondo giaceva la vecchia in un letto suntuoso, cortinato di seta, e il macilento di lei corpo si perdeva affatto sotto le coperture, come il capo quasi scompariva in mezzo dei guanciali di piuma a cui s'appoggiava. Presso al letto stavano il parroco ed il medico: in un angolo della stanza un tavolino con sopravi carta, penne, calamaio, bastoncini di cera lacca ed una candela accesa, con un coprilume opaco che non ne lasciava spandere i raggi all'intorno.

Appena entrato col notaio, Grisostomo andò innanzi, e s'avvicinò sollecito alla giacente dalla parte del letto verso la parete.

—Il notaio è qui finalmente: diss'egli.

Non s'udì risposta alcuna dell'ammalata.

Il dottore col più lezioso de' suoi sorrisi sulle labbra s'accostò al notaio che stava là piantato, senza vederci ancora distintamente in quella oscurità, e gli disse:

—Lei avrà già preparato l'atto?

—No, signore.

—La sarebbe stata più spiccia. Pazienza! S'accomodi qui e lo rediga subito, chè la signora marchesa desidera far presto.

Egli accennava il tavolino col lume.

—Scusi, disse il notaio, ma per ragione del mio ministero, mi bisogna parlar prima colla cliente.

S'avvicinò al letto. I suoi occhi già avvezzi a quella poca luce videro l'ammalata che già pareva morta, cotanto era gialla e senza espressione nel volto: aveva però gli occhi larghi e quasi inquieti.

—Riverisco, signora marchesa, disse il notaio, come sta?

Grisostomo si chinò verso la giacente.

—È il signor notaio ch'ella aspettava sin dall'altro ieri.

E la marchesa guardando stupidamente il notaio si pose a balbettare:

—Testamento… testamento… ho da fare testamento.

Il dottore fu lesto ad interpretare quelle parole al notaio.

—La sente? Dice che ha mandato a chiamar lei per fare testamento.

—Eccomi ai suoi ordini: disse il notaio parlando alla marchesa. Questa e proprio la sua decisa volontà?

Grisostomo fissò con sì intentiva insistenza i suoi sguardi sulla vecchia, che gli occhi di costei, come per influsso magnetico, furono attirati a quelli di lui e parvero attingervi alcuna maggiore intelligenza.

—Grisostomo, balbettò ella con fievolissima voce, dite voi, fate voi…. Ho sete, datemi da bere.

Il domestico passò il suo braccio sotto ai tanti cuscini che reggevano il capo dell'inferma e ne la sollevò pianamente; Lombrichi gli porse un bicchiere, e Grisostomo messolo alle labbra della vecchia, vi lasciò cadere a goccie la bevanda. Poi la rimise giù adagino e le riassettò intorno al collo le coltri.

Il notaio riprese a domandare:

—Che sorta di testamento vuol ella fare signora marchesa? pubblico o segreto?

—Segreto, segreto: rispose il curato che non aveva ancora detto sillaba, e presa d'in sul tavolino una carta ripiegata in quadrato e chiusa da più sugelli di cera lacca, la porse al pubblico uffiziale: ed eccolo qui.

—Va bene, disse il notaio, ma bisogna che sia la marchesa stessa che me lo consegni, dichiarandomi espressamente in presenza dei testimonii che quello è il suo testamento.

Grisostomo si curvò di nuovo verso la giacente, e fissandola con un'espressione che quasi poteva dirsi di comando, le disse:

—Ha udito? Bisogna che sia lei a dar nelle mani del notaio il testamento.

La marchesa volse al cacciatore i suoi occhi fatti quasi sgomenti e ripetè con voce tremolante:

—Testamento!… testamento!… O Dio! Ho proprio da morire?

Il domestico si chinò vieppiù sull'ammalata, e le disse all'orecchio:

—No, anzi…. ciò le vorrà far del bene.

Il curato entrò in mezzo anch'egli.

—La nostra vita è nelle mani di Dio; e felice colui che è in ogni modo preparato a comparirgli dinanzi.

Il medico fu lesto a temperare l'effetto poco rassicurante di queste parole.

—Grisostomo ha ragione, diss'egli. Quando la si sarà tolto questo fastidio, più tranquilla d'animo, la vorrà stare assai meglio.

—Sì?… Allora…. fate voi Grisostomo…. dite voi…. E mi si lasci la pace.

Furono introdotti i servi che dovevano servire da testimoni; Grisostomo trasse fuori dalle coltri il braccio destro della marchesa, levò dalle mani del curato la carta ripiegata, e la pose nella destra dell'inferma, poi le disse:

—Ecco: dia questa carta al signor notaio e gli dica: Questo è il mio testamento.

La marchesa ubbidì come una macchina; e il notaio, ricevuto il plico, andò al tavolino preparatogli e ci sedette a scrivere l'atto.

In quella un po' di rumore ed alcune parole scambiate nella stanza vicina attrassero l'attenzione di Grisostomo; gli parve udire fra le voci che parlavano quella di Lisa, ed accorse sollecito. La figlioccia della marchesa stava proprio per entrare spinta da Carlotta.

Lisa, tostochè libera, erasi affrettata a giungere in quel punto.

—Presto, presto, le aveva detto Carlotta che era andata ad aspettarla in anticamera; forse la è ancora in tempo.

E, prendendola, l'aveva menata sollecitamente fino all'uscio della camera da letto della padrona. Ma colà ecco mettersi innanzi a loro un servo che, d'ordine del signor Grisostomo, aveva da impedir l'entrata a chicchessia. Carlotta volle persuaderlo, Lisa si mise a pregarlo, e Grisostomo comparve in quella.

—Che cos'è? diss'egli, lanciando uno sguardo da basilisco su Carlotta.

Costei capì che per essa la era rotta affatto col cacciatore, e che perciò tanto valea la lotta aperta.

—C'è che la signora Pannini vuol vedere sua madrina, e niuno glie l'ha da impedire: diss'ella con un coraggio eroico.

Grisostomo si volse al servo.

—E tu panbianco, che cosa facevi costì?

—Io le ho detto subito che in questo momento non si poteva entrare: rispose il servo.

E Grisostomo, burbero, senza però guardare in faccia la signora Lisa:

—Nè in questo momento, nè mai.

La moglie di Gustavo fece un passo innanzi, e con dignitosa fierezza proruppe:

—Che vorreste voi dire, Grisostomo?

—È l'ordine della signora marchesa, rispose costui guardando sempre di sbieco, quasi non osasse fissare in volto la signora.

—È impossibile, esclamò Lisa con isdegno: voi mentite.

—No, signora: rispose Grisostomo stizzito; la mia nobile padrona ha detto…

Esitò un momentino; ma poi, come ripreso coraggio, soggiunse spiccatamente:

—Che non la voleva più accogliere in casa sua la moglie di un ladro.

Lisa indietreggiò, si fece bianca come un cencio e mandò un grido, come se un acuto dolore l'avesse sovraccolta improvviso; poi barcollante andò verso la più vicina seggiola e vi si lasciò cadere priva di forze.

—Andate là, che siete proprio un villanaccio: esclamò Carlotta, e si affrettò a soccorrere la povera Lisa.

L'uscio della camera della marchesa si aprì e il dottore Lombrichi porse in fuori la testa.

—Grisostomo, diss'egli: venite, si tratta di farla sottoscrivere.

Lisa partì, come potete pensare, per non tornare mai più in quella casa.

