PREFAZIONE

Chi da Napoli muove verso Nola per la consolare delle Puglie, dopo San Pietro a Patierno e Taverna Nova[1] incontra Pomigliano d'Arco[2], capoluogo di mandamento, e sede di una frazione del Collegio Elettorale di Afragola nel circondario di Casoria[3]. Ecclesiasticamente, Pomigliano, divisa nelle due Parrocchie di San Felice in Pincis e di Santa Maria delle Grazie, dipende dal Vescovo di Nola. Una canzone popolare testimonia dello affetto, che le portano i nativi:

Non mme piace l'aria de la Cerra
[4]
,

E manco l'aria de le massarie:

A mme mme piace Pomigliano bello
[5]
,

Addò so' nato llà voglio morire.

Non è terra celebre nella storia, sebbene abbia sofferto anch'essa delle tante vicende delle provincie meridionali. Ne' Diurnali di Giacomo Gallo, pubblicati con prefazione e note da Scipione Volpicella, io la trovo mentovata due volte:—«A dì XII d'ottobre M.CCCC.XCV et fu lunedì, lo signor Re, sentendo, che li nemici se ne tornavano, Sua Maestà ordinò la sua gente, et esso di persona andò. Et furono cinquecento huomini d'arme pagati, cinquecento fra cavalli leggieri et alabastrieri a cavallo, et cinquemila fanti tutti pagati, che erano tante le lanze longhe ed altre cariche, che pareva uno grandissimo cannito. Ma non dico l'altra gente, che andò da ogne parte, che furo stimati con li villani tutti uniti vintimila persone,.. et li nemici ammazzaro trecento persone a Pomigliano...»—«A dì XV detto, fu giovedì, venne nova come li nemici erano sopra la montagna di Lauro; et loco stettero una notte; et li villani di Lauro et Furino li seguitavano di tale maniera, che lassaro tutti li cariaggi, robbe et cavalli, che portavano; et questi villani ne rimasero ricchi, quanto quelli di Pumigliano ne rimasero sfatti tutti...»—Anche nel M.DCC.XCIX, Pomigliano d'Arco, (che non va confusa con Pomigliano d'Atella, la quale è nel medesimo circondario e nello stesso collegio elettorale, ma nel mandamento di Frattamaggiore) ebbe a soffrire stragi ed incendî per opera de' franzesi, a' quali volle opporsi con più animo che senno.

Giambattista Basile la ricorda nel Pentamerone; e nel Trattenimento X della Giornata II parla di Cola Jacovo Aggrancato, de Pomegliano, marito de Masella Cernecchia de Resina, ommo ricco comme a lo maro, che non sapeva chello, che sse trovava, tanto ch'aveva 'nchiuso li puorce e teneva paglia fi' a ghiuorno. Il cognome Aggrancato, se pur mai c'è stato, del che dubito forte, ora certo non esiste più in Pomigliano d'Arco, nè, ch'io sappia, altrove. Vero, è che il Pigro soggiunge, che Cola Jacopo n' aveva figlie, nè fittiglie.

Giordano Bruno, che avea dovuto spesso transitarvi, recandosi dalla patria a Napoli e di Napoli nella città natia, la ricorda; e così fà narrare nel Candelajo al suo Barra una truffa commessavi[6]:—«Ma io, che non sò tanto di Rettorica, solo soletto senza compagnia, l'altr'hieri venendo da Nola per Pumiglano, dopoi ch'hebbi mangiato, non hauendo tropo buona phantasia di pagare; a dissi al tauernaio: Mes. hosto, uorrei giocare.— A qual gioco, disse lui, uolemo giocare? cquà hò de tarocchi. Risposi: A questo maldetto gioco non posso vencere, per che hò vna pessima memoria. Disse lui: Hò di carte ordinarie. Risposi: Saranno forse segnate, che voi le conoscerete: hauetele, che non sijno state anchor adoperate? Lui rispose de non. Dumque pensiamo ad altro gioco. Ho le tauole, sai?— Di queste non so nulla. Hò de scacchi, sai?— Questo gioco mi farebbe rinegar Christo. —All'hora gli venne il senapo in testa: A qual dumque diauolo di gioco vorai giocar tu? Proponi. Dico io: A stracquare a pall' e maglo. Disse egli: Come à pall' e maglo? Vedi tu cqua tali ordegni? Vedi luoco da posserui giocare? Dissi: A la mirella.— Questo è gioco da fachini, bifolchi et guardaporci. A cinque dadi[7]?— Che diavolo di cinque dadi? Mai vdiui di tal gioco. Si vuoi, giocamo à tre dadi. Io gli dissi, che à tre dadi non posso hauer sorte. Al nome di cinquantamila diauoli! disse lui, si vuoi giocare, proponi un gioco, che possiamo farlo et voi et io. Gli dissi: Giocamo à spaccastrommola., disse lui, che tu mi dai la baia: questo è gioco da putti; non ti vergogni? Hor sù dumque, dissi, giocamo à correre.— Hor questa è falsa, disse lui. Et io soggionsi: Al sangue dell'Intemerata, che giocarai.— Vuoi far bene? disse. Pagami; et, si non vuoi andar con dio, va col prior de diauoli. Io dissi: Al sangue dette scrofole, che giocarai. Et che non gioco? diceva. Et che giochi? dicevo. Et che mai mai vi giocai! Et che vi giocarrai adesso? Et che non voglo! Et che vorrai? In conclusione, comincio io à pagarlo co le calcagne, ideste a correre. Et ecco, quel porco, che poco fà diceua, che non volea giocare, et giurò, che non volea giocare, et giocò lui et giocorno dui altri sui guattari, di sorte che, per un pezzo correndomi appresso, mi arriuorno et giunsero co le voci. Poi ti giuro per la tremenda piaga di s. Rocco, che nè io l'ho più vditi, nè essi mi hanno più visto.»—

Non mi si rimprovererà, di aver riferito questo brano della stupenda commedia del Nolano, come di cosa estranea al tema di una prefazione ad una raccolta di novelle popolari, per poco che si rifletta, la truffa di Barra non essere invenzione del Bruno, anzi una facezia popolare, che tuttora si racconta, e che altri scrittori hanno narrato e prima ed anche dopo di lui; e tali fra questi ultimi, che forse non ne conoscevano neppure il nome e gli scritti certo no. Negli Ozii Poetici | di | Michele Zezza. || Napoli 1816. | Nella tipografia della Società Filomatica, | Con licenza dei superiori, (serie di novellette ristampata nelle Opere | poetiche | di | Michele Zezza | Vol. IV || Napoli 1818. | Nella tipografia della Società Filomatica ), v'ha un racconto, La scommessa, che in parte concorda con questo del Bruno ed in parte con quello di Alessandro di Girolamo Sozzini:—«Iacomo, soprannominato Scacazzone, disse a un oste, che gli desse una ceffata e gli rendesse il resto, perchè non aveva denari.»—Essendo gli scritti del Zezza irreperibili in commercio, non sarà forse discaro al lettore di averne qui trascritto il racconto, per paragonarlo con la versione del Bruno.

Nel secolo passato, in un paese,

Ch'io non voglio nè posso nominare,

Giunse un tal gentiluom detto Cortese,

Che in vicina città doveva andare.

In tasca non avea manco un tornese;

E come a piedi egli solea viaggiare
[8]
,

Tanto la fame con quel moto crebbe,

Che mangiato per pane un sasso avrebbe.

Ecco si vede un'osteria davante,

E a vista tal balzogli il cor nel petto.

Non è sì grato ad un fedele amante

Il dolce incontro dell'amato oggetto,

Quanto fu grato al gentiluomo ansante

Di quel sito odorato il caro aspetto.

Ridea, brillavan gli occhi ed a milioni
[9]

Col pensiero inghiottia caldi bocconi.

Dice fra sè:—«Vo' ristorarmi in questo

«Loco per or. Quando avrò poi mangiato,

«Trovar saprò ben io qualche pretesto,

«Se l'oste chiederà d'esser pagato.

«Talento a me non mancherà: del resto,

«Il peggio è di morir così affamato».—

Ciò detto, entra in locanda. È ben servito;

E fresco torna il volto suo sfinito.

Poi che al suo ventre sodisfè Cortese,

La gamba dritta sulla manca alzò,

La tabacchiera aprì, tabacco prese,

E ad alta voce il locandier chiamò.

Di ciò, che dar dovea, nulla gli chiese,

Ma con aria sovrana domandò:

—Se qui un uomo ad un altro un schiaffo dà,

«Qual pena mai dal tribunal egli ha?»—

L'oste credeva esser da lui deriso,

Vedendolo così seco scherzare:

—«Per lo schiaffo»,—rispose con sorriso,

—«Uno scudo si suol tra noi pagare.»—

Il gentiluom riprese:—«Ecco il mio viso:

«Lo schiaffo puoi liberamente dare,

«E poi... conteggerem. Certo son io,

«Che val men d'uno scudo il pranzo mio.»—

Piccato il locandiere a urlar si pone:

—«Fuori i scherzi, signor del mio stivale;

«O paga il pranzo, o ti torrò il giubbone,

«E maschera parrai di carnovale.»—

L'interruppe Cortese:—«Olà, scioccone,

«Se tu non freni un'arroganza tale,

«Sulla parola mia di cavaliero

«Io correr ti farò come un levriero.»—

Qui si guardan fra lor con torvo aspetto,

Gridando e questo e quei da disperato.

Decise alfin Cortese.—«Orsù, scommetto,

«Che a te nulla sarà da me pagato;

«E il pranzo scommettiam, che a tuo dispetto,

«Io fuggir ti vedrò come un dannato».—

L'oste, che avea forza e coraggio, rise,

E di non muover piè fiero scommise.

Mentre l'oste sta fermo e aspetta intanto

Veder cosa risolve il cavaliero,

Questi, fingendo avvicinarsi accanto,

Dalla locanda fuori esce leggiero.

Cervo non saltò mai snello cotanto,

Nè veloce così corse levriero,

Da uguagliarsi a Cortese; e ben parea,

Ch'un diavol scatenato a tergo avea.

L'oste, per moto naturale allora,

Vedendo il gentiluomo in fuga dato,

Spicca egli pur dalla locanda fuora

E 'l comincia a seguir da disperato.

L'altro s'arresta e dice:—«Alla buon'ora:

«La scommessa, compare, ho guadagnato.

«Correre a tuo dispetto io t'ho veduto;

«Nega, or nega, se puoi, d'aver perduto?»—

A prove così chiare ed evidenti,

Che risponder dovea l'oste smarrito?

Strinse le spalle, bestemmiò fra' denti,

Battè i pie' per la rabbia e morse un dito.

Cortese nell'andar gli disse:—«Senti,

«Non ti sdegnar, tu non andrai fallito

«Per un pranzo più o meno; e, per placarti,

«Prendi una presa di tabacco e parti.»—

La medesima facezia era stata raccontata prima di Giordano Bruno, anche da Ludovico Domenichi (morto a' XXIX d' Agosto M.D.LXIV.):—«Capitò un fantaccino svaligiato a un'osteria di queste, che sono sopra le pubbliche strade. Il quale, avendo più appetito che soldi, nè potendo più tolerare, si pose a tavola, facendosi abbondantemente dare da mangiare, come fatto averia un ricco gentiluomo, con tal pensiero, che, convenendogli di venire a rottura con l'oste, che e' fusse a più suo vantaggio, venirci per aver ben mangiato, che per il poco. Approssimandosi il fine del desinare, cominciò il fantaccino a fare una ricercata, per tentare, s'egli, col mezzo delle buffonerie, potesse pagare lo scotto; parlando in cotal modo: Ditemi per cortesia, M. Oste, che pena è posta, in questo contorno, a uno, che, con un pugno, percotesse un altro sul viso? A cui l'oste rispose, che vi era pena uno scudo. Onde il fantaccino soggiunse: Datene uno a me et rendetemi il resto, ritenendovi il prezzo del desinare. Ma l'oste, che non faceva capitale di simile merce, gli rispose bravando: A te converrà al tuo dispetto pagarmi con denari et non con buffonerie. A cui il fantaccino, conoscendo che egli non averebbe introito per quella porta, si rivoltò ad aprirne un'altra, dicendo: Oste, tu mi parli molto brusco, come se tu fossi un Orlando et io un vilissimo poltrone. Ma, tal qual tu ora mi vedi, e' mi basta l'animo di farti correre un pezzo. A cui l'oste, vinto da maggiore ira, disse: che non conosceva, che egli nè altri fussero atti a farlo mover di passo. Et sopra il sì et no offerendo il fantaccino di fare solamente scommessa dello scotto, fu dallo iracondo oste con poca considerazione accettata. Il fantaccino, avendo già finito il desinare, saltò subito in piedi; et senza indugio uscito di casa, quasi che avesse voluto porre mano a' sassi, si mise a correre quanto e' poteva menare le gambe. Laonde l'oste, essendo stato alquanto sospeso, finalmente ei prese risoluzione di seguitarlo, per non rimanere gabbato del prezzo del desinare. Et doppo un grande spazio di carriera, sentendo il fantaccino d'esser raggiunto, si fermò dicendo: Oste, tu hai perduto la scommessa, avendoti io fatto correre così grande spazio di strada. Il che sentito dall'oste, rivolgendo l'ira in riso, lo licenziò senza costo. Tanto più, che il fantaccino affermava, sè non avere un minimo denajo per satisfare l'oste. (Il quale oste fece del bisogno virtù.)»—Il Nolano non ha dovuto, parmi, aver cognizione di questa versione del Domenichi.

Di scrittori nati in Pomigliano d'Arco vanno mentovati l'Antignano, autore di canzonette spirituali nel seicento ed il cav. Felice Toscano, scrittore di trattati filosofici, contemporaneo[10].

I racconti seguenti vennero raccolti diligentemente in Pomigliano d'Arco stessa dalla signorina Rosina Siciliano. Fanno parte di una numerosa collezione e ne formano quasi un saggio, giacchè, secondo noi, questo volumetto dovrebbe essere seguito da parecchi altri. Ecco perchè questa serqua di racconti è stata scelta in modo da rappresentare generi diversi e di dar quasi un'idea di tutto il materiale tradizionale. Le varianti di Bagnoli-Irpina mi furno mandate da Michele Lenzi, egregio pittore; le avellinesi mi sono state somministrate dalla signorina Clelia Soldi, insieme con altre parecchie; e le montellesi sono desunte da una raccolta di centoventi conti, della quale mi ha fatto dono il commendator Scipione Capone. La variante novolese del decimoprimo mi venne mandata dalla signora Domenica Gioja nata Pisanelli; un'altra filastrocca leccese dal Duca Sigismondo Castromediano; una novella toscana dal prof. avv. Ghepardo Nerucci, l'altra dal dottor Giuseppe Pitré. Gli esempi milanesi ho raccolti io stesso. Avellino (come tutti sanno) è capoluogo del Principato Ulteriore; e Montella e Bagnoli sono comuni della stessa Provincia, distretto di Ariano. Novoli è in Terra d'Otranto.

In quanto alla grafia, abbiamo tentato di rendere esattamente la pronuncia. I conti di Pomigliano d'Arco, li ho letti e riletti, fin sulle bozze, a persone del paese, modificando la scrittura, perchè meglio ritraesse la pronuncia: i poveri stampatori e correttori, che si vedevan giungere le pruove stranamente ricamate, possono attestare con quanto zelo e coscienza si sia lavorato. Per gli altri comuni ho dovuto attenermi strettemente a' manoscritti de'raccoglitori. In Pomigliano, Montella, ed Avellino i dialetti sono poco diversi tra loro e poco di versi dal napolitano propriamente detto. In Novoli si parla uno idioma leccese. Ho creduto di dover seguire anche stavolta le norme adottate nel mio Saggio di Canti popolari delle provincie meridionali. Considerando quindi ogni vocabolo vernacolo come alterazione della voce etimologicamente corrispondente nello Italiano aulico, indico con un apostrofo ogni aferesi ed ogni apocope, ancorchè il vocabolo nel dialetto esista solo in quella forma apocopata od aferizzata. Mi sembra, che, in tal modo, ne sia facilitata l'intelligenza al lettore e si ottenga di distinguere parole, che suonano press'a poco identicamente, sebbene diversissime di significato, esempligrazia 'no (uno, articolo indeterminato) no (no) e no' (non); 'sse (queste) e sse (sè); 'sta (questa) e stà' (stare) eccetera. Le consonanti iniziali di molti vocaboli si pronunziano, appunto come in Italiano, quando scempie e quando doppie, secondo il valore tonico della sillaba precedente. Alcuni, anzi i più scrittori in dialetto han quindi stimato opportuno di raddoppiarle talvolta, consuetudine acerbamente ripresa dal Galiani. Conoscendo per pruova, quanto cosiffatti raddoppiamenti perturbino la vista e confondano le mente, li abbiamo soppressi; reputando, non essercene maggior bisogno ed utile nello scrivere il dialetto, di quel, che ce ne sia nello scriver lo Italiano comune; e conservando il raddoppiamento iniziale, solo nelle parole, in cui è costante per ragioni etimologiche od altre, come in lloco, (là) che viene da in loco. La s impura ha ne' vernacoli, quando il suono dello sh inglese, ch francese e sch tedesco; e quando no. I raccoglitori hanno trasandato di distinguere i due suoni ortograficamente; ed ho quindi dovuto lasciarli indistinti ancor' io, non senza rincrescimento. Ma mi consola il riflettere, che quel suono grasso non è d' uso costante e che vien considerato sempre come un difetto di pronunzia, sicchè nessuno ha mai curato di distinguerlo nella scrittura. Nè potrebbe distinguersi ammodo senza adoperar qualche strano nesso, il quale annasperebbe la vista a' leggitori, o senza introdurre un nuovo carattere. Molti dialetti hanno pure essi un'ortografia solita, stabilita, consuetudinaria, come la lingua aulica, nè può saviamente riformarsi tutta a priori, secondo i consigli della scienza. Anche in Italiano, parecchie lettere hanno quando un suono e quando un altro; e per riparare allo sconcio bisognerebbe accrescer lo alfabeto di altri dodici segni circa almeno. Il dh indica un suono speciale leccese, che altri figura col nesso ddr ed altri tagliando con trattolini orizzontali le aste de' dd. Giustificheremo alcune altre peculiarità ortografiche a mano a mano, che se ne presenteranno gli esempi. Debbo confessare, che, ned il Capone ned il Castromediano approvano questo mio sistema ortografico; ripudiano gli apostrofi; conserverebbero i raddoppiamenti delle consonanti iniziali. Ma le loro ragioni non mi hanno persuaso e mi sono ostinato a fare, per questa parte, a mio modo. Sarebbe inutile esporre qui le ragioni loro e le mie. Del resto un sistema ortografico dev'esser sempre giudicato più dal punto di vista pratico, che dal razionale.

