NUOVI VERSI
NUOVI VERSI
DI
VITTORIO BETTELONI
CON PREFAZIONE DI GIOSUÈ CARDUCCI
BOLOGNA NICOLA ZANICHELLI — MDCCCLXXX
L'EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI ESERCITERÀ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGIINDICE
PREFAZIONE
Chi si ricorda piú della poesia italiana di dieci o undici anni sono? o, meglio, chi si ricorda piú dell'Italia d'avanti il 1870? Il nostro secolo corre — corra anche la frase — a rotta di collo; e poi fra i noi d'oggi e i noi di ieri caddero valanghe da fermare e far ritorcere ben altri fiumi che delle rime e dei versi. I bimbi che nacquero in quell'anno non han per anche pubblicato, ch'io sappia, le loro disillusioni in elzevir; ma a quell'anno noi pensiamo con un sentimento faticoso di lontananza, con in cuore la esclamazione manzoniana, tanto secol vi corse sopra!
E pure vivevamo anche allora. Che ardore anzi di vita fra il 67 e il 70! Forti eran essi e combattean co' forti. Dopo Mentana, l'assettamento finale della nazione con Roma capitale pareva a tutti, confessiamolo, prorogato. In aspettando, quelli che volevano andar piano o non volevano andare del tutto pensavano fosse tempo di raccogliersi, di misurare la via fatta e da fare, e intanto riposarsi un poco pigliando un rinfresco di letteratura. — Oh un po' di letteratura! — parevano raccomandarsi: — l'Italia è stufa di tanta politica: rivuole della letteratura, magari delle accademie. — Quelli che volevano andar forte — Che riposo — rispondevano — o che rinfresco? Volete della letteratura? Combatteremo anche in versi, anche in prosa, a vostra scelta. — E si ricominciò da una parte, dopo tanti anni, a discorrere di cose letterarie, con certa gravità spolverata a nuovo per l'occasione, ma sotto quell'ombra con chiacchiere e vogliuzze come di donnine incinte. Le appendici e le rassegne critiche parevano diventate altrettante cliniche d'ostetricia. Il teatro italiano è anche nato o è da nascere? A che punto è il concepimento del romanzo italiano? Il pondo ascoso che balza in quella bella rotondità alpigiana sarebbe per avventura la prosa italiana moderna? E alla poesia moderna italiana chi scioglierà il grembo doloroso, un prete, un avvocato o un professore? Ma l'embrione almeno di una lingua viva c'è o non c'è in Italia?
Per l'appunto: tanto per non venir meno alle gloriose tradizioni, si ricominciò proprio da capo; si ricominciò dalla lingua. Veramente non si ricominciò: quando mai l'Italia, da che Dante le tagliò lo scilinguagnolo col Vulgare Eloquio, ha smesso di guardarsi la lingua? Ora avvenne che una bella mattina di maggio la nazione si svegliò tutta spaventata, che non aveva piú lingua. L'onorevole Broglio, lombardo, pensò provvedere commettendo all'onorevole Giorgini, lucchese, il dizionario dell'uso fiorentino. Io non discuto intenzioni e competenze: noto singolarità di casi: tanto piú che le erbaiole di Firenze pareano aver soggezione dei nuovi Teofrasti. Erano tempi difficili: l'impero napoleonico faceva le crepe da tutti i lati, la Germania fiottava, il socialismo bolliva: pure l'Italia si divertí a scoprire che Benedetto Varchi e il cavalier Salviati non furono, almeno in teorica, fiorentini a bastanza: il ribobolo trionfò per piú mesi fra il dirugginío del macinato: lo stornello sbirichinò fra l'inchiesta su la regía dei tabacchi e il processo Lobbia: quei di Buffalora venivano a gargarizzare il loro iú nelle acque del Mugnone: Calandrino non ebbe mai come in quegli anni il culto che a parer mio gli è dovuto dalle maggioranze, almeno quando s'infatuano per le questioni inutili. Intanto il Manzoni, dopo messo il campo a rumore con la lingua e con la prosa, tornava a fare de' versi. Già, de' versi; ma in latino, e alle anatre, alle anatre dei giardini di Milano:
Fortunatæ anates, quibus aether ridet apertus
Liberaque in lato margine stagna patent!
Libertà d'acqua stagnante nella largura d'un giardino pubblico bene spallierato e ben pettinato: gli auspicii per la lingua e la prosa moderna erano rassicuranti.
Pure, l'anarchia e la ribellione che l'onorevole Menabrea giunse a contenere in piazza, l'onorevole Broglio non dico la sguinzagliasse ma certo non poté infrenarla nei libri. Della prosa non voglio parlare. Ma il Prati, che in quegli anni s'era messo a comporre anch'egli versi latini, die' fuori anche un libro dell'Eneide tradotto con tanta foga (per dispetto, credo, ai fiorentinismi lombardi) di latinismi, che né meno basterebbe a ripararli
Nel fluente suo vel la dia Lacena
di Vincenzo Monti. E pubblicò l' Armando, ove latinismi e neologismi e motti e riboboli disfrenava di pari, mescolando epopea e commedia, romanzo e lirica: l' Armando, nel quale fra le retoriche del dubbio d'Amleto con l'annesso teschio, fra le declamazioni di Fausto e li sghignazzamenti di Mefistofele in pasticcio di Strasburgo, fra le pose di Caino e di Manfredo con la fusciacca al vento — i tre ponti dell'asino della scuola romantica scettica —, scorrevano rivi di poesia tali che l'Italia non ne aveva da piú anni veduto scendere di piú limpidi e freschi dal suo Parnaso. Il qual Parnaso fu troppo tosato di piante dai falsi classici sí che possa oramai avere acque correnti, se bene è vero che i romantici ci hanno scavato qua e là delle cisterne per la conserva del sentimento e dell' humour. Il canto d'Igea nella seconda parte dell' Armando è ciò che di piú sanamente classico ha prodotto la poesia del tempo nostro in Italia. Ludovico Tieck, il piú stravagante e il piú logico dei romantici di Germania, dopo i grotteschi del Kaiser Octavianus e della Genoveva, finiva con rimettere in scena una tragedia di Sofocle. Giovanni Prati, il solo veramente e riccamente poeta della seconda generazione dei romantici in Italia, coronava l'ultima opera di quella scuola con una ode che somiglia a un coro di Sofocle.
Di passaggio: io mi ostino a servirmi di queste parole, romantici e romanticismo, classici e classicismo, se bene un falso buon gusto tutto italiano vorrebbe non si pronunziassero piú: come se, omettendo le parole, le cose non restassero, come se avesser ragione i bambini, quando, tappandosi gli occhi, credono sfuggir cosí alla vista o alla conoscenza altrui. Del resto, se tali denominazioni siano bene applicate in tutto, se siano bene, cioè storicamente, intese fra noi, come, per esempio, in Germania, io non debbo dire: ripeto che designano due fatti.
Il Prati anche chiudeva la prefazione all' Armando — nobile richiamo alla dignità dell'arte e al rispetto degli artisti, proprio nel punto che l'Italia cominciava a dare troppi segni d'una irrefrenabile inclinazione al materialismo dei subiti guadagni e dei godimenti inferiori — chiudeva, dico, la sua prefazione con questa ultima parola, per rendersi benevoli e grati i lettori «Il mio non è un libro politico.» Fin d'allora si cominciava a predicare il bando della politica dalla letteratura. E il Prati parlava in buona fede: in lui il nome che piú dura e piú onora non ha bisogno d'amminicoli politici. Ma altri predicavano perché a loro dispiaceva che non a tutti piacesse la politica che piaceva a loro. E intanto i partiti seguitavano a spingere e a sollevare, com'è naturale, lo scrittore che usciva dalle loro file e il libro che faceva i loro interessi.
I moderati veri, che in fine hanno da essere conservatori se qualche cosa vogliono moderare, trovarono il loro poeta in Giacomo Zanella. Per quelli che invocavano e aspettano l'accordo della libertà con la fede, del progresso col dogma, dell'Italia con la Chiesa, Giacomo Zanella era l'uomo. Ai superstiti dell'antica Italia, agli eredi delle antiche idee, ai riformisti, ai neoguelfi, egli prete ricordava e rinnovava i bei tempi nei quali il prete era parte integrante della società italiana. L'abate italiano, riformista e mezzo-giacobino col Parini, soprannuotato col Cesarotti e col Barbieri alla rivoluzione, che s'era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel carbonarismo del 21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e bandito il Primato d'Italia e il Rinnovamento, che aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll'Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo per il santo peccato del patriottismo; l'abate italiano viveva, e viva ancora a lungo e onorato, in Giacomo Zanella, ridotto in certe proporzioni, migliorato in altre parti. La poesia dell'abate Zanella usciva dai seminari; ma da quei seminari veneti alquanto mondanetti, illustrati dalla filologia del Forcellini, dall'estetica del Cesarotti, dalle grazie (un po' adipose, a dir vero) del Barbieri. L'abate Zanella aveva cominciato esercitandosi con gli altri chierici in gare di traduzioni da Ovidio e da Orazio; ma poi aveva tradotto anche dello Shelley, e mostra di saperlo apprezzare con larghezza e forza di giudizio, tutt'altro che da seminario. Rifiorivano ne' suoi versi le belle tradizioni della scuola classica: il Mascheroni, didascalico, vi s'era fatto lirico: il Parini lirico vi appariva ammorbidito e piú ortodosso: l'elegiaco e moralista Pindemonte, smessa la cipria con la quale era solito ballare in gara al celebre Picche, pareva aver curato con un trattamento scientifico certa debolezza di nervi presa nell'ambiente poetico inglese del regno di Giorgio III, e s'era un po' riscaldato e imbrunito alla primavera del 1848. Oltre di ciò, nelle poesie dell'abate Zanella gli accordi e le conciliazioni fra la ricerca scientifica e l'autorità del dogma, fra il pensiero moderno e l'eternità della fede, fra il sentimento nuovo irrequieto e le regole dell'arte tradizionale, erano, ingenuamente, sinceramente, candidamente, proseguite, volute, credute raggiungere. E a volte la trepidazione dell'uomo sottomesso che pure ha scòrti i misteri dell'essere era resa con umiltà di affanno, in armonie non dal profondo strazianti ma di gemente tranquillità, dal poeta che rialzava gli occhi al cielo. E la gioia della pace ritrovata in cotesto alzare degli occhi suonava amabilmente modesta, quasi accorata. Tale contenuto poetico fu il calmante aspettato e richiesto, e fu annunziato a grandi voci da molta gente a modo, massime in Toscana e nella Venezia. Del resto, quando mai la poesia odierna aveva trovato un'ornamentazione di gusto cosí corretto per le feste di famiglia, per le parate dell'industria e per i trionfi del tecnicismo? Quando mai da molti anni la breve snella arguta strofe classica era stata carezzata e liberata al volo con tanta abilità facilità e grazia? Dei detrattori dell'abate Zanella chi ha o chi troverà altrove nelle rime d'oggi lo spirito lirico, che ondeggia circonvolgendosi con un mite rumore di marina lontana nelle volute meravigliosamente delineate marcate e colorite della Conchiglia fossile?
Le poche volte che l'abate Zanella toccò in versi il tasto della politica, la corda gli rispose stridula o molle. La poesia politica in quegli anni fu di parte democratica. Giulio Uberti su i primi del 71 radunava, non le fronde sparte, gli sparti suoi dardi: dardo chiama Pindaro il verso che alto e fulgido vola. La poesia dell'Uberti, una ed uguale nella sostanza, attesta nello svolgimento formale le vicende del sentimento e del gusto italiano lungo i primi cinquanta anni del secolo: proceduta dal classicismo pariniano, erasi riposata nel classicismo manzoniano, pur riflettendo alquanto dal colorito del Byron e forse anche di Vittore Hugo, non senza i fondacci d'un po' di quel gergo mistico che il romanticismo politico aveva introdotto nella poesia e nella eloquenza. Con tutto ciò il poeta bresciano, in forza della coerenza intima dell'anima sua, rimane originale. Uno spirito alfieriano pervade quelle forme e le fissa in atteggiamenti quasi scultorii. Gli ultimi versi, quelli scritti nel 70, ci voleva la passione politica degli uni e la facilità senza gusto degli altri per trovarli mirabili. Ma l'Italia, quando sarà passato questo strabocco di latte inacetito d'Arcadia, ricorderà, piú che non faccia ora, le quattro odi, Napoleone, Washington, Garibaldi, Mazzini, cosí magnanime di sensi, cosí dense di concetti e di imagini, cosí alte d'intonazione: ricorderà, ripensando agli anni gloriosi.
Se altro ricorderà l'Italia della poesia politica d'allora, io non so. So che quelli eran bei giorni. Felice Cavallotti, il lirico della Bohême (vollero chiamarsi, con umiltà d'imitazione sbagliata, Bohême, essi affaccendati sempre fra i duelli le sommosse e le carceri), in prigione mudava a drammaturgo, e covava l' Alcibiade e il Tirteo, a dispetto di quelli che s'erano impuntati a farci passare per una manica di ignoranti. Di me, per esempio, che nel turbine democratico mi gettai non so se dai promontorii del classicismo o dalle secche della filologia romanza, poteano aver ragione quando dicevano — È roba questa non da critica, ma da procuratore del re —; ma erano molto candidi quando giuravano, sempre per bandire la politica dall'arte, ch'io non sapevo la grammatica. Piú lepido un terzo, che, a proposito del Satana riprodotto o ricitato a ogni momento dai giornali del partito, mi paragonava al Trabucco col suo corno. Oh, bei giorni eran quelli!
Distanti dalla poesia democratica e distinti dai seguitatori del Prati dell'Aleardi e dello Zanella, stavano in disparte tre o quattro, i quali parevano, che che alcuno di loro affermasse in contrario, cercare e seguitare l'arte per l'arte. Erano il Tarchetti, lo Zendrini, il Praga.
Se non che Iginio Tarchetti, per gli intendimenti d'alcuno de' suoi racconti, raccostavasi ai democratici. Ma ci voleva quell'ambiente, o, meglio, quella mancanza d'ossigeno, per proclamare la grandezza dei racconti del povero Tarchetti. Si scambiava il contenuto e l'intento per l'arte: si diceva — Non c'è forma, la prosa è brutta, ma il romanzo c'è ed è bello —; come se senza forma arte ci sia, come se una trovata o un episodio o un frammento sia il romanzo, come se, scrivendo male, si scriva bene. Ci furono paragoni con Vittore Hugo e col Balzac. Eh via, ragazzi! Ma io non voglio parlare di prosa. A proposito dei versi del Tarchetti, il buon Domenico Milelli, che ne fa di incomparabilmente migliori, uscí una volta a dire che nell'anima di lui erano fuse due grandi anime, quella dell'Heine e quella del Leopardi. Non mai fu nominato cosí in vano il nome di Dio; ma tali bestemmie sono conseguenze di quel sentimentalismo estetico che al Lamartine faceva trovare piú genio in una lacrima che in tutti i poemi del mondo. Il Tarchetti visse povero, e morí giovine. Me ne duole; e mi adiro con chi non gli die' lavoro o il lavoro non compensò: forse anche mi adiro con la società che lascia morire di fame uomini d'ingegno e d'animo quale il Tarchetti. Ma per ciò devo dire che quella robetta è poesia? No: io dico che l'ammirazione pel sonetto Ell'era cosí gracile e piccina è una miserabile prova del rammollimento di cervello a cui quella che il Proudhon chiamava scrofola romantica avea condotto la gente.
Ma il Tarchetti non pretendeva molto a poeta. Chi ci pretendeva con tutte le intenzioni e con tutto lo studio era Bernardino Zendrini. Molte buone parti aveva lo Zendrini: anzi tutto, conoscenza franca, se bene qua e là frastagliata di lacune e pregiudizi, delle letterature straniere, e con ciò intelligenza delle cose nostre anche vecchie, rispetto, almeno in teorica, alla tradizione nazionale, vivido ingegno osservatore, idee chiare determinate ardite, e una grande smania di fare e di riuscire. Ma in lui l'uomo sopraffaceva l'artista; o forse l'artista e l'uomo si nuocevano l'un l'altro e cospiravano a fargli far male. Leggero, irrequieto, sprezzante, provocatore (dico lo scrittore, e anche l'uomo per quanto traspariva dalla scrittura: del resto non conobbi né di persona né per lettera mai lo Zendrini), non avea la forza muscolare e la pienezza sanguigna pari alla mobilità nervosa; onde la sproporzione quasi continua nell'opera sua fra l'intenzione e l'atto, fra il volere e l'operare, fra l'idea e la forma. Tale disuguaglianza di forze e la preoccupazione del critico e polemista turbavano le percezioni del poeta e gli rendevano tremante lo spirito e lo stile. Voleva mostrare gentilezza di affetti, e dava in ismancerie: voleva apparire ingenuo, e cascava in bambocciate: voleva riuscire spiritoso, ed erano smorfie: voleva osare una sprezzatura o di pensiero o di stile, e gli scappava uno scarabocchio: voleva provocare i rischi dell'arte, e dava un tuffo nel grottesco e nello sgarbato. Le cose sue originali meglio riuscite ( I due tessitori, Monotonia, La poesia non muore, ecc.) rientrano per la concezione e per la forma nel ciclo della poesia anteriore, della seconda generazione dei romantici. Quando volle fare qualcosa di nuovo, di vero, di famigliare, riuscí affettato, freddo, falso; non riuscí, in somma. Ma con la forza di volontà perseverante, col sentimento che aveva di rispetto per l'arte, l'avrebbe finalmente, io credo, spuntata. Gli bisognava, per ciò, contenersi, vincersi, rafforzarsi, curare i nervi; ed egli lo sentiva e lo voleva. Io ebbi a vedere, non per volontà sua, i lavorii di rifacimento ond'egli torturò e su i margini e nelle carte interfogliate le prime due stampe della traduzione di Heine. È un lavoro mirabile di pazienza e buon giudizio, che gli fa perdonare le sciattezze e le durezze incredibili del primo tentativo. In fatti nella terza edizione ci sono parecchi pezzi rifatti di pianta, e tanto in meglio, che meritano di esser recati ad esempio di buona versione, e insieme sono documenti, nelle trasformazioni subíte, della meditazione e dell'esercizio che occorre al lavoro dello stile, se pure in Italia v'è ancora chi badi allo stile. Povero Zendrini! egli mancò all'arte, quando, forse quietato, stava per rinnovellarsi.