Mezz'ora dopo Grisostomo cercava di Carlotta, ed avutala a sè, le diceva:

—La signora marchesa, nel suo testamento, ha lasciato una buona somma a tutti i servitori maschi e femmine che si troveranno in sua casa il dì della sua morte; voi, mia cara, non godrete di questo vantaggio, perchè da questo giorno medesimo voi andrete fuori… E ci avrete guadagnato codesto a voler fare la generosa protettrice d'altrui.

Pochi giorni dopo la marchesa di Campidoro moriva. Aperto il suo testamento si trovava ch'ella aveva lasciato erede la Congregazione di Santa Filomena coll'obbligo d'una rendita annuale al parroco per tante messe e per largizioni ai poveri; e che a Grisostomo aveva assegnato un legato vistosissimo col patto di mantenere ed aver cura della cagnolina Mimì, ed al dottor Lombrichi un lascito considerevole. Alla sua figlioccia un legatuccio di cinquemila lire.

Salicotto, dimenticato per l'affatto, scrisse un articolo di fuoco contro le mene dei clericali captatori di eredità.

XXVII.

Sono passate oramai ventiquattr'ore da che Vanardi è uscito per disperato di casa sua, e Rosina non l'ha più visto ritornare. Nella buona donna, di cui vi ho già detto più volte che l'indole era eccellente, non aveva tardato molto a svanire del tutto la collera che l'aveva spinta alle troppo male parole contro il marito; onde la s'era pentita forte, e la paura l'aveva assalita potentissima che Antonio, irritato di soverchio, non ponesse in atto la minaccia di tornar più.

La notte angosciosa ch'ella passò nella vana attesa del marito aveva servito sempre meglio a macerarle per così dire l'animo ed ammollirne la tempra. Quando la prima luce del mattino la sorprese, levata ancora, tutto freddolosa, gli occhi rossi dal piangere, il pentimento l'aveva così conquisa ch'ella proponeva, giurandolo a sè stessa, d'essere d'ora innanzi pel marito una vera pasta di zuccaro.

Verso le dieci, ella ode il rumore di parecchi passi nel corridoio delle soffitte; alza vivacemente la testa; ma sono in più, e con chi verrebbe egli Antonio, se fosse lui? Richina la testa scoraggiata; eppur sì, tutti quei passi si sono fermi all'uscio del camerone. O cielo! ci picchian dentro. Un forte palpito la colse. Fosse avvenuta disgrazia ad Antonio! e glie lo recassero allora sanguinoso, ferito, morto? Si ripeteva il picchiare. Rosina andò ad aprire, e si trovò in faccia quattro uomini sconosciuti, vestiti di nero. Erano il segretario della giudicatura, uno scrivano, un usciere ed un pubblico estimatore che venivano, dietro sentenza del giudice, sulle istanze di Marone, a procedere agli atti esecutivi in odio di Antonio Vanardi.

Rosina all'annunzio che glie ne diè il segretario, sentì mancarle il cuore: sola com'è, vedersi prendere le poche robe e cacciata fuori di casa coi bimbi!… Si mise a pregare, scongiurare piangendo; e il segretario intenerito le dichiarò con evidente rammarico che la volontà del bigotto padrone di casa era irremovibile, e che a loro non toccava che fare il dover loro.

Ma s'era appena incominciato, quand'ecco un susurro nel corridoio di gente che veniva, e poi tosto entrare una frotta, a capo la quale erano Selva, lo speziale Agapito, il filantropo Salicotto, la portinaia e suo figlio, e dietro loro il pizzicagnolo della strada, il panattiere, il carbonaio, tutti i creditori di Antonio, e quasi tutti gl'inquilini della casa.

Ed ecco come avveniva che tutta quella gente fosse lì.

Messer Agapito, si teneva sul passo della porta di sua bottega, secondo il solito. A dire tutto il vero, la noia lo possedeva e lo faceva sbadigliare. Da parecchi giorni era succeduto un cambiamento nella sua vita che non tornava affatto a suo vantaggio: al vecchio egoista mancava qualcheduno da tormentare. La partenza di Anna gli aveva tolto un docile soggetto e sempre lì sotto mano da punzecchiare ad ogni volta gli saltasse mattana: e ciò lo crucciava molto, il brav'uomo ch'egli era.

Tornato a casa quel dì, e trovato in luogo della nipote un biglietto che lo avvisava essere ella decisa a levargli il fastidio e il peso della sua carità per essa, e volersi restituire al villaggio a vivere miserissimamente del suo lavoro, Agapito aveva incominciato per gridare all'ingratitudine ed alla perversità di quella bertuccia, per cui egli aveva fatto cotanto; poi tosto se n'era anzi rallegrato, dicendosi che la era un carico per lui, che la non era buona da niente, e tanto meglio l'esserne disimpacciato. Ma ecco che a luogo di Anna era pure stato costretto a prendere una fante; e questa conveniva pagarla, per quanto meno egli volesse spendere, sempre di più della nipote, a cui non dava la croce d'un centesimo: e la serva non era acconcia a soffrire tutti gli umori e tutte le mattie del vecchio speziale, ma alle aspre di lui parole rimbeccava di santa ragione, e per poco egli volesse imporne la era subito pronta a piantarlo in asso, senza più un cane che lo servisse. Epperò egli nel suo segreto di belle volte lamentava già non poco la mancanza dell' ingrata nipote, e andava macchinando come richiamarla all'ovile.

Ed erano di cotali pensieri che gli frullavano nella mente quella mattina di cui vi discorro; quando Selva presentatoglisi tutto turbato nel volto, disse che veniva appunto in cerca di lui, desiderando parlargli.

Messer Agapito, tutto ingrognato, senza pur tentare di fare il menomo gioco di parole, in tono grave, senza offrire a Giovanni d'entrare in bottega, pescò nella sua tabacchiera di corno una presa, e rispose esser pronto ad ascoltare.

Selva non mostrando d'accorgersi punto punto di queste maniere disse:

—È egli molto tempo ch'ella non ha visto il mio amico Vanardi?

Lo speziale diede in un leggier guizzo e i suoi occhi corsero interrogativi e dubitosi sulla faccia di Giovanni. Dopo quella sua certa scena colla moglie d'Antonio gli era sempre rimasto nell'anima un salutare timore verso quest'esso ed ogni cosa che venisse da lui. Rispose adunque con una certa diplomaticheria:

—Io?… Ma!… Non saprei nemmanco. Questa mattina certo di no… Perchè mi domanda ella codesto?

—Perchè? riprese Giovanni con faccia sempre più contristata, perchè temo una grande disgrazia.

La curiosità dello speziale fu sovreccitata di presente.

—Oh! esclamò egli cogli occhietti accesi e porse a Selva la scatola aperta. Che cosa mai? che cosa mai? È accaduta qualche novità?

—Lei è un uomo di molta prudenza.

Agapito levò in alto la sua mano destra col pizzico di tabacco fra il pollice e l'indice.

—Epperò ho voluto consigliarmi con lei: continuò Selva.

—Dica pure. Eccomi qua tutto ai suoi comandi. Che cosa è arrivato?

—Ella sa le misere condizioni di quel povero Antonio.

—Eh, eh! fece lo speziale, strabuzzando degli occhi, crollando la testa ed agitando la mano.

—Ebbene, la miseria ha mandato quell'infelice a un disperatissimo partito.

Agapito fece un piccol salto indietro.

—Misericordia! sclamò egli; ne ha commessa alcuna di grossa….