Le noterelle poi saranno di due specie. Alcune mitologiche, nelle quali indicherò i riscontri Italiani, che mi sovverranno alla memoria, trascrivendone un certo numero, quelli cioè, letterarî o popolari, che sono desunti da novellieri o da raccolte meno facili a trovarsi in commercio. Forse avremmo fatto meglio a trascriverli tutti (ma ci trattenne paura d'ingrossar troppo il volume) ben sapendo quanto torni comodo ed utile, l'aver così tutte le varianti d'una tradizione raccolte insieme. Le altre noterelle saranno filologiche, in cui spiegherò alcune forme grammaticali od alcuni vocaboli, studiandomi sempre di aggiungere qualche esempî, cavati dagli scrittori vernacoli; non foss' altro, per invogliare a leggerli. Sì le une che le altre sarebbero state più abbondanti e forse migliori, in numero più spesse, in stil più rade, se non mi fossi trovato a far questo lavoro in campagna, e quindi costretto a contentarmi di soli pochissimi libri miei, senza neppur modo di ricorrere alle biblioteche pubbliche o private più ricche, e quel, ch'è peggio, distratto da ufficî amministrativi e da lotte elettorali politiche. Avrei riparato durante la stampa, se questa non avesse avuta luogo in massima parte nel periodo di vergogna nazionale, che tutt'ora dura; nel quale, l'animo esulcerato dal vedere ministri i Luciani ed i De-Mata, nel vedere profanato il santuario dello stato da una genia ribalda di camorristi, nel vedere l'Italia e la Monarchia venute in man degli avversarî loro, non mi lascia attendere serenamente agli studî. Dirò anch'io, in principio di queste annotazioni, quel, che Monsignor Bottari diceva delle sue alle Lettere di Fra Guittone:—«Queste note avranno senza fallo bisogno di tutto il vostro compatimento, cortesissimi Lettori; e lo incontrerebbero, son certo, se sapeste come e quando mi è stato forza di farle; ma il qui narrarlo nulla rileva; e forse sarebbe creduta da alcuni una delle solite cantafavole e consuete querule scuse degli autori, per cui con la strettezza del tempo o con la moltiplicità d'altri diversi affari tentano di ricoprire i proprî difetti. Questo compatimento voglio piuttosto implorarlo ed eziandìo sperarlo, dalla vostra discretissima benignità e gentilezza, che da altre scuse e ragioni, quantunque solide e vere e non mendicate».—E qui mi occorre ringraziare il cav. Giovanni Papanti, il quale s'è benignato di trascrivere per me di proprio pugno la novella del Malaspini, che ristampo; il prof. De Blasiis, il quale mi ha dato la lettera del Zambelios, citata in nota al conto di Villa; e quanti, insomma, mi hanno benevolmente ajutato.

Rinnovo la protesta, fatta pubblicando i due volumi del Saggio di Canti popolari delle provincie meridionali, cioè di non esser mosso minimamente da passioni municipali o regionali, come altri forse, nel raccogliere ed illustrare questi documenti della fantasia delle popolazioni napolitane; anzi solo dallo amor della patria comune e degli studî dialettologici e demopsicologici. Difatti, metto mano alla pubblicazione di conti napolitani, soltanto dopo aver dato alla luce una Novellaja milanese, raccolta di esempî e panzane lombarde, ed una Novellaja fiorentina, raccolta di fiabe e novelle toscane. Non senza un perchè mi piace avvertirne il lettore. Il quale vorrà scusarmi, se, per parte mia, sono incorso in qualche errore: ma questo benedetto dialetto napolitano, io, che pur son nato in Napoli, l'ho imparato adulto e su' libri, non da fanciullo e nell'uso. E nessuno, checchè vaneggino parecchi, potrà mai dirsi veramente padrone, se non del solo linguaggio succhiato col latte materno; il quale, per me, è questo gergo qualunque, nè napoletanesco, nè toscano, in cui scrivo adesso; sufficientissimo, voglio pur dirlo, a tutti i miei bisogni civili ed intellettuali. Neghi altri l'Italiano: io, che il posseggo, non posso negarlo.

Imbriani[11]

NOTE

[1] Taverna Nova è una borgata, che va in parte col comune di Pomigliano d'Arco, in parte con quello di Casalnuovo di Napoli ed in parte con quello d'Afragola. Dice una canzone popolare:

Taverna Nova, aria gentile,

A chi 'no inasto, e a chi 'na 'nnamorata!

[
Var.
A chi 'no vaso, e a chi 'na massaria.]

Quanno la mano 'mpietto mme calaste

Io te dicietti:—«Fa chello, che buoje!»—

. . . . . . . . . . . . . .

Per obbedire a li comanne tuoje.

[2] Pomigliano, prima Pumigliano, che i Napoletani ora corrottamente dicono Pompigliano; e così la chiama anche il dottor Raffaele Castorani, professore d'oftalmologia nella Università di Napoli in un Mémoire sur l'extraction linéaire externe, simple et combinée de la cataracte (Paris. Baillière, 1874). Volgarmente vuolsi fondata da Pompeo Magno, con etimologia assurda, giacchè, quand'anche fosse da preferir la forma Pompigliano, deriverebbe da Pompilio e non da Pompeo. Altri vuol, che il nome venga da pomi e llano, vocabolo spagnuolo, quasi: pianura de' Pomi; e le armi parlanti del paese sono appunto un pomo; ed in mezzo al mercato c'è una colonna con sopra una cestella di pomi in marmo. Ma il paese non è niente affatto celebre per le frutta ed è più antico della dominazione spagnuola, nè la formazione è possibile. Il Flechia trarrebbe il nome da Pomelianum, * Pomelius.—«Questo nome è reso probabile da Pomelianus ( IN. 1935) gentilizio, che sta a * Pomelius, quale p. e. i gentilizî Curtianus a Curtius, Flavianus a Flavius, Marianus a Marius, Nerianus a Nerius, ecc. (cf. Hübner. Ephem. epigr. II. 30 e sgg. ). Da Pumidianum, Pumidius ( IN. ), sarebbe più verisimilmente venuto * Pumijano, indi.... *Pomiano».—L'aggiunto d'Arco, che si ritrova anche nel nome della Madonna dell'Arco, (dov'ora è il Manicomio provinciale); di Santa Maria dell'Arcora, chiesa in Afragola; di Via Arco Pinto ( ibidem ) ecc.; viene da' ruderi dello antico acquedotto di Serino. Per la gloriosissima Madonna dell'Arco, c'è un madrigale di Giambattista Basile, il Pigro.

Dissi: «L'Iride mia,

«Arco divin, tu sei,

«Mentre i miei dì rischiari, ombrosi e rei».—

Or, che da te s'invia

Strali di grazie al core,

L'arco dirò, che sei del vero amore.

[3] Per dare un'idea delle etimologie fantastiche, assurde, che vengono universalmente accettate però dal volgo, ricorderò quella di Casoria da Casa aurea; e di Afragola (piano) da fragola (sdrucciolo) con l' a privativa, per non trovarcisi fravole! Ed Afragola ha di fatti per istemma parlante una mano, che tiene una fravola pel gambo.[4] L' Acerra, Acerra. Quasi tutti i nomi di paese, che cominciano per A, si adoperano ne' vernacoli Napolitani con l'articolo, evidentemente, perchè, la iniziale è stata scambiata con l'articolo femminile dal volgo. Gli scrittori hanno seguito questo andazzo, e troviamo scritto: La Cerra e l'Acerra, la Matrice e l'Amatrice, l'Atripalda e la Tripalda, l'Afragola e la Fragòla o la Fraola, ecc. ecc. Andrea Perruccio ha detto:

Comm'a 'na mummia Tartarone resta,

Comme a 'n ommo de paglia 'mmottonato.

Parla, spapura, pezzo de 'n Anchione,

Ca de la Cerra pare 'no pacione!

Il nome dell'Aquila ha serbato sempre la sua integrità, perchè l'accento cadeva appunto sull' a.

[5] I nomi di luogo in o ed in i, (Napoli, Pomigliano, San Pietro a Patierno, ecc.) sono tutti e sempre maschili nel vernacolo.[6] Trascrivo, modificando la sola punteggiatura, dalla edizione originale rarissima del M.D.LXXXII. L'edizione di Lipsia del M.DCCC.XXX (curata da Adolfo Wagner) e la ristampa fattane a Milano nel M.DCCC.LVIII (curata da Carlo Teoli ossia Eugenio Camerini) sono due vituperi, e ridondano di mutazioni arbitrarie e di correzioni spropositate, le quali rendono incomprensibili molti punti del capolavoro, e lo sfigurano sempre. Chi voglia edificarsi su questo punto, dia un'occhiata al mio Natar II, Lettera a Francesco Zambrini sul testo del Candelajo di Giordano Bruno. Ecco un piccol saggio de' principali svisamenti, fatti nelle sole poche linee di questa narrazione: Oste (invece di hosto, come dicevasi generalmente nel cinquecento)— Vincere (invece di vencere, forma napolitana).— Avetene che non siino (invece di: hauetele; perchè poi?)— Rispose di no (invece di: rispose de non ).— La senape (invece di: il senapo; dice il Basile nella Scompetura de lo Cunto de li Cunte:—«E si mme saglie lo senapo, meglio che te pigliasse rota de carro.»)— Pallamaglio, morella (mentre il testo ha: pall' e maglo, mirella ).— Udii, giochiamo, giocarai (dove il testo reca: vdiui, giocamo, giocarrai ).— Id est (invece di: ideste; quasi che i camorristi dovessero parlar latino ammodo!)— Eh che giochi ecc. (trasformando sempre in interiezione la congiunzione et.)— Spaccastrammola. Che diavolo poi il Wagner, il Camerini ed il Berti (che cita appunto questo brano come saggio della vivacità dello scriver del Bruno), intendessero per spaccastrammola, ignoro! Vattel'a pesca! Spaccastrommola sì, so cosa significa.—«I ragazzi»,—dice il Galiani—«collo strummolo» —plurale strommola: Basile, Egloga VIII: Secoteja, ch'a lo tuorno | Sse faceno le strommola (Proverbio)—«ch'è la trottola, fanno un gioco. Colui, a cui cade la sorte, tira prima il suo; e gli altri, mentre questo ruota, vi tirano sopra per ispaccarlo. Or tirando con forza, vanno queste strommola sbalzando con furia e a rischio di dar sul viso a chiunque stiasi vicino. Onde si dice a spaccastrommola, che[Pg xxviii] dinota: alla cieca e colla maggior confusione e disordine »—e cita il verso del Fasano, nella traduzione della Gerusalemme. Canto I, stanza XXXI: Vanno a la spaccastrommola le cose. Anche il Capasso, nella satira contro il Gravina, ha detto: Mme pare a mme, ch'a fà' 'sta Babelonia | Nce vo' assai manco, ch'a tirà' 'na sciaveca | A fa' li vierze tutte de 'na petena | A farel'e a tempesta e a spaccastrommola. Vedi Varie Poesie | di | Niccolò Capassi | Primario Professore di leggi | Nella Regia Università di Napoli. || In Napoli MDCCLXI | Nella Stamperia Simoniana | Con permesso de' Superiori, dove, in nota, la locuzione è spiegata per—«Alla rinfusa, inconsideratamente».—Giulio Cesare Cortese, in un'epistola a Notar Cola Maria Zara: Mentre iocammo 'nzembra a spaccastrommola. Fra Jacopone da Todi ha detto:

Non si conviene a Monaco

Vita di Cavaliere;

Nè a Veterano stombolo;

Nè a Chierico sparviero.

Predichi pur Teologo,

Et doli el Carpentiere;

Va per siroppi al Medico,

Per pelli al Pellicciere.

Ed il Tresatti annota:— «Stombolo, quell'istrumento di legno, com'un pero, col quale giocano i putti, facendolo girare, chiamato altrimenti rozzolo o pirlo, e da' Latini trochus».

[7] Sarei stato certissimamente e senz'alcun dubbio costretto a sclamar ancor io, come l'osto pomiglianese: Mai vdiui di tal gioco; se l'allusione e l'equivoco osceno non mi fosse stato rischiarato dalla Finestra quinta di: Il | Novo Parlatorio | delle Monache | Satira Comica | di | Baltassaro Sultanini | Bresciano. | Nuovamente ristampato in questo anno 1677 | con vn aggiunta curiosissima del medesi- | mo Auttore, che si trova in un'età | di sessanta tre anni.[8] Errore di prosodia, nel quale del resto è cascato anche alcuno de' più celebri (io direi: famigerati; non illustres, famosi ) verseggiatori nostri contemporanei. Viaggiare non può non farsi quadrissillabo sempre.[9] Altro erroruzzo di prosodia. Anche qui la dieresi era d'obbligo. Milioni è e può solo esser quadrissillabo.[10] Non mancano in Pomigliano cultori del dialetto; nè so resistere alla tentazione di riprodurre qui una satira, il brindisi de' galeotti, composta da un valentuomo ne' giorni scorsi, in occasione della grazia al De Mata ed altri simili scandoli.

Vuagliune ammartenate de 'stu core,

Songhe fernute 'e juorne de li pene!

'Ngoppa 'a Giustizie e Grazie 'nu signore

Sta, ca nce vo' sferra' da li catene.

Ha verute, ch'è scuorne e ciucce arrore

Nun fare chelle, che sse po' de bene.

'O Ciele 'o benerice! 'E schitt' argiente

Ss'avrie da fa' 'na statue a 'stu purtiente!

Isso, verace figlio de la terra,

Ch' è stato de lanterna a tutt' 'o Munne,

La bona sciorte p' 'e capille afferra

E a auta voce rice chiare e tunne:

—«L'ommo n'è fatto pe' sta' sempe 'nguerra,

«Nè per avere tutto a ssè secunne.

«E nuje vulimme, comme 'e surecille,

«Tenè' li carcerate 'inte 'e mastrille?»—

'Nu letterate 'ruosse raccuntave,

Ch' a piezze sse faceve 'u malandrine

Primme, se sule 'nu schiaffone rave

O a lu barone nun faceva 'nchine.

Ch' 'e (
con le
) fune, 'o fierro, 'o fuoche, sse restavo

Mieze muorte lu povere schiappine,

Che pe' la famme aveva a 'o calavrese

Scippate 'ngoppa 'ô juoche 'nu tornese.

'Nu taliane nobbele e rettore

Scrivette:
Comme mo' sse mange cheste?

Chi accire e arrobbe tene 'mpiette 'o core.

Sia cunnannato, ma nu' leste leste!

Muorto de famme e strazie e de dolore

Comme a 'nu cane è puosto into a caneste.

'E nuoste, 'e Magnasive, Angrise e tutte

Luvarene 'ste pene e chilli lutte.

E mo', ch' 'e belle tiempe so' benute,

Che sciure e frutte nascene 'a pe' lore,

Che simme fratacchiune 'rrevenute,

C' 'o cielo 'mmece 'e l'acqua chiove l'ore,

Vulimme i' 'nnanze e fa' ca' li patute

Cantene d'alterezze tutte a core?

Eh vive 'à lebbertà, fore 'e cancello

Da 'o Fische cchiù nun s'hanno li panelle.

Avêre iè (
vero è
) cu n'avimme, a iesse' 'ngrate

A unurare in chistu gran cunvite,

Chille, che nce hanno tanto reparate.

Veve 'â salute 'e tutte; e auze 'o rite

'Ruosse, e repete:
Juorne furtunate

A lu Ministre nuoste prià' ve 'nvite.

Si resta 'natu poche 'stu guvierne

Annure jamme de state e de vierne.

[11] Il prof. Francesco d'Ovidio, annunziando nella Rivista di Filologia e d'Istruzione classica, il prezioso opuscolo del mio illustre maestro Giovanni Flechia su' Nomi Locali del Napolitano, derivati da gentilizî Italici, mi vorrebbe fare stimar da' leggitori di quel periodico ( pochi ma valenti, come i versi del Tosti) troppo più ciuco di quanto sono. Mi rimprovera di:—«sperare di dovere il mio cognome alla fata meridiana (in napolitano la 'Mbriana.)»—Dio buono! ricordo, sissignore, d'aver detto questa corbelleria: ma sedendo ozioso in un caffè, per celia, per mero scherzo; ned avrei immaginato che uno, il quale mi si dice amico, potesse rinfacciarmi, come opinione seria, un bisquizzo, una facezia scipita, uno scherzo, una freddura, una etimologia lunatica! Mi si lasci aggiungere, che non mi par giusta la ingegnosa derivazione d' Imbriani da Amaredianum, arzigogolata dal Flechia. Il nostro cognome non è propriamente napolitano, anzi si trova tuttavia in Capua (Giulio Cesare Imbriani fu giureconsulto illustre del cinquecento) in Roccabascerana ed anche nell'Umbria. Tradizione di famiglia è, che sia corruzione d'Umbriano; ed in tal forma il nome s'incontra, se non erro, persino nelle tavole eugubine. Umbriano starebbe ad Umbro, come Costantiniano e Valentiniano eccetera a Costantino e Valentino, che sono tutt'una cosa con Costante e Valente; ma c'era questa tendenza ad allungare i nomi; e, se mal non mi ricordo, ho letto su questo fenomeno sedici anni or sono una bellissima lettera autografa del Borghese, ch'era nelle mani di un professor di Berlino. Per me, ritengo Imbriani derivato dal gentilizio antico Imber; e rammento di aver letto, non so più in quale antico scrittore, d'un Imber Ater ( horrendi ominis nomen ) sollevato a non so che onori. Da Imber sarebbe venuto Imbrius e poi Imbrianum, nome locale, trasformato quindi in cognome. Da Imber abbiamo pure Imbrinium, luogo del Sannio, mentovato da Livio, (VIII.XXX): Q. Fabius, cum post profectionem dictatoris per exploratores comperisset, perinde omnia solata apud hostes esse, ac si nemo Romanus in Samnio esset, seu ferox adolescens indignitate accensus, quod omnia in dictatore viderentur reposita esse, seu occasione bene gerendae rei inductus, exercito instructo paratoque ad Imbrinium, ita vocant locum, acie cum Samnitibus conflixit. Imbrinio vien certamente da Imbre e forsanche Imbriani potrebb'essere corruzione d' Imbrinianus (sostituendo per contrazione, Imbrignani, forma più naturale). Due torrentelli, che si veggono andando da Sammartino-Valle-Caudina a Pannarano, si chiaman tuttavia col nome caratteristico d' Imbrianelle.

I.—GIUSEPPE 'A VERETÀ[1] ( Versione raccolta in Pomigliano d'Arco )

'Na[2] vota nce steva 'na mamma e teneva[3] 'nu figlio, ca ssi chiammava Giuseppe; e pecche nu' diceva nisciuna[4] buscìa 'o[5] mettette nomme Giuseppe 'a Veretà. 'Nu juorno, ammente 'o stava chiammanno, ssi truvò a passa' 'o Re; e, verenno, ca chella mamma 'o chiammava accussì,[6] li spiava:[7] —«Neh, pecchè 'o chiammi Giuseppe 'a Veretà?» —«Pecchè nu' dice nisciuna buscìa.»—Allora 'o Re decette, che 'o vuleva cu' isso[8] e 'o mettette a guardà 'e bacche. E ogne matina Giuseppe sse presentava 'ô[9] Re e deceva:—«Servo di sua Maestà»—'O Re respunneva:—«Addio, Giuseppe 'a Veretà. Comme stanne 'e bacche?»—«Fresche e chiatte.[10] »—«Comme stanno 'e bitelle?»—«Fresche e belle»—«Comme sta 'o toro?»—«Ancora.»—E accussì faceva ogne matina. E 'o Re 'o ludava 'nnanze a tutt' 'e cavalieri, tanto, ca chisti sse sentevene currivo[11]; e 'nu juorno, pe' fa' truvà' Giuseppe busciardo, nce mannarene 'a ronna, che cu' 'e parole ssoje duveva fa' accirere 'o toro. Giuseppe tanto fu priato, che l'accerette; ma po', sse truvava 'mbrugliato, comme avev'a ricere 'ô Re. Mettette 'o cappotto ssujo 'ngoppa a 'na seggia; e fingeva, ca chillo fosse 'o Re: e diceva:—« Servo di sua Maestà == Addio, Giuseppe 'a Veretà. Comme stanno 'e bacche? == Fresche e chiatte.== Comme 'e bitelle?== Fresche e belle.== Comme 'o toro?== Ancora.==Ma no; nu' ba buono! po' rico 'a buscia! Quanno 'o Re mme demanna comme sta 'o toro, io nce 'o[12] dico ch'è muorto».—Sse presentava 'ô Re e decette:—«Servo di sua Maestà»—«Addio, Giuseppe 'a Veretà. Comme stanno 'e bacche?»—«Fresche e chiatte.»—«Comme 'e bitelle?»—«Fresche e belle.»—«Comme 'o toro?»—«Ssua Maestà, è benute 'na ronna; e, co' 'e maniere ssoje, mm'ha fatto ammazzà' 'ô toro. Perdunateme».—'O Re respunnette:—«Bravo Giuseppe 'a Veretà.»—Chiammava 'e cavalieri ssuoi; e le facette[13] canoscere, comme chisto aveva ritto nisciuna buscìa ancora. E accussì Giuseppe rummase sempe c' 'o Re; e iè cavalieri rummanettere to' to'[14], pecchè non avevene ricavate niente 'e chello, che avevene penzate.