Questo avere a parlare tuttavia di morti, e morti di fresco, è spiacevole, e mi è, lo so, pericoloso in faccia ai lettori. Ma che ci ho che fare io se sono morti? Magari fossero vivi! Combatteremmo ancora. L'uom s'affronti con l'uom: pugna è la vita. Parliamo, dunque, con quella conscienziosa e meditata libertà e schiettezza della quale gl'italiani han troppo bisogno, parliamo anche di Emilio Praga, il quale nel 70 aveva già, si può dire, compiuta la sua ascensione in poesia. Quelli che allora affettavano non parlarne, quelli che inorridivano alle sue stramberie, quelli che aborrivano la sua indifferenza d'artista dirimpetto alle questioni politiche e sociali, quelli che allora scrivevano azzurro (cioè turchino di Prussia, qualità inferiore), quelli ora vociano innanzi a tutti e piú di tutti il realismo e la originalità sconfinata di Emilio Praga. Povero Praga, realista lui? lui inzuppato, anzi ammalato, d'idealismo? lui che d'idealismo morí? Realista lui? coi languori delle fantasticherie, con la vaporosità nella linea, con la indeterminatezza dell'espressione, con l'astrattezza e la stranezza bizzarra e senza scopo delle metafore? Egli nella terza generazione dei romantici fu piú poeta di tutti; ma in lui piú che in tutti covò la malattia ereditaria, sin che scoppiò d'un tratto in quel temperamento amabilmente femmineo; e fu tifo fulminante. L'originalità del Praga! Sí certo, il Praga ebbe una originalità, ma non quella che dite voi! Avete letto Vittore Hugo, il Heine, il Baudelaire? Ma quello che voi nelle poesie del Praga proclamate di piú era già nell'Hugo, nell'Heine, nel Baudelaire. Se non che le trovate e le scappate dell'Heine egli le allunga e stempera un po' lombardamente. Ma della tinta dell'Hugo ebbe colorite fin le intime fibre della sua poesia, come dicono che le ossa delle bestie che hanno pasciuto la robbia si trovino chiazzate di rosso. Ma del Baudelaire ripete non pure le innaturalezze e le irragionevolezze cercate ad effetto, non pure le bruttezze stupide (dico cosí perchè è proprio cosí), ma le mosse e le flessioni del verso, ma i metri ed i ritornelli. Quello fu il periodo acuto della malattia; poi successe la polmonite, e il poeta finí ripiagnucolando le solite nenie. E aveva fatto a volte di sí belle cose! La sua originalità è quel trillo di lodola, è quel fresco d'acqua corrente per una selva di castagni, quella immediata e lieta e sincera percezione della natura, quella bonomia arguta tra di campagnuolo e di pittore, che si sente, si vede, si ammira in alcune sue prime e piú ingenue poesie.
Al Tarchetti, allo Zendrini, al Praga il settanta chiuse le porte; le aprí ad Arrigo Boito, il quale fu un po' di quella brigata, se bene egli proceda piú direttamente dal romanticismo fantastico di Germania. Fu di quella brigata anche Vittorio Betteloni, sí per la consuetudine d'amicizia sí per alcuni intendimenti d'arte; ma egli dal romanticismo o fantastico o sentimentale uscí presto, se mai vi s'era avvolto, e uscí tutto.
Vittorio Betteloni pubblicò nel 1869 il suo libro In primavera.
Ne parlarono con molto calore gli amici del poeta e alcuni dei fogli letterari d'allora; ne sparlarono con rimpianti su le speranze male spese, i maestri e dilettanti della poesia da parrucchieri. Ma il libro non fece, fuor dei cerchi degli amici, gran viaggio: a Bologna non arrivò: io lo lessi solo nel 75 in Verona. Habent sua fata libelli. Il settanta schiacciò insieme a tante cose grosse e malvage anche quel povero libretto innocente, o di sua preda lo coverse e cinse. Ma chi consigliò il Betteloni di venir fuori con tali versi nel 69, quando le sale eleganti erano tutte ancora impregnate di aleardismo, quando nelle strade fremeva a mezz'aria la poesia politica, quando, al di là della letteratura officiale o d'opposizione, fra tanta ardenza di parti e di questioni in casa e tanta trepidazione di turbini al di fuori, a pena si facevano badare le accese audacie del Praga piú come un babau pei borghesi che come baleni di arte nuova? Ma molti di cotesti versi il Betteloni gli aveva scritti fin dal 63, nel fresco mattino della giovinezza, e non voleva tenerli lí a muffire che perdessero stagione.
Oggi che abbonda, a quello che pare, la voglia di leggere versi è un peccato non si legga o non si rilegga la Primavera del Betteloni, che è dei migliori libri di poesia usciti fra noi in questi ultimi anni e il solo libro di giovinezza uscito da molti anni in Italia. Con ciò io non vo' riuscir a dire che il Betteloni sia maggiore o miglior poeta d'un altro, o che la sua sia poesia piú vera (è il termine di moda) della poesia d'un altro. Per me il porre la questione su 'l piú o il meno d'ingegno di due o piú poeti o scrittori è un esercizio troppo sublime o troppo accademico sí che abbia a perdervi tempo la gente che ha da far qualche cosa. Su la maggiore o minor verità ed efficacia della rappresentazione poetica non sarebbe per avventura inutile studiare e discutere, quando la questione fosse posta avanti bene e ragionevolmente. Ognuno, del resto, fa quella poesia che vuole; ognuno si mette in quella luce in quel riflesso in quell'ombra di verità che gli piace: cotesto è il suo diritto. Il suo dovere poi è di far bene, tenendosi in quella luce in quel riflesso in quell'ombra di verità che si è scelto. Ognuno dissi; e intendevo ognuno che è poeta e si è educato artista. Per la canaglia che perpetra strofe un po' di Melikoff non guasterebbe.
Il Betteloni fu, come accennai, il primo in Italia a uscire del romanticismo, pur componendo in lirica il romanzo di un giovine dai venti ai vent'otto anni; romanzo, s'intende, d'amore, anzi delle tre età, come egli dice, dell'amore, l'età dell'oro, l'età dell'argento, l'età del bronzo. Quel giovine, che è poi il Betteloni stesso, non è propriamente sentimentale; e pure nessuno dei nostri poeti moderni, oso dirlo, ha rappresentato o verseggiato il primo amore con quella rugiadosa freschezza che il Betteloni nel Canzoniere dei vent'anni (età dell'oro). Quando la ragazza popolana lo pianta per un bel pezzo di marito della sua condizione, egli non fa il Werther né il Don Giovanni: ideale per altro resta un po' sempre, con una vena di malinconia che serpeggia tra le sue immaginazioni burlone e le sue bonarie malignità. Persevera buon ragazzo, se bene piú allegro, nel canzoniere per una crestaina (età dell'argento), che poi si risolve a lasciare, perché un giovine come lui, di buona famiglia, ha da sposare una signorina con della dote, che tormenti il piano e storpi il francese. Il terzo canzoniere, cinquanta sonetti per una signora (età del bronzo), della quale il poeta s'è innamorato senza sapere che fosse maritata e la quale non sa che egli sia innamorato di lei, finisce cosí:
E lascia poi che da te lunge io sia,
Che solitario la mia fiamma esali
Nel vapor di innocente poesia.
Qui i don Giovanni trionfatori e violatori della grammatica e della prosodia accuseranno subito un gran puzzo d'idealismo e d'arcadia. No veramente. Uno, prima di tutto, può dell'amore e della vita in generale avere un ideale assai alto senza ch'ei professi per nulla l'idealismo convenzionale; e questo, fra gente seria ed onesta, non importerebbe né meno avvertirlo. Come scrittore poi, il Betteloni ha della realità un senso squisitissimo, e il ridicolo dei contrasti e delle contraddizioni fra la mobilità dello spirito appassionato o accaldato e la immobilità seria delle cose ei sa coglierlo e renderlo con quella bontà comica che è l'anima dell' umore di buona lega.
In primavera è, come dissi, un libro di giovinezza; e per ciò la passione, la passione, s'intende, colpevole o viziosa, non c'entra, o almeno non vi regna. Il poeta da prima descrive e canta l'amore, prorompimento inconscio, scarlattina dell'anima a diciannove anni; poi il piacere di fare all'amore con una bella e allegra creatura, di passeggiare e ballare con lei, di ascoltare le sue ciarle e suoi dispiaceri e le bizze su quello che è il suo contorno il suo piccolo mondo. Da ultimo l'amor vero, anzi a certi momenti la passione, si prova a metter fuori la punta, ma è la punta dell'ala. Perocchè l'autore sa reprimere e vincere la passione, un po' per sentimento di dovere, ma piú anche per certa schiva ritrosia di poeta e per affezione alla serena quiete dell'arte. To', o non può anche darsi? Sarebbe bella che, perchè viviamo nell'età dei rammollimenti sentimentali o sensuali e delle eccitazioni nervose, nel secolo del caffè e dell'alcoolismo, non ci fosse piú uno che sapesse resistere a una passione e vincerla, non sapesse infrenare la inferiore animalità, senza guaire, senza contorcersi, senza mostrare le sue piaghe alle stelle, con la forza, con la dignità, con la decenza d'un uom fatto bene. L'effetto che vi produce il libro del Betteloni è questo, che voi prendete in affezione il poeta perchè è naturalmente buono, e poi lo stimate perchè è sensato e vero.
La verità di quella poesia risulta da piú ragioni, di fatto e di arte. Il Betteloni prima di tutto rappresenta ed esprime proprio sé stesso, senza esagerazioni e senza caricature: non dico senza qualche carezza, ché non sarebbe credibile. È un giovine della vecchia borghesia benestante e bene educata, con una vena d'originalità non chiassosa, col ticchio dell'arte, con l'intiera libertà e signoria di sè. Nulla dunque del Byron e del Leopardi, e nulla né pure del De Musset. Non direi parimente, nulla del Heine, perchè la posizione poetica, nelle prime due parti almeno de' due canzonieri, si rassomiglia assai; e il colpo di sole del Heine anche il Betteloni l'ha avuto, ed in pieno; ma soltanto, parmi, del Heine dell' Intermezzo lirico e del Ritorno. Se non che a mano a mano la coloritura heiniana è assorbita o assimilata, e il poeta italiano a forza di riflessione riesce solo sé stesso. Perché una qualità notevole del Betteloni poeta è questa: che egli non si ferma alla superficie, senso o sentimento che sia, come per lo piú i nostri; e né meno si abbandona alle troppo comode volate della réverie e del sehnsucht (vocaboli che non si possono tradurre in italiano né pure a un di presso, tanto le affezioni che e' significano, almeno nella sistematica convenzione moderna, sono aliene dalla nostra natura); ma discende in sé stesso, e arriva a cogliere nella percezione e nella coscienza le ragioni ultime e le variazioni e le forme intime del fenomeno psicologico e fantastico; ragioni e forme che, idealizzate nella riflessione artistica, di particolari che erano divengono generali, e sono il nerbo della rappresentazione poetica: che se in quel passaggio la caratteristica individuale del poeta non va perduta, allora è il caso dell'originalità soggettiva. E questo è il caso del Betteloni.
Il quale, per esempio, è il solo, credo, dei poeti odierni italiani, che abbia osato mettere dentro i suoi versi il proprio nome e cognome. Ma come bene! Fra l'altre una volta egli sogna, sogna soltanto, di suonare alla porta del villino della donna amata e non amante: sogna di trovarla come desidererebbe meglio; ma c'è il medico e il pievano, che al vederlo battono le mani: Ecco il quarto, ecco il quarto per il tre sette. E si giuoca. Ma il giuoco dovrà pur finire, ma gli importuni se ne anderanno, ed egli rimarrà solo con lei. A un tratto s'abbuia, e brontola il temporale. Il medico e il pievano si levano su per partire. Egli duro. Ma la signora in atto di tutta gentilezza e cortesia gli dice:
O signor Betteloni, anch'ella presto
S'affretti a casa e pel cammin piú corto,
Ché per via non la colga un tempo tale.
Leggendo questi versi, altri me ne rifiorivano in mente, d'un concittadino antico del Betteloni, di Catullo, che anch'egli amava di mettere spesso e bene ne' suoi versi il suo nome:
Quaeso, inquit, mihi, mi Catulle, paulum
Istos; commode enim volo ad Serapim
Deferri. Minime, inquii puellae.
Questa è verità italiana.
Perchè, a dir vero, la verità di certi veristi sarà di qual paese piaccia meglio ai lettori o all'autore, ma verità italiana non è di certo: ora la verità, per esser verità vera, ha da essere anche locale, e quella dei su lodati veristi di locale, cioè d'italiano, non ha nulla, nè meno la lingua; ché lingua italiana non può chiamarsi quella miseria di cento linfatiche parole con le quali quella povera gente si arrapina a rattoppare gli sdruci delle sue versioni da qualche poeta francese di terzo o quarto ordine. Ora il Betteloni non solo seppe percepire il vero della vita odierna italiana con elezione d'artista, ma lo seppe verseggiare con lingua varia abbastanza se non sempre finissima, con stile sempre suo e spesso accurato.
Io dissi a dietro che nessuno fra noi aveva cantato, direbbe un'accademico, io dirò commemorato in poesia, il primo amore con la freschezza del Betteloni. Non mi disdico, pur ripensando alle terzine del Leopardi: quella del Leopardi è passione speciale, in certe condizioni, stupendamente sentita e resa; mentre il primo amore del Betteloni è il caso generale, che tutti gli anni si rinnova, a cui tutti, se non fummo ceppi o peggio, ci siamo trovati. Giudichino i lettori.
Poi ti tenevo dietro piano piano,
Com'è costume dei novelli amanti,
Pur di scorgerti solo da lontano,
Senza parere agli occhi dei passanti:
E tu con atto cauto e sospettoso,
Per non mostrar che a me ponessi mente,
Volgevi a mezzo il capo tuo vezzoso,
Ad or ad or, non molto di sovente;
Ma non molto di rado tuttavia,
Temendo pur che addietro io fossi troppo,
O non pigliassi a caso un'altra via,
O in qualche amico non facessi intoppo.
Quindi arrivata, ancor sul limitare
Il piede soffermavi un breve istante,
Là t'arrestavi a rapida guardare
S'io pur non ero tuttavia distante;
Poscia, fatte le scale in un momento,
Al terrazzo accorrendo t'affacciavi;
Io ti venivo innanzi, lento, lento,
Tu col sorriso allor mi salutavi.
È proprio cosí che erano fatte le nostre amanti, ahimè di venti e piú anni fa! Salvo che noi allora eravamo o troppo classici o troppo romantici, e, anche dato avessimo avuto la grazia e la naturalezza del poeta veronese, non ci sarebbe mai passato per la testa che si potesse in italiano far dei versi graziosi e naturali come i seguenti, mentre pure le cose dette in quei versi le sentivamo, le vedevamo, le notavamo anche noi. E sí che Catullo lo sapevamo quasi a mente; Catullo, che, dove non è sporco o troppo alessandrino, poteva e può esser maestro di poesia vera a noi e ad altri: tant'è vero che nulla di nuovo c'è sotto il sole e in arte non c'è progresso: quello che il volgo scambia per progresso è la modificata rinnovazione di certe fasi nei cicli ritornanti.
E' fu in piazza di Santa Caterina
Ch'io d'amor le parlai la prima volta,
Era l'ora che il sole ornai declina,
Ora dolce e raccolta.
Cinto d'intorno è il loco d'alte piante
Dove a fatica si conduce il sole,
Dove l'aria s'infosca un'ora innante
Che in Lungarno non suole.
Or io che avea da qualche dí osservato
Com'ella per di là venia sovente,
Là per tre sere postomi in agguato,
L'incontrai finalmente.
Ella arrossisce e affretta il piè veloce,
Io me le accosto, me le faccio ai panni,
Pur me ne trema l'anima e la voce,
Oh vent'anni! oh vent'anni!
Parlare a lei! ma s'ella s'offendesse
D'uom che volger le ardisce la parola,
Se l'ale che nasconde ella schiudesse,
Nume che all'uom s'invola!
Roseo mister di grazia e di bellezza
Tutto sgomento innanzi a te son io,
M'avventuro all'impresa all'arditezza
Di trovarmi con Dio!
Ella pur non s'offende e porge ascolto;
Mentre parlo mi guarda, si dipinge
Di grazïosa meraviglia in volto,
Non conoscermi finge.
Cari quegli occhi intenti e menzogneri,
Mamma indarno a mentir sí ben v'apprese;
Occhi, mi sorrideste in atto ieri
Troppo, troppo cortese!
Io però tiro avanti; e piú coraggio
Piglio da ciò, che il piede ella rallenta,
Ch'ella alfin sosta, che quel mio linguaggio
La fa piú sempre attenta.
E davvero facondo allor mi faccio;
Tutto le dico il dolce sentimento
Ch'ella m'ispira, tutto, non le taccio
Nulla di quel che sento.
Ella stupisce e credermi non vuole;
Con interrotte voci esce talora;
Chinando il capo, delle mie parole
Il nettare assapora.
E il nastro del grembiule in man si prende,
Giocando se lo attorce al roseo dito,
Mentre il suo cor dalle mie labbra pende
Trepidante e smarrito.
Rileggendo questi versi, mi sento attorno come il triste profumo d'un mazzetto di rose appassite in un cassetto di legno. Sono forse le memorie che quest'alito di poesia veramente giovenile la risentire nel cuore? Per non dare un tuffo nel sentimento, mi rifugio nella lingua; rifugio e scampo antico a noi italiani dal pericolo di pensar vero e di parlar sinceri. Ora dolce e raccolta, indovino che cosa vuol dire, ma non giurerei che quelle parole lo dicessero chiaro e netto. Fare intoppo in uno, temo sia una frase a rimembranza sbagliata: dar d'intoppo è di qualche classico, della lingua parlata è intoppare. Un'ora innante, indarno, poscia, ella sosta, se oramai non sono locuzioni accademiche, certo in quello stile non vanno; e il pié veloce è troppo eroico per una ragazzina. Di sí fatte mende nella dizione del Betteloni ce n'è. Ma del resto la lingua sua poetica di quanto è superiore per proprietà, e anche per certa ricchezza, a quel gergo d'idioti cenciosi ed ebri che erutta spropositi nei cento mila versi, piaghe settimanali di questa dolcissima terra de' fiori e de' carmi. E la ragione è che la lingua il Betteloni l'ha studiata anche nei classici e sui classici s'è anche educato un tantino lo stile. Tant'è: la tradizione letteraria, in una poesia che comincia con Dante, non si deve, né si potrebbe, anche volendo, interrompere: siate rivoluzionari quanto volete, avrete, per quello che è verità e audacia d'espressione, da imparar sempre qualche cosa da Dante, per esempio, e dal Pulci, dinanzi alla cui luce le vostre frasi faranno l'effetto di lumi a mano a mezzogiorno. Vero è che bisogna distinguere fra classici e classici. Il Betteloni professa di avere appreso nel Poliziano e nell'Ariosto il lesto far disimpacciato e schietto, e il Poliziano e l'Ariosto erano designati dallo Zendrini fra gli antesignani della sua idea di stile in poesia. La scelta non poteva esser migliore. Infatti l'impasto di lingua che ci vuole per la poesia del vero, l'Italia l'ebbe piú specialmente, salvo sempre le grandi eccezioni del trecento, in quel tratto di tempo che va da Masaccio alla morte del Vinci, quando la giovine arte del rinascimento s'informò tutta, o quasi tutta, al vero umano: l'ebbe non pur nel Poliziano e nell'Ariosto, ma nel Pulci nel Medici ne' minori autori di farse di ballate di rime popolari, ed è, con pochissime differenze e non in peggio, quella stessa lingua un cui rivoletto si credè scoprire con fastidioso spirito accademico nei soli rispetti cosí detti del popolo toscano.
Altro e miglior esempio del valore lirico del Betteloni è la canzone della crestaia e del sole, dove la fusione del reale col fantastico, del sentimento umano e del panteistico senso della natura, del linguaggio che discorre e della favella che canta, della frase che colorisce e della strofe che vola, è riuscita in piccole proporzioni a meraviglia.
La giovinetta presso
Dell'alta invetrïata
Siede cucendo, spesso
La maestra la guata,
E in soggezion la tiene;
Che se non fosse questo,
Il lavoro molesto
Non andrebbe assai bene.