—Si è ammazzato.

Lo speziale mandò un grido di stupore.

—Ammazzato!?

—Tutto me lo fa credere….

Agapito senz'altro, aprì l'uscio a vetri della bottega e chiamò i garzoni.

—Martino, Giannello, la sapete la novità? Oh che caso! oh che caso!… Ne son tutto rimescolato… Chi l'avrebbe mai detto?

—Che è? che è? domandarono i garzoni venendo fuori.

—Il pittore Vanardi s'è ucciso.

Oh! Ah! esclamazioni da non dirsi.

La portinaia usciva in quella dalla casa.

—Ucciso chi? domandò ella accorrendo.

Poichè le fu risposto ella gridò e schiamazzò per cinquanta. Bastiano suo figlio, venuto fuori anche lui ed udita la novella, corse a propalarla nelle botteghe vicine: tutti accorrevano al fondaco dello speziale.

—Il pittore! Ucciso? Possibile! Come? Quando? Perchè? Povero diavolo! Povera moglie! Poveri bambini!

In un momento la strada fu tutta sossopra e già a piovere interrogazioni e commenti intorno a Giovanni, che ottenuto poscia un po' di silenzio ebbe campo finalmente ad esporre il fatto.

Narrò come la mattina precedente avesse ricevuto una lettera dall'amico in cui questi diceva, che disperato aveva risoluto finirla con un gran colpo e torsi alla sua miseria ed alla vista di quella de' suoi: gli raccomandava pertanto la sua famiglia nell'atto che gli mandava quell'ultimo addio. Selva, datosi premura di cercare di Antonio sparito di casa, non aveva potuto raccogliere altra notizia fuor quella che il misero era stato visto gironzare sulla sponda del Po.

—Vi si è buttato: interruppe a questo punto Agapito; la cosa è chiara. Precisamente come quell'altro di cui parlava il giornale quindici giorni sono… Anzi, mi ricordo che son io che glie ne ho dato da leggere la pietosa novella, la quale gli fece tanta impressione che volle gli lasciassi quel foglio… che poi non mi ha più restituito.

—È certo, disse uno, che da qualche tempo egli aveva un'aria affatto sconvolta.

—Ci si vedeva in viso, aggiunse un altro, che macchinava qualche doloroso proposito.

—Poveretto!

Fu un alto levarsi di compianto: il fornaio medesimo, lo stesso pizzicagnolo, perfino il carbonaio, uno de' più accaniti fra i creditori d'Antonio, protestarono che a preferenza vorrebbero rinunziare ad ogni loro credito verso il misero pittore che udire una siffatta disgrazia.

Ed ecco, mentre più fitto era il capannello e più animate erano le chiacchiere, sopraggiungere un altro personaggio ad interrogare che fosse: niente meno che il filantropo, democratico, socialista cavalier Salicotto. Le esclamazioni ch'egli fece e i sermoni ch'ei ne tolse occasione a tirar giù contro i ricchi e le ingiustizie sociali, non ve li ripeto per non infastidirvi; ma vi basti sapere ch'ei ne ottenne gli applausi e l'ammirazione di tutta quella poveraglia là radunata, la quale, per la maggior parte, vedeva nelle miserie del pittore poco su poco giù le proprie.

Quando s'era sul migliore di questi compianti, quando la compassione era giunta al suo apogeo, ecco entrar nel portone della casa i quattro uomini vestiti di nero che abbiamo già veduto penetrare nell'alloggio di Vanardi. La portinaia li riconobbe per quel che erano, e indovinò quello per cui venivano; e figuratevi se la poteva rimanersi dal dirlo! Allora fu un susurro pieno di minaccie e d'improperii contro quel bigotto impostore, baciapile e succiapoveri di Marone, a cui accollavano ogni peggiore appellativo: e tutta quella gente, la quale mezz'ora prima, per avere il fatto suo, avrebbe voluto fare il medesimo a danno del povero Antonio, ora pareva pronta, in difesa della famiglia di lui, a qualunque partito anche violento.

Ad un tratto, come per un'idea nata simultaneamente in tutte quelle teste, si gridò da ogni parte:—Andiamo su; conviene impedire una tanta infamia; difendiamo quegli innocenti.

E come per una spinta possente, tutta quella massa s'avviò verso le soffitte della casa di Marone. Il rumore di essa che saliva chiamava sulle porte ad ogni ripiano i casigliani; s'interrogava, si rispondeva: la curiosità, la pietà, l'indignazione accrescevano la frotta, e di questa guisa giunsero, come vi dissi, nella stanzaccia del pittore.

—Che cosa c'è? domandò il segretario stupito, e poco tranquillo di quella invasione. Salicotto s'avanzò e cominciò un bel discorso in cui Marone era acconciato pel dì delle feste: ma Rosina, che si stava abbandonata e come sbalordita in un angolo, serrando a sè i suoi bambini, sollevò la testa, vide Giovanni Selva, e di botto, con impeto disperato, si slanciò verso di lui gridando:

—E mio marito? Dov'è? Che cosa è di lui?… Ditemelo per amor di Dio.

Quest'atto, queste parole, e l'accento con cui furono pronunziate, commossero tutti.

—Cara signora Rosina, rispose Giovanni non senza imbarazzo ed osservandola bene: io veramente non so bene… credo che suo marito starà assente qualche tempo…

Messer Agapito frattanto s'era accostato al segretario e gli disse a mezza voce in aria di mistero:

—Lasci tranquilla questa povera famiglia: il misero Vanardi è morto.

In altri momenti, altre parole, la Rosina non avrebbe udite; ma a quel punto la terribile frase giunse chiara e precisa al suo orecchio. Essa gettò un grido straziante e corse allo speziale.

—Morto!… Mio marito?… Lei lo ha detto… Lei lo sa!… O mio Dio!… Mi dica tutto… mi dica il vero.

Agapito era più imbrogliato che un gatto nella stoppa; si strinse nelle spalle, nicchiò, balbettò, si grattò il naso e finì per dire che egli lo aveva inteso da Selva.

Allora Rosina tornò da quest'ultimo ansiosa, affannata, tremante, disfatta nelle sembianze, come persona che attende sentenza di sua vita o di sua morte.

Giovanni, all'aspetto di quel dolore, parve sentire un pentimento e stette un poco in bilico, non sapendo come farla; poi rispose esitando:

—Coraggio!… La non si disperi così… La cosa non è affatto sicura… ho delle buone speranze che non sia…

La donna si abbandonò tutta al suo dolore. Strinse a sè i suoi piccini e si diede a singhiozzare con tanto tormento che era una pena il sentirla.

—Signori, disse il segretario, io non domanderei di meglio che lasciar in pace questa sventurata famiglia: ma come si fa? Ho il mio dovere da eseguire…

Lo speziale saltò in mezzo, il naso illuminato da una buona idea.

—Signori, signori, gridò: qui c'è un ingordo padron di casa che vuol essere ad ogni modo pagato… Ebbene, propongo che si faccia una colletta per pagarlo noi…

—Sì, sì! fu gridato da ogni parte: facciamo una colletta, e tutte le mani corsero al borsellino.

Ma in questa una voce trafelata ed ansiosa si fece udire di dietro la folla, gridando:

—Largo, largo, per carità.

Ed un uomo, facendosi dare il passo a spintoni, penetrava nella camera e dirigendosi di botto al segretario, diceva:

—Faccia grazia, sospenda tutto; son qua io, pago tutto io.