NOTE

[1] Vedi:—I.— Sicilianische Märchen. | Aus dem Volksmund gesammelt | von Laura Gonzenbach. | Mit Anmerkungen Reinhold Köhlers und einer Einleitung herausgegeben | von | Otto Harlwig | Erster Theil. | Mit dem Portrait einer Märchenerzählerin || Leipzig | Verlag von Wilhelm Engelmann | 1870 (in 8. di LXVI-368 pagg. 9 oltre un ritratto; e Zweiter Theil, ibid. di IV-263 pagg. ed un altro ritratto). La novella VIII, Bauer Wahrhaft, cioè Massaru Verità, ha una lezione più compiuta della nostra, essendo particolareggiata la seduzione. La moglie del cortigiano, il quale ha scommesso il capo col Re, che Massaru Verità mentirebbe, si finge incinta e di aver voglia d'un fegato di castrato; ed il povero zugo, vedendola bella e contigiata e con una stella di diamanti in fronte, finalmente cede.—II.—Nell'opera Fiabe | Novelle e Racconti | popolari Siciliani | raccolti ed illustrati | da | Giuseppe Pitrè | Con discorso preliminare, | Grammatica del dialetto e delle parlate siciliane, | Saggio di novelline albanesi di Sicilia | e Glossario || Volume primo || Palermo | Luigi Pedone Lauriel, editore | 1875 (e Volume secondo, terzo e quarto ) la novella LXXVIII, Lu Zu Viritati.—III.—Appo lo Straparola, la favola V della notte III:—«Isotta, moglie di Lucaferro di Albani da Bergamo, credendo con astuzia gabbare Travaglino, vaccaro d'Emiliano, suo fratello, per farlo parer bugiardo, perde il poder del marito; e torna a casa con la testa di un toro dalle corna dorate, tutta vergognata.»—IV.—La novella intitolata Don Peppino e pubblicata nel numero V dell'Anno II del periodico La Scuola Italica (Napoli, 23 Agosto 1874).—V.— Le tre Maruzze | Novella trojana | Da non mostrarsi alle Signore || Troja, MDCCCLXXV | Esemplari XXVIII ( Zizze toste )— Riprodurremo qui la versione dello Straparola; che il lettore meno agevolmente potrebbe procurarsi di quelle edite dalla Gonzenbach e dal Pitré, e che non è impresentabile per oscenità, come Le tre Maruzze.—«In Bergamo, valorose donne, città antica nella Lombardia, fu (non è già gran tempo) un huomo ricco et potente, il cui nome era Pietromaria di Albani. Costui haveva duo figliuoli, l'uno de' quai Emiliano, l'altro Lucaferro si chiamava. Appresso questo, egli haveva duo poderi, dalla città non molto lontani; de' quai l'uno chiamavasi Ghorem, et l'altro Pedrench. I duo fratelli, cioè Emiliano et Lucaferro (morto Pietromaria, suo padre) tra loro divisero i poderi; et a Emiliano per sorte toccò Pedrench, et a Lucaferro Ghorem. Haveva Emiliano un bellissimo gregge di pecore, et un armento di giovenchi, et una mandra di fruttifere vacche; de quali era mandriale Travaglino, hvomo veramente fedele e leale; nè, per quanto egli haveva cara la vita sua, havrebbe detta una bugia; et con tanta diligenza custodiva l'armento et la mandra sua, che non aveva pari. Teneva Travaglino nella mandra delle vacche molti tori, tra quai ve n'era uno molto vago a vedere, et era tanto grato ad Emiliano, che d'oro finissimo gli aveva fatte dorare le corna. Nè mai Travaglino andava a Bergamo, che Emiliano non gli addimandasse del suo toro dalle corna d'oro. Hora avenne, che trovandosi Emiliano a ragionamento con Lucaferro suo fratello, et con alcuni suoi domestici, sopragiunse Travaglino, il quale fece cenno ad Emiliano di voler con esso lui favellare. Et egli, levatosi dal fratello et dagli amici, andossene là, dove era Travaglino; et lungamente ragionò con esso lui. Et perciocchè Emiliano più fiate haveva fatto questo atto, di lasciare gli amici et parenti suoi et girsene a ragionare con un mandriale, Lucaferro non poteva in maniera alcuna questa cosa patire. Laonde, un giorno, acceso d'ira et di sdegno, disse ad Emiliano: Emiliano, io mi maraviglio molto di te, che tu facci maggior conto di un vaccaro et di un furfante, che di un tuo fratello et di tanti tuoi cordiali amici. Imperciocchè, non pur una volta, ma mille (se tante si può dire,) tu ne hai lasciati nelle piazze e ne giuochi, come bestie, che vanno al macello, e tu ti sei accostato a quel grosso et insensato Travaglino, tuo famiglio, per ragionare con esso lui, ch'el par, che tu habbi a fare le maggior facende del mondo, et non di meno non vagliono una brutta. Rispose Emiliano: Lucaferro, fratello mio, non bisogna, che sì fieramente tu ti accorrocci meco, rimproverando Travaglino con disoneste parole; perciocchè egli è giovane da bene. Et emmi molto caro: sì per la sofficienza sua; sì anche per la lealtà, ch'egli usa verso me; sì ancora, perchè in lui è una special et singolar virtù, che, per tutto l'aver del mondo, ei non direbbe una parola, che bugiarda fusse. Ed, oltre ciò, egli ha molte altre conditioni, per le quali lo tengo caro. E però non ti maravigliare, se io l'accarezzo et hollo grato. Udite queste parole, a Lucaferro crebbe maggior sdegno. Et cominciò l'uno et l'altro moltiplicare in parole, et quasi venire alle arme. Et perchè (si come è detto di sopra) Emiliano sommamente commendava il suo Travaglino, disse Lucaferro ad Emiliano: Tu lodi tanto cotesto tuo vaccaro di sofficienza, di lealtà e di verità. Et io ti dico, ch'egli è il più insofficiente, il più sleale et il più bugiardo huomo, che mai creasse la natura; e mi offero di fartelo vedere, et udire, che in tua presenza egli ti dirà la bugia. Et fatte molte parole tra loro, finalmente posero pegno i loro poderi concordi in questo modo: che, se Travaglino dirà la bugia, il podere d'Emiliano sia di Lucaferro; ma, se non sarà trovato in bugia, il podere di Lucaferro di Emiliano sia. Et di questo (chiamato un notaio) fecero uno stromento publico con tutte quelle solennità, che in tal materia si richieggono. Partitosi l'uno da l'altro, et già passata la loro ira et sdegno, Lucaferro cominciò pentirsi del pegno, che egli aveva messo, et dello stromento per man di notaio pregato, et di tal cosa tra sè stesso si rammaricava molto; dubitando forte, di non restare senza podere, col quale e se et la famiglia sua sostentava. Hor essendo a casa Lucaferro, et vedendolo la moglie, che Isotta si chiamava, sì malinconioso stare, et non sapendo la cagione, dissegli: O marito mio, ch'havete voi, che così mesto e malinconioso vi veggio? A cui rispose Lucaferro: Taci per tua fe; et non mi dar maggior noia di quella, ch'io ho. Ma Isotta, desiderosa di saperlo, tanto seppe fare e dire, che dal marito il tutto intese. La onde, voltatosi col viso allegro verso di lui, disse: È adunque cotesto il pensiero, per cui tanto affanno e tanto rammaricamento vi ponete? State di buon animo, che a me basta il cuore di far sì, che, non che una, ma mille bugie fiano da Travaglino al suo patrone dette. Il che intendendo Lucaferro, assai contento rimase. Et perchè Isotta chiaramente sapeva, che 'l toro dalle corna d'oro ad Emiliano suo cognato era molto caro, ella sopra di quello fece il disegno. Et vestitasi molto lascivamente e leccatosi il viso, soletta uscì di Bergamo. Et andatasene a Pedrench, dove era il poder di Emiliano, et entrata in casa, trovò Travaglino, che faceva del cascio e delle ricotte. E salutatolo, disse: Travaglino mio, son qui venuta per visitarti, e bere del latte, e mangiare delle ricotte teco. == Siate la ben venuta, disse Travaglino, la mia patrona. E fattela sedere, parecchiò la mensa; e recò del cascio pecorino et altre cose per honorarla. E perchè egli la vedeva sola, e bella, et non consueta venir a lui, stette sospeso molto; et quasi non poteva persuadersi, ch'ella fusse Isotta, moglie del fratello del suo patrone. Ma pur, perciocchè più volte veduta l'haveva, la carezzava et honorava molto, sì come a tanta donna, quanto quella era, conveniva. Levata da mensa Isotta, et vedendo Travaglino affaticarsi nel far il cascio et le ricotte, disse: O Travaglino mio, voglio ancor io aiutarti a far del cascio. Et egli: Quello, che a voi aggrada, Signora, rispose. E senza dir più altro, alzatesi le maniche sino al cubito, scoperse le bianche e morbide e ritondette braccia, che candida neve parevano; e con essolui fieramente si affaticava a far il cascio; e sovente li dimostrava il poco rilevato petto, dove dimoravano due poppoline, che duo pometti parevano. Et oltre ciò, astutamente tanto approssimava il suo colorito viso a quello di Travaglino, che quasi l'uno con l'altro si toccava. Era Travaglino (quantunque fosse di vacche custode) huomo più tosto astuto, che grosso. Et vedendo i portamenti della donna, che dimostravano il lei lascivo amore, andava con parole et con sguardi intertenendola, fingendo tuttavia di non intendersi di cose amorose. Ma la donna, credendo lui del suo amore essere acceso, et fieramente di lui si innamorò, che in stroppa tenere non si poteva. E quantunque Travaglino se ne avvedesse del lascivo amor della donna, non però osava dirle cosa alcuna; temendo sempre di non perturbarla et offenderla. Ma la già infiammata donna, accortasi della dappocaggine di Travaglino, dissegli: Travaglino, qual è la causa, che così pensoso ti stai, e non ardisci meco parlare? Ti sarebbe per aventura venuto alcuno desiderio di me? Guarda bene, et non tenere il tuo volere nascosto, perciocchè te stesso offenderesti, et non me, che sono ai tuoi piaceri e comandi. Il che udendo Travaglino, molto si rallegrava; e faceva sembiante di volerle assai bene. La sciocca donna, vedendolo già del suo amore acceso, et parendole già esser tempo di venir a quello, ch'ella desiderava, in tal maniera gli disse: Travaglino mio, io vorrei da te un gran piacere. Et quando me lo negasti, direi ben certo, che poco conto facesti dell'amor mio; e forse saresti cagione della rovina, anzi della morte mia. A cui rispose Travaglino: Io sono disposto, Signora, di ponere per amor vostro la propria vita, non che la robba; et avenga, che voi cosa difficile mi comandaste, nondimeno l'amore, ch'io vi porto, et voi verso me dimostrate, facilissima la farebbe. Allora Isotta, preso maggior ardire, disse a Travaglino: Se tu mi ami (come credo, o parmi di vedere) hora lo conoscerò. == Comandate pur, Signora mia, rispose Travaglino, che apertamente lo vederete.== Altro da te non voglio, disse Isotta, se non il capo del toro dalle corna d'oro; et tu disponi poi di me, come ti piace. Questo udendo Travaglino, tutto stupefatto rimase; ma, vinto dal carnale amore e dalle lusinghe dell'impudica donna, rispose: Altro non volete da me, Signora mia? non che il capo, ma il busto, e me stesso pongo nelle vostre mani. E questo detto, prese alquanto d'ardire; et abbracciò la donna; et seco consumò gli ultimi doni d'amore. Dopo, Travaglino, troncato il capo del toro, et messo in una sacchetta, ad Isotta il presentò. La qual contenta, sì per lo desiderio adempito, sì anche per lo piacere ricevuto, con più corna, che podere, a casa se ne ritornò. Travaglino (partita che fu la donna) tutto sospeso rimase; et cominciò pensare molto, come fare dovesse per iscusarsi della perdita del toro dalle corna d'oro, che tanto ad Emiliano suo padrone piaceva. Stando adunque il misero Travaglino in sì fatto tormento d'animo, nè sapendo, che si fare o dire, alfine imaginossi di prendere un ramo di albero rimondo, e quello vestire di alcuni suoi poveri panni, et fingere, che egli fusse il patrone, et isperimentare, come far dovesse, quando sarebbe nel cospetto di Emiliano. Acconciato adunque il ramo di albero in una camera con la baretta in testa et con gli vestimenti in dosso, usciva Travaglino fuori dell'uscio della camera. Et dopò dentro ritornava; et quel ramo salutava, dicendo: Buongiorno patrone. Et sè stesso rispondendo, diceva: Benvenga Travaglino, et come stai? che è de fatti tuoi, che, già più giorni, non ti hai lasciato vedere? == Io sto bene, rispondeva egli, sono stato occupato assai, che non puoti venire a voi.== Et come sta il toro dalle dorate corna? diceva Emiliano. Et egli rispondeva: Signore, il toro è stato nel bosco da lupi divorato. == Et dove è la pelle, et il capo colle corna dorate? diceva il padrone. Et qui restava, nè più sapeva che dire; et addolorato, ritornava fuori. Dopo, se ne ritornava dentro la camera, e da capo diceva: Iddio vi salvi, padrone. == Ben ti venga, Travaglino, come vanno i fatti nostri, e come sta il toro dalle dorate corna? == Io sto bene, signore; ma il toro un giorno mi uscì dalla mandra, et combattendo con gli altri tori, fu da quelli sì sconciamente trattato, che ne morì. == Ma dove è il capo, et la pelle? et egli non sapeva più che rispondere. Questo avendo fatto più volte Travaglino, non sapeva trovare iscusatione, che convenevole fusse. Isotta, che già era ritornata a casa, disse al marito: Come farà Travaglino, se egli si vorrà iscusare con Emiliano suo patrone della morte del toro dalle corna d'oro, che tanto gli aggradiva, che non li pianti qualche menzogna? Vedete la testa, che meco ho recata in testimonianza contra lui, quando dicesse la bugia. Ma non li raccontò, come gli aveva fatte due corna maggiori di quelle d'un gran cervo. Lucaferro, veduta la testa del toro, molto si rallegrò, pensando della questione esser vincitore; ma il contrario (come di sotto intenderete) gli avenne. Travaglino, avendo fatte più proposte et risposte con l'uomo di legno, non altrimenti, che se fusse il proprio patrone, con cui parlasse, et non vedendo niuna di loro riuscire secondo il desiderio suo, determinò senza altro pensamento di andare dal patrone, intravenga ciò, che si voglia. Et partitosi, et andatosene a Bergamo, trovò il patrone; et quello allegramente salutò. A cui, reso il saluto, disse: E che è dell'anima tua, Travaglino, che già sono passati tanti giorni, che non sei stato qui, nè si ha havuto novella alcuna di te? Rispose Travaglino: Signore, le molte occupationi mi hanno intertenuto. == Et come sta il toro dalle corna dorate? disse Emiliano. Allhora Travaglino; tutto confuso, et venuto nel viso come bragia di fuoco, voleva quasi iscusarsi, et occultare la verità. Ma, perchè temeva di mancar all'honor suo, prese ardimento; et cominciò la historia di Isotta, e li raccontò a punto per punto tutto quello, ch'egli aveva fatto con esso lei, et il successo della morte del toro. Emiliano, questo intendendo, tutto stupefatto rimase. Onde, per aver Travaglino detto la verità, fu tenuto uomo veridico e di buona estimatione, et Emiliano restò vittorioso del podere, et Lucaferro cornuto, e la ribalta Isotta, che credeva altrui gabbare, gabbata et vergognosa rimase».[2] Notevole è la tendenza, che hanno i dialetti nostri, a distinguere uno ed una, articoli, da uno ed una, numerali. I milanesi han fatto dei primi on ed ona e de' secondi vun e vunna, ( voeunna ). I napoletani adoperano come articoli 'no ( nu ) e 'na; ed uno ed una per numerali).[3] Teneva, alla spagnuola, per avere. Ad una napolitana, che diceva:—«Tengo un gran mal di capo;»—rispondeva un fiorentino:—«O s'io non glielo veggo in mano? Me lo mostri un po' per vedere».—A Bertrando S...., che porgeva un francescone ad una cambiamoneta, dicendole:—«Tieni la moneta?»—venne risposto:—«O che me l'ho a tener davvero, la moneta?».—La prima e di teneva, le due di veretà e generalmente tutte le e disaccentate non finali sono così tenui e strette, da confondersi quasi, come da alcuni effettivamente si confondono con l' i.[4] Nisciuna, nessuna. Giordano Bruno adopera spesso questo napoletanesimo.[5] 'O mettette nomme, gli (lo) mise nome; Giuseppe 'a Veretà, Giuseppe la Verità. Il De Ritis scrive sub La:—«Spesso, nella pronunzia, la L viene totalmente abolita, e talvolta benanche nella scrittura, comunque i buoni autori se ne guardino, specialmente nella prosa; e se accade, che l'usino in poesia, a mera licenza o (a dir meglio) poltroneria, vuole attribuirsi. Pure, non mancano scrittori, che di questa aferesi si compiacciono, la quale il dialetto napoletano col comune italico potrebbe mettere a paragone, come il portoghese col castigliano; e, nella veneranda archeologia, come l'attico col comun greco. Checchè ne sia, il Del Piano non altramente elaborava le sue canzoncine spirituali, se non con questo sistema:

«Chi p' 'a famme ss'allamenta,

Chi p' 'a sete e chi p' 'o fuoco...

Che seccà' ve pozza 'a lengua...