Or primavera invade
Penetra tutte cose;
Passa dall'ampie strade
Nelle dimore ascose;
Anco nell'officina
Della fanciulla mia
Il Sol trova la via
Traverso la vetrina.
Balza a lei sul lavoro
Vispo e disturbatore
E con le dita d'oro
Picchia al suo giovin core;
Poscia lusinghe arcane
Comincia a bisbigliare:
Voglia di lavorare
Già piú a lei non rimane.
«Io sono il Sol di maggio,
Che a venire t'invito
A farmi, o bella, omaggio
Nel mio regno fiorito:
All'aperto io soggiorno
Sopra il colle vitato,
Sull'ondeggiante prato
D'erbe novelle adorno.
Vo per gli orti a diletto;
Sulle aiuole mi sdraio;
Serba a me l'augelletto
Il trillo suo piú gaio...
Non hai hai, bimba, un amante,
Che un giorno a me ti meni,
Ne' regni miei sereni,
Fra delizie cotante?»
— «Deh, mio leggiadro Sole,
Volentieri io verrei,
Ma la mamma non vôle;
L'amante ce l'avrei,
Ma il cuore me ne geme,
Star mi tocca a sedere,
Delle giornate intere,
A metter cenci insieme.
Dalle porte sovente
Esco, è vero, di festa;
Ma c'è allor troppa gente
Che i piú bei fior calpesta;
E un augellin non s'ode,
E non poss'io provare
A correre, a saltare,
Come il desío mi rode.
Ho voglia tutto un giorno,
Sia nel prato o sul colle,
Di scorrazzare intorno;
E poi nell'erba molle
D'avvoltolarmi alfine;
Far di belle cantate,
Far di belle risate,
Che non abbian piú fine.
E vorrei coglier fiori,
E farfalle inseguire,
E dell'acque i romori
Stare un poco a sentire;
Mangiar frutta e non manzo,
Di rosse fraghe un cesto,
E che ciliege il resto
Fosse del nostro pranzo.
Tanto io n'avrei desio
Che piú non trovo loco:
Vorrei l'amante mio
Farlo ammattire un poco;
Dove andar non pensasse
Ed io tosto avvïarmi,
E che i nidi a pigliarmi
Sui pini arrampicasse.» —
E dire che l'Aleardi, il quale pure era stato banditore ardente alle prime poesie dello Zendrini, l'Aleardi si scandalizzò di questa roba e piangeva sul figliuol prodigo. Se non che il poeta della crestaina avea fatto, a dir vero, di peggio:
O bella, un dí t'ho vista
Entrar dal tabaccaio,
E anch'io facendo vista
Che m'occorresse un paio
Di sigari v'entrai;
Là per la prima volta ti parlai.
A questo punto non vi sto a dire che i Romei parrucchieri gli negarono a dirittura il saluto. E le Giuliette, quando s'avvennero a leggere,
Si stava assai benino
Un tempo alla Regina,
Buona cucina,
Ottimo vino...
T'avrei del fritto scelti
I piú dolci pezzetti,
E per te i petti
Al pollo svelti...
buttarono il libro e ricorsero all'acqua di Colonia. Sfido io, poverette! erano avvezze a una goccia di rugiada entro una foglia di rosa per tutto pasto.
Io non dico, del resto, che coteste sieno le cose piú belle del canzoniere del Betteloni, e non nego che in quel canzoniere ci siano delle lungaggini prosaiche e certe interpolazioni non d'ottimo gusto, e qualche bizzarria a freddo, e un po' d'esagerazione sistematica, che, sia pur del naturale, offende l'arte. Ma a chi si dolesse di tali difetti il Betteloni può, per rifargli la bocca, offrire sonetti come questi:
Quassú nel lago nostro un'alga cresce
Che quanto ha lungo il gambo è in acqua immersa;
Solo con poche foglie in alto ell'esce;
Ma, se a luglio su questo il ciel non versa
Stilla di pioggia, in guisa tal le incresce,
Che a dissetarla tanta e cosí tersa
Onda che intorno ell'ha piú non riesce,
E langue e inaridisce e va sommersa.
Io sono in abbondanza d'ogni bene,
Ma sul mio cor stilla dal ciel non scende;
Ahi l'amor tuo, leggiadra, a me non viene!
Quindi langue lo spirto e mal contende
Al gorgo che lo affonda in basse arene...
E il fango immenso sovra me si stende.
Quand'ella passa io tremo e m'abbandona
Ogni fermezza: un sibilo leggero
Mettono le sue vesti, il qual mi suona
Pur come scherno meritato e vero.
Quinci la fantasia fra sé ragiona
«O vaghe vesti cui s'affida intero
Il segreto gentil di sua persona,
Vesti cui non si cela alcun mistero,
Parte ditemi almen di questo arcano,
Soave arcano, ch'è fra voi nascosto
E dietro al qual la mente io sforzo invano.»
Ahi! non rispondon quelle, e con piú cura
Stringonsi al vago corpo, e di quel posto
Traggon partito e de la lor ventura.
Nel 75 il Betteloni pubblicò tradotto in ottava rima il piú bello episodio del Don Giovanni di Byron, l'Aidea. La scelta del soggetto e del metro è già un indizio di ottimo gusto e un segno di virtuoso ardimento. E qui gli soccorse in buon punto lo studio messo nell'Ariosto; la cui elegante disinvoltura e la mirabile volubilità io non dirò che il Betteloni abbia raggiunta, ché sarebbe troppo, anche perché fra altre ragioni io non credo si possa con la lingua d'oggi e nella poesia moderna raggiungere. Nè dirò che perfettissima sia nell' Aidea la dizione, che qualche neologismo, qualche durezza, qualche ineleganza non si sarebbe potuta evitare. Ma dico senza dubbio che questa del Betteloni è delle migliori versioni poetiche moderne, ed è la miglior versione in ottava rima che abbia l'Italia, da quella in poi della Pulcella fatta dal Monti; che non è poco, chi ripensi la maggior varietà e difficoltà del poema byroniano e la signorile felicità del verseggiare di Vincenzo Monti.
Forse maggior fatica dee aver posto il Betteloni nella traduzione dell' Assuero di Roberto Hamerling, ch'ei diè nel 76: e certo in quella foltezza quasi metallica di poesia descrittiva il verso sciolto italiano, per vigorosa industria del traduttore, trionfa di nuovi atteggiamenti a prova col giambico tedesco. Ma io non lo consiglierei a mettere i suoi begli anni in quella sorta di lavori. Finisca il Don Giovanni, e basta.
Ora il Betteloni si ripresenta all'Italia artista sul proprio con questi Nuovi Versi. Io auguro al valente e modesto poeta dai lettori intelligenti quella onesta attenzione e accoglienza, che le prime liete prove, le fatiche poi durate nell'arte, e il rispetto all'arte, e la serietà degl'intendimenti, e la matura originalità dell'ingegno, gli promettono e gli meritano.
Giosuè Carducci.
NUOVI VERSI
IDEALE
Come arrivarti, o idolo
Fatal che sì m'attiri?
Sei tu sogno o fantasima
Di mente che deliri?
Non hai quaggiù tu stanza,
Nè forma nè sostanza
Fuor che nel mio pensier?
Pure io non sono a pascermi
Di vacue larve avvezzo,
O se già fui, le imagini
Or cancellai da un pezzo,
Che ignara fantasia
Pinse alla mente mia
Nel tempo suo primier.
Ebbi varcato i limiti
D'adolescenza appena,
E non cercai nell'etere
De' versi miei la scena;
Cercai soggetto al canto
Fra gli uomini soltanto
Presso e dintorno a me.
Forse non più tra gli uomini,
Che tra le donne invero...
Or quell'ingenuo palpito
Più in me destar non spero;
Ma nell'immenso vano,
Fuori del senso umano,
La poesia non è.
Sol la natura e il vario
Gioco di nostra vita
A rallegrarci, a piangere,
A poetar ci invita;
E là ti celi, o mio
Bello e tremendo iddio,
Ch'io vo cercando invan.
In vaghe forme e labili
Bensì m'appari spesso,
Ma come io credo giungerti,
Tu fuggi al tempo stesso:
Così crudel miraggio
Per corsa e per viaggio
Non meno è a noi lontan.
Nei mille aspetti scorgerti
Della natura io credo.
Talor nelle più tenui
Parvenze pur ti vedo;
In valli oppur sui monti,
Nell'alba e nei tramonti,
In riva ai laghi e al mar,
Di bimbi e vaghe femine
Nel riso e nello sguardo,
Nei tre color siderei
Dell'italo stendardo;
E qual così scoprirti
In vario aspetto, udirti
In vario suon mi par.
Nel primo che alle vergini
Accento strappa amore,
Nel primo ancor che al pargolo
Accento insegna il cuore,
In ogni suon che molce
L'anima, la tua dolce
Voce udir sembra a me.
Ma degli insurti popoli
Nel grido, e nel concento
Dell'inclite vittorie
La tua gran voce sento,
E più il mio cor l'intese
Quando il gentil paese
Pianse l'onesto re.[1]
Ma che mi val l'ingenito
Amor di ciò che è vero.
Di ciò che è bello e nobile,
Se ad esso il magistero
Pari non è dell'arte,
Se far le oscure carte
Specchio di quel non so?
Così sfinge adorabile
Mi avvolge di possenti
Misterïosi fascini;
Ma delle renitenti
Forme ch'io sogno e adoro
L'alto segreto ignoro,
Nè inter mai lo saprò.
Mi lambe intanto gl'intimi
Precordi un tetro foco,
Ond'io mi crucio, ed essere
Non può che di me gioco
Faccia così una mera
Imagine, chimera
Fantastica, ideal.
Diva Beltà ch'io medito
Tu un sogno sol non sei;
Così potessi io giungerti;
Stringermi a te vorrei
In sì possente laccio
Ch'io ti morissi in braccio
Facendomi immortal.
TRAGEDIA UMILE[2]
Il Prologo
Una fanciulla sedicenne e ignara
Degli inganni d'Amore a lui si diede,
Che sedurla si piacque
Sotto sembianze di gentil garzone.
Ed or che il testimone
Ella del proprio errore in grembo porta,
Per vergogna e dolore
Insoffribil la vita le si rende,
Ed in funesti entusiasmi assorta,
L'atro braciere accende,
Sè stessa offrendo a morte e di sè stessa
Il frutto, il dolce frutto.
All'umile sua stanza innanzi tutto
Tura gelosamente ogni pertugio;
Di poi sul proprio letticciuol distesa,
Chiude gli occhi in attesa:
Pure durante il terribile indugio,
Mentre ancor poco a viver le rimane,
S'odono mormorar fra le pareti
Del cor di lei segreti
Accenti in bocca di persone arcane.
Voce della Vita
La dolce vita io sono,
Il bene immenso, il dono
Supremo che Natura all'uom concede.
Come in capo a un eroe donne amorose
Versan nembi di rose,
Così con ricca mano
I lieti giorni io verso.
Però lo spirto ha insano
Chi precipita a morte
Prima del tempo e volontario; a morte,
Che sollecita ahi troppo da sè stessa
Incontro all'uom s'affretta.
Voce della Fanciulla
Menzognera è la vita e frodi tesse,
Come quaggiù ogni cosa;
Ingannevoli son le sue promesse,
A imagine di fiori
Fra cui la serpe è ascosa.
Omai quaggiù nulla mi resta fuori
Che amarezze e vergogna;
E perciò appunto che a la morte agogna,
Non è il mio spirto insano.
Voce della Vita
Non incolpar la vita
Di tua crudel sventura
O vergine tradita:
L'uman consorzio pose
Dissidio tra sue leggi e la natura;
Al contatto dei sessi il rito impose,
Senza del quale è colpa
Il natural desio,
E il sen fecondo, orgoglio
Di tutte donne e lor somma dolcezza,
Torna per te in cordoglio
Ed in onta che il cuore e i dì ti spezza.
Voce della Fanciulla
Deh non foss'io di donna
Stata mai concepita,
Oppur come che sia,
Morta fossi da pria
Di conoscerti, o Vita!
Voce della Vita
Non dir così, fanciulla;
D'ogni miseria è peggior cosa il nulla;
Te l'invito dei sensi
E del tenero cuore,
Te l'ignoranza dei maschili inganni
Indussero in amore,
Onde il mio spirto esulta,
Ma per lo qual seguendo sua ragione,
Di cui poco a me cale,
La gente ahimè t'insulta.
Quindi il genio fatale
Dalla tua razza accusa,
Che danni da se stessa a sè procura;
Non la gioconda vita
E la gentil natura,
Perocchè bello e dolce sopratutto
È il respirar le lucid'aure e il blando
Raggio del sole e calcar l'alma terra,
Destare affetti e averne, e il molle frutto
D'amor cogliere amando.
Voce della Fanciulla
Me nessun ama, e nessun amo io stessa.
Voce della Vita
A torto, a torto pensi;
Il tuo figlio amerai;
Nè dubitar che tosto il giorno arrivi
Che saprà amarti egli medesmo; immensi
Gaudi e conforti avrai
Finalmente da lui,
Che la gioia miglior dell'esser vivi
È dar la vita altrui.
Voce della Fanciulla
Il dar la vita altrui
Sommo è per me dolore,
Com'è nascer da me somma sventura.
Come pianta nociva il fiore e il frutto
Detestati matura,
Così dappoichè madre s'interdice
Essere a me, felice
Non sarà il figliuol mio,
Chè con la vita l'onta
Da me riceve, nè battesmo alcuno
La tetra original macchia deterge.
Voce di uno Spirito
Io son lo spirto che le membra un giorno
Abiterà, che adesso
Il tuo grembo prepara:
Perchè, o madre, mi uccidi?
Perchè, perchè la cara
Vita mi togli pria che darla intera?
Voce della Fanciulla
La vita non ti diedi
Finor, però nulla ti tolgo. Vedi
Come del viver nostro ignaro sei,
Sospettando ch'io privi
Te della vita, mentre ancor non vivi!
Voce dello Spirito
Più che ai lamenti miei,
Ti fai sorda a te stessa,
Perocchè certo e per tua prova sai,
Come la madre intenta
Il figliuol proprio assai
Pria che prodotto al giorno
Nelle viscere sue viver si senta;
Le molte pene del suo stato altera
Sopporta e non si duole,
Perchè le fan testimonianza vera
Che palpitante prole
Già pria di nascer nel suo grembo ha vita.
Che più? sol perchè avverti
Che io ti palpito in seno a me procuri
E a te stessa la morte.
Voce della Fanciulla
Non è ver, non è vero;
Crudel così mi fanno,
Se pur crudel io sono,
Ahimè, l'amore e l'onor mio traditi.
Io morte cerco e spero
Per nostro minor danno,
Per fuggir vitupero
Ed estinguer sotterra il mio dolore.
Voce della Vita
Sommo danno è perir, dacchè la tomba
Non ha conforti; e molti n'ha la vita,
Per quanto dura sia.
Voce dello Spirito
A te l'infanzia mia
Gioie molte e soavi
Darà in compenso ai gravi
Travagli del tuo stato
Misero e disprezzato;
Ma fatto grande poi,
Coll'opra e il valor mio
Saprò d'utile affetto
Di calma e di rispetto
Colmare i giorni tuoi.
Voce della Fanciulla
Ahimè gli stenti di quaggiù malnoti
Ti sono e le durezze e l'aspra guerra,
Spirto che ancor, dove non so, ma certo
Molto alberghi lontan dall'umil terra;
Nei pelaghi tu nuoti
Del mistero infinito e poco esperto
Sei di questo fatale
E duro scoglio, ove nascendo approda
L'infelice mortale.
Ferrea necessità, tosto che nato,
Ti prenderà quaggiuso.
E converrà che dal mio petto escluso
O tu sia presto, o che la dolce infanzia,
Ahi la tua dolce infanzia,
Da me, da me, dalla tua madre istessa
Derelitta ed inferma
L'inedia il freddo e l'ignominia apprenda.
Che se a tal prova durerà la ferma
Tempra e la tua natura,
Non isperar ch'altra miglior ventura
Adulto poi t'attenda:
Il vile stato e la fatica rude
E il comun sprezzo e le ferine brame
Che il ben degli altri immeritato accende
E alfin la fame, ahimè l'abbietta fame
Il tuo spirto già stanco inaspriranno,
E sul tuo labro e nel tuo core acerbi
Sdegni per me porranno,
E per l'orrenda vita
Che or tu vuoi che ti serbi.
Voce dello Spirito
Come soldato in guerra,
Armi e valore in terra
Pari alla dura lotta
Che egli quaggiù sostiene
L'uom da Natura ottiene.
Voce della Vita
Sacro dono è la vita, e l'uomo assume
Virtù nascendo che di poco a un nume
Inferïor lo rende.
Voce del Terrore
Nè spavento infinito il cor t'assale,
O giovinetta frale,
Che l'ombra eterna affronti?
Impallidisce il forte
All'aspetto di morte, e tu non tremi?
Tutto, ben sai, non cessa
Cogli aneliti estremi;
Lurida fossa attende
La tua persona bella,
E sul molle tuo sen crescerà l'erba
Tetra: ma pene orrende
Al tuo spirto che a viver si ribella
Il Creator riserba.
Voce della Vita
Quando la Vita invece
Gli anni migliori appresta
A te di giovinezza,
E di bellezza a cui si farà molto
Omaggio e molta festa,
Di non comun bellezza
T'adorna il seno e il volto.
Voce del Terrore
Ma nell'orrida fossa ogni tuo vezzo
Turpe lezzo corrompe,
E una turba v'irrompe
Di mostruosi insetti,
Che la leggiadra spoglia
Dividono fra loro.
Peggio ancor del tuo spirito, che doglia
Incessabil costringe...
Non odi il pianto acuto
Ch'esce dal fiero loco?
E dei castighi eterni
Già non discerni il foco?..
Voce della Fanciulla
Ahimè! chi mi soccorre?
Un artiglio di ferro il cor mi preme,
Che respirar mi toglie, e sento insieme
Fuso piombo che corre
Nelle mie fauci ardenti;
Chi per tal modo m'incatena al duro
Giaciglio ch'io non possa
Solo un po' sollevar l'ossa dolenti
E rivolgere il fianco?
Ancor vivere io voglio... io giovin sono...
Aita! aita! io manco.
Ahimè quali funeste
Larve passan dinanzi agli occhi miei,
E che voci son queste
Di cui m'arriva il suono
Terribile? Morir più non vorrei...
Chi mi soccorre! Aita!
Canto della Morte
Oh fanciulla dolente
A te soccorro io stessa:
Grande io sono e possente;
Pure la ferrea sorte
E al mio voler sommessa,
Però ch'io son la Morte.
Io la suprema aita
Sono, o fanciulla, in terra;
Chi stanco della vita
A me fidente viene,
Sicuro porto afferra
E sacra pace ottiene.
Ma il pavido mortale,
Che raramente è saggio,
Giudica a torto e male
L'opra ch'io compio, e chiama
Stolto, anzi vil coraggio
Quel che m'invoca e brama.
Egli da me rifugge
E orribil m'affigura;
Se reo malor lo strugge,
Ancor di me che arrivi
Teme, e di così dura
Esistenza lo privi.
Stolto! solo il dolore
Ispiri a lui temenza,
Che, re sinistro, l'ore
E i giorni suoi governa...