Era il droghiere, zio e padrino d'Antonio.

Quella mattina questo signor zio aveva ricevuto per la posta dalla città una lettera, la cui scrittura gli era affatto sconosciuta. Apertala e lettala, gli si offuscò la vista, gli si misero a tremare le gambe, e un forte pallore gl'imbiancò subitamente la faccia.

In quella lettera Giovanni Selva, che il droghiere conosceva di nome e sapeva amicissimo di suo nipote, gli annunziava come Antonio, datosi del tutto al disperato, fosse sparito, scrivendogli i fieri propositi che aveva contro sè stesso, ed abbandonando nella più terribile miseria la sua famiglia, la quale, non osando più raccomandarsi allo zio, si raccomandava all'amico Selva; soggiungeva che di quel giorno medesimo il padrone di casa e moglie e figli di Antonio avrebbe scacciato e fatto vendere la roba loro; aver perciò pensato di scrivere allo zio di cui conosceva il buon cuore, il quale non avrebbe certo abbandonato quegl'innocenti che erano suo sangue e che portavano il suo nome.

Il buon droghiere, che in fondo amava pur sempre il suo figlioccio, rimase come tramortito, voleva fare, voleva correre, e non sapeva nè che cosa, nè dove: aveva un dolore che gli faceva groppo alla gola e confusione alla mente. Si disse, maledicendosi, ch'egli, ch'egli solo era cagione di tanta sciagura. Perchè era egli stato così crudele verso il figlioccio? Suo figlioccio! Era lui che lo aveva tenuto a battesimo. E con questo fatto, e con aperta parola, non aveva egli preso impegno di vegliare continuo sulla sorte e sui giorni di quel ragazzo? E' l'aveva promesso a suo fratello, al padre del piccino: ed era così che aveva mantenuta la sua parola? La colpa d'Antonio che prima gli pareva una montagna ora non era più che un granellino di sabbia. Ricordava la buona indole del giovane e il rispetto che aveva sempre avuto per lui; ricordava il brutto modo con cui egli l'aveva accolto l'ultima volta che era venuto a supplicarlo. Ahimè! Quella era pure stata l'ultima volta ch'ei l'aveva visto. Chè non poteva allora tendergli le braccia e chiamarlo al suo seno nell'amplesso della riconciliazione? Capiva, ora che gli era tolto, tutto il piacere che avrebbe provato nel perdonare.

Ad un punto si alzò di scatto battendosi colla palma la fronte, e cercò tutto affannato colle mani tremanti la sua mazza e il suo cappello. Quando già fuori dell'uscio, tornò indietro, si riempì le tasche di denaro e corse precipitoso verso la dimora del nipote. Gli si era fatto presente che in quel giorno, forse in quel momento medesimo, la povera famigliuola di Antonio veniva cacciata di casa.

Il sopraggiungere del droghiere pose fine alla scena che aveva avuto luogo nell'abitazione del pittore. Per quanto fosse tenace la curiosità di quella gente, dovettero pure sfilare tutti, lasciando soli lo zio, la moglie e i figliuoli di Antonio e Giovanni Selva.

Il dolore dava alla Rosina le buone ispirazioni. Quando ebbe conosciuto che quel vecchiotto soprarrivato era lo zio di Antonio, e l'ebbe visto sì efficacemente soccorrer loro, ella, spingendosi innanzi i suoi bimbi, venne a cadergli ai piedi, tutto lagrimosa, e con quell'accento che parte dal cuore e giunge altresì commovente al cuore altrui, gli disse:

—Il Cielo la benedica, o signore… Grazie, non per me, ma per questi innocenti… Per loro la prego, per loro poverini; non per me che sono causa di tutto il male: perdono, perdono!

E la povera donna, smarrita, chinava il capo sino al suolo nel più umile atto di pentimento.

Quei due forti dolori furono di botto simpatici l'uno all'altro. Lo zio ebbe dimenticato in un attimo tutte le sue ire passate: non vide più che una povera donna amata dal caro e rimpianto nipote, e che gli veniva innanzi come parte di lui. Per impulso interno sollevò la misera, la prese tra le sue braccia e la strinse al seno. Piansero amendue in quell'amplesso. Ella prese i suoi bimbi e li serrò alle gambe del vecchio intenerito, e il più piccino gli pose in collo. Quando Giovanni vide il buon droghiere seduto con sulle ginocchia i figli d'Antonio che lo chiamavano zio e lì presso la Rosina che gli baciava la mano, capì che era tempo d'andarsene anche per lui, e corse via commosso e con tanta sollecitudine, che pareva s'affrettasse a portare a qualcheduno la lieta novella.

Poche ore dopo tutta la famiglia del pittore era stabilita in casa dello zio. La Rosina da quel giorno cominciò ad essere una tutt'altra donna. Non c'è nulla che sublimi maggiormente l'animo umano che un forte dolore fortemente sentito. Ogni volgarità, ogni meschinità, quando in fondo la tempra sia buona, sparisce dall'animo colpito da suprema sventura. Esso si rialza, ed estrinseca a così dire, tutte le sue interne virtù affine di esser pari al suo stato, perocchè nulla v'abbia di più osservabile al mondo dell'uomo che soffre.

Oltrechè Rosina s'accusava pure d'essere cagione di tanta sciagura, ricordava ancor essa quell'ultima scena che aveva mandato fuor di sè Antonio, e, che troppo aveva ella ragione di temere fosse stata l'ultima spinta ai disperati propositi del marito. E questa le chiamava in mente tutte le scene precedenti; e questo suo ultimo gran torto le rifaceva vivi innanzi tutti gli altri suoi, ed essa capiva ad un tratto come la sua condotta e il carattere e le maniere fossero state riprensibili e disgraziate. Così in lei pure l'amore pel marito, ora perduto, veniva manifestandosi tutto e maggiore d'assai di quello che avrebbe creduto ella medesima: e quest'amore concentrandosi ne' suoi bambini che le erano già sì cari, ne conseguiva che in essa, verso lo zio che li aveva accolti e che facea loro godere agi cui non avevano goduto mai, erano nate ed una riconoscenza sterminata ed un'osservanza affettuosa che la facevano riguardosissima a non dispiacergli per nissun modo. Di che ne conseguiva eziandio che ad ogni giorno passasse, il droghiere, il quale era scevro da tanto tempo della vita di famiglia, cui pure aveva così cara, ponesse maggior affezione a quella donna e a quei ragazzi, e si lodasse sempre più di averli seco.

Ah! s'egli avesse potuto ancora avere il caro Antonio!

XXVIII.

In alto d'una piccola collina, verso la frontiera, c'è un piccolo villaggio, il quale, all'epoca della nostra storia, possedeva ancora una posta di cavalli. Nessuna linea invaditrice di strade ferrate s'era spinta tuttavia sin là a togliere ai poveri quadrupedi il privilegio di sobbalzare i pochi viaggiatori che di quando in quando passano anche adesso per quella strada, per lo più affatto deserta.

Appena superata la salita s'entra nel villaggio, e lì a capo c'è subito un gran casone bianco, con una spianatella dinanzi da cui si domina maravigliosamente la strada che si contorce al disotto sulla falda del colle e la pianura che si stende a' suoi piedi.

Sopra il portone della casa un'insegna di latta verniciata che strideva al vento continuo che soffia dai monti, portava scritta, sotto un corno da caccia dipinto, la leggenda: Albergo della Posta.