«E così sempre. Egli è chiaro, che gli articoli, così attenuati alla semplice vocale, esigono uno strascico e quasi una duplicazione di pronunzia».—Il cavaliere Raffaele D'Ambra scrive poi:—«L' a, in luogo dell'articolo la, si tollera nel dialetto parlato; ma è un errore nella scrittura, dove si ha a segnare tutto intero».—«Grecamente del la articolo, mangiasi l' l nella pronunzia plebea. Esempii: A mamma, la mamma; a scuffia, la cuffia. Ciò sarebbe errore nella scrittura».—Sarebbe errore, è errore! perchè? Se così si dice, e non altrimenti? E che c'entra la Grecia? Ci avevamo la lingua scritta e la parlata: ora, il D'Ambra ci vuol regalare anche il dialetto scritto ed il parlato, tanto per aumentar la confusione. Questo dialetto scritto, diverso dal parlato, non altro sarebbe se non un gergo convenzionale: e tale è pur troppo; giacchè piace al più gli scrittori vernacoli di storpiar del pari la lingua aulica e lo idioma domestico. In Napolitano si dice quasi sempre 'a e non la; 'o (oppure 'u ) anzichè lo e la, semprechè la parola seguente cominci per consonante. Se ne' canti popolari si usasse lo e la, i versi zoppichereb bero quasi tutti. Così pure si dice 'e bacche e non le bacche (le vacche); 'e bitelle e non le bitelle (le vitelle).

[6] Accussì, così.[7] Li spiava, le chiedeva. Spià', chiedere, domandare, interrogare. Vedi Varie Poesie | di | Niccolò Capassi | Primario Professore di Leggi | nella R. Università di Napoli || In Napoli MDCCLXI | Nella stamperia Simoniana | Con permesso de' Superiori. Achille dice a Grammegnone (Agamennone):

Spia un a uno (e bide che te dice):

Sì li trojane l'erano nemmice?

Gregorio De Micillis scrive:—«Nell'edizione Simoniana delle Poesie varie di questo autore, e ne' suoi Sonetti in dialetto patrio, da me pubblicati l'anno 1789, leggesi Capassi, e non Capasso, e male; perchè in tutte le sue lettere, ed in altre scritture di sua mano, egli sottoscrisse sempre il suo cognome coll' o in fine e nommai coll' i, come, affettando un certo fiorentinismo, sogliono praticare i moderni. Il nostro Grandi, nell'eccellente trattato dell' Origine de' cognomi gentilizî, condanna questo abuso e ne fa vedere l'irragionevolezza con pruove, che non ammettono risposta. Vedilo alla pag. 284 e seguenti della detta Opera.»—Così può leggersi ne Le opere | di | Niccolò Capasso | la maggior parte inedite | Ora per la prima volta con somma diligenza raccolte, | disposte con miglior ordine | e di Note | ed Osservazioni arricchite | da Carlo Mormile |. Si è aggiunta in questa prima compiuta edizione | la vita dell'autore nuovamente scritta | da Gregorio De Micillis. | Volume Primo. || In Napoli MDCCCXI. | Presso Domenico Sangiacomo | Con licenza de' Superiori. Pure, malgrado la disapprovazione del Grandi e malgrado tutte le buone ragioni, che consiglierebbero a mantenere inalterati i cognomi, li vediamo continuamente alterati da noi e nella scrittura e nella pronunzia, o per fuggire equivoci osceni, o per ingentilirli e per ravvicinarli al tipo aulico, o per altre cagioni. Così, per esempio, il sommo storico Carlo Troya, voleva il suo scritto con l' y anzichè con l' i o con la j. Le famiglie Culosporco, Stracazzi, Figarotta, si fanno ora chiamare Colosporco, Stragazi, Fecarròta. Il commendator Marvasi, era figliuolo e fratello di Marvaso. Un Torelli, di origine albanese, giornalista, padre di un noto commediografo, è fratello e zio e figliuolo di tanti Turiello. Conosco un Rossi, ch'era fino a pochi anni fa semplicemente Russo. Gl'illustri Silvio e Bertrando Spaventa appartengono ad una famiglia De Laurentiis, la quale cominciò a farsi chiamare De Laurentiis-Spaventa, quando entrò in essa l'ereditiera della famiglia Spaventa; in poche generazioni il cognome originario s'è obliterato ed è stato surrogato del tutto dallo avventizio. Mille altri casi simili potrei citare.

[8] Isso, masch. sing. Iessa femm. sing.[9] Ssi prisintava 'ô Re; dicette 'nfacce 'â mugliera (Vedi più giù nel conto intitolato: 'E corna ). Quell' ô e quell' â si hanno a pronunziar lunghe e sono contrazioni di a 'o ed a 'a, cioè allo ed alla. Nel racconto di Viola troveremo: e 'o dicette 'ê sore; cioè: alle sorelle., contrazione di a 'e.[10] Chiatte, grasse. Evidentemente da πλατὐς, εïα, ὐ: largo, amplo. Anche i greci chiamavano πλαταïς i corpulenti, gli aitanti della persona. Nunziante Pagano, parafrasando la Batracomiomachia d'Omero, fa dire a Sfrattafrecole:

E a 'st'ommo, a 'st'ommo dico, gruosso gruosso,

Co' piede e gamme e corpo accossì fatto,

Ch'affronte a nuie porrisse dì' coluosso,

Ossuto o luongo o curto o sicco o chiatto,

'Ncopp'a lo lietto saglio, niente scuosso,

E lieggio bello mme l'accosto guatto,

E doce doce, se dorme cojeto,

Le roseco lo dito e no' lo sceto.

[11] Currivo, sdegno. La parola ha anche altri sensi, per esempio, quello, che si rileva dal seguente brano del Fuggilozio del Costo:—«Vengon biasimati coloro, che vergognandosi di negare a chiunque lor dimanda, patono in quell'istante la penitenza del lor fallo, perchè, donando a chi non vorrebbono, donano con pentimento e con dispiacere grandissimo. E, quel ch'è peggio, si è, che questi tali non sono poi meritevoli del titolo della liberalità, sì come dottamente vien definito da Aristotele, ma son chiamati, com'usa in Napoli, corrivi.»—[12] Nce 'o, (ce lo) glielo; ma s'ha a prununziare nciò, in una sillaba e con l' o stretta.[13] Le facette, fece loro.[14] Con queste interjezioni si accompagna quel gesto volgare, che indica un palmo di naso. Quindi—«rummannettero to to »—equivale a:—«rimasero con un palmo di naso.»

I. bis.—GIUSEPPE 'A VERETÀ. ( Variante del conto precedente ) ( Raccolta anch'essa in Pomigliano d'Arco )

'Na vota nce steva 'nu signore, ca pe' guarzone[1] teneva 'nu massaro[2], ca sse chiammava Giuseppe e nun diceva nisciuna buscìa. Ogne matina ieva addò[3] chillo Signore e sse pigliava 'ô cafè[4] e deceva:—«Baggiorno,[5] padrò.»[6] —«Baggiorno, massa': e baccarelle[7] comme stanno?»—«Chiatte e belle.»—«E Corna r'oro[8]?»—«È fatto comm' a 'o toro»—E ogne matina sse faceva sempe 'a stessa storia. 'E signure[9] ievano sempe a piglià' 'o cafè addò chillo signore; e chisto faceva canoscere a tutte com' isso teneva 'nu servo, ca deceva sempe[10] 'a veretà. 'E signure recettere:—«Ebbe', nui recimmo, ca 'o servo tujo pure rice 'na buscia.»—Respunnette isso;—«Che nce vulimmo scummettere, ca chillo rice 'a veretà?—«Scummettimmece a 'na massaria.»[11] —Sse ne scennettere 'a coppa addò chisto signore e mannavane 'na figliola addò Giuseppe. Iette chesta e le rice:—«Te ronghe[12] ciento rucate e acciri a Corna r'oro?»—Giuseppe respunnette:—«l'acciro a Corna r'oro? e po', quanno vaco 'ngoppa addò 'o signore, rico 'a buscia?»—Rice:—«Te ronghe ruiciento rucate.»—«No.»—«Te ne ronghe mille.»—«No!» —«Cincumila.»—Giuseppe accirette a Corna r'oro e chesta femmina sse ne iette. Isso po' n'aveva[13] comme ricere e penzava:—«Mò', quanne è dimane, Giuseppe a' Veretà ha da ricere 'a buscìa. Basta, mo' rico: È binuta 'na figliola, ca cu' 'e maniere ssoje e cu' 'e parole ssoje;[14] e allurtemo ièssa rise e i' risi, e Corna r'oro pe' iessa haggio acciso.»—Iette addò 'o signore 'a matina:—«Baggiorno, padrò'.»—«Baggiorno, massa'. 'E baccarelle comme stanno?»—«Chiatte e belle.»—«E Corna r'oro?»—«Padrò', è binuta 'na figliola, ca cu' 'e maniere ssoje e cu' 'e parole ssoje, e all'urtimo iessa rise e i' risi, e Corna r'oro pe' iessa haggio accise.»—«Ebbiva Giuseppe 'a Veretà, ebbiva!»—sse mettettere alluccà'[15] tutte quante. E accussì sse canuscette averamente[16] chi era Giuseppe.

NOTE

[1] Guarzone, plurale, guarzune; facendo i nomi in one il plurale in une. Vedi nel Lo Tasso Napoletano l'ottava XI del canto VII.

Si poco avimmo, manco addesiammo;

E lo poco magna' maje fece danno.

Chille tre mme so' figlie; e nce guardammo

'Ste pecore, e guarzune no' nce stanno.

L'autore postilla:—« E garzoni non ci sono, cioè: Non ho servi ».—Il D'Ambra non ha sicuramente badato a questi versi del Fasano, quando ha definito Guarzone:—«Colui, che attende all'ordinario servizio della bottega, della fabbrica, dell'officina, Garzone, Fattorino.»—

[2] Massaro, fittajuolo d'una grossa tenuta.[3] Bisogna distinguere addò, da, da addò', dove. Nel Vocabolario | Napolitano-Toscano | domestico | di Arti e Mestieri | del Professore | Raffaele d'Ambra | da Napoli | A spese dell'Autore | MDCCCLXXIII (in 8., XII-554 pag. oltre una non numerata in fine, che contiene un Avvertimento; otto anche innumerate in principio, che contengono un discorso proemiale; e finalmente il frontespizio ed il ritratto dell'Autore) è detto, sub A:—«A prep. riprende il d alla latina innanzi alle parole, che cominciano da vocale. Le frasi a do mammata, a do masto, a do te, e simili, che si ascoltano tra fanciulli, non sono, che della sola pronunzia, dovendosi usare l'abl. nella scrittura: esse si vogliono reputare attenuaz. verb. delle frasi lat. ad matrem tuam, ad magistrum, e simili.»—Non posso consentire col D'Ambra. Addò, nel significato risponde ad apud (latino) chez (francese) e soprattutto sempre al da italiano. In alcuni casi ho scritto a d' 'o; e credo, che difatti sia sorto da queste tre parole quasi a da il. Nèd è vero che l' addò preposizione, sia solo dell'uso infantile; è anzi dell'uso universale. Nè so comprendere, come, in un dialetto, una espressione possa esser della sola pronunzia e s'abbia da schivare e fuggire scrivendo. C'è o non c'è; si dice o non si dice: è quistione di fatto.[4] Cafè, con una f. Questo costume moderno ha dovuto essere introdotto da poco nella fiaba. Quantunque vien affidato alla tradizione ed alla memoria si va lentamente alterando.[5] Baggiorno, contrazione volgare di buon giorno.[6] Si noti la tendenza del Napoletano a creare una forma speciale pel vocativo, troncando il nome: Padrò, per padrone; massà' per massaro; cumpariè' per cumpariello, Franceschiè' per Franceschiello, gnò' per 'gnore (signore) e via discorrendo. Nel chiamare, frequentissimamente si ri pete la parola, troncando la seconda per maggior energia, p. e. Mamma, Ma'! Rosa, Ro'! —Nel verbo accade lo stesso fenomeno nello imperativo: Vide, vì! Butta 'o pede; butta, bu'! Aspè', spè'! Dimme, dì! Quasi che il tronco sia necessario per significare il comando.

Vide, Pallade mmia, vi' che sconquasso!

Pagano.
Batracom.
II. 20.

Dimme, dì, a chi sì' figlio e da do' viene?

Pagano.
Batracom.
I. 6.

—«Aspè! aspè'!»—Volea cchiù dì'; ma 'n chesto

Tremmaje la grotta e la terra ss'aprie.

Perruccio.
Agn. Zeff.
V. 15.

[7] Nel racconto precedente abbiamo vista 'e bacche, 'e bitelle; qui ci abbiamo 'e baccarelle; appresso vedremo 'a beretà; tutte parole nelle quali il v si muta in b, per effetto della vocale accentuata, che precede. Così per regola dovrebbe farsi sempre. E quando non accade, è corruzione. Molto può in queste mutazioni anche l'eufonia ed il capriccio individuale, come in parecchie cose accade anche in Italiano; p. e. per l'aumento innanzi alle parole comincianti da s impura, che seguono a consonanti, pe' troncamenti, ecc.[8] Corna r'oro, nome proprio del toro, che mi fa sospettare, che prima l'animale affidato a Giuseppe dovesse essere crisocerio. E questo particolare sarebbe importantissimo, volendo investigar l'origine mitologica del conto. Cf. con la Novella straparolesca. Ma queste nostre versioni del racconto sono molto sfigurate ed impoverite di particolari.[9] Signure, plurale di signore; i nomi in ore fanno il plurale in ure, come quelli in one il fanno in une.[10] Sempe, sempre. Ma sempre dicesi pure talvolta. Ecco le due forme adoperate in soli quattro versi (se pure non è licenza de' tipografi) da Andrea Perruccio ( Agnano zeffonnato, II, 2).

.... la brutta Paura,

Che sempre tremma ed è 'na scura vecchia:

Essa have 'ncuollo 'na grossa armatura,

Ed a foìre sempe ss'apparecchia.

Si noti la tendenza a fognar l' r in questo e ne' casi analoghi: nuosto (nostro), masto (mastro), fenesta (finestra), propio (che poi si trasforma in pròpito, proprio), eccetera. Invece, i dialetti toscani amano ad introdurre eufonicamente una r e dicono, per esempio, gestri invece di gesti, cimentro, invece di cimento e simili.—«Non mi mettete in qualche cimentro».—«E messe mano a quella cinquadea e fece un gestro di volermi dovidere da capo a piedi.»— Fagiuoli. —Gerolamo Fontanella nella Elegia intitolata Arione, ha detto su questa analogia:

Ride, prodiga d'or, fortuna destra,

Ne la lubrica rota a l'uomo stolto,

Che tirannico ognor virtù
calpestra
.

E così, dalle Alpi al Lilibeo, tutti i vernacoli fanno a gara, straziando in mille vari modi il puro tipo aulico ed ideale de' vocaboli: chi toglie, chi aggiunge, chi muta; chi amputa, chi gonfia, chi stravisa: accade delle parole, quel che delle leggi nelle preture e ne' tribunali; e, quel ch'è peggio, anche in fatto di lingua abbiamo pluralità di cassazione; manca l'unità di criterio.

[11] Massaria, podere.[12] Ti ronghe, ti do. Chi pronunzia ronghe e chi donghe. L' r sostituisce il d (e viceversa) spessissimo, ma non costantemente: alcuni vi diranno 'o figlio r' 'o Re, ed altri: 'o figlio d' 'o Re. In tutte le lingue ci sono di questi arbitrî; ed in Italiano aulico stesso, per darne un esempio, diciamo officio, oficio, offizio, ofizio, ufficio, uficio, uffizio ed ufizio. Quanto maggiore dev'esser la licenza ne' dialetti, i quali, abbandonati interamente alla plebe ed all'uso, diversificano spesso stranamente da persona a persona.[13] N'aveva, cioè: non aveva. Anche in Italiano abbiamo spesso il semplice n per non. Ce n'è un esempio nel Candelajo del Bruno. Il neh interrogativo, di cui si fa tant'uso ora, viene da n'è per non è. Nel libro intitolato: Del | Tesoro Volgarizzato | di | Brunetto Latini | Libro primo | edito | sul più antico de' codici noti | raffrontato con più altri | e col testo originale francese | da | Roberto de Visiani || Bologna | presso Gaetano Romagnoli | 1869; il capitolo VIII è intitolato: La ragione che in dio n'ha nul tempo; ed il IX. Che in dio n'ha nul mutamento (Nella edizione della Gatta, M.D.XXXIII, ove que' capitoli sono il IX ed il X, si legge invece non ha e non è ). Tutti ricordano i frizzi dello Alfieri contro il Miollis, che aveva adoperata questa contrazione, la qual certo non è da usarsi, se non dove non può dar luogo ad equivoco alcuno.[14] Cu' 'e maniere ssoje e cu' 'e parole ssoje, con le sue moine e le sue parolette.[15] Alluccà', gridare. Carlo Mormile, traducendo la favola VIII del I. libro di Fedro:

Alluccava lo lupo e auzava strille,

Che tre miglia d'arrasso sse sentevano:

Curz'erano a 'st'allucche cchiù de mille

Anemale, e che gusto, che nce avèvano!

E libro III, favola II.

[16] Averamente, lo stesso che veramente.