La vita è sofferenza,
La morte è calma eterna.
Ma all'uom la calma incresce,
E a lui soffrir più giova
Che baldo e giovin cresce.
Lo intendo io ben, l'intendo;
Faccia del viver prova,
Io più tardi l'attendo;
Se pria l'ardor che ha in seno
Però me non provòchi.
Se pria però in terreno
Sparso d'umana clade,
Anch'egli fra non pochi
Nei lacci miei non cade:
Chè spesso l'uomo insano
E involontario affretta
L'opera di mia mano;
Nè vale il gran terrore,
Che in mio poter nol metta
Stoltezza assai peggiore.
Ma tu che in tua sventura
Il nume mio propizio
T'invocavi sicura,
Domar sappi a tua volta
La tema e il pregiudizio
Della tua razza stolta.
Non ti colga spavento:
Dove il mio bacio io posi
Ogni dolore è spento:
L'umana indole cessa
E lieti e dolorosi
Sensi muojon con essa.
L'amplesso mio racchiude
Virtù così efficace
Ch'ogni uman senso esclude;
Gioia o dolore umano
Al cor reso incapace
Quindi urterebbe invano.
È un singolar concetto
Il gaudio eterno o il pianto
Di ciò che reso inetto
Al gaudio e al pianto invece
Si tramuta frattanto
Con incessante vece.
Vieni fanciulla; posa
In seno a me la testa;
Nelle mie braccia ascosa
L'arcano sonno avrai
Da cui non si ridesta
Occhio a pianger più mai.
A me dunque abbandona,
A me che ti sto innante,
La misera persona;
Celami in sen la faccia,
Dormi siccome infante
Nelle materne braccia.
L'Epilogo.
Siccome infatti il pargolo subisce
Della canzon materna il molle incanto,
E lento s'assopisce;
Così il funereo canto,
Che alla fanciulla dentro il cuor risuona,
Di letale sopor tutta l'invade,
E a poco a poco in braccio della morte
Addormentata cade.
Or poi che il giorno cresce,
E le vicine sue fannosi accorte
Ch'ella, siccome usava, ancor non esce,
Picchiano all'uscio, invano.
Allora alfin la porta
Si atterra, e si discopre
Che la fanciulla è morta.
Narra il giornal con poche e indifferenti
Parole il mesto caso,
Nella cronaca urbana,
Ma al poeta solingo fra le genti
Nessuno sfugge benchè lieve aspetto
Della miseria umana;
Ei l'umil grido intende
Dell'infima sventura,
Che il suon del mondo affaccendato copre,
E la tragedia oscura
Per opera di lui nota si rende.
PARALLELO
Quando ero fanciulletto
Soleva a me di belle
Mirabili novelle
Narrar la cameriera,
Mentre la sera mi poneva a letto.
Il padre mio non era
Contento che di storte
Idee m'empisse, e forte
Garria la donna, e spesso;
Ma fu lo stesso, e non mutò maniera.
O padre, io ti confesso
Che avean gran senso molte
Di quelle fole incolte
C ui tu non davi fede.
Di ciò s'avvede il tuo figliuolo adesso.
Un monelluccio il piede
Entro la selva pose,
Questo fra l'altre cose
Narrava a me la fante.
Tra fosche piante il bimbo oltre procede.
Di mostri hanno sembiante
Quelle e gli fan paura;
Cade la notte oscura;
Ode tra l'ombre nere
Urlo di fiere il fanciullin tremante.
Or sì che assai piacere
Avrebbe in casa essendo!
Ma più dal bosco orrendo
Uscir non sa frattanto
Ahimè, nè il pianto egli sa più tenere.
Un lumicin soltanto
Gli appar lontan lontano;
Ed ei con subitano
Coraggio a quel s'avvia,
E andando spia se gli si fa più accanto.
Ch'ivi un palazzo sia
Già imagina il fanciullo,
Che pien d'ogni trastullo
Sia quel lucente loco,
Pien d'ogni gioco e d'ogni ghiottornia.
Or s'allontana il foco
Bugiardo ora s'appressa;
Egli d'andar non cessa;
Ma il bosco è ognor più nero,
Sul reo sentiero ei manca a poco a poco.
Del picciol passeggiero
La storia allor m'empia
D'alta malinconia;
Quasi un presentimento
Dal triste evento aveva il mio pensiero.
Ed or che intendimento
Ho dell'umana vita,
E da un bel po' compita
Ho l'età di ragione,
Ma un fanciullone tuttavia mi sento;
Or nello scabro agone
Io pure il piede ho messo;
Sono smarrito io stesso
Nella crudel foresta,
Che il piè m'arresta, e al mio tornar s'oppone:
Che ostacoli m'appresta
In cento forme strane:
Dell'urlo d'inumane
Belve e di serpi orrende
Sonar s'intende l'ombra alta e funesta.
Bensì al mio sguardo splende
Il fatuo lume arcano:
Ahi ma lo seguo invano!
Spesso una stilla amara
Mi si prepara in cuore e al ciglio ascende.
Nè arride più la cara
Speranza a me, l'amena
Speranza; e già la lena
Ogni di più vien manco,
E il cuore stanco a rassegnarsi impara.
Perocchè presto il fianco
Io deporrò nel suolo,
Quando non potrò un solo
Passo più fare avanti.
Se delle urlanti belve allora il branco
Non vien le agonizzanti
Mie membra a porre in brani,
Ricopriran le inani
Foglie della foresta
L'umile testa mia; nè dei vaganti
Futuri per la mesta
Selva scoprir nessuno
Saprà dove, tra il bruno
Oblio, giacque il mio petto
In terra stretto. Or la mia storia è questa;
Ma essendo io fanciulletto.
Di fole altre parecchie
Empire a me le orecchie
Solea la cameriera,
Quando la sera mi poneva a letto.
NATALE
Io lascio andare il masso che dal vertice
Con tutto quel che gli vien dietro poi;
Ma non posso negar che a me gradevole
Molto Natal non torni e i gaudi suoi.
Volge dell'anno la stagion più rigida,
E non c'è cosa allor che più diletti,
Come in panciolle al focolar domestico
Sedere fra le donne e i fanciulletti.
Solennizza Natale i dolci vincoli
Che in culla il primo laccio hanno di rose,
Nè può la tomba stessa ognor dissolverli,
La tomba che dissolve tutte cose.
I figliuoli già adulti oggi convengono
Degli antichi parenti alla dimora;
Vien a depor sulle ginocchia ai suoceri
Il nuovo nato la fiorente nuora.
Re della festa è il pargoletto; portano
Le testoline bionde oggi migliore
E più sacra corona che il Pontefice
Non desse a Carlomagno imperadore.
Dagli occhi lieti e dalle auguste picciole
Mani e dal labbro d'un bel riso adorno
Grazie dispensa il re piccino ai sudditi,
Che gli son tutti ad ammirarlo intorno.
Le teste calve e le canute curvansi
Più innanzi a lui profondamente; gli avi
L'adorano in ginocchio e di lui godono
Fare un tiranno e farsi lor suoi schiavi.
Certo falso non è, chi ben sa intendere,
Che per amor di sì gentil fattura,
Misterïoso per lo immenso spazio
Un cantico di gloria invii Natura.
Falso non è, che il rude istinto pieghino
I compagni dell'uom fidi animali
Quasi in favor sovente delle tenere
Creature di quello inconscie e frali.
E re certo e bifolchi e i grandi e gli umili
Con senso egual d'amore e di rispetto
Della recente culla appiè si chinano
Come a un altar soave e benedetto.
Là del futuro il mister sacro adorano;
Perchè in picciole membra e in pochi lini
Là si cela talor chi un dì rivolgere
Potrà di interi popoli i destini.
Dunque le culle festeggiamo, e il mistico
Germe dell'avvenir che si nasconde
Dentro i piccioli cuori inconsapevole,
Dentro le teste ricciutelle e bionde.
Oggi s'allegri ogni famiglia: il fervido
Riso della festante ingenua prole
Sperda ogni infausta cura, al par di nebbia
Cui sperde il raggio di nascente sole.
Infelice la casa ove dissidio,
Miseria o mal costume agli innocenti
Figli defrauda il gaudio che s'addoppia
Ripercosso nell'animo ai parenti.
Più infelice la casa ove il connubio
Sterile siede, o dove tutto tace
Perchè frugò la cieca Morte il florido
Nido colla man sua scarna e rapace.
PER UNA IGNOTA
Molto mi piace, è ver; ma mentirei
Se dicessi che proprio mi par bella;
Pur non so qual lusinga arcana è in lei,
Ch'io ricercata ho indarno in questa e in quella.
D'altronde io non so ancor se sia costei
Maritata oppur vedova o zitella;
Bensì a udirla e a vederla penserei
Che niuna esser le può cosa novella.
Comunque sia, fra pochi giorni spero,
Se in fallaci speranze non si culla
L'animo mio, saper quale mistero
Sia questa donna oppur questa fanciulla,
E allor dirò... cioè, forse davvero
Appunto allora io non dirò più nulla!
BRINDISI
— Nera bottiglia io t'amo, e tu ispirato
M'hai sempre una fiducia senza par;
Tu m'hai l'aria d'un picciolo curato,
E a te spesso io mi soglio confessar.
Cura non ho, nè dubbio alcun mi piglia
Ch'io non lo venga innanzi a te a depor;
Tu se' il curato mio, nera bottiglia,
Tu sei, nera bottiglia, il confessor.
Sgorga dalla tua bocca un'eloquenza
Confortatrice d'ogni mio pensier;
Tu m'esorti alla santa pazienza,
Tu m'esorti alla fede e al buon voler.
Quando l'onda eloquente in sen mi versi,
Monto in siffatto ardor di carità
Per li simili miei, che i peggior versi
Leggo di lor con tutta umanità.
Leggo i più ladri versi; e pure io tento
In punte escandescenze non uscir;
Tutto al più molto presto m'addormento,
Senza la prima pagina finir.
Ma questo e nulla appetto della fede
Che dalla bocca tua discende in me;
Nera bottiglia, chi al tuo dio non crede,
Quegli un gran peccator davvero egli è.
Quando il divo tuo spirto in cor m'infondi,
L'Italia mia mi sembra un regno tal,
Ch'io credo che non possa nei due mondi
Esserci a questo un altro regno egual.
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Beviamo, amici! Ogni men bella cosa
Traverso il biondo ed il purpureo vin,
Appar d'oro dipinta oppur di rosa,
Ha splendor di topazio o di rubin.
Lettor, ch'io non conosco, e tuttavia
Poichè mi leggi sei sì caro a me,
Se t'imbatti a passar da casa mia,
Entra, c'ho una bottiglia ancor per te.
Marzo 1878.
FANTASIME
Nella notte talora io dall'insonnia
Spinto e dal caldo delle stanze scendo,
E sovra l'erba nereggiante e soffice
O passeggio o mi stendo.
Dorme la villa e la campagna; il sibilo
Stizzoso ascolto delle ree zanzàre,
O d'un villano ad or ad or percotemi
Il gagliardo russare.
Ma poichè son poeta, io so prescindere
Dall'aspre realtà di questa terra;
Ecco uno stuol gentile di fantasime
Intorno a me si serra.
Quell'ombre care quinci e quindi balzano
Da ogni zolla più verde e più fiorita:
Di fior natura han forse estinte — d'angelo
Ebber natura in vita.
Oh! di mia gioventù vezzose, ingenue
Illusïoni, che già vive un giorno
E palpitanti d'uno spirto etereo,
M'eravate d'intorno;
Che come donne innamorate, stringermi
Al seno usaste in portentoso amplesso,
E che m'avete, all'orecchio parlandomi,
Tanto e tanto promesso;
Ora morte voi siete e più del gaio
Bisbiglio vostro non s'allieta il core;
Bensì talor l'ombre di voi m'appaiono,
Che già foste il mio amore.
L'imagin vostra innanzi allo spettacolo
Di cosa che i miei sensi meglio avviva,
L'imagin vostra ecco m'appar di subito
Siccome forma viva:
Per via, dinanzi al fiume od all'occiduo
Sole o alla luna o a stelle in ermo colle
O a una donna o, com'or, sotto le tenebre
E su fiorite zolle.
Oh venite, venite! ripetetemi
I vostri dolci ingannevoli accenti!...
Una allor mi s'accosta e pian mi mormora:
— Di me te ne rammenti? —
O ti rammento sì, bella, adorabile
Fata che l'avvenir mi popolavi
Di favolosi amori, e donne e vergini
Nelle braccia mi davi!
Dice un'altra: — Di me serbi memoria,
Che ti cingea di sempre verdi allori,
E il tuo nome faceva in tutta Italia
Ir famoso e anche fuori?
Susurra un'altra: — Ed io che farti ascendere
Seppi al poter. Seppi più volte farti
Ministro della Istruzione Pubblica
E delle Belle Arti! —
E un'altra ancora: — Ed io che usai soccorrere
A tue strettezze e seppi riempire
A te le tasche degli incalcolabili
Scudi dell'avvenire! —
— Ed io, ed io! — parecchie altre soggiungono;
O sì di tutte, e siete più di cento,
Oh di mia gioventù compagne amabili,
Di tutte mi rammento.
Venite ancor, venite a me! ch'io credere
Tuttavia possa a voi per brevi istanti,
Che mi parlate di poter, di gloria,
Di ricchezze e d'amanti.
Sì, come un dì, venite ed ingannatemi:
Fate ch'io possa toccarvi con mano...
Ma troppo è tardi; ombre vezzose, a stringervi
Io mi affatico invano.
La rozza realtà mi tocca stringere,
La rozza realtà che mi circonda:
Ahimè a quest'ora io mal riesco a illudermi;
So che è notte profonda.
Bensì un livido lampo senza requie
Dell'orizzonte s'agita ai confini,
Facendo il volto impallidire agli aurei
Astri eterni e divini.
Alcuni lumi piccioli si scorgono
Giù per la valle che alta notte ingombra;
Cani latrar lontanamente s'odono
Quà e là dentro quell'ombra.
La locusta riempie col monotono
Suo verso i solchi, stridon le zanzàre
Inviperite, e dal vicin tugurio
S'ode il villan russare.
Manda la coccoveggia dai comignoli
Il singulto che all'uom suona fatale;
Passa nell'aer nero una precipite
Forma ed un suono d'ale.
A letto, a letto! e tu, Sonno, soccorrimi,
Sonno, a noi di Natura almo presente,
Sonno, della serena ed impassibile
Morte gentil parente.
PER UN AMICO ESTINTO ( Antonio Caumo Junior )
SONETTI
I.
Mesto regno dell'ombre, a cui lo stolto
Mortal senza terror l'occhio non piega,
E poichè sa che là il suo passo è volto,
Lunga almeno la via dal Ciel si prega;
Non io così da te ritorco il volto,
Nè il fango della terra il piè mi lega
Tanto, che a te non mova alacre e sciolto,
O arcana landa, onde tornar si niega.
Bensì tutto m'inonda ancor la vita;
Ma come in alpe, mentre il sol c'è sopra,
Miriam la valle pur tra nebbie ascosa;
Miro io così laggiù l'ombra infinita,
E prima ancor che il mio bel dì si copra,
Spingo lo sguardo entro l'occulta Cosa.
II.
E se Amor non m'inganna o Poesia,
Ch'empion di larve spesso e cuore e mente,
Quel mondo ignoto, ecco subitamente
Albeggia agli occhi della mente mia.
E come a notte per campestre via,
Sotto la luna par lontanamente,
Ch'ivi fra nebbie d'indistinta gente
La contrada animata a un tratto sia;
Così vegg'io nella crepuscolare
Ombra del regno arcano, erranti e meste
Forme fra cui molte a me note e care;
Onde più che terror provo desio
Di quel regno nel qual mi precedeste,
O miei congiunti, o amici, o padre mio!
III.
Dove tu pur fra gli ultimi venuti,
Dolce amico, affrontasti il grande arcano,
E là parmi veder che tu con mano
M'accenni anco una volta e mi saluti:
Più ancor, m'illudo o il tuo grido lontano
Meco si lagna perch'io non t'aiuti?
Certo m'illudo e in ciechi spazi e muti
Tendo l'orecchio e spingo il guardo invano.
Tutto è mistero. Il sepolcrale orrore
D'alta speme vestir m'è gran dolcezza;
Ma il tuo cenno, il tuo grido è nel mio cuore;
Là sol tu serbi ancor le usanze umane,
Là che intero tu vivi ho sol certezza,
Nel cuor mio, finchè a lui vita rimane!
Dicembre 1875.
INSONNIA
Misterïosi spiriti
L'arcano mondo serra;
Nascosti son nell'aria,
Sono nascosti in terra;
Misterïosi spiriti
L'arcano mondo serra.
Quando a notte mi corico,
Da un pezzo ho per costume
Il mio giornal di leggere;
Poscia smorzare il lume,
E cheto cheto attendere
Il sonno è mio costume;
Ma in quella vece giungere
Altri suole più spesso;
Al mio letto uno spirito
Pian piano si fa presso,
Irrequïeto spirito
Che mi visita spesso.
Io lo sento accostarmisi;
Stende su me le mani,
Ed ecco tosto fluidi
Concitati ed arcani
Sopra i miei nervi scendere
Sento da quelle mani.
Io più non trovo requie,
Acre smania m'assale;
Su questo fianco volgermi
O sopra quel non vale,
E quanto più m'adopero
Tedio maggior m'assale.
Di mostruose imagini
Prende il buio i colori;
Io gli occhi stringo e intendere
Mi par strani rumori;
Ond'ha suoni il silenzio,
Come il buio ha colori.
Misterïosi spiriti
Racchiude il mondo arcano;
In terra son, nell'aria,
Sono nell'oceàno;
Misterïosi spiriti
Racchiude il mondo arcano.
Lo spirto dell'insonnia
Accanto a me s'asside,
Cose disaggradevoli
Nell'orecchio mi stride;
L'insonnia, ahimè! l'insonnia
Al letto mio s'asside.
A lei non è dell'anima
Alcun segreto ignoto,
A lei del cor non celasi
Il più leggero moto,
A lei del capo l'ultimo
Pensier non resta ignoto.
Sa tutto, ed instancabile
Il tutto mi ripete;
Ma fra le cose sciegliere
Suol essa le men liete;
Spiega, commenta, esagera
Il mal che mi ripete.
Lento venir sull'aere
Il suon dell'ore intendo,
Penso di nuovo leggere,
Il lume riaccendo;
Lente frattanto battere
Ecco le tre già intendo.
Il sonno allor di subito
Mi sembra che mi pigli;
Mi ricompongo immobile,
Ma con più fieri artigli,
Par ch'anzi allor l'insonnia
Quasi folle mi pigli.
Spine in letto mi semina
E mi avvoltola in quelle;
Dura il crudel martirio
Finchè duran le stelle;
L'insonnia sol dipartesi
Al dipartir di quelle;
All'alba sol, lasciandomi
Franto fino a le dita;
Sopra il guancial precipita
La testa intorpidita,
Finchè vien tardi a scuotermi
Il sol coll'auree dita.
Misterïosi spiriti
L'arcano mondo serra;
Celati son nell'aria,
Sono celati in terra,
Misterïosi spiriti
L'arcano mondo serra.
REALISMO
Ebbi una volta i miei vent'anni anch'io.
Di sogni d'oro e d'ideali splendidi
Popolato era allor l'animo mio,
Come a ciascuno avviene in età simile.