La strada postale traversa per lo lungo la via maestra del villaggio, e poi comincia, a poca distanza da questo, un'altra salita che si caccia in una gola delle montagne, le quali si drizzano sublimi e solenni a limitar molto presso l'orizzonte.

Tempo addietro quel passaggio era frequentatissimo, e le scuderie della locanda albergavano buon numero di cavalli a cui l'accorrenza di viaggiatori non lasciava troppo lungo il riposo, e il locandiere non aveva grand'agio da stare, com'era al momento di cui vi parlo, sulla soglia della sua casa, le mani dietro le reni, il berretto negli occhi, l'aria di cattivo umore, sbadigliando inoperoso.

E sì che lo avrebbe dovuto rallegrare l'inopinato arrivo di due viaggiatori che si trovavano appunto nello stanze superiori; un signore ed una signora, de' quali il primo aveva detto si sarebbero fermati per riposarsi un'ora. Ma che valeva ci fossero codestoro, se avevano rifiutato di prendere la menoma refezione, defraudando così il povero locandiere dell'onesto guadagno ch'egli aveva già immaginato di fare sulle loro borse?

Vi dirò subito che quei due viaggiatori erano Orsacchio e sua moglie. Sapete già come e perchè essi viaggiassero sempre per le strade meno frequentate e con che sollecitudine il marito volesse ora portarsi colla povera Gina fuori Stato. Non vi stupirete quindi nel trovarli in questo rimoto villaggio, fermi per un'ora soltanto, affine di riposarsi, come ne avevano assoluto bisogno, e riprendere poi la loro rapida corsa, che meglio sarebbe chiamar fuga addirittura.

Nella scuderia c'erano giusto due buscalfane, alte, magre, sfiancate, che mangiavano la profenda con dente affamato ed aria triste per aver l'onore di fare di lì a poco una trottata sino all'altra posta a benefizio degli inaspettati viaggiatori.

Gina, poichè la era stata spiccata da quel luogo a cui aveva posto affezione, pareva scema del tutto e si lasciava regolare come un bambino, senza volontà, senza forza, senza parola. Il marito, facendola entrare in una delle camere di quella locanda, le aveva detto:—Sedete; ed ella si era seduta. Quando egli fosse venuto a comandarle:—Sorgete e seguitemi; ed ella ciò avrebbe fatto colla stessa indifferenza. Ogni sensitività, come ogni intelligenza, pareva non che smussata, distrutta in lei.

Tre quarti d'ora dopo l'arrivo d'Orsacchio e di sua moglie, l'albergatore, che v'ho detto star sulla porta inoperoso ed ingrognato, ebbe ragione di stupirsi molto e di rallegrarsi alcun poco, vedendo nella pianura che si distendeva sotto quella collina, sulla strada che conduceva al villaggio, un'altra carrozza che veniva al trotto serrato di due cavalli cui la sferza del postiglione sollecitava, proprio come se colla loro rapidità avessero da guadagnargli una buona promessa mancia.

Il fatto era così straordinario che il buon ostiere si fregò gli occhi due o tre volte, prima di credere alla loro testimonianza. Era da anni ed anni che non aveva più visto il miracolo, che due carrozze in un giorno passassero per quel villaggio.

La carrozza intanto aveva lasciato il trotto pel cominciare della salita, che a giri tortuosi menava alla spianatella dell'albergo. L'oste, il quale figgeva su quel legno l'occhio che uccel grifagno figge sulla preda, vide la testa d'un uomo farsi fuori dello sportello, come per guardare qual fosse la cagione di quella nuova lentezza, poi volgersi al postiglione, e certo invitarlo a più frettoloso andare, poichè quest'ultimo con una mezza dozzina di buone sferzate obbligava le povere bestie, che apparivano stanchissime, a sollecitare il passo su per l'erta.

Appena fermo il calesse innanzi la porta dell'albergo, quell'uomo, il cui capo l'oste aveva visto porgersi in fuori dello sportello, saltò giù. Era solo. Giovane, pallidissimo, le chiome arruffate, le sembianze turbate, gli occhi inquieti ed incavati come chi da qualche tempo non riposa ed è in continuo disagio o per fatica fisica o per passione morale o per l'una e l'altra insieme.

E' si rivolse tosto all'oste, il quale gli era mosso all'incontro e l'accoglieva con profondi inchini:

—Un boccon di colazione, disse, e presto. Fra mezz'ora al più voglio ripartire.

—Sì, signore, come comanda: rispose il locandiere raddoppiando i suoi inchini.

Il viaggiatore s'avviava per entrar nella casa; intanto il postiglione, sceso di sella, erasi sollecitato a staccare i cavalli ed aiutato da un mozzo venuto fuori al rumor della carrozza, in un attimo s'era fornita la bisogna. Il postiglione, col suo cappello di cuoio in mano, arrestò il giovane viaggiatore e gli chiese la mancia.

Il nuovo arrivato trasse di tasca il portamonete e vi prese dentro del denaro; ma in quell'atto un'idea parve sovraccoglierlo.

—Voi volete tornare indietro subito? dimandò al postiglione.

—Signor sì: questi rispose.

Il viaggiatore si volse all'oste.

—Ci avete bene dei cavalli qui?

—Ne abbiamo due, cominciò a risponder l'oste; ma il postiglione che ebbe tosto compreso tutto il pensiero del viaggiatore interruppe:

—Tanto e tanto con queste mie povere bestie non si potrebbe far più un'altra posta. Appena se le avranno abbastanza di forza da tornarsene a casa.

Il giovane non soggiunse più parola, diede la mancia al postiglione ed entrò nell'albergo.

Sedette ad una tavola vicino alla finestra, a pian terreno; e mentre stava aspettando, appoggiati i gomiti al desco e il mento nella palma delle mani, si diede a guardar giù nel piano dove serpeggiava la strada per cui egli era venuto. Ma parve che tosto un interno forte pensiero sorgesse a dominarlo e lo distogliesse dalle cose circonvicine, per portare la mente chi sa in quale regione, poichè il suo sguardo si fece fiso e senza luce come quello d'occhio che non vede, la fronte gli si annuvolò e le guancie gli si contrassero come se fosse assorto in una profonda e dolorosa meditazione.

Ne lo riscosse l'oste, il quale venne a mettergli innanzi l'asciolvere. Il giovane viaggiatore accennò volersi dar tutto a codesta occupazione; si rassettò di meglio al desco, e volse un'ultima sguardata a quella vista di paese che gli appariva dalla finestra. Parve ci vedesse alcun che di spaventoso, poichè diede in un sussulto e le sue sembianze si turbarono forte. Si mosse di subito come dietro impeto irriflessivo, per levarsi e partirne; ma si trattenne, facendo forza a sè stesso, guardò con occhio irrequieto l'oste, e poi di nuovo la campagna, e sforzandosi a parer calmo, disse:

—Sarà bene che incominciate a far attaccare i cavalli alla mia carrozza.

L'oste si grattò dietro l'orecchia tutto impacciato.

—Signore, balbettò egli, ci ha bene, come ho detto, due cavalli, ma il guaio è che….

—Che cosa? interruppe vivamente il giovane, di cui lo sguardo pareva non potersi più spiccare da ciò che stava mirando nella sottoposta pianura.

—Che sono già allogati ad un viaggiatore arrivato prima di lei, e che sta per partire a momenti.

Il giovane gittò là bruscamente la salvietta e si levò di scatto, tutto turbato.