II.—VIOLA.[1] ( Versione raccolta in Pomigliano d'Arco )

Nce stevane 'na vota tre figliole; e l'urtima 'e cheste[2] ssi chiammava Viola. Tutte e tre faticavane; ma 'a primma filava, 'a siconda tesseva e 'a terza cuseva. 'O figlio d' 'o Re sse n'annammurava; e sempe, che passava, receva:—«Quanto è bella chella, che fila; | quanto è cchiù bella chella, che tesse; | ma quanto è cchiù bella chella, che cose; | mme cose 'sto core, | ebbiva Viola, | ebbiva Viola».—'E sore n'avevane 'mmiria[3]; e pe' dispietto 'a mettettere a filà'. Passava 'o figlio d' 'o Re e recette:—«Quanto è bella chella, che tesse; | quanto è cchiù bella chella, che cose; | ma quanto è cchiù bella chella, che fila: | mme fila 'sto core, | ebbiva Viola, | ebbiva Viola.»—'E sore 'a mettettere a tessere; ma 'o figlio d' 'o Re pure accussì deceva e sempe cu' Biola aveva:[4] —«Quanto è bella chella, che cose; | quanto è cchiù bella chella, che fila; | ma quanto è cchiù bella chella, che tesse; | me tesse 'stu core; | ebbiva Viola; | ebbiva Viola!»—'Nu juorno, Viola steva a còsere fora 'ô barcone.[5] Le carette 'o ditale[6] 'rint'a 'o giardino 'e l'Uorco.[7] Piglia e 'o dicette 'ê sore. Cheste, ca nun 'a putevene verè', le respunnettere, ca non ssi fosse pigliate collera, pecchè isse 'a 'ttaccavane vicino a 'na fune e 'a scennevane rint'a 'o giardino abbascio, e po' doppo n' 'a facevane saglì' 'n'auta vota. Viola ss' 'o crirette. Ma 'e sore nu' facettero accussì; pecchè, doppo averla fatta scennere llà, spezzarene 'a fune e ssi nn'iettere. 'A povera Viola, truvannese llà, non sapeva iessa stessa, che cosa aveva da fà'; penzava buono 'e ssi mettere sotto 'â seggia 'e l'Uorco. Passato 'nu poch' 'e tiempo, l'Uorco ss'assetta[8]; e, mente steva accussì, facette 'nu pirete.[9] Piglia Viola, esce 'a llà sotto e dice:—«Salute, papà.»—L'Uorco sse vutave e decette:—«Uh 'maramè![10] cu' 'nu pirete haggio fatto 'na figlia!»—S' 'a purtava 'ngoppa e ss' 'a teneva cu' isso[11]. 'Nu juorno, Viola sse steva lavenne[12] 'a faccia, piglia 'o pappavallo d' 'o Re (pecchè 'o Re rimpetto a l'Uorco steva 'e casa) le recette:—«Sciù, sciù![13] 'A figlia 'e l'Uorco sse lava 'a faccia!»—Chesta sse ne trasette tutta 'ngullarata.[14] L'Uorco l'addimannava 'a raggione r' 'o pecchè[15] steva accussì. Jessa lo decette; e l'Uorco le 'mmiziava[16], ca 'n' auta vota ca 'o pappavallo le receva accussì avesse resposto:—«Statti zitto, pappavallo! | 'Sti toje penne ni faccio 'nu mazzo; | sti toje gambe ne faccio bastone; | ed i' sarraggio[17] moglie del tuo padrone.[18] »—L'auta matina,[19] Viola sse va a lavà' 'a faccia. 'O pappavallo le rice pure accussì:—«Sciù, sciù, 'a figlia 'e l'Uorco sse lava 'a faccia».—Jessa allora responnette comma l'aveva ditto l'Uorco:—«Statte zitto, pappavallo. | 'Sti toi penne ne faccio 'nu mazzo; | 'sti toie gambe ne faccio bastone; | ed i' sarraggio moglie del tuo padrone.»—Piglia 'o pappavallo, tanto d' 'a collera murette. 'O Re, truvannelo muorto, n'accattava[20] 'n auto. Ma chisto pure, quanno fui[21] 'a matina, ca Viola ssi iette a lavà 'a faccia, le recette:—«Sciù, sciù! 'A figlia 'e l'Uorco sse lava 'a faccia.»—Chesta povera figliola, appena 'o sintette, le respunnette 'e stesse parole, ch'aveva ritte 'ô primmo; e accussì tanno pi' tanno[22] murette pure 'o secondo. 'O servo d' 'o Re allora, comme verette ca 'o padrone ssujo aveva accattato 'nu terzo pappavallo, sse vulette mettere 'n guardia, pe' berè' chi era, ca 'o faceva murì'. E, quanno fui l'auta matina, 'o servo sentette, ca 'o pappavallo recette:—«Sciù, sciù! 'A figlia 'e l'Uorco sse lava 'a faccia;»—e ca Viola respunnette:—«Statti zitto, pappavallo; | 'sti toi penne ne faccio 'nu mazzo; | 'sti toi gambe ne faccio bastone; | ed i' sarraggio moglie del tuo padrone.»—E verenne, ca 'o pappavallo murette llà pe' llà, 'o ghiette a dicere 'ô figlio d' 'o Re. 'O figlio d' 'o Re le mannava a dicere, ca isso veramente ss' 'a vuleva spusà'; e, ch'avesse spiato a l'Uorco, che nce voleva pe' sse marità' iessa. Viola 'o spiava. L'Uorco primma no' nce 'o vuleva dì'; ma doppo ave' veruto tanta promessa ca 'a figlia le facette, respunnette:—«Tu 'o buò' sapè'? embè, pe' te maretà' tu, aggi' a murì' i'.»—Viola 'o dicette 'ô figlio d' 'o Re; e chisto respunnette, ca l'avesse spiato, che nce vuleva p'accirere a isso. Jessa puntualmente nce l'addimannava. Ma l'Uorco da primma le riceva:—«Tu 'o buò' sapè' pe' mm'accirere. Mo'[23] non è vero cchiù, ca mme vuò' bene. Vuò' fà' murì' a mme; e pecchè po' chesto?»—Ma doppo, verenne, ca Viola le prumitteva ca iessa 'o vuleva bene, ca 'o buleva sapè' pe' 'na cosa, l'Uorco ricette:—«Pe' mm'accirere a mme, ss'ha da i'[24] a tale e a tale parte. Llà nce sta 'nu puorcospino. Chillo, quanno sta cu' l'uocchie apierte, dorme; e quanno sta cu' l'uocchie 'nghiuse, stà 'scetate.[25] E quanno rorme ss'accire; ssi piglia chill'uovo, che tene 'nguorpo, mme sse sbatte 'nfronte, e i' moro.»[26] —'A femmina subbito 'o dicette 'ô figlio d' 'o Re, E chisto, llà pe' llà, spedisce 'nu servo; fa accirere chillo puorco e ssi fa purtà' l'uovo. 'O facette sbattere 'nfronte a l'Uorco mentre isso rurmeva e ssi spusava 'a figlia.

NOTE

[1] Confronta con Viola, trattenimento terzo della seconda giornata del Pentamerone:—«Viola, 'nvidiata da le sore, dapò assai burle fatte e recevute da 'no Prencepe, a dispietto loro le deventa mogliere».—Vedi pure Il | Conto | de' Conti | Trattenimento a' fanciulli | Trasportato dalla Napoletana | all'Italiana favella, ed adornato | di bellissime figure || In Napoli 1754 | con licenza dei superiori. | Si vendono nella libreria di Cristoforo Migliaccio a S. Biaggio de' Librari, e proprio | dirimpetto la Chiesa di S. Liguoro | delle Signore Monache. In duodecimo di 264 pagine, oltre bottello (così chiamano in Napoli quel, che i tipografi toscani dicono occhio ) e frontespizio, a tergo del quale c'è il Reimprimatur; dev'esser dunque almeno una seconda edizione di questa cattiva imitazione, anzichè traduzione del Pentamerone.—«Rosalinda è invidiata dalle sorelle, e a lor dispetto diventa moglie d'un Principe».—Nel testo della novella però, la protagonista è chiamata sempre, come quella dell' Etiopiche d'Eliodoro, Clariclia: e Clariclia è intitolato il conto in Il | Conto | dei Conti | trattenimento a' fanciulli | Nuova edizione || Napoli | A spese di Gennaro Cimmaruta | Strada S. Biagio de' Librari n o 31 e 111 | 1863; ristampa del resto peggiorata. Le altre due sorelle maggiori si chiamano, appo il Basile, Rosa e Garofana; nella versione Italiana, Cecilia e Rosa.—«Eravi in Ratisbona un uomo dabbene, per nome Pandolfo, il quale avea tre figlie femine: la prima nominata Cecilia, la seconda Rosa, e la terza Cariclia. E di tutte e tre, Cariclia, ch'era la più piccola, avanzava le altre due sorelle in bellezza, in grazia, ed in gentilezza. E soprattutto era più fortunata e più accorta delle altre. Di modo che, chiunque la mirava o vi parlava, restava subito sorpreso della sua beltà. Perlocchè, essendosene invaghito Petruccio, figlio del Re, passava allo spesso per avanti la casa, ove travagliavano queste tre sorelle. E, vedendo Cariclia, diceva: Bondì, bondì, Cariclia. Ed ella rispondeva: Bondì, figlio del Re; io saccio più di te. Delle quali parole mormorando l'altre sorelle, l'accusarono al padre, dicendo, ch'era troppo sfacciata e presontuosa, a rispondere di quella sorte al figlio d'un Re. Indi Pandolfo, per evitare un qualche danno, che potea avvenirgli, mandò Cariclia a stare con una sua zia per impararsi a lavorare. Quindi saputosi dal Principe, che Cariclia era stata mandata dal padre in casa di sua zia, avendone notizia, ove stava, seguitò a passare d'avanti di quella casa. E vedutala, seguitava a dire: Bondì, bondì, Cariclia; ed ella soggiungeva: Bondì, figlio di Re; io saccio più di te. Questa cosa durò per molti mesi, tantochè, non potendo più il Principe soffrire gli affanni del suo cuore in non poter godere del suo bene, determinò, anche col consenso della Zia, di vederla da vi cino. Ma, volendo porre in esecuzione il suo disegno, non li riuscì; poichè, accortasi Cariclia dell'inganno, se ne fuggì dalla zia, e ritornossene in casa del padre. Locchè saputosi dal Principe, quantunque fossero rimasi delusi i suoi disegni, seguitò nondimeno a passare per avanti la casa del padre; e, facendo la solita cantilena, si persuadeva, che alla fine, mossasi di lui Cariclia a compassione, avesse dovuto compiacergli. Ma le sorelle avendone maggiormente invidia, fatto consiglio tra di loro, ed avendo una finestra, che corrispondea ad un giardino di un Orco, si fecero cascare un poco di filo, che serviva per lavorare una portiera della Regina; e dopo, si posero in tanta afflizione, che dir non si puole. Onde risolsero fra di loro, di legare Cariclia con una corda, che era la più ragazza, e di poco peso; e calarla a basso al giardino. Così fu fatto; e calata, che fu Cariclia, le sorelle si tirarono la corda. Ed in un subito, venuto l'Orco nel giardino, fè una correggia, che fu sì grande, che Cariclia molto s'intimorì, gridando: Madre mia, aiutami! Voltatosi l'Orco, e visto quella bella ragazza, fece gran festa; la prese per la mano e la portò a casa sua, tenendola come figlia. Ma il Principe, che non vedeva più Cariclia, nè avendone alcuna novella, n'ebbe sì grande disgusto, che n'ebbe a morire. E, fattosi animo, frenando la sua pena, fè diligentissime ricerche per ritrovar la sua bella. E sapendo finalmente, che l'Orco teneva in casa sua la sua cara ed amata Cariclia, mandando l'Orco a chiamare, gli disse, che ritrovandosi ammalato, si fosse contentato di tenerlo per pochi giorni nel suo giardino, bastandogli una sola camera per ricrearsi lo spirito. L'Orco, come vassallo del padre, non potendo negare questa cosa di piccol momento, gli offerse tutta la sua casa, e la vita istessa. Il Principe, ringraziatolo, si fece assegnare una camera, la quale, per sua buona fortuna, stava vicino a quella, ove dormiva Cariclia. Ma venuta la notte, il Principe andò pian piano dentro la camera di Cariclia; e sentendola dormire, s'accostò al letto; e le diede due pizzicotti. La quale svegliatasi, incominciò a dire: O padre mio, quanti pulici. E l'Orco facendole mutare i lenzuoli, e 'l Principe ritornando a fare lo stesso, Cariclia gridò della stessa maniera, tantochè ne passò tutta la notte senza prender più sonno. Ma il Principe, fattosi giorno, e passeggiando per il giardino, vidde Cariclia, e le disse, come soleva: Bondì, Bondì, Cariclia. E rispondendo Cariclia: Bondì, figlio di Re; io saccio più di te; replicò il Principe: o padre mio, quanti pulici! Cariclia comprese subito l'arcano; e, volendosi vendicare la notte seguente, si fe fare subito dall'Orco un paio di pianelli pieni di campanelle. Ed aspettando con impazienza, che fosse venuta la notte; e sentendo, che il Principe profondamente dormiva, entrò dentro la sua camera. E sbattendo i piedi, fece un gran rumore; tantochè destatosi il Principe, tutto intimorito gridò: O madre, madre, aiutatemi! La qual cosa fattasi da Cariclia più volte, si partì subito. Il Principe, non avendo potuto più dormire, si alzò ben per tempo la mattina, e, vedendo Cariclia, le disse: Bondì, Bondì, Cariclia. Ed ella rispondendo: Bondì, figlio di Re; io saccio più di te, soggiunse egli: o padre, quanti pulici. Ed ella rispose: O madre, madre, aiutami! Locchè sentendo il Principe, disse: Me l'hai fatta, io ti cedo, hai vinto. E, conoscendo veramente, che sai più di me, io senz'altro ti voglio per moglie. Perlochè, chiamando l'Orco ed ispiegando i suoi sentimenti, la richiese per isposa. Indi l'Orco disse di non esser lui il vero padre, e che non potea far niente senza il consenso del proprio padre. Onde il Principe, inteso ciò, ordinò all'Orco, che avesse chiamato il padre di Cariclia, e che, senza dimora fusse venuto su bito, stantechè gli aveva da palesare una cosa di molta importanza. Onde l'Orco ubbidì agli ordini del Principe, ed andato dal padre di Cariclia, gli fe l'imbasciata, che il Principe lo mandava chiamando. A tali parole immediatamente si portò dal Principe; e, fattogli profondissime riverenze, gli disse, che comandasse. Il Principe gli domandò Cariclia per isposa. Il padre subito ce la concedè, e celebrarono le nozze, con somma allegrezza di tutti e due gli sposi, del padre e dell'Orco ancora, che volle essere a parte di quelle contentezze».—Vedi anche la versione bolognese dell'opera del Basile: La Chiaqlira | dla Banzola | O per dir mii | Fol divers | Tradutt dal parlar Napulitan in lengua Bulgnesa | Per rimedi innucenti dla sonn | e dla malincunj | Dedicà | al merit singular | dl gentilesem sgnori | d'Bulogna || Bulogna MDCCCXIII | Per Gasper de' Franceschi alla Clomba (VIII—294 pagg., oltre un rame) Leggi la Fola XIII, intitolata La fola dla Viola. La prima parte del Conto del Basile, come ognun vede, è identica al nostro; la seconda se ne allontana.[2] 'E cheste, di queste. 'E spesso è segnacaso del genitivo, aferizzato da de o re. Vedi più giù: 'nu puoch' 'e tiempo; 'a figlia 'e l'Uorco.[3] 'Mmiria, invidia. 'Nv ed 'mb, massime in principio di parola si scambiano regolarmente in 'mm.[4] Qui Biola, invece di Viola, per amore della sillaba accentata, che precede. Fin qui la nostra fiaba è identica a quella Von der schönen Anna, appo la Gonzenbach; dove poi le sorelle invidiose abbandonano Anna-bella in una solitudine selvaggia; e quindi la novella corrisponde al Trattenimento V della V giornata del Pentamerone.[5] Fora 'ô barcone, sul terrazzino.[6] Ditale, anello da cucire.[7] Uorco, (e, nel trattenimento I della Giornata I del Pentamerone, Uerco, alla leccese; chè in leccese, come in ispagnuolo, al dittongamento napoletano uo, corrisponde ue, p. e. morto ital., muorto nap., muertu lecc.) Orco, in francese Ogre. I tedeschi non hanno un vocabolo proprio per questi enti fantastici e li chiamano semplicemente quando uomini selvaggi e quando giganti od anche antropofagi.—«Questa è una bestia immaginaria, inventata dalle balie per fare paura a' bambini, figurandola un animale, specie di fata, nemico dei bambini cattivi..... Questo nome però viene dall'antica superstizione de' Gentili, i quali chiamavano Orco l'inferno. Vergilio, Eneide, Libro VI: primisque in faucibus Orci. Ed intendevano per Orco anche Plutone, quasi Urgus, ab urgendo; perchè egli sforza e spinge tutti alla morte. E perciò dalle madri e nutrici, per far paura alli loro bambini, si dice, che l' Orco porta via: il che viene dai Gentili, che pigliando Orco per la Morte, lo chiamavano inesorabile, e rapace. Orazio, Ode XVIII, libro II: nulla certior tamen | Rapacis Orci fine destinata ».—Così, ingenuamente, nelle annotazioni alla stanza quinquagesima del secondo cantare del Malmantile, e secondo la dottrina del tempo. Cunto de l'Uorco, propriamente, val Fiaba, Novella fantastica, quasi sempre con un pò di spregio. Dice il Sarnelli, nella Posillecheata:—«'No cierto pennarulo, vedennome a cert' ore de lo juòrno scrivere 'sto passatiempo, mme decette: E no' sse vregogna 'no paro tuio perdere lo tiempo a 'ste bagattelle? Haie scritto tant'opere grave e de considerazione, e mo' scacarate co' 'sti cunte de l'Uorco? E po' lo macaro avisse scritto 'nlengua toscanese o 'n quarch'auto lenguaggio, pocca veramente la lengua napoletana no' serve, che pe' li boffune de le commedie.»—Proverbialmente cunto 'e l' Uorco val fola, menzogna. Dice il Cortese, nella Rosa:

Maso.

E tu mme tratte propio da vozzacchio

E non cride sia storia lo tormiento,

Ch'io zoffro; ma te cride

Che sia
cunto de l'Uorco
e te ne ride.

Lella.

Saccio, ch'è storia; ed è 'na
storia
bella,

Perzò falla stampare,

Ca po' l'accatto...

Anche storia, (nel significato del Volksbuch tedesco) ha acquistato il senso di favola; e su questo senso equivoca la Lella. Come dobbiamo raffigurarci l'Orco, cel dice Andrea Perruccio nel III canto de L'Agnano zeffonnato:

Caronte avia la facce propio d' Uorco,

Senza capille e aviva lo scartiello;

Ha pe' mostacce setole de puorco,

Co' l'uocchie de scazzimma a zennariello;

E tutto vavejato e tutto spuorco

Ha 'no vestito po', ch'è tanto bello,

Ch'appennere nce pote lo zefierno

Tutte le fuse, che stanno a lo 'Nfierno.

Le fusa, dico, che tene la Parca,

Che sta felanno a l'uommene le bite.

Fisicamente l'Orco, è sempre bruttissimo. Nel Pentamerone, quello, che Antonio da Marigliano trova seduto sur un radicone di pioppo innanzi ad una grotta di pietra pomice:—«oh mamma mmia, quanto era brutto! Era chisto naimuozzo e streppone de fescena; aveva la capo cchiù grossa, che 'na cocozza d'Innia; la fronte vrognolosa; le ciglia jonte; l'uocchie stravellate; lo naso ammaccato co' doje forge, che parevano doje chiaveche majestre; 'na vocca quanto 'no parmiento, da la quale 'scevano doje sanne, che l'arrivavano all'ossa pezzelle; lo pietto peluso; le braccia de trapanaturo; le gamme a bota de lammia; e li piede chiatte comme a 'na papara: 'nsomma pareva 'no rececotena, 'no parasacco, 'no brutto pezzente e 'na mal'ombra spiccecata, ch'averria fatto sorrejere 'n Orlanno, atterrire 'no Scannarebecco e smajare 'no' fauza-pedate».—Quello, che ha dal Re d'Altomonte la figliuola:—«era la cchiù strasformata cosa de lo munno, che 'n vederelo schitto faceva venire lo tremmolese, lo filatorio, la vermenara e lo jajo a lo cchiù arresecato giovane de lo munno.»—E Porziella, ripugnante alle nozze, dice:—«doveva correre 'sta mala sciagura a vederme 'sto male juorno a canto, e vedereme accarezzata da mano d'Arpia, abbracciata da doje stenche d'Urzo, vasata da doje sanne de Puorco.»—Giornata II, Trattenimento II, vien riferita la conversazione intima d'un Orco e d'un Orca, che si chiamano l'un l'altro:—«Bello peluso mmio,»—«Vavosella mmia,»—«Sannuto mmio».—Giornata II, Trattenimento VII: troviamo—«'n'Orca accossì brutta, che la fece la natura pe' lo modiello de li scurce. Aveva li capille, comme a 'na scopa de vrusco, non già' ped annettare le case de folinie e ragnatele, ma pe' annegrecare ed affommare li cere. La fronte era de preta de Genova, pe' dare lo taglio a lo cortiello de la paura, che sbennegnava li piette; l'uocchie erano comete, che predecevano tremolicce de gamme, vermenare de core, jajo de spirete, filatorie d'arme e cacarelle de cuorpo, pocca portava lo terrore ne la facce, lo spaviento ne l'occhiatura, lo schianto ne li passe, la cacavessa ne le parole. Era la vocca sannuta comm'a puorco, granne comm'a scorfano; steva, comm'a chi pate de descenzo, vavosa comm'a mulo. 'Nsomma, da la capo a lo pede, vedive 'no destellato de bruttezza, 'no 'spetale de struppie».—Nella Giornata IV, Trattenimento VIII, l'Orco, dovendo uccidere e mangiare la Cianna,—«pigliaje 'na preta de Genoa, et ontatala d'uoglio, commenzaie ad affilare le zanne.»—Similmente nella Giornata V, Trattenimento IV, dove è dipinta pure un'Orca, che—«tene le zizze, comm'a bisacce, dereto le spalle».—

Moralmente ci ha degli Orchi buoni e de' cattivi. Quello d'Antuono de Maregliano è generoso, liberale, benefico, indulgente,—«brutto de facce e bello de core.»—Il marito di Porziella è antropofago; trova, che la moglie ha cattivo gusto, non valutando il sapore della carne umana; ma non l'obbliga a mangiarne e le promette del cignale. Nella Giornata I, Trattenimento IX, Fenizia dice a Canneloro:—«Pe' 'ssi vuosche nc'è 'n Uorco de lo diantane, lo quale ogne iuorno cagna forma, mo' comparenno da lupo, mo' da lione, mo' da ciervo, mo' da aseno e mo' da 'na cosa e mo' da 'n'autra; e co' mille stratagemme carreja li poverielle, che nce 'mmatteno, a 'na grotta, dove sse le cannareja.»—L'Orco di Viola è un galantomone; l'Orca di Petrosinella vuol essere rispettata nella roba sua, ma non sembra cattiva. Le signorie loro orchissime del Trattenimento II della Giornata II, hanno buoni principî: l'orca è caritatevole; ma—«l'Uorco era cchiù cannaruto de carne de cristiano, che non è la lecora de la noce, l'urzo de lo mele, la gatta de li pescetielle, la pecora de lo sale e l'aseno de la vrennata»—Insomma poi gli Orchi e le Orche od Orchesse son trattati in tal modo dagli uomini, sempre, che non si può dar lor torto, se rendon sette e cinque per diece, rapendo le belle ragazze ed antropofagizzando. Vedi Giornata III, Trattenimento VII; Giornata IV, Trattenimento VIII; Giornata V, Trattenimenti IV e VII.