Anco una bella amante aveva allora,
Una leggiadra e graziosa femmina.
Accanto a lei sino a tardissim'ora
Mi trattenni una notte. Oh notte eterea!
Coricati eran tutti, ed a lei stessa
Scender fu forza i chiavistelli a mettere,
Poichè uscito io mi fui, chè compromessa
Si sarebbe chiamando alcun domestico.
Era il ciel di zaffiro, e l'alta intera
Luna splendea, colà d'intorno un pallido
Lume alternando alla grand'ombra nera
Che le case facean sbarrate e tacite.
Solo andavo per via, nè voglia alcuna
Di coricarmi avea, perchè nell'anima
Della recente mia somma fortuna
Mi duravan tuttor l'ebbrezza e il giubilo.
Oh adorabile donna! E tutto assorto
In tal pensiero e in estasi dolcissima,
Cheto arrivai dove dell'umil porto
I due bracci entro il lago un po' si spingono.
Colà del molo in sull'estremo sasso
A sedere mi posi e penzolavano
I piedi miei sull'onda, ch'ivi abbasso
Alle pietre battea con lieve murmure.
Luccicante era il lago e tutto piano,
Se non che a macchie qua e là increspavasi,
E dentro molli nebbie da lontano
Lento parea nel curvo ciel confondersi.
Dietro stava il villaggio, e i colli e il monte
Girando a par d'anfiteatro, un rigido
Tono mettean sul cerulo orizzonte,
Come d'opaco aspro metallo fossero.
Una blanda stanchezza i sensi miei
Lusingava frattanto, e a tutto l'essere
Mio pareva in allor mescersi a quei
Grandi silenzi arcani ed alla requie
Solenne d'ogni cosa, ond'esso intorno
Dovunque circonfuso era e sentivasi...
Pur dell'amata donna e dell'adorno
D'un fior molle suo crine il grato effluvio
M'era ai panni rimasto, ed alle nari
Talor saliami lieve, impercettibile,
Ma non così però che in me dei cari
Vezzi di lei, degli atti suoi, del trepido
Abbandonarsi la memoria intiera
Non ridestasse a un tempo e la delizia
Del fruir tutto ciò, quasi com'era
Stato dianzi or tornasse anco a succedere.
Sol mi pareva in elemento adesso
Fatto d'argentea luce e di silenzio
E di calma infinita il nostro amplesso
Non so ben come arcanamente compiersi.
E m'era avviso, mentre in dolce laccio
Stretto io tenevo l'adorata femmina,
Di sentirmi salir, cullato in braccio
D'alcun ignoto iddio, su dentro l'etere.
Ben la natura stessa allor, cred'io,
In questo m'inducea grande e fantastico
Sogno, dove sembrava all'esser mio
Lentamente passar, tra molli gaudi,
Dall'amplesso finito allo infinito
Di tutte cose amplesso, ed ivi sciogliersi
Come in non so qual mar che senza lito,
Alto ondeggia, lontano, azzurro, splendido.
Giurabacco, ch'io mai non ero asceso
A più ideale altezza! — Ed allor eccoti,
Mi venne a un tratto un certo suono inteso,
Qual d'un'aura compressa nell'erompere.
Tosto a quel suon dal sogno mi riscossi,
E mirando la spiaggia, ivi ebbi a scernere
Un uomo accoccolato, il qual levossi
Presto, e partiva i panni indi assettandosi.
Bene io compresi allor: costui venuto
Era a far ciò, che il dirlo non e lecito,
Appunto là, dov'io da presso, muto
Ammirando, ed assorto in placida estasi
Dinanzi allo spettacolo di quella
Notte che invano or or tentai descrivere,
Versavo in grembo alla sublime e bella
Natura tutto quanto era in me d'anima.
Ma la Natura, ahimè, bella e sublime
E non meno crudele, e alfin di vacui
Inganni austera correttrice, all'ime
Realità di subito con ferrea
Mano m'avventa, e dai sognati cieli
Dello ideale mi richiama all'umile
Verità delle cose, e senza veli
Mi dimostra la terra, ond'io sollecito
Quindi mi levo e volgo afflitto in mente
Come il bello ed il brutto accanto vadano:
Il bello è un matto sogno assai sovente,
Ma non già il brutto un sogno mai suol essere!
PICCOLO MONDO IDILLIO DOMESTICO
1870-77
Nihil sanctius quam domus. Cic.
I.
Fu a mezzo ottobre, quando si fan gialle
Le foglie, e al primo soffio che diserra
Il monte su la valle
Cascano in folla a terra;
Fu a mezzo dell'ottobre disadorno,
Che a la modesta villa,
Dov'ebbero tranquilla
Dimora i padri miei, feci ritorno.
Dopo l'assenza di molt'anni al loco
Feci ritorno dell'infanzia mia;
Partii fanciullo e poco
Men che adulto or venia:
Nessuno ravvisarmi avria saputo,
Ma gli antichi cipressi
Vidermi appena, ch'essi
Mossero il capo in segno di saluto.
Furon dinanzi del cancel piantati
Da non so quale de' miei vecchi stessi
Que' due vecchi cipressi;
E là come soldati
Stan da gran tempo a guardia del mio tetto,
E mi conobber tosto,
Perchè ai lor piè deposto
Io soleva giocar da pargoletto.
II.
Le scale ascesi e penetrai le stanze
Che gran tempo di passi e voci umane
Furon mute, e ove leggonsi le usanze
D'un'età spenta in quel che ne rimane.
Il padre mio che preferì altra sede,
Presso quel lago ch'ei descrisse in rima,
Là morir scelse, e non aveva prima
Più da molt'anni qui rimesso il piede.
O alti stipi addossati a la parete,
Seggioloni, erti letti e mense gravi,
O vecchi arredi a cui le meste o liete
Vicende e i sensi noti fur degli avi;
Io vi ammiro in silenzio, e quasi provo
Vergogna d'esser io vostro padrone,
Chè il serio aspetto vostro assai m'impone,
E pur meschino in faccia a voi mi trovo.
III.
Volontier ci si indugia accanto al foco,
Nella lunga autunnal rigida sera,
Massime in vecchie case, ove fan poco
Schermo le imposte contro la bufera;
Io la serata intera
Spendo con gran diletto
Dinanzi al caminetto.
Danzan le fiamme sugli enormi alari
Volubili e scherzose e suonan liete,
La stanza empiendo di giocondi e vari
Riflessi, mentre sovra la parete
Si movono inquiete
L'ombre e i profili neri
Dei mobili severi.
Vecchie pareti, a cui nessuna è ignota
Di tante cose innanzi a voi compiute,
Se per narrarmi dell'età remota
Voi cessaste un momento d'esser mute,
Forse d'aver sapute
Quelle cose, mi pare,
Che a me potria giovare.
Forse m'illudo, nè dir cosa nuova
Voi potreste, ch'io pria non la sapessi;
Che l'umana vicenda si rinnova,
Ma poco muta, e gaudii a noi concessi
Furo e dolori stessi
In alto e in umil stato,
Oggi e per lo passato.
IV.
Ma forse in tutto nemmen questo è vero;
Nè certo or fa cent'anni i nostri vecchi
Si davano pensiero
D'argomenti parecchi,
Ch'oggi il cuore e la mente
Vanno struggendo a noi, povera gente!
Le manìe metafisiche discese
Anco non eran nell'Italia allora;
La scïenza politica, com'ora,
Non era ancor palese
A ciascheduno, fino al mio barbiere,
Cose che non parrebbe, e pur son vere.
Il sentimentalismo umanitario
(Ahimè, che versi scrivere mi tocca!)
Ch'oggi a tanti la penna empie e la bocca
Di sonante frasario
Non era noto allor... ma un tal soggetto
Mi guasta il verso e il sangue e però smetto.
Pur tinto è ognun di noi, qual più qual meno
Di questa lebbra, e come tutti io stesso;
Onde nel fior degli anni miei l'ameno
Tempo autunnale spesso
Vo' sprecando nell'egre ed affliggenti
Malinconie delle moderne menti.
Già non degli avi miei questo avvenia.
Oh dolci autunni antichi! Innanzi al giorno
Il mio buon nonno uscia
Di casa ed ascoltando in alto e intorno
Se di buona passata indizio c'era,
S'affrettava pel colle all'uccelliera.
Detta la messa che il nipote accorto
Serviagli, il prete (uno, anche due talora
Vestivano in mia casa i sacri panni;
Questo era l'uso allora:
L'ultimo io stesso lo conobbi; è morto
L'ottimo vecchio appunto or fa vent'anni;)
Detta dunque la messa, anch'egli il prete
Tosto accorreva col nipote allato
A veder se frattanto nella rete
Molti augelli avean dato.
Così in parte venia la mattinata
Lietamente impiegata.
Poi s'attendeva a por la copiosa
Vendemmia dentro i tini con saggezza,
O in acconcia maniera
Alla stura attendeasi, o ad altra cosa,
Ch'ora io dir non saprei con sicurezza,
Ma ch'util certo e dilettevol era.
Per tal guisa in tranquille opere oneste
Spendeano il giorno gli avi,
Nè lo studio era l'ultima tra queste,
E il libro non di sogni irriti o pravi
Suscitatore, alle solinghe e lente
Passeggiate compagno era sovente.
La serata oltremodo era gioconda:
Gli augelli il mattin presi, unti e arrostiti,
Eran su la rotonda
Polenta molle in lunghe e fitte schiere
Per la cena imbanditi,
E colmo del vin nuovo era il bicchiere.
Convenivan gli amici intorno all'otto.
Allora spesso il conversar festoso
Da scoppio fragoroso
Di risa era interrotto.
Ma in disparte raccolti, aspri, accigliati.
Giocavano al tresette i più attempati.
Si ballava talor, ma d'improvviso,
Senza apparato: i giovani eleganti
Meglio ne' modi assai che nel vestire;
Le donne adorne solo di sorriso,
Senza trine o brillanti;
E ognuno a mezzanotte era a dormire.
V.
Ahimè! da queste cose
Son trascorsi molt'anni:
Il padre mio gli affanni
Del viver suo nascose
In solitudin tetra,
Finchè sotto la pietra
D'un sepolcro si pose.
Da lunga età la stanza
De' gai ritrovi è muta,
Nè un passo più si muta
Nella sala ove usanza
Ebbero de' miei padri
Le spose i piè leggiadri
Movere in lieta danza.
E il tempo indarno sfida
Sul granaio il panciuto
Multicorde liuto,
Che ai balli un dì fu guida;
Or confortabilmente
Il topo sapïente
La prole sua v'annida.
De' topi indi la prole
Porta dall'istrumento
Che l'annidò il talento
Del danzatore, e suole
Laddove furo i gravi
Minuetti degli avi
Menar le sue carole.
Il vento spesso viene
Di musical romore
Ottimo esecutore,
E al ballo bordon tiene;
Da solo fa le veci
Non d'una, ma di dieci,
All'uopo, orchestre piene.
La canna del camino
Gli serve di trombone
Con che il basso compone,
E forma il vïolino
Fischiando agli usci fessi,
E tra i vetri sconnessi
Aprendosi il cammino.
Io che non là da presso
Dormo, ma il sonno ho lieve
Mi sveglio al suono in breve,
Benchè arrivi sommesso:
I vecchi ai noti lochi
Tornano ai balli e ai giuochi —
Penso allor fra me stesso.
— Certo nell'alta notte,
Alle lor feste i vecchi
Tornan che da parecchi
Anni furo interrotte: —
Accenti odo, segrete
Voci in sì gran quïete
Come non so prodotte.
Son l'avole amorose
Che lasciano i mariti
A bofonchiare uniti,
E il nipote bramose
Cercando van con orme
Furtive s'egli dorme
Nelle stanze più ascose.
Pendono sul mio letto
Spiando attente attente
Qual abbia se avvenente
O se illegiadro aspetto
Colui ch'unico resta
Di lor stirpe modesta,
Colui ch'è il lor diletto.
Cenno col dito fanno
Che ognuna zitta stia,
Che sturbato io non sia;
Così a mirar mi stanno;
Molte vorrian baciarmi,
Ma per non isvegliarmi
Quel piacer non si danno.
Mi guardo io ben d'aprire
Gli occhi. Le care donne,
Le mie povere nonne
Non san che di dormire
Solo per arte io fingo,
Ch'io veglio e gli occhi stringo
Per non farle fuggire.
VI.
Ma i morti sono morti e non ritorna
Nessun di lor per quanto l'alma vita
E la casa ove nacque abbia gradita
E la sua stirpe ch'ivi ancor soggiorna.
Ahimè l'avole mie son tutte morte,
E giacciono incomposte ossa a quest'ora
Nel suol costrette, non che sian talora
Per venirmi a veder giammai risorte.
Ma quai vapor ch'estiva notte aduna,
Piglian vaghi e fantastici sembianti,
Quasi d'arcani spirti in cielo erranti
Al novo raggio di crescente luna;
Così le pie memorie che man mano
Desta in me la dimora di mia gente
Antica, al raggio dell'accesa mente
Vita pigliano e voce e aspetto arcano.
Molto io t'amo o modesta antica villa
Che fosti ai miei placida stanza e amena,
Dove nacque alcun d'essi, oppur serena
Vita condusse, o morte ebbe tranquilla.
O buona casa, o vecchia casa io t'amo,
Sebben cadente sei, laonde il saggio
Muratore a consiglio e del villaggio
Il fabbro spesso e il legnaiuolo io chiamo.
Molte misure e ovunque son da noi
Prese su te, ch'io far di te vorria
La miglior casa che dintorno sia,
E non sol riparare ai danni tuoi.
Vorrei che il passeggiere il bianco e bello
Aspetto tuo mirasse da lontano,
E che sosta facesse il buon villano
Per vagheggiarti innanzi del cancello.
Ma assai fu detto e nulla s'è conchiuso
Co' mie' architetti, e tu mi sei rimasta
Vecchia, o mia casa, molto vecchia e guasta,
Qual d'esser da gran tempo hai preso l'uso.
Noi non potemmo intenderci al postutto;
Mi ci vorrebber venti mila lire,
C'intenderemmo allor, non c'è che dire,
Ma non ci son purtroppo, e questo è il tutto. —
VII.
Ma il moto urge e governa
Ogni terrestre cosa;
Sol la Vicenda eterna
È in terra, e mai non dorme
E mai non si riposa
Dal mutar nomi e forme.
Tutto quaggiuso muta
E nulla pêre intanto:
L'uom, l'opra sua compiuta,
Sotterra il genitore
Raggiunge, ma per tanto
L'umanità non muore.
Il suolo ampio nasconde
Genti morte infinite,
Più assai che in selva fronde
Non copran esso il verno:
Ma di fronde e di vite
È il riprodursi eterno.
Ravviva il sacro Aprile
L'albero irrigidito
E dà virtù gentile
Al seme che si trova
Dentro terra smarrito,
E messi e fior rinnova.
E Amor ripara il danno
Che dal recar non cessa
Morte ogni dì dell'anno;
E la culla prepara
Pur nella casa istessa
Ond'esce or or la bara.
Quante abitaron genti
Questo mio colle aprico?..
Io sotto ai fondamenti
D'un muro che atterrai
Stretti nel suolo antico
Molti giacer trovai.
Pria che il muro costrutto
Certo fur là sepolti,
Ed era quel ridutto
Per vetustà a cadere;
Figuriamci se molti
Anni doveano avere!
Chi fossero è mal noto:
Narrasi che un convento
Fu qui in tempo remoto;
Nulla s'oppon che quelli
Scheletri nel trecento
Non fosser fraticelli.
O buoni e saggi frati,
Che qui viveste e siete
Morti qui e sotterrati,
Chieggovi umil perdono
Se a romper la quiete
Vostra venuto io sono.
D'ogni cosa mortale
La varia vece e questa.
Così alla monacale
Famiglia è poi successa
Qui la mia gente onesta
Nell'egual sede istessa.
Ma dei frati di pria,
La cui folla s'ignora,
E della gente mia,
Che di padre in figliuolo
Tre secoli dimora
Qui tenne, resto io solo.
Pur l'avvenir son io;
Io sono il germe ascoso,
E attendo il maggio mio.
Ma come sulla rasa
Gleba, l'infruttuoso
Verno or mi siede in casa.
VIII.
Scrive la Sand che la miglior stagione
D'abitar la campagna è il verno; io dico
Il ver non ho codesta opinïone,
Eppur son della villa un grande amico.
Alla campagna io duro
Fino ad anno avanzato,
Ma quando è giallo il prato,
L'albero spoglio, oscuro
Il cielo, il giorno breve
Men peggio assai mi pare,
Quando viene la neve,
A Milano abitare.
Triste è abitar nel verno la campagna:
Bigia e folta la nebbia ai colli siede,
Lenta inesausta pioggia intorno bagna
Per quanto spazio abbraccia l'occhio e vede.
Che si fa, lungo il giorno,
Se non che sol l'infesta
Noia portar da questa
Seggiola a quella intorno?
Nè il mutar stanza o loco,
O seggiola o lettura
Soltanto mi procura
Ch'io muti noia un poco.
Tedio eguale mi rode il giorno intero,
Nè se il tempo è miglior m'annoio meno,
Correndo via per questo o quel sentiero,
Ch'ora è sì triste, e vidi già sì ameno.
Al sole ch'è malato
Certo il gelo è molesto,
E si corica presto,
Poichè s'è tardi alzato.
Con braccia scarne aiuto
Chiede il gelso, e il cipresso
Trema per freddo acuto
Nel suo mantello istesso.
Cascan le trine argentee crepitando
Giù dalle siepi dove fruga il vento;
E via dal fosco pian di quando in quando
Mover mi sembra un suono di lamento:
Dice quel mesto suono:
Poeta a che ti stai?
Della Natura ormai
Chiuse le feste sono.
Invan le giaci in seno
E amor di lei ti move;
È morta o poco meno;
Cerca tue gioie altrove.
Afflitto mi rincaso e penso io pure
Di rituffarmi tosto allegramente
Fra le tumultuose e dolci cure
E fra i piacer de la città frequente:
Chè certo sarei stolto
Se fra questo squallore
Tener volessi il fiore
Degli anni miei sepolto,
Mentre una molle egizia
Danzatrice brunetta,
Che fu già mia delizia,
A Milano m'aspetta.
Quando Amneris con la celeste Aida
Pel vago Radamés venne alle prese,
Quella danzar mirai tra preci e grida
Del sommo Phtà nel tempio, e amor mi prese.
Io so che nelle braccia
Ell'ha tutto l'ardore
Del sol d'Egitto e in core,
Quando stretto m'allaccia;
E or mentre i dolci istanti
Ch'ebbi da lei rammento,
I tizzi schioppettanti
Con le molle tormento;
Ma non così s'avviva e dà scintille
Il fuoco presso cui passo la sera,
Quanto il mio cor s'accende e di ben mille
Sfavillanti pensier l'anima intera
Si riempie, com'io
Sovvengomi di lei...
Oh pazzo ben sarei
Se in città, vivaddio,
Non ritornassi tosto!
Il verno qui mi scaccia,
E là ho sì dolce posto
Fra quelle care braccia!
Ma popolare la deserta stanza
Di larve benchè liete a me non giova,
Mentre di queste la real sostanza
Molto lontana ora da me si trova.