—E non ce ne sono altri?

—Signor no.

Il forastiero guardò nuovamente giù nella campagna, poi pigliando l'oste pel braccio e traendolo seco nel cortile, soggiunse:

—Conviene assolutamente ch'io parta subito. Quel signore non può certo aver tanta fretta quanta ho io. Qui ci sono due napoleoni d'oro per voi, se fra due minuti io posso partire.

E senza aspettare fece scorrere nella mano del locandiere le promesse monete. Siffatto argomento persuase affatto quel brav'uomo che si pose egli stesso con molto zelo ad aiutare lo stalliere nell'opera dell'allestire i cavalli.

Il viaggiatore uscì sulla spianata, e tornò a guardar giù con ansietà. Due carabinieri a cavallo erano giunti appiè della collina e cominciavano a salir lentamente su per l'erta che menava al villaggio.

Questo viaggiatore ho io bisogno di dirvi chi fosse? Era Gustavo Pannini perseguitato già dal rimorso e dalla paura dell'umana giustizia. Partitosi, come vi ho narrato, con un treno di ferrovia, non aveva tardato a pentirsi d'aver scelto questo mezzo di fuga: troppe erano le persone che ci s'incontravano. Alla prima stazione abbandonò quella strada e quella direzione, e si diede a studiare come farla, camminando solo traverso la campagna. Stabilì, nel primo luogo in cui ciò gli fosse possibile, di procurarsi una carrozza e di affrettarsi con essa, per istrade meno usate e più fuori mano, verso la frontiera.

Giunse appunto in una piccola città in cui gli venne fatto di eseguire il suo disegno. Comprò un paio di pistole, risoluto in ogni caso, prima ad uccidersi che cascar vivo nelle mani della giustizia; si procurò un calesse da viaggio, e via con tutta la rapidità che gli concedevano le strade e i mezzi di trasporto: ed ecco di qual guisa era arrivato quel mattino al villaggio, dove, spinto da ragioni presso che le medesime, colla medesima intenzione era già Orsacchio.

Questi stava appunto per chiamar l'oste ed ordinargli attaccasse i cavalli, quando udito lo scalpitar di questi nel cortile, si fece alla finestra e vistili usciti dalla scuderia coi fornimenti si persuase che si allestisse la carrozza di lui alla partenza. Fece quindi levare la povera Gina, e con essa discese le scale e s'avviò fuori del portone sulla spianata, dove in vero una carrozza da viaggio stava bella e pronta a partire.

Ma colà giunto Orsacchio s'avvide che la carrozza non era la sua, e che un altro viaggiatore sollecitava gli stallieri che finivano di attaccare i cavalli. Si volse all'oste aggrottando in modo molto minaccioso le sopracciglia.

—Non è dunque per me che si allestiscono questi cavalli.

L'albergatore si inchinò molto impacciato.

—Signor no: rispose.

Orsacchio proruppe con violenza:

—E per me, quando si vuole aspettare? L'ora che avevo detta è passata. Fuori altri cavalli e si attacchino subito al mio legno.

Il locandiere si fece piccin piccino, si curvò nelle spalle con aria desolata e confessò che di cavalli non ce n'erano altri che quelli.

Orsacchio dalla collera divenne rosso come un tacchino. S'aggiunse che in quella il suo occhio corse a caso giù per la scesa della strada e ci vide i due carabinieri che ne avevano già superato un buon terzo. Anche a lui premeva sfuggirli, ancor egli aveva buone ragioni per credere cercassero di lui; lasciò Gina là dove si trovava e corse da Gustavo che stava appunto per salire nella carrozza.

—Signore, questi cavalli erano promessi a me: diss'egli bruscamente, arrestandolo pel braccio; ed io ho fretta di partire.

Gustavo fece a sciogliersi dalla stretta d'Orsacchio, ma nol potè.

—Anch'io ho fretta, rispos'egli. Mi lasci andare… Che modo è codesto?

Orsacchio colla coda dell'occhio vedeva i carabinieri avanzarsi sempre più.

—Le dico che non sarà lei a partire, ma io…

Anche Gustavo osservava con ansia l'avvicinarsi sempre più degli agenti della forza pubblica.

—Signor no: interruppe egli col tono di uomo risoluto a tutto. Mi lasci, o guai per lei!

E con uno strappo si liberò dalle mani di Orsacchio e saltò nel legno; ma Orsacchio lo prese ai panni.

—Mi lasci, urlò di nuovo Gustavo che vedeva i carabinieri sempre più presso.

—No, rispondeva con pari accanimento Orsacchio spinto dalla ragione medesima: no per Dio!

—Avanti! gridò Pannini al postiglione, il quale già in sella, la frusta in mano, stava rivolto a veder quella scena: avanti… e di galoppo.

Il postiglione accennò colla frusta ad Orsacchio che era mezzo nella carrozza colla sua persona.

—Vuole ch'io schiacci questo signore?

E Gustavo, quasi fuor di sè, lottando sempre a respingere Orsacchio:

—Due napoleoni se tu parti tosto di galoppo.

—Quattro, gridò il marito di Gina furibondo, se tu scendi da cavallo.

Il postiglione pareva infradue senza sapere a quale obbedire.

Gustavo guardò nuovamente giù della scesa; il suo aspetto si sconvolse vieppiù; gli occhi balenarono; trasse di tasca le sue pistole e le appuntò al petto d'Orsacchio.

—Si ritragga o sparo.

Orsacchio, invece d'arretrarsi, tentò abbrancare le canne delle pistole. Un colpo partì: vi rispose un grido soffocato. Gustavo fu libero; sorse in piedi, s'abbrancò al piccolo schienale del seggiolo del cocchiere e puntando la pistola al postiglione, gli gridò:

—A te ora… di galoppo o ti spacco il cranio.

Orsacchio era caduto sanguinoso; a quello sparo, a quella vista, Gina si riscuoteva tutta, mandava un urlo e si rappiattava spaventata contro la parete della casa. L'oste sul ciglio della spianata chiamava colla voce e coll'agitar delle braccia i carabinieri, i quali all'udire quel colpo avevano alzato la testa e stavano guardando qua e là per vedere che fosse. La carrozza partiva di gran galoppo.

Pochi istanti dopo, i carabinieri, i quali ai cenni dell'oste avevano sollecitato il passo delle loro cavalcature, giungevano sul luogo. Orsacchio era morto sul colpo. Gina dalla vista di quel sangue era mandata in una di quelle crisi che l'assalivano di quando in quando. I carabinieri, udito sommariamente il fatto, cacciarono gli speroni ne' fianchi ai cavalli, e via di gran corsa dietro la carrozza di Gustavo, la quale era già sparita al fine della strada che attraversava il villaggio.

XXIX.

Già erano parecchi dì che sopra il volto severo e patito del capitano Biale non appariva più cosa che pur di lontano somigliasse a un sorriso; come poi la povera Lisa fosse dal suo dolore distrutta ve lo lascio immaginare, essendo cosa più facile figurarsi che dire. Pure un giorno, il capitano venne innanzi alla moglie di Gustavo con una cera tanto più disfatta del solito, che essa tutta si scosse pel subito timore d'ogni peggior male: mandò un grido, si gettò perdutamente sopra il seno del padre, affissandone ansiosa le sembianze, e non osando o non avendo tampoco la forza di formulare le varie affannose interrogazioni che si accalcavano sulle labbra, tutte le espresse in una sola parola che parve le erompesse proprio dal fondo dell'anima:

—Gustavo?