Dove abitano gli Orchi? Il primo, che figura nel Pentamerone sembra stare nel deserto, essendo scritto, che Antuono de Maregliano—«arrivaje a le pedamenta de 'na 'montagna, accossì auta, che faceva a tozza' martino co' le nuvole, dove 'ncoppa a 'no radecone de chiuppe, a piede 'na grotta, lavorata de preta pommece, nc'era seduto 'n Uorco.»—Porziella è trascinata da quello, cui il padre l'ha disposata,—«a 'no vosco, dove l'arvole facevano palazzo a lo prato, che non fosse scopierto da lo sole; li sciumme sse gualiavano, che, pe' cammenare a lo scuro, tozzavano pe' le prete; e l'anemale sarvateche, senza pagare fida, gaudevano 'no Beneviento e ghievano secure pe'dinto chelle macchie, dove no' nce arrivaje maje ommo, si non aveva sperduto la strata. A lo luoco, nigro comm'a cemmenera appilata, spaventuso comme facce de 'nfierno, nc'era la casa dell'Uorco tutta tapezzata e apparata 'ntuorno d'ossa d'uommene, che s'aveva cannariate.»—Insomma, per lo più, gli Orchi abitano pe' boschi e nelle caverne, ma spesso hanno casa e servidori; e non di rado dimorano anche nelle città, dove hanno be' giardini, de' quali sono gelosissimi.

[8] Ss'assetta, siede.[9] Pireto, peto, correggia, trullo. (Ed in gergo anche sgualdrina d'ultim'ordine, come: Mappina de lumme a gas, sciarabballo o carrozzella senza nummero, curribolo de notte ). Vulcano, nel primo canto dell' Iliade tradotta dal Capasso, così racconta come venne scagliato dal padre in Lenno:

...... pe' 'no pede mm'afferraie,

Ch'è chisto, che po' zuoppo mme restaie.

E mm'abbiaie, zuffete! abbascio, manco

Si fosse stato de la 'Nonzejata.

Penzate vuje, si mme facette 'janco,

Ch'a piglià' terra stette 'na jornata;

A chell'isola po'schiaffaje de scianco,

Ch'a rompere mm'avette 'na costata;

Corze la gente; e già mm'ascea lo spireto,

Si non pisciava e non facea 'no pireto.

Si dice anche pideto, ed ha per sinonimo vernacchio; vocabolo, che sembra venir da verna, quasi atto da ser vo, e che veramente ora nell'uso comune si prende piuttosto per quel suono fatto con la bocca, ad imitazion della correggia, usato dal lazzaro napolitano per mettere in dileggio alcuno. Uso antichissimo. Il Bandello (p. I. n. V.) ci narra, come Bindoccia, napolitana, moglie d'Angravalle, fingendosi diarreica, si alzasse dal talamo, per ritrovarsi con Niceno.—«Mentre, che scherzavano, la donna, imitando il romore, che fa l'uomo, pieno di vento, quando va del corpo, fece con la bocca sì gran romore, che Angravalle, sentendo il rimbombo, essendo le camere vicine, disse: Mogliema, questo è tutto freddo, che tu hai preso. Ella, che già avea messo il rossignuolo ne la gabbia, beffando Angravalle, in questo modo gli rispose: Tu dici ben il vero, marito mio caro; ma la colpa è tua et il danno è mio, perchè non mi sai coprire e tener calda. »—Celio Malespini (p. I. n. III):—«E, fornito di dire queste parole, fu udito uno di loro fingere dentro di un pugno una grandissima scorreggia, schernendoli tutti.»—Lo stesso (p. I. n. LIV)—«E non meno il greco faceva anch'egli del Gradasso, petteggiando in una mano e sputandosi nella palma, vibrandogliene contra dicendo: Napa parisi diavoli ».—(Vedi anche p. I. n. LXXI. Viaggio ridicolosissimo di due buoni compagnoni da Milano a Pavia ). Il vocabolo vernacchio meriterebbe di essere aulicizzato in questo senso speciale, nel quale non ha equivalente nella lingua. Il Capasso, nella epistola maccheronica De Vera Pedanteria (Edizione Simoniana, già citata, pag. 99) dice:

.... nec tam vernacchios sentire per urbem;

dove si legge in nota—«Beffe, che si fanno dalla plebe napoletana, con ispingere le dita dentro le guance, e cacciarle fuora con suono strepitoso.»—

[10] Maramè, (propriamente 'mar 'a mme, amaro me) povero me, misero me, meschino me. Così pure 'maro a te, 'mar'isso. Il Mormile, traducendo la favola VIII del II libro di Fedro:

O 'maro a tene! e dove si' 'mmattuto?

Chisse n'hanno (
non hanno
) piatà, so' core d'urzo.

E nella favola XII del I Libro:

Tanno li siente di':—«O 'maro mene,

Che 'nganno è stato chisto e ch'haggio fatto!»—

Biagio Valentino dice:

La farfalla, ch'ha boglia de morire,

Sempe la vide attuorno a la cannela;

La varcella, ch'ha boglia de perire,

Sse parte co' borrasca a rimme e a bela;

La zitella, ch'ha boglia de perdire

La riputazione, già sse svela,

E ba trovanno quantetà d'Amante:

'Maro lo primmo, che le 'ntorza 'nnante.

Un proverbio napolitano, che inculca teoriche malthusiane, dice: 'Mar'-Isso sposa 'Mar'-essa e fanno 'mar'-a-loro. Giordano Bruno, nel Candelaio (Atto IV. Scena X):—« Martha. Amara me, voglio tornar in casa ad aspettar la nova.»—Giovanni Boccaccio, nella Teseide (Libro VIII, stanza XCVII):

Però ched io non son di tal valore,

Che per me si convenga ogni prodezza

Mostrar, che posson molti. O me amara!

Che da vender non fui cotanto cara.

[11] Ecco, come il Basile narra questo tratto.—«A lo stesso tiempo trasette l'Uorco, pe' pigliarese 'na vista de lo ciardino. Avenno pigliato granne omedetà de lo terreno, sse lassaje scappare 'no vernacchio, cossì spotestato e co' tanto remmore e strepeto, che Viola pe' la paura strillaje: O mamma mmia, ajutame. E votatose l'Uorco, e vistose dereto 'na bella figliola, allecordatose d'avere 'ntiso 'na vota da cierte stodiante, che le cavalle de Spagna sse 'mprenano co' lo viento, sse penzaje, che lo sciàuro de lo pideto, avesse 'ngravetato quarche arvolo, e ne fosse 'sciuta 'sta penta criatura. Perzò, abbracciatala co'grann'ammore, decette: Figlia mmia, parte de 'sto cuorpo, sciato de lo spireto mmio, chi mme l'avesse ditto mai, che co' 'na ventositate avesse dato forma a 'ssa bella facce? chi mme l'avesse ditto, ca 'n effetto de freddezza avesse 'ngnetato 'sto fuoco d'ammore?»—[12] Lavenne, idiotismo pomiglianese per lavanno (lavando;) chè in Pomigliano l' a accentata si cambia spesso e volentieri in e larga.[13] Sciù, sciù; voce con la quale sogliono scacciarsi le galline; dicesi anche sciò, sciò. Ha scritto il Fasano di Rambaldo di Guascogna:

O de Bordeo sbreguogno, che p' Ammore

Perdiste ed arma e dio, sciù, tradetore;

traducendo l'ottava XXXIII del VII Canto della Gerusalemme liberata, ed annota:—« Pfu, interiezione di disprezzo et ingiuria.»—Biagio Valentino, nel Canto IX de La Fuorfece:

La zitella no' la canusce cchiù,

Ca vace a paro co' la maritata;

Chi la vede, le dice:—«sciù, sciù, sciù:»—

Ed a dito da tutte n'è mostata.

'Sta moda anticamente maje nce fu,

Maje sse vedette 'sta cosa sfacciata;

Si a l'antica vedive 'na zitella,

Tu vedive 'na bella palommella.

Abbiamo un sonetto di Francisco Antonio Giusto, 'Mpaziente, Accademeco 'ncauto, a lo siò Giammattista Bergazzano, pe' l'opera ssoja 'ntitolata: Varie Fortune.

Atta, sì, tanto addotto e bertoluso,

Che li tallune tuoi, (co' leverenzia)

Perzì sanno fa' vierze p'azzellenzia,

Ed io (sciù, sciù, che non nge fosse schiuso)

Mme sboto notte e ghiuorno lo caruso

Pe' fa' 'no vierzo e faccio 'na schefenzia,

Ca n'happe (non ebbi) mai 'Mparnaso canoscenzia:

'Mmezzame tu de nce saglì' llà suso.

Co' 'sse FORTUNE toje, tu lo puoie fare;

Tu, che satoro staie de chella manna,

Che fa l'uommene muorte sorzetare.

Viato te! prode te fazza 'ncanna.

Mo' che le Muse pe' te 'mmurtalare

Te tesseno a 'ssa capo 'na giorlanna.

Invece di sciù, sciù, si diceva anche schiù, schiù. Così il Valentino nel quadro ottavo, contro lo Viecchio sposo:

Viecchio cacato, schiù! viecchio, schiù, schiù!

No' lo bi', ca te faje mormorare?

Viecchio sturduto, schiù! viecchio, schiù, schiù!

No' lo bi', ca te faje coffiare?

Viecchio 'mpazzuto, schiù! viecchio, schiù, schiù!

No' lo bi', ca te faje 'nzannejare?

Tu lo bi', ca si' 'fatto 'llocco e pazzo;

A doje porte t'aspetta lo palazzo.

Per chiamare i polli poi si adopera in Pomigliano la voce: sùrece, sùrece!

[14] 'Ngullarata, incollerita, sdegnata.[15] 'A raggione r' 'o picchè, la ragione del perchè: pleonasma, che dà energia all'espressione.[16] Li 'mmiziava, (inviziava) insegnava, e viene, come avvezzare Italiano, da vitium. Il D'Ambra ha solo 'mmezzare. (Vedine un esempio nel verso ottavo del surriferito sonetto di Francescantonio Giusto). Carlo Mormile, parafrasando la XI favola del IV libro di Fedro:

Si chesso no' lo saje, mo' te l'ammezza

'Na storia, che a proposeto nce cape;

E chesta, mm'allecordo, mme contava,

(Quann'era peccerillo) 'ngnora Vava.

Ed annota:—« Te l'ammezza, te lo insegna. Ma donde venga una tal voce, che per altro si sente tuttodì fra la gente popolare, hoc opus, hic labor est ».—Non mi pare, che ci voglia poi tanto! Nv, in principio di parola, si cambia nel dialetto napolitano in mm.

[17] Essendo la forma odierna del futuro Italiano, prodotta dall'agglutinamento del presente dell'indicativo del verbo avere, come desinenza, all'infinito del verbo radicale, è naturale, che i dialetti, ne' quali da habeo s'è fatto haggio ( hagge ) e non in ò, facciano la prima persona singolare del futuro in aggio (agge) e non in ò. Quindi saraggio, amaraggio: ecc.[18] Il motto, che l'Orco insegna alla Viola, è mezzo in dialetto e mezzo in lingua aulica.[19] L'auta matina, la mattina seguente, la dimane.[20] Accattava, comperava.[21] Fui, fuie, fuje, fu.[22] Tanno pe' tanno, allora per allora, lo stesso, che llà pe' llà, che vedremo appresso. E tanno (o, volendo italianizzare il vocabolo, tando ) si ha da leggere nella cantilena o tenzone di Ciullo d'Alcamo, stanza XXIV:

Ahi tanto innamorastiti, Juda lo traito!

ed interpretare: Allora fu, che t'innamorasti. Anche G. B. Basile ha cercato d'introdurre nella lingua aulica il tanno vernacolo, nelle Avventurose Disavventure:

Che vita più peggior credo non sia

Del pescator, ch'ogni ora

Nel mobil flutto la sua vita arrischia;

E sol tanto riposo in fermo lido,

Quando più scosso il mar da fieri venti

Non mi lascia tentar l'acqua col remo.

Il Grion, che emenda a capriccio, vuol leggere quel verso della celebre tenzone: 'N lu mantu innamurastiti, o Juda lo traito; ma tanto ha torto nella emendazione del primo, quanto in quella del secondo emistichio, dove non c'è bisogno dell'o, perchè si trovin le sette sillabe, e basta, come nel Mezzogiorno suol farsi, porre la dieresi sull' i, trattandola qual vocale e facendo così un trissillabo di Juda. Ma è destinato del povero Ciullo, di non esser molto inteso, neppure da quelli, che più sgobbano sul suo scritto. Così, per esempio, il D'Ancona interpreta que' versi della donna:

Se tanto aver donassemi, quanto ha lo Saladino

E per ajunta quanto a lo Soldano,

Toccareme non poteria la mano;

come se l'amante di Ciullo—«a prezzo mettesse fin anco il toccarle la mano!»—Ma toccare la mano, vale impalmare, sposare; ed in questo senso è evidentemente adoperato qui. Del resto, se anche dovesse intendersi letteralmente, non capisco, come possa rimproverarsi di mettere a prezzo una cosa, a chi dice, che per tutto l'oro del mondo non la farebbe! A questo patto, Desdemona, che dice ad Emilia, di non esser per fare le fusa torte al marito per tutto il mondo, metterebbe anch'ella a prezzo l'onor suo. Mi si conceda qui, di fare una proposta di emen dazione ad un verso della cantilena, che altri legge: Molti son li carofani, ma non che salma nd'hai; ed altri: Molti son li garofani, che a casata mandai; senza, che nè l'una lezione, nè l'altra, dia un senso soddisfacente. Io credo, che debba rettificarsi il verso, con la scorta della strofa seguente del Beato Jacopone:

Piccolo s'è il garofano, maggior è la castagna;

Qual sia di più efficacia, dicatel chi ne magna.

Chi guarda a maggioranzia spesse volte s'ingagna:

Granel di pepe vince per virtù la lasagna.

Dove il Tresatti annota:—«Vuole, che sappî discernere maggioranza da maggioranza; quella di virtù da quella di quantità. E, che non ti lasci ingannare dall'occhio nel giudizio sì, che, dove è una maggioranza, pensi, che vi sia l'altra; e che, dove una non è, ne anco l'altro vi sia.»—Lascio al lettore la cura di modificare materialmente il verso di Ciullo e come più gli aggrada; ma certo ha da modificarsi in modo, che il significato venga ad esser questo:—«Io sono piccola cosa rimpetto a que' signoroni; e pure, nella mia piccolezza, valgo di più, come il piccolo garofano vince in sapore frutta molto più grosse: non dispregiarmi senz'avermi prima provato.»—

[23] Mo', adesso.[24] Ì', e tante volte per eufonia ghì', andare, gire. Appo il Pagano, ( Batracomiomachia ) dice Giove a Pallade.

Vorrisse tu, pe' non te stare a spasso,

Li surece ì' ajutà'?

[25] 'Scetato, desto, svegliato. Da 'scetare, che vien da excitare. Perruccio, (Agn. Zeff. II. 6.):

Lo 'scetaje la paura, e sse sosette

Lo poveriello, tutto sorrejuto.

[26] Cf. La Novellaia Fiorentina | Cioè Fiabe e Novelline stenografate | in Firenze dal dettato popolare | e corredate di qualche noterella da | Vittorio Imbriani || Napoli | Tipografia Napoletana | MDCCCLXXI (in sedicesimo piccolo di pagg. 366 oltre occhio e frontespizio). Nella Fiaba I, L'Orco, l'anima del protagonista è in un guscio d'uovo, che la beneficata da lui si fa mostrare con lusinghe e schiaccia con astuzia. Nella XXII, Zelinda e il mostro, per uccider l'Orco, bisogna ammazzare un uccellino ed aprirgli il capo; nel capo ci ha un uovo; rotto l'uovo con una pietra, l'Orco muore. Appo la Gonzenbach, nella fiaba Vom Joseph, der auszog sein Glück zu suchen, bisogna ammazzare un drago setticipite; spaccargli la settima testa, dalla quale vola via un corvo; pigliar questo prontamente, ucciderlo, e cavarne l'uovo, che ha in corpo; e colpire con quest'uovo il gigante giusto in mezzo la fronte; allora il gigante muore. Vedi anche in un'altra fiaba appo la Gonzenbach: Die Geschichte von dem Kaufmannssohne Peppino, un tratto analogo. In 'A fata 'Ndriana | Cunto Pomiglianese || Per Nozze || Pomigliano d'Arco | MDCCCLXXV, la fata—«se chella sta cu' l'uocchie apierte, chella rorme, se sta cu' l'uocchie 'nghiuse, chella sta 'scetata».—(Vedi, in fine al volume, tra le Aggiunte.