Più di me niuno apprezza
La virtù portentosa
D'imaginarsi cosa
Qual più l'alma accarezza:
Ma la sera invernale
Ha spazio sufficiente
Per darvi un piacer tale
A lungo e largamente,
E serba tanto spazio tuttavia
Da annoiarvi di poi senza confine;
Nè di bei sogni allegra compagnia
Fa che siate men soli alla fin fine.
Pertanto io sono solo,
Fuorchè alle serramenta
Percote e si lamenta,
Ovver passando a volo
Biascia parole amare
L'aquilone irritato
Perchè nol lascio entrare
A scaldarmisi allato.
Solo son io: bensì chiamare io posso
In aiuto il fattor, uom dotto e saggio,
E lasciar tutta arrovesciarmi addosso,
Come fecondatrice acqua di maggio,
L'illustre agricoltura,
Che in suo cervel s'addensa,
Pari a nuvola intensa
Sui monti, che assicura
Le messi esauste al sole;
Se pur grandin non sia,
Che nulla invece suole
Lasciare in cortesia.
Ma col verno non val saggezza o cura;
Sterile è il verno e a pormi l'alma in fiore
Or ci vuole ben altra agricoltura
Che non sia quella del saggio fattore.
Solo, solo son io;
Tu stesso, o picciol cane,
Posi or l'ossa lontane,
O Fido, amico mio,
Che sdraiato sovente
Al foco e a me dappresso
Russavi chetamente;
M'hai lasciato tu stesso.
Morto purtroppo sei, matto compagno
De' miei trastulli un dì, che vecchio e stanco
Adesso il giorno inter m'eri al calcagno,
E tutta sera mi dormivi a fianco.
Bello non fosti, è vero;
Can da pagliaio, onesto
Vissuto se' in modesto
E piccolo mestiero:
Sordo eri or poi; ma un giorno,
Lesto ad ogni romore,
Fama ottenevi intorno
D'ottimo abbaiatore.
Or tu pure se' morto, e un'amarezza
Grande io sento di ciò, come se un molto
Fedele amico, a cui l'anima è avvezza,
Stato mi fosse d'improvviso tolto.
Nè di te cosa alcuna
Or viva più rimane,
O buono ed umil cane?
Nè in qualche stella o luna
Più vive il saldo affetto
Che ti brillò nel fondo
Occhio finchè negletto
Passavi in questo mondo?
Altra vita alcun premio a te non serba
Dell'util opra tua, nè guiderdone
Di tue virtù modeste in meno acerba
Sorte e in altra miglior condizïone?
Misero in vita e in morte,
O mio povero cane!
Quante son bestie umane
Che han di te miglior sorte:
Non ti valgono in vita,
E tuttavia defunte
Trovan gioia infinita
Nel paradiso assunte!
IX.
Poggi e valli d'un nembo di verzura,
E d'alma luce e bionda
Il divo maggio inonda
L'aura turchina e pura,
Nella quale s'immerge schiamazzando
La pazzerella rondine;
Io tosto, messa ogn'altra cura in bando,
Salgo alla villa antica
E a la natura amica
Conforto e oblio domando
Della città che m'ha seccato assai
Co' suoi costumi pessimi.
La danzatrice egizia che adorai
Volle aver più mariti;
Son nostri e vecchi riti,
Nè ancor mi ci addestrai.
Ma questo è nulla: a fin di carnovale.
Per troppo al gioco perdere,
(Fin su i capegli alto il rossor mi sale)
Restai corto a quattrini,
Onde a certi strozzini,
Per farla meno male
In giorni a lesinar poco opportuni,
Duopo mi fu ricorrere.
Oh del viver civile acri e importuni
Bisogni! — Basta, intorno
All'ultimo soggiorno
Che in città feci, alcuni
Guai vi dirò me l'hanno reso amaro.
Ora i campi mi accolgono.
Maggio tripudia, e tu del tempo avaro
Compensami, o Natura;
Sanami d'ogni cura,
E il verdeggiante e caro
Grembo mi schiudi ove riposo io prenda...
E il raccolto dei bozzoli
Fa ancor che abbondi, e che ben lo si venda.
X.
Io dall'uom non rifuggo, e meno ancora
Dalle donne se belle e sagge sono;
Ma domando perdono,
La compagnia degli alberi talora
Sotto più d'un aspetto
Mi dà maggior diletto.
Mai, per esempio, non s'udì che avesse
Il pero a sdegno il suo non vil mestiere
Di fare delle pere,
E ch'egli a un tratto il cedro si credesse,
Come dell'uom si vede
Che sovente succede.
Chi nano e storto nespolo sarebbe
O sorbo sciocco o frutto anche peggiore,
Fra noi pretende onore
D'ananasso o di dattero che crebbe
Orgoglio d'oasi amene;
Pretende e spesso ottiene.
O vanità malnate, o stroppi intenti,
O bassezze del picciolo mortale,
O invidie abbiette, o male
E pettegole lingue, o brute menti
Io vi aborro vi aborro,
Però ai campi ricorro.
In campagna per tempo ogni mattina,
Se nuvolo non è si leva il sole;
Codesto avvenir suole
Anco in città, ciascun se lo indovina.
Ma chi concluder osa
Che sia l'istessa cosa?
Come ogni vel donna al marito in faccia
Toglie e si mostra in sua bellezza intera,
Ad un'egual maniera
D'ogni vapor tosto che il sol s'affaccia
D'orïente alla soglia,
La terra si dispoglia.
Di baci il sol, fervido eterno sposo,
E di tremule gemme il sen le inonda,
E l'abbraccia e feconda
Con mille raggi e mille, in glorïoso
Miracoloso amplesso.
Al tempo istesso
Si desta il tutto e portan l'aure intorno
Suoni indistinti, a guisa di messaggio
Col quale in lor linguaggio
Tutte le cose dannosi il buongiorno;
Ed io che a questo attendo
Occulti fatti apprendo.
Chiede l'olmo se bene ha riposato
Alla vite; il frumento aureo sospira
Sommessamente e gira
Il capo in atto estatico e beato
Perchè la molle brezza
Lo molce e lo accarezza.
Il giovinetto augello alto la lieta
Canzone della vita all'aure invia;
Quel non ha la mania
Ond'è tocco fra noi più d'un poeta,
Che disinganni e danni
Sogna e piange a vent'anni.
Senza pretesa aver che dal Fanfulla
O dall' Antologia siano lodate,
Come ogni nostro vate
Pretende s'egli fa cosa da nulla,
Le cicale fan versi
Sugli alberi diversi.
I fioretti del prato arcani accenti
Van susurrando, e narransi fra loro
I propri sogni d'oro
Onde infiniti traggono argomenti:
Ma il pino, ahimè, crollando
Va il capo a quando a quando.
Il papavero lungo e scimunito
Si pavoneggia in abito scarlatto,
E a la modesta a un tratto
Margarituccia avventa un motto ardito,
Che tutta in sè raccolta
Lo sciocco non ascolta.
Ma fra noi, Margarite e Ortensie e Rose,
Tutta la flora femminile, ovvero
Il calendario intero
Porge le orecchie sue poco sdegnose
Ai papaveri spesso
Che ci stan fitti appresso.
XI.
Ma poi che il sol più eccelso a mezzo il giorno
Fiamme dardeggia intorno,
E fatta l'atmosfera
E tutta intera
Un infinito incendio,
Il villanel dal mieter si riposa
Sotto la pianta ombrosa:
D'un solco s'accontenta,
Là s'addormenta
E insetti invan lo pungono:
Cheta lo sugge la zanzàra e sozze
Mosche fan chiasso e nozze
Sopra il suo volto bruno;
Ei spesso alcuno
Schiaffo s'avventa e scuotesi;
Non si desta però; con moto eguale
Scende il suo petto e sale
Ch'ei mostra ignudo, e i denti
Bianchi e lucenti
Fra le sue labbra appaiono.
Or se anch'io nel più fresco nascondiglio
Della mia casa piglio
Libro o giornal fra mano,
Un subitano
Sopor tutto mi domina.
Sull'ora calda in villa è dolce, è bello
Stiacciare un sonnerello;
Poi s'ha più lena a rudi
Opere e studi...
E anche meglio si desina.
O eterni numi e santi, a voi non piaccia
Mai che altra vita io faccia
Da questa mia tranquilla
Ch'io meno in villa,
Del mondo imbuscherandomi.
Vita mia, tu se' fatta della lieta
Fatica del poeta,
E d'ozio il più sereno;
Oh così almeno
Durassi un mezzo secolo!
Or poscia il carro sul finir del giorno,
Fa dai campi ritorno
Carico dei covoni,
Ed i coloni
Tutti presso lo seguono.
Lento in fondo alla corte il carro passa;
Più giù si stende bassa
La valle e quindi il colle
Sorge, che il molle
Roseo tramonto imporpora.
Come in un nido, in cima al tremolante
Acervo è la festante
Frotta dei fanciulletti:
I buoi gl'insetti
Con la coda si scacciano;
Col pungolo in ispalla e ignudo il piede
Primo il bifolco incede,
E le spigolatrici
Dalle pendici
Cantando ultime scendono.
XII.
Tutto spira l'idillio, e sol mi manca
Fillide bruna o Clori bionda e bianca
Perchè l'egloga io tessa.
Ma quelle stan nei libri: nel contado
Al bel sesso non è che assai di rado
Vera beltà concessa.
Ben tu fosti leggiadra, o gaia e svelta
Fanciulla che Diana avrebbe scelta
Volontieri a compagna,
Quando in età più d'oggi assai felice,
Ella correa succinta cacciatrice
Il bosco e la montagna.
Bella eri tu davvero, Anna. Sul colle
Come giovine pioppo il fine e molle
Tuo corpo m'appariva.
Ed avea quel tuo corpo adolescente
D'una frutta anco acerba il prepotente
Invito e l'attrattiva.
Ma d'ingenue malizie e di baleni
Avevi i lunghi e verdi occhi ripieni,
Come zingara ispana;
E spesso il vento allegro e libertino
Giocava nel tuo crin sciolto e corvino
E nella tua sottana.
Bella eri tu: dritta sugli erti solchi
Irridevi ai coloni ed ai bifolchi,
Alcuna tua canzone
Lieta intonando; in fiamme era ponente,
Tu spiccavi sul cielo incandescente
Come una visione.
Bella tanto eri tu che si potea
Rassomigliarti a una silvestre Dea:
Ma più che Dea tu eri;
Una donna eri tu dolce e vezzosa,
Che divide coll'uom, sorella e sposa,
I dolori e i piaceri.
E a te valse, fanciulla, il vago aspetto
Che avventurate nozze un giovinetto
T'offerse imprevedute;
Ahi! ma ufficio di sposa e più di madre
Presto avvizzì le tue membra leggiadre
E il fior di tua salute.
Or tu quando m'incontri ancor sorridi:
Ma da' precordii tuoi, come da nidi
Augelletti irrompenti,
Più non iscoppian le vivaci note,
Nè più l'eco dei poggi ripercote
Le risa tue frequenti.
Oh gioconde vendemmie! ti sovviene?
In lunga fila, con le ceste piene
Dell'uva, dal vigneto
Scendono le ragazze barcollanti
Pel grave peso, e suona l'aer di canti
E di schiamazzo lieto.
Versan poi l'uva entro l'ammostaruola
(Bada, i toscani dicono la cola)
Finchè ce ne può stare.
Su vi balza a piè nudi un garzon tosto;
Ecco in pioggia minuta il roseo mosto
Incomincia a colare.
Come son colme le bigoncie, il tino
L'uva ammostata accoglie, e ne fa vino
In sette od otto giorni.
E ciascun giorno vasi empie novelli;
Oh ricchi giorni speranzosi e belli,
Di cento gioie adorni.
E la diurna opra finita a sera,
Uomini e donne, la brigata intera
In corte si raduna
A novellar pel fresco, dopo cena;
Cantan sull'aia e ballano, e serena
Ride con lor la luna.
XIII.
Così inoltra l'autunno, e il verno attende
Dietro l'alpe trentina ancor per poco;
Ma l'aquilon già scende,
E via con gran clamore,
Altisonante araldo, in ogni loco
Trapassa a volo e annunzia il suo signore.
Già piove spesso e le giornate intere.
Più non olezza dei recenti fieni,
Come all'estive sere,
Ma si fa giallo il prato.
A rivederci a quest'altr'anno, o ameni
Giuochi sull'erba; or troppo là è bagnato.
Or bisbigli non più di nidi occulti
Fra le pallide foglie e i rami neri,
Ma del vento i singulti;
Fredda è la sera e lunga,
Si sta chiusi in salotto volentieri,
Finchè di coricarsi il tempo giunga.
Torna del San Martino allor la state;
La caccia delle allodole le brevi
Tepide mattinate
Ne allegra, e il dolce arrosto
Ne rallegra le sere, e insiem vi bevi
Il vin ch'hai fatto del miglior tuo mosto.
L'autunnali mestizie il nuovo vino
Tempera in parte, e affatto poi le scaccia,
Se appunto un bel mattino
Alcun rude mercante
Lombardo appare a cui quel vino piaccia,
E che tutto lo compri in poco istante.
Oh del bel sole estremi e dolci raggi!
Oh scampanìo che annunzia le gioconde
Sagre giù pei villaggi,
Che nella valle stanno!
Oh tristezza gentil che a noi s'infonde
Da quest'ultime gioie, ahimè, dell'anno!
Tu novembre, tu se' come colui
Che troppo tardi al bel convito arriva,
E poco tocca a lui.
Natura a te non serba
Che alcun raggio di sole, e non coltiva
Per te che grami fiori e inutil erba.
Ma come sopra il tuo breve orizzonte
Fosche nubi tu addensi e mesto sei,
Così sulla mia fronte,
Ch'io nella man sostengo,
Foschi dubbi s'addensano ed a miei
Casi pensando in triste modo io vengo.
Che faccio io qui nell'uniforme vita?
Fra non intere gioie e non interi
Affanni intorpidita
Si culla inutilmente
L'anima — e ciò mi piacque infino a ieri;
Oggi invece mi tedia orribilmente.
Pur come fuor della finestra invano
L'occhio tendo e null'altro io vedo in giro
Che nebbia ai monti e al piano
Solitudine bieca,
Così nel mio futuro io nulla miro
Fuorchè landa deserta, e nebbia cieca.
Che valse a me d'alcun mio dotto errore
Empire il dì solingo, e della notte
Sprezzare il don migliore
E consumar gran parte,
Chino le membra tormentate e rotte
Su libri avari e su infeconde carte?
Che mi valse o varrà? L'Italia amena
Fin nell'insigne cattedra imbandisce
Spesso ai ciuchi l'avena;
E dell'eguale alloro,
Tanto ad un suo poeta il serto ordisce,
Quanto a celar gli orecchi lunghi a loro.
Ma non da te l'ufficiai premio attesi,
O bell'arte dei carmi, che dal padre
Io fanciulletto appresi.
Per natural talento
Cerco dar forme al pensier mio leggiadre,
Di ciò sol, se riesco, assai contento.
Che sperar più? Spento è nel vate il dio;
Neppure il vate stesso anzi più esiste:
Che importa? Un uom son io,
Nè d'esser più mi cale;
Benchè d'esserlo ognun faccia le viste,
Non è sì facil cosa essere tale.
Se non che ratti, ahimè, volano gli anni!
Muore novembre e il verno gli succede;
Ma poi ripara ai danni
Primavera gentile.
Non così avvien di noi, chè più non riede
Quando fiorì una volta il nostro aprile.
Io rifeci la casa a poco a poco,
Che fu de la mia gente antico nido;
Or più non move il fioco
Suono dell'età spenta
Da queste mura, ma il giocondo grido
Dell'avvenir parmi che intorno io senta:
«Or che rifatto è il nido, a che la bella
Sposa non meni e la dimora antica
Dei padri di novella
Famiglia non allieti?» —
Così intorno m'ascolto in voce amica
Susurrar le domestiche pareti.
«Bada a' tuoi casi finchè in tempo sei;
Piglia una bella giovine in isposa,
Fa all'amore con lei,
Ed abbi dei figliuoli;
Aver donna e fanciulli è degna cosa
D'ogni uom dabbene, e guai quaggiuso ai soli!
Miseri a lor che per non darsi cura
D'una famiglia, solitari stanno!
Voi per goder Natura,
Voi per soffrir compone,
E la vita è nel gaudio e nell'affanno,
Non nell'ignavia che a nulla s'espone.
Folle se tu di sdruccioli e di piani
Versi tutta la vita occupar vuoi.
Non isfuggir gli umani
Più comuni destini:
Fa d'esser pria buon uomo, e sii da poi
Buon poeta, se proprio in ciò t'ostini.» —
Così talor nella stagione immite
Odo sonarmi queste voci in cuore
Fra le ringiovanite
Mie domestiche mura.
Oh solitudin tetra, oh eterno amore,
Oh voci della santa alma Natura! —
XIV.
Però accadde a me pur, nè più nè meno,
Di prender moglie (adesso
Già già quattro anni volgono);
E senz'altro con lei pigliato il treno,
Venimmo il giorno istesso
Al nido mio domestico.
La stanza nuzïal bianca e raccolta
Mi parve un tempio arcano;
Quivi sorgeva il talamo
Simile a un'ara in veli sacri avvolta,
Dov'abbia un sovrumano
Soave rito a compiersi.
Calava il giorno: il pranzo era allestito;
Di lumi e assai di fiori
E di cristalli splendido
Era il salotto inver, ma l'appetito
Non venne a far gli onori
Della gioconda tavola.
La giovanetta sposa incerta e mesta
Per la madre lasciata,
Poco recossi al roseo
Labbro; io stesso badavo, in gran tempesta
D'amor, con la posata
Sulla tovaglia a incidere.
Per finger calma cose indifferenti
Io dicevo alla sposa,
Che sorrideami languida;
Ma nelle vene mi correan torrenti
Di lava impetuosa,
E la voce tremavami.
Alla fanciulla affetti molti e vari
Urtavano il bel seno:
Certo la inquïetudine
D'esser così lontana da' suoi cari,
Sola di notte, in pieno
Poter d'un baldo giovine,
Che le dicea d'amarla e la copria
Di veëmenti baci;
E al tempo istesso il giubilo
D'esser con lui; di sposa l'allegria,
E trepide vivaci
Curiosità virginee.
Poi sul terrazzo uscimmo. Ivi la bruna
Valle tacea; ma il fiume
Mandava un lene murmure;
Da vaghe stelle e da la tersa luna
Piovea candido lume
Entro gli spazi ceruli.
Oh sacra Notte, che proteggi il pio
Dolce rito d'amore!
La taciturna vergine
Posò il capo sul destro omero mio,
E le sentivo il core
Tumultuoso battere.
Io le cingea col braccio la persona
Flessibile, sovente
La chioma aurea baciandole;
Palpitando sentìa la casta e buona
Fanciulla in sen repente
Desii nuovi agitarsele.
Ed ecco allor da un grande accoramento
Di non so che d'arcano
Io mi lasciavo cogliere,
Quasi che di mestizia e di sgomento
Ogni solenne umano
Gaudio misto abbia ad essere.
La fautrice Notte indi con dura
Brezza già ne pungea
A rientrar spingendone:
Ci ammiccavano gli astri e la Natura
Tutta di noi parea
Compiacersi e sorridere.
XV.
A questo carme, cui principio diedi
Triste al deserto focolar dappresso,
Io lietamente pongo fine appiedi
D'una culla sedendo invece adesso.