Il padre la strinse molto affettuosamente al petto e reclinò su di lei la faccia commossa:

—Vive: rispose egli con un sospiro che pareva rimpiangesse il fatto; è ferito, ma vive.

—È ferito? esclamò con profondo sgomento l'infelice.

E il padre con amarezza:

—Una ferita leggiera… Partirò quest'oggi stesso per andarlo a vedere dove si trova.

Lisa si sciolse dall'amplesso, e disse ratto:

—Anch'io… Partiremo insieme… Non negarmelo!… Lo voglio.

Il capitano esitò un momento: il suo primo pensiero fu quello di contrastare, ma poi tosto, ravvisatosi, disse:

—E sia.

Partirono. Gustavo inseguito e raggiunto dai carabinieri aveva tentato uccidersi sparandosi la pistola contro il petto; ma la mano tremò in quel punto allo sciagurato, e la palla non fece che sfiorargli il torace. Era stato preso e condotto alle carceri di ***, e colà arrivarono sua moglie e il suocero, muniti dell'opportuna licenza per poterlo vedere.

L'elegante Pannini era cambiato in guisa da non poterlo riconoscere più. Nel volto dimagrato e impallidito, nell'occhio irrequieto, affondato entro la livida occhiaia, nelle labbra scolorate, tremanti quasi di continuo, apparivano tutti i tormenti incessanti della sua anima corrosa dal rimorso. Del non aver saputo uccidersi dolevasi seco stesso come della maggiore sua sciagura. Pensate qual fosse il suo animo al momento di comparire innanzi a Lisa ed al capitano! Un istante pensò di rifiutarvisi; ma poi non n'ebbe il cuore. Un tremito maggiore l'assalse: ed egli, che per debolezza della ferita recatasi poteva a stento camminare, entrò nella stanza ove l'attendevano i suoi, più pallido e più turbato che mai, la fronte per vergogna madida di sudore, il passo vacillante, gli occhi fitti alla terra, senza forza, senza voce, quasi senza respiro.

Ma benchè gli occhi tenesse bassi, pure travide di presente la fronte severa del suocero che stava dritto colla sua alta statura all'altra estremità della stanza in molto nobile e dignitoso contegno, e quella vista lo atterrò anche più; gli parve l'aspetto stesso della virtù e dell'onestà, cui egli aveva abbandonate con tanto infame trascorso; avrebbe voluto sprofondare. Lisa stette un poco, quasi esitante, quasi non riconoscesse subito in quella larva che le veniva dinanzi l'adorato marito; poi l'impeto dell'affetto successe sollecito e veemente; si gittò al collo di Gustavo e pianse lagrime dirotte, e parlò incomposte parole di traboccante passione.

Anch'egli si stemperò in lagrime così abbracciato da sua moglie; quindi, come non potendo regger più in piedi, si lasciò calar ginocchioni per terra, e tendendo le due braccia verso il capitano, che punto non si era mosso, esclamò con voce arrangolata:

—Perdono! perdono!

Biale s'avanzò lentamente verso il colpevole, muto, severo, solenne. Il suo sguardo piombava inesorabile e grave sopra il reo; e questi curvava il capo sotto di esso e si rannicchiava al suolo, da toccar quasi colla fronte lo spazzo.

—Sciagurato! disse il capitano, quando gli fu presso, fermandoglisi innanzi. Che hai tu fatto dell'onor nostro?

—Perdono! perdono! ripetè balbettando il miserabile.

—Perdono?… Sapete voi che l'onore era la sola nostra ricchezza e tutta la mia superbia? E doveva io allevarvi e farvi due volte mio figlio perchè voi ne lo rapiste? Meno ingrato sareste, meno infame, se mi aveste ucciso. In nome di vostro padre, onoratissimo uomo, vi rinnego e vi maledico.

Lisa gittò un grido e fece a cingere colle sue braccia il capo del marito, come per difenderlo dalla maledizione paterna; ma Gustavo ne la rimosse, si alzò, le lagrime aveva rasciutte, il volto più bianco, le mascelle contratte, e una nuova risoluzione appariva in lui. Si volse allo suocero e parlò con voce ferma e pacata.

—Fui traviato. Sono un infame; non ho discolpa, lo so. Non merito il vostro perdono, non lo chiedo più nemmanco. Solo un'ultima grazia imploro, e conviene che la dimandi a voi solo, che nessun altro orecchio mi possa udire, nemmeno quello della mia carissima Lisa.

Biale stette un momento affisando il genero con quel suo occhio franco e penetrativo: poi accennò col capo d'acconsentire. Il custode che era presente al colloquio contrastò allegando i regolamenti; ma una buona mancia fece tacere i suoi scrupoli. Si ritrassero amendue da una parte, e Gustavo cominciò tosto a favellare sommesso. Lisa, come tramortita, guardava con occhio senza luce, quasi non si rendesse ben conto delle condizioni in cui si trovava, nè di quanto le succedeva dintorno.

—Signore, disse Gustavo non osando più dar titolo di padre al capitano, bisogna che io mi salvi dall'ignominia d'un pubblico giudizio, d'una pubblica condanna. Voglio morire. M'è fallita la mano una volta, ma la seconda non mi fallirà più. Se voi avete ancora alcuna pietà per me; se vi cale far salvo dall'estrema vergogna il mio nome; se un poco sopravvive in voi dell'affetto che mi avete per tanto tempo e con tanta generosità portato, usatemi la carità di procurarmi modo da togliermi a questa vita, a quest'onta.

Biale rimase di nuovo un poco guardando fiso il genero senza parlare.

—Togliervi alla vita, diss'egli poi, fuggir l'espiazione dopo la colpa! Non sapete voi che è viltà anche quella?

Pannini abbassò il capo e mormorò con accento pieno di terrore:

—L'espiazione!… Il patibolo, forse!… La gogna… la folla curiosa e crudele… il mio nome appiccato coll'ignominiosa sentenza ai canti delle vie… Oh no, no… non lasciatemi a questo troppo supplizio.

E il capitano con accento profondo:

—Voi non avreste il coraggio di affrontare la vostra condanna, pentito, rassegnato, offrendovi esempio agli uomini, implorando perdono dalla società e da Dio?

—No, no… E con voce ancora più bassa soggiunse: Sarei vile.

—La vostra mano e il cuore son fiacchi; già una volta fallirono alla vostra volontà. Non avrete neppure il coraggio del suicida.

Gustavo levò alquanto il capo e rispose fermamente:

—L'avrò!

Il capitano esitò ancora un momento, poi curvandosi all'orecchio del genero gli disse ratto:

—Va bene.

Poi tuttedue s'avvicinarono alla povera Lisa.

—È tempo di partire, le disse il padre.

Essa lo guardò attonita, come se non avesse ben capito.

—Salutate vostra moglie, Gustavo: rispose Biale.

Pannini s'accostò a Lisa e le pigliò una mano. Allora la donna si riscosse tutta, e come se una segreta voce la preavvisasse di quanto avea da succedere, la si buttò al collo del marito, sclamando per disperata:

—Oh, non mi dividerò più da te! Oh, non voglio più lasciarti!

Povera donna! Ella amava: per lei non esisteva delitto, per lei non c'era argomento che valesse contro l'amor suo. Il padre le si fece dappresso, accennando volerla tirar seco per avviarsi.

—Un momento, ella esclamò; ancora un momento.