IIbis.—'E TRE FIGLIE D' 'O RE[1] ( Variante di Viola ) ( Raccolta in Avellino, nel Principato Ulteriore )

Nci steva 'na vota 'no Re, chi teneva tre figlie. 'Ste figlie tenevano l' uso 'e ì' a vasà' 'a mano ogne sera 'ô padre, quanno ssi jevano a corcà'. 'Na sera 'o padre li dicivo:—«Dimani matina, quanno v'azàti, voglio sapè', che v'aviti sonnato.»—Quanno fu 'a matina, tutte tre 'e figlie trasettero dinto, addò' steva 'o padre. 'A prima li dicivo:—«Papà, mm'haggio sonnato, ca mm'haggio sposà' 'no Principe.»—«Benedetta figlia mmia!»—Li divo 'a benedizione e 'a figlia sse ne jio. Venne 'a seconda e li dicivo:—«Papà, mm'haggio sonnato, ca mm' haggio sposa' 'no Regnante.»—«Benedetta figlia mmia!»—Li divo 'a benedizione e sse ne jio pure essa. Po'venne 'a terza e dicivo:—«Papà, mmhaggio sonnato, ca mm'avev'a sposà' 'no 'Mperatore».—'O padre no' risponnivo, pecchè penzava, ca 'a figlia ssi voleva sposà' uno, chi era cchiù de isso; e accomminciavo a odià' 'sta figlia. 'No juorno, dicivo vicino a 'no servitore ssujo, 'o cchiù fidato:—«Tu, oggi, co' 'a scusa, ca vuò' portà' l'urdima signorina camminanno, 'a fai mette' 'ncarrozza e 'a puorte dinto a 'no bosco e l'accidi; e pe' 'nzegnale mm' ha' portà' 'o sango, e 'no dito d' 'a mano.»—'O servitore accossì fece. Quanno fu dinto a 'no bosco e 'a fece scenne' da carrozza; e li dicivo:—«Sentiti: 'o Re mm'ha ditto, ca io v'aveva accide' e l'aveva portà' 'o sango e 'no dito d' 'a mano vosta».—'Sta figlia poverella, tutta dispiaciuta, ssi mettivo a chiagne'. 'O servitore n'avivo compassione; e dicivo:—«'Sta povera signorina è tanto bella e io l'hagge accide'[2]!»—Mente steva parlanno, vedivo da lontano 'no pecoriello e dicivo:—«Mo' accido 'sto pecoriello e li porto 'o sango».—E accossì fece; ma dicivo:—«C' 'o dito comme faccio?»—Fu costretto 'e li taglià' 'o dito. E po' li 'nfasciavo 'a mano; 'a rimanivo sola sola dinto a chillo bosco; e isso sse ne jio. Venuta 'a sera, 'sta povera figliola ssi metteva paura, pecchè senteva tanta voce d'animali feroci. Tutta disperata e spasomata, mente ssi raccommannava a dio, vedivo da lontano 'no lumiciello, e ssi mettivo a camminà' da chella parte. E arrivavo vecino 'â casa 'e l'Uorco. Tuzziliavo.[3] E ss'affacciavo l'Orca e li dicivo:—«Chi è?»—«So' 'na poverella, tenitimi co' bui pe' 'stasera.»—Marumè! tu che dici? Io sò' 'a mugliera 'e l'Uorco. Chillo, si vene, t'accide[4].»—«Facitilo pe' carità; mettitimi arreto a 'na porta, ca io mmi stavo zitto zitto».—L'Orca n'avivo compassione; e 'a fece mette' arret' 'â porta. Ssi ritiravo l'Uorco e accominciavo a dice:—«Uh! che puzza de cristiani!»—«Nienti, marito mmio, ti pare? io so' Orca e faceva trasì' gente dinto?»—L'Uorco ssi stivo zitto e no' nze[5] ne parlavo cchiù. L'Orca li deva a mangià', e li voleva tanto bene a 'sta figliola; e, pe' no' la fa' mangià' da l'Uorco, penzavo de ssi metto' 'no coscino sotta; e dicivo, ca era esciuta gravida. L'Uorco, tutto contento de chesta gravidanza. 'No juorno, tutta allegra, dicivo, ca era sgravata; e li fece vedè' 'sta figliola, ca era bella quanto 'o sole. Tutti dui li volevono 'no bene pazzo; e 'a trattavano da vera figlia. Li conzegnarono tutte 'e chiave d' 'o palazzo, e 'na chiave de 'na stanza no' nce 'a volettero dà'. 'Sta figliola trasivo 'mpenziero; e 'no juorno, quanno tutti erono asciuti, essa trova 'sta chiave e apre 'sta cammera. Dinto nci stevono tanta specchi, tanta belle cose, ca essa rimanivo 'ncantata. A 'sta cammera nci steva 'no balcone. Essa ss'affaccia; e de rimpetto nci steva 'a casa d' 'o 'mperatore e[6] che teneva 'no pappagallo. 'Sto pappagallo vedivo 'sta figliola accossì bella e li dicivo:—«Bella figliola, bella figliola, | l'Uorco ti cresce, l'Uorco ti 'ngrassa | pe' ti mangià'.»—Essa, tutta affritta, sse ne trasìvo. Ssi ritira l'Orca e l'addommannavo, pecchè steva accossì; e chella li dicivo 'o fatto. L'Orca risponnivo:—«Sa che buò' fa'? quanno 'o pappagallo ti 'ncujeta, tu li dici: Pappagallo, pappagallo, | de 'sta coda 'no bello ventaglio, | de 'sta capo 'no bello bastone, | sarò moglie al tuo padrone. »—Essa ss'affacciavo 'n'auta vota. 'O pappagallo 'a 'ncuitava; e li dicivo:—«Bella figliola, bella figliola | l'Uorco ti cresce, l'Uorco ti 'ngrassa | pe' ti mangià'»—E essa, tutta pronta, risponnivo:—«Pappagallo, pappagallo, | de 'sta coda 'no bello ventaglio, | de 'sta capo 'no bello bastone: | sarò moglie al tuo padrone».—'O pappagallo, dispiaciuto, trase dinto e 'o dice a 'o padrone. 'O padrone, chi voleva tanto bene a 'sto pappagallo, dicivo:—«Hagge a vedè' chi è, ca 'o voglio sparà'.»—Quanno fu la matina, 'sta figliola ss'affacciavo 'n'aota vota. 'O pappagallo dicivo 'e stesse parole:—«Bella figliola, bella figliola | l'Uorco ti cresce, l'Uorco ti 'ngrassa | pe' ti mangià'.»—E essa risponnivo 'n'aota vota:—«Pappagallo, pappagallo, | de 'sta coda 'no bello ventaglio, | de 'sta capo 'no bello bastone: | sarò moglie al tuo padrone.»—Allora lo 'Mperatore, chi steva annaccovato, esce fore e boleva sparà' 'sta figliola[7]. Ma po', vedennola accossì bella, sse ne 'nammoravo e subito jio a passà' 'a 'mmasciata a l'Uorco, ca ss''a voleva sposà'. Co' tutto piacere ssi 'mmitarono tutti i Re de tutte le città; e, 'mmiezo a tutti 'sti Re, nce steva pure 'o padre. Esso sposavo 'a sera, e 'a matina ssi divo 'na magnifica tavola. Quanno fu a lo meglio, 'a figlia ss'azavo e ss'accostavo vecino 'ô padre e dicivo:—«Mi conosciti?»—Isso risponnivo:—«No' vi conosco».—«Ebbè', io so' 'a figlia vosta; ma vui, pe' chello, ca mm'aviti fatto, aviti ì' a morte.»—O' padre, tutto dispiaciuto, ricordannosi 'e chello, chi l'aveva fatto, ssi menavo a li piedi d' 'a figlia e li cercavo perdono. Accossì fecero pace e tutto fenivo.

Contenti e cutoliati

Nui stiamo quà assettati.

NOTE

[1] Questa variante ha un perfetto riscontro appo il Pitrè (op. cit.) X L'acqua e lu sali, dove però, invece d'un pappagallo, c'è un gallinaccio, che canta:

Ammatula (
indarno
) t'allisci e fa' cannola (
ricciolini
)

L'omu sarvaggiu (
l'Orco
) ti voli manciari.

E la protagonista risponde:

Gallinacciu, gallinacciu,

Di li to' pinni n'hê fari un chiumazzu,

Di li to' carni n'hê fari un vuccuni,

Hê essi mugghieri di lu to' patruni.

Nella novella sicula non comparisce l'Orca, che simula la gravidanza; e l'Orco è ammazzato a propria richiesta la sera delle nozze; ed il sangue e la carne di lui divengon oro e gemme. Il particolare della fanciulla mandata ad uccidere in un bosco da uno stretto congiunto (padre, madre, madrigna, sposo) il quale vuole i contrassegni della morte di lei e vien pure ingannato dal sicario, si ritrova in infinite fiabe popolari e composizioni letterarie. Similmente il divieto di metter piede in una data stanza. Salta agli occhi la somiglianza di questa versione, specialmente in principio, con la favola del Re Lear dello Shakespeare. Altra variante del nostro cunto è nelle Fiabe e Novelle | popolari Veneziane | raccolte | da | Dom. Giuseppe Bernoni || « Nelle favole poetiche fatte da | tutto un popolo, evvi maggio -| re verità che nel racconto storico scritto da un uomo. » | G. B. Vico || Venezia | Tipografia Antonio Ottolini | 1873. Vedivi il Racconto intitolato Come 'l bon sal. Ma in esso manca e l'Orco e l'uccello meraviglioso, che parla. Confronta anche la chiusa di questa variante con quella del Re Avaro della mia Novellaja fiorentina.

[2] Si pronunzi, come se fosse una parola sola: laggiaccide. Così più sotto hagge a vedè' si legga aggiavvedè.[3] Partenio Tosco, Eccellenza della lingua Napoletana, ecc.—«Dirà il Toscano: Picchia quell'uscio...; ed in Napoli dicono: Tozzola 'sta porta.... La parola Tozzola, ch'è verbo frequentativo, spiega la frequenza nel battere, non fermandosi al primo colpo; e vien dal verbo tozzare o cozzare, come fa la capra, che replica il cozzare coll'altra»....—[4] Presso il Casalicchio. ( L'Utile col dolce, Centuria I. Decade IV. Arguzia VII. Mirabil modo della divina provvidenza in ajuto d'un giovane ) uno studente scapestrato, al quale i genitori hanno tagliato i viveri:—«datosi in abbandono alla disperazione, prese il partito di partire da quella città e d'andare per il mondo e vivere in parte dove mai fosse conosciuto e donde non si potesse aver di lui novella alcuna. E così, nel gionto medesimo, che fece tal risoluzione, mentre l'ora era troppo tarda, si partì, non sapendo, dove andava, come sogliono far coloro, che tengono occupato il cuore da veemente passione. E, fattosegli notte dentro una oscura selva e folto bosco, non sapeva propriamente, che si fare; quand'ecco, che vede da lontano un poco di lume; ond'è, che verso di quello volta incontinente i passi. Ma, perchè andava fuor di strada, quante volte cascasse colla faccia in terra e quante volte desse col capo a quegli arbori e quelli spineti, che se gli facevano incontro, non è possibile il crederlo. Giunse finalmente a quella casetta, dove stava il lume. Bussa la porta e gli è risposto con voce bassa per una finestrella da una vecchia: Che cos'è? Chi sete voi? che andate facendo di quà? Sono un povero e meschino studente, riprese a dir questo, che vado cercando ricovero per questa notte sola, per non esser mangiato dalle fiere. == O figlio mio, figlio, ri sponde quella vecchia, partitevi presto di qua, perchè qui non trovarete ricovero alcuno, ma più presto la morte, poichè questa è casa, dove vanno banditi; ed io loro servo di fantesca. Fuggite, fuggite tosto, perchè adesso ritorneranno dalla strada vicina, dove di già avranno ucciso il loro nemico, come pretendevano di fare ».—Questa novella del Casalicchio è del rimanente tutt'una cosa con la XVII del Sacchetti. Pietro Brandani da Firenze piatisce; e dà certe carte al figliuolo; ed elli, perdendole, si fugge, e capita dove nuovamente piglia un lupo; e di quello avuto lire cinquanta a Pistoja, torna e ricompera le carte. (V. in fine al volume, nelle Aggiunte ).[5] No' nze, non se. L'esse iniziale di sse si muta in zeta, per amor della enne precedente: mutazione eufonica costante in tutti i casi simili.[6] Nci steva 'a casa d' 'o 'mperatore e che teneva 'no pappagallo. Più sopra abbiamo: Quanno fu dinto a 'no boscoe 'a fece scenne' de carrozza. Si noti, in queste due frasi, l'uso della congiunzione, che sembra pleonastica.[7] Che causale per un omicidio! Ma le popolazioni Irpine son feroci, non effeminate; e la provincia di Principato Ulteriore ha il primato pe' reati di sangue fra tutte le Italiane.

II ter. RE TRE SORELLE. Variante di Viola Raccolta in Montella, nel Principato Ulteriore

'Na vota a 'no pajese nge stevano tre sorelle belle, ma una era cchiù bella. Ogni ghiuorno queste ssi mittievano 'ngimma a la loggia: una filava, 'n'ata tissia, e la bella cosìa. Re questa bella sse ne 'nammoravo 'no giovene. Quisto, sempe chi passava, ricìa:—«È bella quera, chi fila; è bella quera, chi tesse; ma quera, chi cose, è cchiù bella re tutte».—Re sore sentiero questo. Quera, chi cosìa, la mittiero a tesse', pe' berè', si lo giovene ricìa, ca puro quera era bella. Quanno fu lo juorno r'appriesso, passavo lo giovene e decette:—«È bella quera, chi fila; è bella quera, chi cose; ma quera, chi tesse, è cchiù bella re tutte».—Re sore, corrivate, la mettiero a filà': pe' berè, si ricìa puro accossì lo giovene. Quanno fu lo juorno r'appriesso, passavo lo giovene; e decette:—«È bella quera, chi cose; è bella quera, chi tesse; ma quanto è cchiù bella quera, chi fila!»—Re sore tanto chi si corrivaro, la pigliaro la bella e la menaro 'rinto a 'no sottano, chi 'rinto a 'sto sottano nge abbitava l'Uorco e l'Orca. L'Uorco e l'Orca no' ng' erano. Jessa ssi mettette sotto a 'na boffetta. Jette l'Orca e decette:—«Uh che puzza re cristiano[1]! Addov'è? mme lo voglio mangià'.»—La giovene responnette tutta tremanno, e decette:—«Ziè O', pe' l'amore re dio, no' mmi mancià'! Io so' 'na povera figliola sbenturata!»—Li contavo lo cunto, ca re sore, pe' 'mmiria, ca lo 'nnammorato li ricìa, ca era bella, l'avievano menata abbascio a la casa. L'Orca n'avette compassione e non sse la mangiavo. Decette:—«Figlia mmia, sa' che buo' fà', pe' non ti fà' mangià' a l'Uorco, quanno vene? Mittiti sotto a quesa boffetta. Po' iddro vene, e dice: Uh che puzza re cristiano! Io li rico ca non è lo vero. Iddro ssi zezza e quanno ss'è zezzato, tu mano catamano[2], ti mitti citto citto sott' a la seggia. Quanno iddro face 'no pirito, tu allucca[3]: tata! tata! Quiro sente accossì e non ti face nienti».—Accossì facette la figliola. Ss'annaccovavo. Ssi ritiravo l'Uorco e decette:—«Uh che puzza re cristiano! addov'è? mme lo voglio mangià'.»—«No' ng' è nienti»—decette l'Orca. L'Uorco ssi zezzavo, e facette 'no pirito. La guagliotta[4] alluccavo:—« Uh tata! Uh tata! »—L'Uorco tutto prejato[5] decette:—«Pe' 'no pirito haggio fatta 'na figlia!»—Sse la pigliavo e l' allisciavo; e ricia:—«Gio' re tata, quanto sì' bella; tata ti vole bene a te.»—'No juorno passavo pe' 'nnanzi a la casa re l'Uorco lo 'nnammorato re quera figliola. Quanno la verette, decette:—«E tu, come ti truovi lloco[6]?».—Jessa li contavo lo cunto, ca re sore l'avievano menata dra[7], ca isso li ricìa, ca ieddra era cchiù bella. Lo giovene le decette:—«Tu sa, che buo' fà'? Quanno vene l'Uorco, li rici: Ta', 'assammi ti cercà' 'no picca 'ncapo[8]. E tramente lo circhi, l'addommanni: Ta', lo gliuommir o[9], che birtù tene? lo pettene, che birtù tene? e lo fuso, che birtù tene? »—«Sine»—recette iessa. Lo giovene sse ne iette. Ssi ritiravo l'Uorco. Jessa decette;—Tà', ti vuò' fa' cercà' 'no picca 'ncapo?»—«Si»—decette l'Uorco. Tramente lo stia cercanno, iessa l'addommannavo:—«Tà', lo pettene, che birtù tene?»—«Gio' re tata, tene la vertù, che, quanno rici: Pettene, pè la tuia forza, chi tieni, fa arreventà' 'sta campagna tutta ponte re spate.»—E lo gliuommiro?»—decette iessa.—«Gio' re tata, lo gliuommiro tene la virtù re fa' deventà' 'na campagna uno Sele[10], quanno rici: Gliuommiro, pe' la virtù, chi tieni, fa arreventà' 'sta campagna Sele. »—«E lo fuso?»—decette iessa. Isso decette:—«Gio're tata, lo fuso tene la virtù re fa' arreventà' 'na montagna re sapone.»—Quanno fu lo juorno r'appriesso, passa lo 'nnammorato re la figliola. Verette la figliola. L'addommannavo:—«Chi ng' è'?»—«Nisciuno»—dicette iessa—«so' ghiuti a buscà' coccosa.»—«E l'haje 'ddummannato quero ti dicietti?»—«Si»—decette jessa.—«Embè', pigliati quero, chi t'ha' ra piglià' e ghiammongenne.»—Ssi pigliavo lo pettene, lo gliuommiro e lo fuso e sse ne iero. Ssi ritiravo l'Uorco e l'Orca e no' nge trovaro la figliola. Sdignati li curriero appriesso, e r'avievano quasi arrivati. Loro pigliaro lo pettene, e diciero: Pettene, pe' la tuia virtù, che tieni, fa arreventà' 'sta campagna tutta ponta re spate. Ma l'Uorco e l'Orca tanto 'nzaccaro, 'nfì' che passaro tutte quere ponte. Loro viriero, ca r'avievano quasi approssimati; pigliaro lo gliuommiro e diciero: Gliuommiro, pe' la virtù, chi tieni, fa arreventà' 'sta campagna 'no Sele. E assette lo Sele. L'Uorco e l'Orca tanto faciero, 'nfì' che passaro lo Sele. Loro viriero, ca li currievano appresso; pigliaro lo fuso e diciero: Fuso, pe' la virtù, chi tieni, fa assì' 'na montagna re sapone. E assette 'na montagna re sapone. L'Uorco e l'Orca arrivaro a 'no certo punto e scucolavano; tanta botte pigliaro, 'nfì' che moriero[11]. Lo giovene ssi sposavo la figliola e menaro 'na vita felice.

NOTE

[1] Cristiano. Qui cristiano non si ha a prendere nel senso che più propriamente e più comunemente ha nella nostra lingua, di colui, che professa la religione di Cristo; ma per uomo o donna; ed è spesso adoperato in vece di queste parole nel dialetto, massime quando vuolsi indicare la specie ( homo ) e non il sesso ( vir.). Nulladimeno, messa in bocca all'Orco la parola Cristiano potrebbe esser presa anche nel senso più proprio; ciò, che, del resto, non contraddice al fatto di essere sinonimo di Uomo nel dialetto. Nel quale si prende anche nel sentimento di persona qualificata. E, nel diminutivo Cristianieddro, vale malandrino od astuto; e, nell'aumentativo Cristianone, uomo di povero fatto ricco mercè la sua abilità ed industria. In prova ecco due canti popolari:

I.—
Cristianieddro
mmio, chi vuò' fa guerra,

No' nge passare cchiù pe' chisto loco;

Nge farraggio venì' lo serra serra,

Pecchè la vita mmia la curo poco.