Ivi riposa il figliuol mio bambino
Il qual come tra nevi arcano fiore,
Tra i lini appar del candido lettino
Che a lui compon la madre ebbra d'amore.
Primogenito mio, che dalla intensa
Gioia d'un novo amor fosti concetto,
E non alfine poi dalla melensa
Abitudine ahimè del comun letto;
O primizia d'amor che la vitale
Origin bella hai nelle fibre impressa,
E in ogn'atto, e nel riso senza eguale,
E in tutta in tutta la persona stessa;
Bello come la madre e roseo e biondo,
Cui l'anima pensosa tuttavia
Della paterna stirpe all'occhio in fondo
Tra la nebbia infantil s'apre la via;
Putto che avrebbe Raffael sul seno
Posto alla Vergin sua più bella e pura,
Vegeto, vispo, sorridente, pieno
Dei miglior doni che può dar Natura;
Pargoletto gentil, che il nome porti
Del mio nobile padre e sei mio figlio,
Onde il passato e l'avvenir conforti,
Verso i quali man triste io levo il ciglio;
Se giusta forma io dar m'affido a questi
Affetti miei t'offendo e stolto sono,
E quantunque or tu dorma (e nol sapresti
Pur vegliando) ti chieggo ancor perdono.
Ma finchè tu riposi e insiem talora
Sorridi e mormorando alcun accento
Ricordi i giuochi tuoi sospesi or ora,
Mentre io qui seggo a vigilarti attento,
I pensier miei s'affollano d'intorno
Al tuo bel volto, e ai biondi ricci sparti,
E pigliano del verso il metro adorno
Per spontanea virtù, nel vagheggiarti.
Che se tu desto sei, forma migliore
Io trovo, forma di carezze e baci,
Alla soave poesia che in cuore
Mi mettono le tue grazie vivaci:
Ben so che tu non sei dal ciel disceso,
Nè un angioletto fosti pria che nato;
Voi per fingere gli angeli hanno preso
I pittori a modello e v'han copiato,
Voi figliuoli dell'uom piccioli e belli;
Poi mutando la causa nell'effetto
Non inventati a imagin vostra quelli,
Ma voi creati a immagin loro han detto.
Ma io che non ci tengo al sovrumano,
Qual sei più t'amo, dolce creatura
Di nostra razza, bel fanciullo umano,
Nato per opra di gentil natura.
Per le ingenue tue grazie e i tuoi sereni
Occhi la gloria di quaggiù si mostra,
Se è ver che d'altro tu quaggiù non vieni
Luogo più eccelso della terra nostra.
O Natura di cui supremo è intento
La vita, innanzi a te bacio la terra
Che l'uom calpesta altero, e a te stromento
È di quanti prodigi il mondo serra,
Mi prostro innanzi a te, saggia e possente
Natura, e movo a te calda preghiera;
Questa, che al figliuol mio vita recente
Donasti tu, fa ch'egli compia intera;
E allorchè fatto adulto e di sè stesso
Sicuro alfine l'ultimo saluto
Ei mi rivolga, al letto mio dappresso,
Non parrà a me che indarno io sia vissuto.
CATASTROFE
C'era una volta un mesto cavaliero,
Assai mesto davvero:
Solo abitava in un vecchio castello,
Sulla riva del mare:
Solea ciascun augello
E ciascun fior che lo vedea passare
Di lui meravigliare:
Tanto della persona trascurato,
Discinto e spettinato,
Uscia talor per la contrada intorno.
Pure sedea più spesso,
Quanto era lungo il giorno,
Nella sua stanza, col capo dimesso,
Tutto chiuso in sè stesso.
Prima del tocco non andava a letto.
Dinanzi al caminetto
Solea d'inverno consumar le sere;
Ci si obliava ancora
Per delle notti intere,
E tu invano la voce alzavi allora,
Onda del mar sonora.
Ed ecco in notte procellosa e nera,
Di mezzo alla bufera,
Tra il fulminìo che scoppia orrido e fitto,
Un grido l'aere fende:
Balza il garzone ritto,
E un'angoscia infinita il cor gli prende,
Com'ei quel grido intende.
E si picchia alla porta. Oh non invano
Picchi, o vezzosa mano!
Ei corre al saliscendi e tutto l'alza.
Ed alto a lungo il tiene.
Or seminuda e scalza
Una donna che appena si sostiene
Su per le scale viene.
Egli è in cima di queste, e dal suo canto
Tace e fa lume intanto.
«Io son qui per morire ai piedi tuoi,
Per chiederti perdono...
Tu ancor bene mi vuoi...
Se ti lasciai per altri in abbandono,
Mira in che stato or sono!» —
Questo disse la donna, ed ei rispose:
«Ahimè! di queste cose
Penetrato son io profondamente.
Voi siete assai malata,
E fu molto imprudente
L'arrischiarvi a sì lunga passeggiata
In notte sì arruffata.
Veniste in legno?.. Oh come sulle spalle
Non buttarvi uno scialle?..
Bisogno avrete di dormire, io credo;
Ho un sol letto e piccino
Ch'io volentier vi cedo.
Berreste pria qualcosa? Un centellino
Di rumme? un po' di vino?..» —
Come udì queste cose la fanciulla
Non osò dir più nulla,
Ma sull'indifferente alzando gli occhi
Timida e sbigottita,
S'accasciò sui ginocchi
E chinando la testa illanguidita
Passò di questa vita.
Il cavalier che al caso inaspettato
Non era apparecchiato,
Pur vedendo la bella creatura
Venire a un tratto meno,
Con improvvisa cura
Su lei gittossi e d'alta ambascia pieno
Tentolle i polsi e il seno.
Ella era morta, ed egli non sostenne
Di viver oltre, e venne
Alla finestra, e si buttò di sotto.
Com'era naturale
Egli ebbe il collo rotto.
Amor, per quanto il salto sia mortale
Già non impresta l'ale.
Badino a ciò i Signori e le Signore
Che or fossero in amore.
Che se fede al mio dir non si rifiuta,
Codesto è il mio parere:
Amore è febbre acuta.
Badate a voi: non facile è sapere
Quel che ne può accadere!
STORIA D'OGNI DÌ
Si quoties homines peccant sua fulmina mittat
Iupiter, exiguo tempore inermis erit.
Ov. Trist. 2, 33.
Sull'imbrunir costà sotto le piante
Va passeggiando il giovine elegante.
Il bel garzone aspetta
A quanto pare:
Ecco arrivare
Allor la giovinetta,
La giovinetta ch'egli appunto attende;
Ei senz'altro a braccetto se la prende.
A braccetto la prende e se ne vanno:
Confidenze leggiadre insiem si fanno:
Anco si son diretti,
E senza fine,
Amabili occhiatine
E sorrisetti.
Sono così dov'ella sta venuti:
Quivi indugiano un pajo di minuti.
Quivi indugiano un pajo di minuti:
Fra lor si fanno teneri saluti:
Si tengono le mani;
Egli sommesso
Dice: «A domani,
All'ora e al luogo istesso.»
Peggio, avanzando oltre la soglia il piede
Vuole abbracciarla; ella resiste e cede.
Passa del tempo, e siamo in carnevale.
Si fa in teatro un baccano infernale.
Colà bizzarre genti
In frenesia;
Luce, strida, armonia,
Colà a torrenti.
Questa cosa si chiama il veglïone,
E ci van mascherate le persone.
Le persone ci vanno mascherate;
Due ne conosco che ci sono andate.
Ella è con lui venuta
In questo loco:
Ella è perduta,
O ci manca assai poco.
Cheta, cheta di casa ell'è sfuggita,
Per qui venire ove piacer l'invita.
Niun la conosce, ed ammirata è molto.
Snella, succinta, in rosea seta il volto,
E il mento s'incortina
In velo fosco.
Io ti conosco,
O bella mascherina;
Tu sei la bimba che a cercar l'amante
Venia, sei mesi fa, sotto le piante.
Passa del tempo; ed ecco all'ospedale,
Venire una fanciulla che sta male.
Ella sta mal di parto,
E partorisce.
Come imbrunisce
Il novellino parto
In quattro cenci con bel garbo è posto,
E con bel garbo ai Trovatelli esposto.
Non senza essere stata in fin di vita
Di puerperio ella è pertanto uscita.
Provò le doglie,
Or le cure leggiadre
E della madre
Il gaudio le si toglie.
Peggio ancora; di casa l'han cacciata,
E l'amante da un pezzo l'ha piantata.
Ma perchè il giovin caro, e a te posticcio
Sposo alfin s'è levato il suo capriccio,
E di quel ch'indi è nato,
Or non gli cale,
Col virginale
Il fior non è passato
Di tua bellezza, e se co' piè vezzosi
Premi la terra, irrompono altri sposi.
Bensì l'hanno di casa anche bandita,
Ed è pel duolo e pei digiuni attrita,
E non può lavorare,
E non servire:
Or come fare?
Ella non vuol morire.
Nè manca gente di sì buon volere,
Che a lei si presti con tutto il piacere.
Passa altro tempo ed ecco in luogo ascoso,
In luogo arcano, ch'io nomar non oso,
Viene a brillar novella
Un'altra stella,
Più di tutte gioconda
E invereconda.
Ella passò da pria di mano in mano.
Per venir poscia al luogo ascoso e arcano.
La sua pratica intanto d'avvocato
Il bravo giovanotto ha terminato.
Di lui molto si spera:
È dotto, esperto,
E farà certo
Un'ottima carriera.
Se sol per caso una fanciulla ei guata
Gode la mamma, e tiensene onorata.
Or come avvien, dich'io, ch'ei prende moglie
Che già la stanza nuzïal l'accoglie,
E non il tetto piomba,
E non la terra
Gli si diserra
In improvvisa tomba?...
Ahimè non basta il peccatuccio ignoto,
Ci vuol ben altro a farmi un terremoto!
Finir solennemente la ballata
Io sperai con la casa ruinata,
Col suol che si sprofonda
E l'empio inghiotte
Seduttore in profonda
Eterna notte... —
Ma! che volete? assai di rado avviene
Ciò che ai poeti meglio si conviene.
NEL CHIOSTRO
Una donna nel fior degli anni suoi,
Ahimè! zitella e monaca,
Ratta trapassa e muta i corridoi
Del chiostro, e nel solingo
Tempio, con piè guardingo
Trepidando s'insinua.
L'agita da più giorni un senso arcano,
Profondo, indefinibile,
Contro del quale ogni cilicio è vano.
Or costei della chiesa
Sul duro suol prostesa
Le ginocchia si logora.
A lungo prega e si percote il seno.
Dai vetri alti e d'imagini
Sacre dipinti, un mite raggio pieno
Di calmi effetti scende
Nel loco, e più lo rende
Misterioso ed intimo.
Quivi penetra pur di maggio il molle
Fiato ed il misto effluvio
Voluttuoso delle aperte zolle
E degli alberi in fiore,
E d'augelli in amore
Uno schiamazzo gaio.
Male a codesto irromper di Natura,
Del chiostro mal s'oppongono
E del tempio le enormi e fredde mura.
Le voci e il gran respiro
Del maggio nel ritiro
Più segregato arrivano.
E ricercan le fibre e il seno oppresso
Di quella orante pallida,
A cui langue sul labbro e in cuore adesso
La fervida preghiera;
E la pupilla nera
Alza ella intorno, e palpita.
E contro un'arca sepolcral che sorge
Quivi appresso marmorea
Preme la fronte, e tenta se a lei porge,
Ch'arde in non so qual tetra
Fiamma, se quella pietra
Porge a lei refrigerio.
Giacea dentro quell'arca seppellito
Un guerrier morto giovine.
Ed il corpo di lui v'era scolpito
Sopra, in tutta armatura,
Qual di viso e statura
Fu durante il suo vivere.
Giacea supino e rigido in arnese
Di marmo e non d'acciaio;
Chiuse nel guanto avea le mani e stese
In croce sovra il petto;
Ritti dal duro letto
I piedi suoi s'ergevano.
Era il suo volto bello e sorridente;
Una sottil lanuggine
Ombreggiava il suo labbro adolescente,
Su cui di fanciullezza
Le grazie, alla fierezza
Del cavaliere univansi.
E a quel volto e a quel labbro ad ora ad ora
Cupidamente il trepido
Occhio volgea l'incerta donna, e ancora
Venia di quando in quando
Quel viso accarezzando,
Senza quasi avvedersene.
Ed ecco il sol posarsi su quel viso
Con un suo raggio roseo,
Che sembrò dargli vita all'improvviso,
La vergine su quelle
Giovani labbra e belle
Chinossi allor, baciandole.
Tenne costà sopra l'altar Maria
Gli occhi dimessi e immobili;
Ella sposa, ella madre compatia.
Ma un Santo scarmigliato,
Ch'ivi sul muro a lato,
Si struggeva di tedio,
Pensò che avria pur volentieri tanto
Mutata ei la cospicua
Condizione sua d'insigne Santo,
Coll'uomo che così scôrse
Esser baciato, e forse
Dannato era in perpetuo.
Sul duro sasso che ha virile aspetto
Inconscia ella ed immemore
Frattanto illividisce il labbro e il petto
In baci e strette vane.
A lungo ella rimane
Così in quel suo delirio.
Folle è dunque costei? Certo io non credo.
Bensì nel cuor le fervono
Venticinqu'anni; e il bel natio corredo
Di sue forze vitali
Non valser monacali
Veglie e digiuni a toglierle.
A lei la vita entro le vene abbonda
D'ottimo sangue turgide;
E di quel sangue la precipit'onda
Menava un novo senso,
Un desiderio intenso
Di gioie indefinibili.
Pure ignorava, e nella mente oscura
Larve ambigue ondeggiavanle,
Come ondeggian le nubi ed han figura
Ambigua in notte nera,
Allor che la bufera
Lenta nel ciel s'accumula.
E incerta ansia turbava e indefinita
Temenza quella misera;
Nè a calmarla valea della sua vita
Le durezze addoppiare,
Nè supplice all'altare
L'intero giorno spendere.
Perocchè eterna legge è di Natura
Che la fiorente e giovane
Donna d'amor la prima e dolce cura
Dall'uom fervido apprenda,
E non ritrosa ascenda,
Benchè pudìca, il talamo.
E del compagno i men sereni giorni
Irradii coll'ingenuo
Riso; di grazie la sua casa adorni;
Il desco suo circondi
Di rosei capi biondi; —
E ognor vita ripulluli.
ODE AL VINO
Quando tarda è la notte, e sopra il foglio
Langue il mio capo e il petto
Stanco mi chiede, s'io cessar non voglio
Pure una volta, e a letto
Ridurmi finalmente, io bevo un mezzo
Bicchier di vino allora,
Che tosto mi ristora,
E sveglio tuttavia mi tiene un pezzo.
Sveglio mi tiene, e un lieto ardore in seno
M'infonde, e di fantasmi
Ilari e vispi ho tosto il cervel pieno
E il cuor d'entusïasmi,
I quali in ozio lento e taciturno
Del sigaro col blando
Fumo io vado esalando
Entro il cheto e solenne aere notturno.
Bene a ragion ti finse, a parer mio,
L'ingenuo tempo antico,
O amabile liquor, dono d'un dio
Molto dell'uomo amico.
Della vita operosa a questo mondo
Tu sei celeste aita;
Tu della stanca vita
Sei conforto, anzi meglio oblio profondo.
Tu forte e generoso il braccio e il cuore
Ecciti ad alte imprese;
Tu il fiacco affranchi, e sei di nuovo ardore
Al prode ognor cortese.
Dal nettareo tuo bacio a morte vola
La gioventù esultante,
Che, a vendicarsi, innante
Con molta morte altrui la sua consola.
Tu benigno e soave in cor discendi
D'artisti e di poeti,
E negli esausti seni riaccendi
Gli estri fecondi e lieti.
Tu gli armi di coraggio e noncuranza
Contro la plebe inetta,
Che un senso altero affetta,
Ch'esser vuole disprezzo ed è ignoranza.
Tu animator della fulgente mensa,
I lauti e molti doni
Che la natura e l'arte ivi dispensa
D'alta allegria coroni.
Tu gli astii antichi allora e i bronci sciogli,
Più stringi l'amicizia,
Lo scherzo e la letizia
Fai che in petto e sul labbro a ognun germogli.
Ma più grato talora a cena in fido
Salottino elegante,
O a merenda sull'erba in verde lido
E sotto ombrose piante,
Fra due che amor soli e vicini asside,
Tu complice secondi
L'opera, e ti profondi
All'uno e all'altra, e lieto amor ne ride.
Ti prodighi al garzone, ed alla bella
Spesso le labbra irrori;
Egli facondo e audace è fatto, ed ella
Sente inusati ardori.
Tu dall'un canto e amor dall'altro a prova
Sì bene ordite il laccio,
Che non sa come, e in braccio
Del giovine la bella alfin si trova.
O elisir della vita e del piacere!
Trar non può il vulgo insano
D'altro liquor le gioie tue sincere;
Ma quegli di sua mano
S'attossica, che ad altro assai più ardente
Liquore il labbro accosta,
E poi che men gli costa
A questo più che a te corre sovente.
Io lo compiango, e da compianger meno
Colui non parmi, al quale
Dissetarsi convien d'altro veleno,
Che sol con te d'eguale
Ha il nome, e non da tralci adusti cola,
Ma d'artificii è fatto,
E dee chi a berlo è tratto
Foderata di rame aver la gola.
Non io così; chè sovra il colle avito
Io medesimo assisto
Alla vendemmia, e a tutto il gaio rito
Di varie opere misto,
Pel qual tu poi dal romoroso tino
Zampillerai ben tosto,
Fatto di torbo mosto,
Terso, vermiglio e spumeggiante vino.
E ch'indi ognor tu sia più terso e puro
Ancora avverto io stesso,
Finchè l'anno compito e tu maturo,
Provvedo io pur che messo
In bottiglie tu sia, dove ti renda
Degno un altr'anno alfine
Che su dalle cantine
Alla tavola lieta e al labbro ascenda.
Tu gioia allora e orgoglio mio tu sei!
Oh! ma ben più di questo:
Se corsero finora i giorni miei
Liberi e d'ogni infesto
Pondo immuni, che all'uom duro bisogno
Impone, io ciò ti deggio;
Però t'adoro e inneggio
Pubblicamente a te, ne mi vergogno!
Più che all'ingegno mio (nè qui discuto
Se ciò sia giusto o ingiusto)
Della facile vita io son tenuto
Al tralcio d'uve onusto,
E a te che quindi, almo liquor, distilli,
Sul breve colle aprico,
De' miei retaggio antico,
E asil di studiosi ozii tranquilli,
Sì, o mio buon vino, a te che il mercatante
Lombardo molto apprezza,
A te solo degg'io se nè abbondante
Vitto, nè l'agiatezza
Manca a miei cari: se non è chi'io sudi
Ora in uffici ingrati,
E invece a non pagati
Dedicar mi potei leggiadri studi;
Se a Destri nè a Sinistri io mai non chiesi
Il più lieve piacere;
Se libero ai caduti e ai novi ascesi
Dir posso il mio parere,
Se onoranze da lor nè lucri agogno
Ciò a te soltanto io deggio;
Però t'adoro, e inneggio,
O vino, al nome tuo, nè mi vergogno!
Settembre 1876.