E tornando a baciare fra le lagrime il marito:—Quando ti rivedrò, Gustavo?

—Fra pochi dì, s'affretto a dire il capitano. Vieni, Lisa; ora è forza partire.

E così Gustavo vide allontanarsi da lui per l'ultima volta quella donna cui amava pur tanto, l'infelice, colla quale avrebbe avuta esistenza sì lieta se non lo avesse morso al cuore il funesto demone dell'oro.

Il domani Biale ottenne di tornare al carcere, ma ci fu solo, e collo stesso metodo del giorno precedente, cioè con una vistosa mancia, riuscì a far scorrere nella mano del genero un piccolo involto. Quando tornò a casa aveva la fronte più annuvolata e lo sguardo più scuro che par l'innanzi. A Lisa disse che per parecchi giorni era impossibile rivedere il prigioniero. Ella si tacque, ma il cuore aveva pieno di spaventosi presentimenti. Il giorno di poi la infelice non osava neppure pronunciare il nome del marito innanzi al padre taciturno e più cupo che non fosse stato mai; ma il suo sguardo timoroso era una continua e sollecita ed ansiosa interrogazione.

Il capitano uscì, ma non istette guari a ritornare. Era sì terribilmente turbato che Lisa comprese di botto una suprema sciagura essere avvenuta; venne innanzi al padre bianca più che cadavere, le labbra illividite, e senza potere articolar parola fissò con ansia il volto del capitano, ponendogli la destra sopra il braccio.

—Gustavo, disse Biale solennemente, si è sottratto alla giustizia degli uomini per sottomettersi direttamente a quella di Dio.

Lisa non comprese. Continuò a star lì a quel modo, fissa, immobile: solamente le sue labbra tremanti si agitarono come per parlare, ma senza pur mandare un suono. Il padre aspettò un istante; poi, visto che la tremenda luce del vero pareva non balenare nemmanco alla mente intorpidita della infelice, soggiunse:

—Gustavo è morto…

La donna gettò un grido straziante, e cadde riversa, come fulminata.

XXX.

Giovanni Selva tutti i giorni andava in casa dello zio d'Antonio a vedere la moglie e i figli di codestui. Era graditissimo a tutti, e il droghiere si compiaceva parlare con lui del perduto nipote. Giovanni, trascorso un po' di tempo, s'appigliò ad un modo singolarissimo per consolare lo zio e la moglie del pittore scomparso, e fu quello di porre in dubbio, prima apertamente, poi non espresse parole la morte d'Antonio, e far nascere in loro la speranza che un giorno o l'altro l'avrebbero potuto rivedere vivo e sano, in questo mondo. Infatti la morte di lui non era menomamente provata; di cadavere nè in Po nè altrove non se n'era trovato: non poteva egli invece che uccidersi essere andato in lontano paese?

In quella, ecco diffondersi la voce del fatto di Pannini e dell'uccisione d'Orsacchio in quel rimoto villaggio. Selva pensò tosto alla povera Gina che sarebbe stata là sola senza sapersi trarre d'impaccio e senza avere alcuno che si curasse di lei: e tenne a questo proposito una lunga conferenza con una persona che da parecchi giorni egli teneva accuratamente nascosta nelle sue camere.

Non farò il torto alla vostra sagacia, cari lettori, di dirvi che questa persona era Antonio Vanardi, non morto altrimenti, ma d'accordo coll'amico Giovanni decisosi a scomparire per un poco alla vista del mondo, affine di eccitare in favor suo quella carità della gente che sempre si commuove quando non è più a tempo.

In seguito a questa conferenza fu stabilito che i due amici partirebbero subito alla volta di quel villaggio, dove era succeduta la catastrofe, per pigliar Gina quando la ci fosse ancora, o scoprire almeno che fosse divenuta e dove andata; e perchè in questa fatta impresa una donna è sempre più acconcia, deliberarono condur seco la moglie di Giovanni, la quale, buona e pietosa com'era, appena udito il fatto, s'affrettò a consentire di gran cuore.

Antonio voleva prima riabbracciare la moglie, i bambini e lo zio; ma Giovanni nol permise, parendogli che meglio fosse il tardare anche pochi giorni a restituirsi loro, che, restituito appena, ripartirne subito per altri interessi. Però, a tranquillare vieppiù i parenti del pittore, Selva fu da loro e disse, avere scoperto finalmente dove Antonio s'era ritirato coll'animo di non ritornare mai più se lo zio non gli perdonava; partir tosto per raggiungerlo e rimenarlo nelle braccia de' suoi cari, fra pochi giorni l'aspettassero pure, ch'egli giurava l'avrebbe dato ai loro amplessi.

Fu immensa la gioia nel droghiere e in Rosina. Lo zio volle promettesse da sua parte ad Antonio ogni maggior cosa; non che perdono gli avrebbe concesso assoluta padronanza in sua casa; venisse solamente, e non più un zio ed un padrino avrebbe trovato in lui, ma un amorosissimo padre.

Gina da quel nuovo colpo della sorte aveva ricevuta una forte scossa, che invece di nuocere aveva piuttosto giovato alla sua ragione. Le sorse di botto il pensiero che ella era libera finalmente di quella tirannia feroce che l'opprimeva, di quella vendetta implacabile e crudele che le affannava ogni istante della vita. Un tale rimutamento si fece in lei, che mentre agli occhi della gente parve stupidita dalla capitatale sciagura, nel suo interno avveniva un travaglio per cui si ricostruiva, a così dire, la sua ragione. Che cosa le toccava di fare? Era sola, era libera, senza affetti al mondo, senza legami di sorta. Dove andare? Non aveva luogo a cui niente l'avvincesse più. Ricordò con alcun aggradimento la quiete dell'ultimo suo asilo, e le parve quello fosse il solo luogo in cui potrebbe vivere. Decise recarsi colà a passarvi quella vita che Iddio le avrebbe ancora voluto concedere.

Selva, sua moglie e Vanardi trovarono ancora Gina a quel villaggio, e la ricondussero tutti insieme alla villa di Marone.

Ed ora in poche parole mi sbrigherò di quanto ancora mi rimane a dirvi.

Vanardi ha rinunziato all'arte e fa il droghiere. Il suo padrino è felicissimo, e Rosina è diventata molto migliore. Marone continua a fare il torcicollo ed ha venduto la sua villa alla vedova d'Orsacchio, la quale prese con sè come dama di compagnia Anna, la nipote dello speziale, e conserva come coltivatori Matteo e Teresa. Questi non parlano mai di loro figlio Tommaso, ma non vi dico che non ci pensino, e quando ci pensano sospirano dolorosamente. Il cavaliere Tommaso Salicotto fa sempre il filantropo e guadagna denari: è deputato, sarà ministro. Vi pare felice? Solo, senz'affetti, finirà nella vecchiaia del celibe egoista, a cui nessuno s'interessa, e che anima al mondo non ama.

E in questa condizione trascina i suoi dì lo speziale Agapito, il quale è cascato sotto le unghie di una governante quasi giovane, mezzo belloccia, che lo tiranneggia e lo ruba a man salva. Egli trova ogni suo spasso e consolazione nel dir male di tutti e nel fare degli stupidi giuochi di parole.

La moglie di Gustavo è sopravissuta. Suo padre l'ha menata seco lontana da Torino. Poveretti! Perchè in questo mondo gl'innocenti hanno sì spesso da espiare le colpe altrui?

FINE.