PIOGGIA DI MAGGIO
Precipita giù giù sulla campagna
Una pioggia diffusa ed incessante;
Luccican sotto l'onda che le bagna
L'erbe, le siepi e le chiomate piante.
L'alta malinconia che dal ciel viene
Copre la valle, e la gioconda festa
Ch'ivi nel maggio il color verde tiene
Oggi appare in sembianza oscura e mesta.
Ozioso sull'uscio io sto mirando
Al lontano orizzonte in nebbia avvolto,
E crepitar la pioggia, flagellando
Le terse ghiaie e l'ampie fronde ascolto.
Così dentro di me piove a distesa;
Son gli orizzonti della mente mia
Velati anch'essi, e un vago in cor mi pesa
Senso di non so qual malinconia.
Ma dalla pioggia grande e dalle meste
Sembianze onde si copre oggi Natura,
Nova beltà ritragge e miglior veste
Di vaghi fiori e di gentil verdura.
Dalle tristezze sue così potesse
L'anima annuvolata e il tetro core
Ritrar di carmi più gioconda messe,
Vestir di poesia novo splendore!
LA STRADA
Non c'è che dire, un'eccellente strada:
La migliore ch'io m'abbia conosciuta;
Chi su ci va, gli par che in letto vada,
Tanto è piana, ben fatta e ben tenuta.
D'ambo le parti un'irta siepe e bianca
Per molta polve la costeggia, e il piano
Oltre quella s'estende a ritta e a manca
Triste a veder da presso e da lontano.
Nè una casa per via, che a sè comunque
L'occhio richiami, per gran tratto appare:
Solitudine siede intorno ovunque:
Ciò è seccante davvero a lungo andare.
Ecco, o eccellente strada, o al passeggiere
Comodissima strada e ben costrutta,
S'io t'ho a dir veramente il mio parere,
O bella strada mia, tu sei pur brutta!
Sovente in orlo alla deserta via
Sorge una croce e reca triste avviso,
Ch'ivi un fatto di sangue si compia,
Ch'ivi talun fu derubato e ucciso.
Penso: se a me seguisse un caso eguale!
Non dirò ucciso, ma se almen foss'io
Quivi aggredito! È certo; o bene o male
Scosso assai ne sarebbe il tedio mio.
Ma non c'è dubbio; or son le vie sicure;
Io ben so che nei ladri non ci casco;
Io di false, romantiche paure,
Di liceale poesia mi pasco.
Torniamo al sodo; io realista sono.
Cuoce la cena a casa mia. La moglie
Piacente, ed ambo i rosei bimbi sono
Stanchi già d'aspettarmi in sulle soglie.
Ed io sto a far per via con sì bel gusto
Il poeta romantico! e le reni
Al cavallo non frusto e non rifrusto,
Perchè fra i cari miei tosto mi meni!
MENDICANTI CAMPESTRI
Viene la curva vecchierella tremula
In sulla soglia mia
A dir l'ave maria
Chiedendo l'elemosina.
Non è in cucina alcun che a lei sollecito
Rechi adunque qualcosa?
Perchè la bisognosa
Vecchietta fate attendere?
Povera donna! — Può d'altronde accorgersi
Che senza guardia è il posto,
Entrarvi di nascosto
E una posata prendersi.
Viene anco il vecchio scarmigliato e pallido
A dir l'ave maria
Sopra la soglia mia
Chiedendo l'elemosina.
Povero vecchio, presto soccorretelo!
Mentre aspettar lo fate
Forse le inferriate
Delle finestre studia.
Studia qual sia la più vetusta e logora...
Non si sa mai: diurno
Mendico ei vien — notturno
Ladro potrebbe riedere.
MIRAMAR
( Note di viaggio )
Benchè egli fosse un arciduca austriaco,
Che il diavolo mi porti s'io non caccio
Dentro il mio scartafaccio
Quattro versi d'encomio
Pure a costui, che fece un così bello
Elegante castello
Su queste balze inospiti.
Se della sanguinaria, ma non tragica
Razza d'Asburgo nacque, egli al postutto
Di ciò non venne istrutto
Da pria, nè potea sciegliere:
La Natura da pria non si consiglia
Con noi di qual famiglia
Ci garbi meglio nascere.
Io d'altra parte di costui non m'occupo
Se non perchè egli fu poeta e artista.
Da un tal punto di vista
Cosa migliore io giudico
Ch'ei di regal nascesse, benchè infesto
Sangue, più che d'onesto
Sangue di pizzicagnoli.
E infatti buon per lui, chè lo spettacolo
Grande dell'arte non gli fè difetto
Fino da pargoletto,
Quando alle prime imagini
Che ci mostra la vita, il cor s'informa,
E ne riceve norma,
Che gli anni non cancellano.
Buon per lui, cui fu tutta innanzi l'ampia
Terra dischiusa, ancor fanciullo essendo,
L'oceano e lo stupendo
Emisfero d'America.
Fanciullo avventurato! Al compimento
Del suo più baldo intento
Non si frappose ostacolo.
Più avventurato ancor, chè dello artistico
Ingegno egli poteva il grande appello
Tutto ascoltar: del Bello
Comporsi un culto, e tempio
Farne la casa sua, poich'egli senso
Ebbe del Nume, e censo
Più di re che di principe.
Così questa ei potea villa incantevole
E il fatato giardino e il picciol porto,
Così per suo diporto
Crear potea l'idillio
Non di parole, ma di marmi, e sulla
Ripa inamena e brulla
Far che fiorisse l'oasi.
Ma fu qui appunto fra la verde e amabile
Poesia ch'e' si venne a poco a poco
Creando in questo loco,
Qui fu che il gentilizio
Morbo del sangue principesco invase
Lui pure, e il persuase
Che re il volesse un popolo.
Io non so quale illusïon vi domini,
O prosapie d'antichi vïolenti,
Ch'abbian da voi le genti
La salvezza e il benessere.
Razza di lupi or tutti siete agnelli.
E pel ben dei fratelli
Vi condannate al solio.
Ma questa illusïon nessuno illudere
Può al giorno d'oggi più. Sotto le umane
Parole stan le arcane
Bramosie del dominio.
Tu, sciagurato Max, tu della moglie
Le ambiziose voglie
Non sapesti reprimere.
Così da questo di serene gioie
Cheto nido, affidati al dubbio evento,
Correste a perdimento.
Ella il senno smarriane;
Tu da sedizïoso avventuriero
Trattato fosti; e invero
Fu il modo spiccio e semplice.
Io lodare non voglio i tuoi carnefici.
Ma un lor diritto usarono. Sicuro,
Il più crudele e duro
Dei lor diritti. Mescerti
Tu non dovevi a quelle quistioni.
Se fecer da padroni
In casa lor, ben fecero.
Qual funesta malia te alle blandizie
Dell'arte nato tristamente colse,
E il cor gentile avvolse
E il tuo leggiadro spirito
Entro l'ambage occulta e disleale
Di questa imperiale
Tua sciagurata insania?
Vero sarebbe forse che giustizia
Domini l'empia storia, e il Fato attenda,
Ma senza dura ammenda
Non lasci quaggiù compiere
Infame opera alcuna? Ignoto è il tutto,
Senonchè peggior lutto
E peggior onta cogliere,
Non poteva la tua razza colpevole:
La feroce tua madre il pianto apprese
Delle madri che rese
Furono, ahimè, per opera
Di piombo e di capestro, e pei consigli
Di lei, orbe dei figli
Devoti all'egra patria.
Di dolore e di sdegno alto ulularono
Il borgo imperïale e per cotanta
Vergogna dei settanta
Arciduchi le squallide
Case; ma più che la tua morte, offese
Il modo, onta palese
D'Austria, ed invendicabile.
Sì lunghe braccia ella non ha che arrivino
Oltre cotanto mar, la truce e abbietta
Austrïaca vendetta;
Nè là può in laccio stringerle
Sopra i nemici suoi, come per norme
Antiche, nel deforme
Imperio era abitudine.
Ma adesso io non farò della retorica.
Noi vendicati fummo e con usura.
Se giaci in sepoltura
Tu invendicato, credere
Non potrai che di ciò molto m'affanni.
Sol che nel fior degli anni
Tu sia morto rincrescemi.
Perocchè fosti un cuor gentile e nobile:
E non foss'altro questo loco il prova,
Che vaga opera e nuova
Fu di poeta e principe.
Ma poema maggior laggiù sognasti,
E la tragedia andasti
Ahi, col tuo sangue a scrivere!
Qui a me frattanto ridono impassibili
Arte e Natura; e sol talor si sente
Rompere d'occidente
Siccome un secco e rapido
Crepitar di moschetti in questo loco,
Ma certamente è gioco
Della scherzevol aura.
ALLA SIGNORA L. C. P. NEL SUO GIORNO NATALIZIO (25 DICEMBRE)
Amabil donna, il cui spirto gentile
Non credo che sei lustri oggi saranno,
Tra le voci del gaudio e dell'affanno,
Prese leggiadra veste femminile;
Donna che or or conobbi, e nel virile
Petto, omai schivo d'ogni dolce inganno,
Culto m'induci tal che più d'un anno
Non già maggior, far nol potrìa simìle;
Questo bel giorno tuo, festeggio teco;
L'are diserto del nascente Iddio
Ed al tuo nume grazïoso io reco
Tutti i miei doni e inter l'omaggio mio;
Nè l'Uom ch'è in Cristo irato esser può meco,
Se pel tuo nume, ogni altro nume obblio.
LICENZA
LA ROCCA DI GARDA
AD EMILIA
S'io salgo il ripido colle che domina
Di Garda gli umili tetti, e col bellico
Nome anco appellasi di rocca, subito
Quivi m'appar l'imagine
Tua bella, e balzano memorie gaie
Quasi dagli alberi, come un dì usarono
Le ninfe, e simile tu a Dea, l'amabile
Coro sembri dirigere:
Perocchè indizio di te qui al memore
Pensiero affacciasi dovunque; e l'eremo
Spoglio, e la rustica casa, e le complici
Piante di te mi parlano.
Dell'adorabile tuo nume è l'aere
Qui pieno, e intendere parmi il tuo picciolo
Grido là erompere dov'eri solita
Per gioco a me nasconderti:
Tosto a sorprenderli venivo, e scoppio
Di baci fervidi mescevo all'ilari
Tue risa. — Oh risero qui molto i giovani
Amori nostri e corsero
Qui vispi e liberi di freno, ai taciti
Recessi scandalo forse, che avevano
D'altri spettacoli men lieto esempio:
Perchè qui surse ai secoli
Di ferro il vigile manier, che carcere
Fu d'Adelaide. L'occhiuta invidia
Di Berengario qui fece chiudere
La giovinetta vedova
Di re Lotario, finchè l'astuzia
D'un umil chierico seppe sottrarnela.
Dal capo roseo discese a toglierle
Otton la benda funebre,
E fu l'Italia poder del Cesare
Tedesco. Oh il chierico s'ero io medesimo
E tu Adelaide, non io pel sassone
Letto t'avrei dal carcere
Sottratta, o vedova gentil. — Ma brucano
Le capre or l'arida gramigna ov'erano
Le torri e i solidi muri che sparvero:
Seppe all'età resistere
Il nome, l'unico nome. Alla valida
Rocca succedere fu visto l'eremo
Di poi. Si mostrano tuttor le squallide
Celle e il brev'orto annessovi
Ma niun più v'abita, ma niun le picciole
Aiuole semina sparse di triboli,
E i ragni tendono la tela ai putridi
Palchi che già ruinano:
Sotterra gli ultimi frati dimorano.
Di questi in cambio, qui far la monaca
E il frate lecito fu a noi per celia.
Te ne rammenti? dimmelo.
Così passarono rocca e cenobio.
Ma non quest'ampio divo spettacolo
Passò di ceruli flutti, e il sol aureo,
E il mite e limpid'aere,
E il lido e i floridi colli. Immutabile
Tu se', o vaghissima Natura; mutano
In breve secolo le umane misere
Cose. Passò dell'empia
Forza il dominio, passò il dominio
Del pregiudizio cieco; passarono
Le rocche e gli èremi. Non il dominio
Di voi belli femminei
Occhi per volgere d'eterni secoli
Si potrà spegnere, chè inestinguibile
In voi la provvida Natura colloca
Virtù che amore irradia.
Or non più a bellici strumenti destansi
Qui gli echi o a nenie sacre, nè in seguito
Ridesterannosi; ma spesso i taciti
Pini soavi aneliti,
Sospiri e murmure di baci ascoltano;
Perocchè assidui gli amori alternansi,
E qui ad accoglierli nido propizio
Natura parve erigere.
FRAMMENTO EPICO
Già Bruto essendo col proprio esercito ai liti
Dell'Ellesponto giunto, pria ch'egli passasse d'Abido,
A tarda notte, sedeva siccome era usato
Nel padiglione suo, sepolto in profondo pensiero.
Posava il campo nell'ombra e nel grande notturno
Silenzio; ma quasi d'alto le complici stelle
Piovessero influssi maligni, correva l'arcano
Senso di non so quale sgomento nell'aëre tetro.
Mandava intanto la lampada gli ultimi guizzi
Su quel vigilante capo, cui stretto più intorno
Facevasi il cerchio di luce e le tenebre ognora
Più fitte, siccome dai lati e di mezzo alle pieghe
Del cortinaggio basso surgessero, oppure di terra.
Ma non a ciò dava mente egli cui nulla premeva
Se non l'alto, ahi! dubbio fato imminente di Roma.
Quand'ecco un suono — lieve, indefinibile suono —
Udire gli parve, ond'alzò di subito il capo
Che reggea fra le mani, con gli occhi nel buio indagando:
E veduto gli venne, tra il fosco orrore notturno
Costà sulla soglia tremendo in aspetto ed immane
Di membra un ignoto. Pria sbigottimento l'assalse;
Ma come colui vide zitto ed immobile starsi.
Gli chiese chi fosse. Tosto il fantasma rispose:
«Sono il mal genio tuo. Bruto; rivedrai me a Filippi.»
Senza tema il duce: «Ti rivedrò, disse, a Filippi.» —
Quella parvenza allora, quasi mescendosi all'ombre
Ond'era uscita, tosto di Bruto agli sguardi si tolse.
Poco appresso pertanto Bruto con Cesare essendo
Venuto a battaglia, nel pian di Filippi lo vinse.
Ma quivi ad un novo scontro accingendosi poscia,
E d'azzuffarsi già stando gli eserciti in atto,
Ancora ecco a Bruto subito surse dinanzi
L'orribile spettro che non fe' motto. Laonde
Presago il duce dello ineluttabile Fato,
Come si venne all'armi scagliossi nel mezzo alla mischia,
Libera cercando morte sull'aste nemiche.
Se non che invano per quanto fu lungo il fatale
Giorno la disillusa vita il magnanimo espose.
Sol poichè quasi sè stesso incolume vide
Per gioco, allorquando tutti giacéangli dintorno
Gli amici estinti, già essendo l'esercito in fuga,
Sol finalmente allora lento dal campo si tolse
Anch'egli, e dopo non molto in isquallido loco
E deserto giunto, quivi imprecando all'inane
Virtù che nulla vale sul ferreo Destino, tenendo
L'elsa del brando a terra, e nel petto rivolta la punta,
Gittovvisi contro, trafitto sul suolo cadendo.
Dall'ampia ferita tosto lo spirito eruppe
Disdegnoso e salse, lento solvendosi in alto,
Nel tacito aere azzurro, solenne, infinito.
CONCLUSIONE
AL VERSO
O verso piccioletto,
Aspide maledetto,
Lo sai ch'io ti detesto,
Perfido serpentello,
Che come il tarlo infesto
Mi trapani il cervello?
Benchè t'allinei dritto
E immoto allor che scritto
In pubblico tu appari,
Angue non c'è che pari
A te i disgiunti anelli
Dimeni, e si ribelli,
E si contorca pria
Che tu sul foglio a viva
Forza confitto sia.
Ma tu sei forte e bello,
O verso o serpentello,
Che adesso io malediva.
Io ti detesto e t'amo:
Ora di te vorrei
Disfarmi, ora in delirio
D'amor t'invoco e chiamo.
Tu a un tempo il mio martirio,
E la mia gioia sei.
A chi ti scalda in seno
Come al villan succede,
Tu lo ferisci al cuore.
E se però non muore,
Pur contro il tuo veleno
Invan rimedio chiede.
Ma chi alle forme belle
Soltanto e all'apparenze
Ti giudica, il perverso
Umor, le renitenze
Dell'indol tua ribelle
Ignora, o picciol verso.
Quando pel mondo il nido
Tu lasci ove nascesti,
O vago serpe infido,
Di molle musco odori,
E delle gemme vesti
Gli splendidi colori;
E vellicando i sensi
Col morso tuo sottile.
Metti nel sen gli intensi
Affetti ed il gentile
Filtro nel sangue infondi
Dei sogni tuoi giocondi.
Ma noi che tanta parte
Gittiam di nostra vita
Per educarti a questa
Grande e difficil arte,
Che all'uom fa men molesta
La via trita e ritrita;
Noi, maledetto verso,
Ti conosciamo a fondo,
Vediam siccome in terso
Vetro ogni tuo difetto,
Che non discerne il mondo,
O verso maledetto.
Io notte e dì mi vengo
Accapigliando teco;
Ma la fatica spreco;
Piegarti al mio pensiero
Assai di rado ottengo,
O indocil serpe altero.
Pullula il mio cervello
D'un popolo di larve,
Ma come a te le affido,
O picciol verso infido,
L'illusione sparve,
Esso non è più quello.
Però di te m'offendo
Spesso e ti faccio in brani
Colle mie stesse mani.
Ahimè, nè forse intendo
Che solo il vizio ond'io
T'accuso è vizio mio.
La scimmia un dì si scorse
Dentro lo specchio, e offesa
Di sua bruttezza resa
Da quello, su vi corse
E il ruppe al tempo istesso,
Quasi colpevol esso
Fosse se brutta ell'era.
Ad un egual maniera
Cadon gli sdegni miei
Su te verso innocente,
Che sol d'un impotente
Estro lo specchio sei.
INDICE
Prefazione Pag. 1
Ideale 3
Tragedia umile 9
Parallelo 27
Natale 33
Per una ignota 37
Brindisi 39
Fantasime 43
Per un amico estinto 49
Insonnia 55
Realismo 61
Piccolo mondo 67
Catastrofe 117
Storia d'ogni dì 123
Nel chiostro 129
Ode al vino 135
Pioggia di Maggio 141
La strada 143
Mendicanti campestri 147
Miramar 149
Alla signora L. C. P. 157
Licenza : La rocca di Garda 161
Frammento epico 167
Conclusione : Al verso 173
Finito di stampare il dì 30 Marzo MDCCCLXXX nella tipografia di Nicola Zanichelli in Modena.
NOTE:
1 . Questi versi sono del 1878. 2 . Non intesi in nessun modo giustificare con questi miei versi un fatto luttuosissimo, del quale purtroppo sì frequente esempio danno le odierne condizioni della società e della vita. Elevando a fantasmi poetici i sentimenti d'una fanciulla che muore asfissiandosi e facendo parlare a ciascuno il proprio linguaggio come l'educazione e lo stato della fanciulla stessa me lo faceva supporre, volli soltanto rappresentare un accidente assai comune a dir vero, ma non meno tremendo, sotto forma di breve dramma sentimentale, a scopo puramente artistico e non punto morale nè filosofico.