Co' li cogliuni tu può' fa lo gallo,

Come a 'no pennicchio io ti piglio.

Ammarcia, bene mmio; poco parole:

Re scarpe lesto lesto và ti sola.

II.—So'
cristiani
'ssi parenti tuoi!

Teneno campi, palazzi, e castagneta;

Li campi so' a lo pizzo re lo Puojo,

A lo Pizzillo so' re castagneta.

Palazzo è lo pagliaro a Ghiorentino,

Tutto l' anno li manca pane e bino.

( Nota di Scipione Capone ).

[2] Mano catamano, a mano a mano, piano piano. È locuzione ignota in Napoli e non usata da scrittore alcuno; dove e presso i quali troverai invece il modo analogo pede catapede, che vale a lento passo e viene dal greco pous catà podos. Confronta co' termini Italiani a catafascio, catacolto, eccetera.[3] Allucca. Abbiamo alluccare v. ed allucco s. m. Non hanno sinonimi, e mancano altresì altri vocaboli di analoga significazione nel dialetto. Alluccare vale tanto emettere un urlo inarticolato, quanto il parlare a voce alta e forte, gridare, stridere, strillare, ed il rumoreggiare di voci confuse. Urlo però ha l'equivalente in surlo, che vale voce lamentevole. Adoperasi pure luccoliare, chiamare il Luccolo (Allocco) imitandone la voce. ( Nota di Scipione Capone ).[4] Guagliotta, ragazza, giovinetta; equivalente di figliola, usata innanzi, che non è l'unico sinonimo di questa parola. Abbiamo anche giovene, raazza, peccereddra, bardascia, picciotta, nenna, criatura, ronzella, quatrana, pezzoca, guagnarda, co' loro diminutivi, che dimostrano come abbiano analogia, se non eguale significazione. Il dialetto napoletano ha guagliona. Una canzone dice così:

Figliole, raazze, bardascie, quagliotte,

Nenne, nennelle, quatrare, picciotte,

Li mmia non so'; so' buosti (
vostri
) li guai;

Traditoriello sì, tradito mai.

Quest'altro scherzo dà ragione della differenza di tali voci:

Bardascia porta lo culo abbascio abbascio.

Quatrara è cianciosa e ruffiana.

Nenna è leggia com' a 'na penna.

Criatura non è bona a lo torceturo.

Zitella tene la f.... sotto la vonnella.

Raazza bona pe' lo c....

Figliole, li piaceno re cetrola.

Picciriddri e piccereddre,

Sse re giocano re noceddre (
nocciuole
).

So' fraschette re picciotte,

Recotte tennero re guagliotte.

( Nota di Scipione Capone ).

[5] Prejato da prejarsi, rallegrarsi. Nel dialetto si usa anche leto, allegro, contento, giolivo; ma il prejarsi esprime l'allegria nascente dalla sorpresa insieme e dalla soddisfazione. Gio' re Tata vale gioja di papà. Ma dalla bocca de' Montellesi odesi pronunciare Giore Tata; Giore con affettato strascico e foderando l' o tanto da unirlo al re. Separandosi le due voci perdesi tutto l'effetto della effusione, che si sente nel giore, come qui va pronunziato. Non posso dare altra ragione di questa unione. ( Nota di Scipione Capone ).[6] Lloco, là. Avverbio usitato anche in lingua aulica da' duecentisti. Fra Jacopone.

Poi venne il tempo, mio pate (
padre
) è mosto,

A legger m'ha posto, | che imprenda scrittura.

Se non imprendea quel, ch'era imposto,

Davami 'l costo | di gran battitura.

Con quanta paura | loco ci stetti

Sarian lunghi detti | a farne contata.

Il medesimo (VII. 9, 18)

Però in esso Regno son fuggiti;

Loco si sono uniti.

Fra Guittone.—«Non ragione, nè sapienza no; ma disragione e mattezza disnaturata dimora loco».—«E, se non pietate, paternità ed amor tenevi loco».—

E guardarommi al mio poder di gire

Loco, ove veder possavi neente.

Guido Guinicelli.

Amor in gentil cor prende rivera,

Como 'l diamante (
calamita
) loco,

Che de lo ferro tene la miniera.

Brunetto Latini, nel Tesoretto, cap. XI.

Ci mise per segnali

Ercules il potente,

Per mostrare alla gente,

Che loco sia finata

La terra e terminata.

Lo stesso, Ibid. cap. XVII.

Lo cavalier valente

Si mosse isnellamente;

E gìo senza dimora

Loco, ove dimora

Cortèsia grazïosa.

Il Bernia. Orlando Innamorato. III. 7. 40.

Certi benefizioli aveva loco

Al paesel, che gli eran brighe e pene.

Ma altri, per non concedere, che 'l Berni usasse un Napoletanesimo (quasi se gli potesse apporre a colpa, a lui, che usò tanti barbarismi e solecismi ed idiotismi soprattutto!) perfidia a voler, che si legga 'n loco cioè in locazione, in affitto. Però va notato, che, presso gli antichi, loco valeva spesso subito, come lo spagnuolo luego ed il latino illico, che hanno origine comune. Brunetto Latini. Op. cit. XXVI.

E, se perdesse un poco,

Ben udireste loco

Bestemmiar dio e' santi.

Fra Jacopone. VII. 5. 3,

Hollo messo in prigione:

Sottomesso alla ragione,

Loco l'ha te rafinato.

[7] Dra, là dentro. ( Nota di Scipione Capone ).[8] Cerca' 'no picca 'ncapo a una persona. Dicesi di pulirle dal sudiciume e dagl'insetti il capo, pettinandolo od anche semplicemente grattandolo e schiacciando gl'insetti con le dita. Usanza animalesca e sudicissima, ma comune; e perfino reputata da' popolani un atto cortese e di benevola dimestichezza. Di questa usanza mi piace dire qualcosa, per chi non conosce la vita di certi nostri paesi, e per quanto occorre alla intelligenza della novella. Le astute comari, quando vogliono carpire un segreto alla loro vicina, o dimenticar seco la noja de' proprî negozî, o appiccare un po' di dissertazione su' fatti altrui, raccontar frottole, sorprendere la buona fede, e fare insinuazioni, si fanno cercà' 'no picca 'ncapo, e così all'abbandonata filano una lunga chiacchiera sopra i soggetti di loro predilezione. Si narra, che Dalila, amante di Sansone, siasi servita di questa femminile astuzia per ingannarlo e consegnarlo a' Principi de' Filistei. At illa dormire eum fecit super genua sua, et in sinu suo reclinare caput. (Cap. XVI. Giudici ). Similmente, dunque, il nostro Orco, posando il capo sul seno della guagliotta, e lasciandosi cercare, manifestò la virtù del pettine, del fuso, e dello gliuommiro. ( Nota di Scipione Capone ).[9] Gliuommiro, gomitolo. Gliommerare, aggomitolare. È più prossimo ad agglomerarsi, ma il senso proprio è di gomitolo, avvolgere il filo in gomitoli. Per similitudine poi si chiama gliuommiro qualunque cosa n'abbia la forma; quindi gliuommiro dicesi un invoglio, in cui si racchiude una somma di danaro (cartoccio). Le mammelle, ben pronunziate e tondeggianti, si chiamano gliommera. Fare gliommera 'ncuorpo significa reprimersi, raffrenare una passione. Arreventare come a 'no gliuommiro, vale rannicchiarsi, rattrappirsi. Minicantonio, mio maestro in dialetto, avvalora con citazioni d'ogni maniera questo commento e con gesti molto espressivi, che io non valgo a descrivere. Per farmi ben conoscere gli atti della parola gliuommiro mi ha poi recitato questi versi:

Mammeta accresce gliommera,

Pe' ti fà' lo corriero (
corredo
):

Patrito stipa gliommera,

Pe' t'arricchì' re rote.

'Ncuorpo io fazzo gliommera,

Ti vero o non ti vero.

Ma io 'sse doie gliommera

S'arrivo a tozzecare,

Pe' sotto a mme 'no gliuommiro

Ti fazzo arreventare.

Variante

'Sse gliommera re Mammeta,

Servono a fà' la tela.

Re gliommera re Patrito

Pe' t'arricchì' re rota.

Re gliommera ch'hai 'mpietto,

Pe' mi fà' l' 'mpaccia.

Gliommera fazzo 'ncuorpo

Ti vero o non ti vero.

S'arrive co' sto vommaro

A rompe' 'ssa maiese,

Arreventà' 'no gliuommiro,

Ti fazzo senza meno.

'Sta panza come a gliuommiro,

Chi la vorrai verere!

( Nota di Scipione Capone ).

[10] Sele è il fiume di maggiore portata della provincia di Avellino. Nasce nel Comune di Caposele; e, nella sua medesima sorgente, è largo e spazioso quasi un piccolo lago. Volendo indicare una gran quantità di acqua, i nostri popolani, per farsi intender meglio e seguendo in certo qual modo la simiglianza, che è fra le cose della loro fantasia e la realtà, danno a questa nomi proprî, se non ben convenienti, bene intesi da tutti. ( Nota di Scipione Capone ).[11] La seconda parte di questa versione, dallo incontro della figliuola, dopo adottata dagli Orchi, con lo innamorato, in poi; e la sua fuga; risponde alla seconda parte appunto di Petrosinella, Trattenimento I della Giornata II del Pentamerone:—«'Na femmena prena sse magna li petrosine de l'uorto de l'Orca; e, couta 'nfallo, le promette la razza, che aveva da fare. Figlia Petrosinella. L'Orca sse la piglia e la 'nchiude a 'na torre. 'No Prencepe ne la fuje, e 'n virtù de tre ghiantre gavitano lo pericolo de l'Orca. E, portata a casa de lo 'Nnammorato, deventa Prencepessa».—Nella Chiaqlira dla Banzola, vedi La fola dla Prassulina. Nel Conto de' Conti, questa novella è intitolata Petrosinella; e vi si legge come segue:—«Narrasi, che una donna per nome Camilla, essendo gravida, ebbe un giorno desiderio de' petrosellini; (e perchè sapeva, che stavano piantati nel giardino d'un Orca, per vederli, quando s'affacciava alla finestra, che stava sopra al detto giardino), risolse, senz'altra dimora, di scendere nel giardino, e cogliersene quanto mai brama va, come fece. Ma accortasene l'Orca, le corse addosso: e, prendendola per i capelli, la voleva condurre in casa per divorarsela. La povera Camilla, in vedere il pericolo, che correva, incominciò, piangendo, a scusarsi; con dire, ch'ella non avea rubato i petrosinelli per gola o per altra cosa; ma, per essere gravida, dubitava, che la faccia del fanciullo o della fanciulla non nascesse seminata di quell'erba. E tanto pianse, che di lei l'Orca mossa a pietà, le donò la vita: ma volle, che l'avesse promesso il parto, che dovea uscire alla luce, o maschio, o femmina, che si sia. La povera Camilla, per scampare la vita, le promise ciò, che bramava. Perlocchè, venuto il tempo di partorire, fece una figlia così bella e leggiadra, che per nome la chiamò Petrosinella. E, facendosi grandetta, sua madre la mandava alla maestra; e incontrava per strada l'Orca, la quale le dicea: Dì a tua madre, che si ricordi della promessa. E tante glielo disse, che alla fine disse la sua madre, che l'avesse risposto: Pigliatela. E, trovando l'Orca, li fece l'istessa domanda. L'innocente ragazza le rispose: Ha detto mia madre, che te la pigli. Subito l'Orca se la pigliò. Avendola in mano, la portò in un bosco così spaventevole, che atterriva a chiunque vi passava davanti. Per la qual cosa, riponendo Petrosinella in un'alta ed oscura Torre, che per arte d'incanto la fabbricò in un subito, ch'era senza porte e senza scale, ma solamente c'era un finestrino alla sommità di detta Torre, stimò in questa maniera di star sicura di non perder quel caro pegno. Accadde un giorno, che, essendo fuori dalla Torre l'Orca, e cacciato Petrosinella da quel finestrino il capo fuora, passò il figlio d'un Principe. Il quale, vedendo quella bella sopr'umana creatura, se n'invaghì di maniera, che dispose di volerla per moglie. Quindi il Principe, volendo togliere la sua diletta dalle mani di quel l'orrida Orca, non potea, stantechè avea fatto un incanto a tre noci, che le pose dentro di un buco, e senza delle quali non potea partirsi da quella torre. Petrosinella, che sapea il segreto, lo raccontò al figlio del Principe; e, trovato che ebbe le noci, Petrosinella li disse la maniera come l'avea da operare. E, fattasi una scala di corde, se ne discese cautamente dalla torre, e cominciarono frettolosamente a caminare. Ed accortasi l'Orca della fuga, si pose a camminare con tutta fretta per arrivarli. I quali, vedendola venire verso di loro, Petrosinella delle tre noci ne buttò una, e ne uscì un grosso cane, e latrando s'incaminò verso l'Orca. Ma l'Orca, che era piena di malizia, li buttò una pagnotta, e fè passare la furia al cane, e subito di nuovo si pose a perseguitarli. Petrosinella, vista di nuovo approssimarsi l'Orca, li buttò la seconda noce, e ne uscì un leone; e parea, che si volesse divorare l'Orca. Onde l'Orca, voltandosi indietro, vidde in mezzo di un prato un Asino. Subito li fu addosso e l'uccise. E, pigliatosi la pelle, se la pose addosso, ed andò verso il leone. E credendosi il leone, che fusse Asino, se ne pigliò molta paura. L'Orca di nuovo perseguitò quelli poveri giovani, senza levarsi la pelle d'Asino da dosso, ed avendo Petrosinella buttata la terza noce, ne uscì un lupo. Il quale, senza dar più tempo all'Orca, se la divorò come fosse stato un Asino. E li due amanti se ne andarono felicemente alla casa del Principe suo Padre, cui raccontando il fatto, com'era accaduto, le chiese per moglie Petrosinella. Il padre, che l'amava, aderendo alle brame del figlio, egli stesso volle congiungerli in matrimonio, che in pochi giorni si effettuò, ordinando, che si fossero celebrate le nozze con tutta quella grandezza, che poteva un tanto principe meritare. Dopo di che Petrosinella, mandando a chiamare la madre sua, colla licenza del suocero e di suo marito, la fece stare seco, menando i giorni suoi felici insieme colla madre, col suocero, e col suo amatissimo sposo».—Identica è appo il Bernoni (Op. cit.) La Parzemolina. Fughe, che felicemente riescono per incantesimi analoghi possono vedersi:—I.— Imbriani. ( Novellaja Fiorentina.) Il Contadino, che aveva tre figlioli.—II. Ibid. Le due belle Gioje.—III.— Imbriani. ( Novellaja Milanese.) I tre tosann del Re.—ecc. ecc. In una variante calabrese (di quel di Nicastro) il principio del Conto è come in questa Petrosinella e la fine, da che l'Orco se la conduce in casa in poi, come nella nostra Viola. L'uccello del Principe è un pavone, che dice alla ragazza:

Mangia e 'ngrassa, puttanazza,

L'omo sarvaggiu mangiari ti vo'.

E l'Orco insegna alla fanciulla di rispondergli

Si mangiu e 'ngrassu troppu bonu fazzu!

Di li toi pinni ne fazzu 'nu mazzu,

Di li toi carni boni polpettuni

Sugnu mugliera de lo toi patruni.

Spinna, pavuni! spinna, pavuni!

Ed il pavone si spenna tutto, perde tutte le penne.

III.—'E CORNA[1]. Versione raccolta in Pomigliano d'Arco

'Na vota nce steva 'n'omme e pecchè n'aveva[2] che fà' 'mmiez' 'a via[3] sse partette e sse ne jette 'ncampagna. Va a dà' 'n uocchie[4] 'ngoppa a 'n auro[5], vere 'nu nivo d'aucielle. Sagliette 'ngoppa e pigliave 'a mamma cu' doje ove; e vecin'a cheste nce steva 'n'ascrizione e deceva:—«Chi sse mangia 'o core 'e chiste aucielle sarrè[6] papa; chi sse mangia 'o fècate, avarrà 'na vorza 'e cinquanta rucate 'a matina.»—Chill'omme non ss'addonaje niente 'e tutto chesto. Jette a casa e decette 'nfacce 'â[7] mugliera:—«Mo', 'st'aucielle, che ne facimmo? 'E figlie nuoste sse mòreno 'e famme. Mo' 'o porto 'ô cumbare; e accussì facimme 'nu poche 'e farenata[8] p' 'e criature.[9] »—Jette addò 'o cumbare e decette:—«Cumbà', v'hagge purtate cheste doje ove e chist'aucielle pe' fà' pazzià'[10] 'e figlie vuoste.»—'O cumbare recette, ca non 'e buleva: ma isso sfurzava a farencelle[11] tenè': 'nfinalmente ch' 'o cumbare nce 'o vulette fà' portà' a forza, l'aucielle. Chill'omme 'nfuriate ss' 'o pigliave e sse ne fujette, e sse scurdave 'e doje ove 'ngoppa 'ô tavulino d' 'o cumbare. Sse ne jette a casa e sse mangiava l'aucielle. 'O cumbare va a verè' 'ngoppa 'ô tavuline, trova chelli doje ove e nce legge 'a 'scrizione e decette:—«Oh màlora! ch' hagge fatte! hagge fatto purtà' l'aucielle 'ô cumbarielle, 'e ngoppa a chest'ove nce sta scritte tutte cheste!»—Corre addò chillo; e le recette, ch' 'e orlature ssoje ss'erano poste a chiagnere, ca vulevane l'aucielle. Piglia l'omme, le respunnette, che era arrivate troppe tarde e ca loro ss' 'âvevane mangiate; e 'o core ss' 'âveva mangiate 'nu figlio e 'o fecate 'n auto. 'O cumbare sse ne jette a casa e ss'arrevulava c' 'a mugliera e recette:—«Mo' comm'arriam'a fà'?»—'A mugliera respunnette, ca ss' avesse pigliate 'e criature, decenne ca ss' 'e buleva crescere isso. 'O cumbare accussì facette. Jette add' 'o chill' omme e decette:—«Cumbariè'[12], voglio 'sti duje peccerille[13] tuie, pecchè tu n' 'e può cambà'.[14] Mo' t' 'e cresc' i'.»—E ss' 'e purtava a casa, y 'e mannave 'â scola. 'A mugliera d' 'o cumbare ieva a fà' 'o lietto 'a matina 'ê peccerille, e truvava 'na vorza 'e cinquanta rucate e teneva cu' murta accuglienza[15] chille duje vuagliune.[16] Roppo seie o sett'anne, ca 'o cumbare ss'aveva fatte 'na murtitudine 'e renare e 'sti peccerille ss'erane fatte 'ruosse, 'na matina vene 'a pazzìa a chisti rinto 'ô lietto e pazzianne carette 'nterra 'a vorza 'e cinquanta rucate. 'E peccerille sse n'addunarene[17] e decettere:—«Ccà mo' no' nce stamme cchiù buone. Chiste 'o cumbare ha puoste 'sta vorza pe' berè' si nuje nce pigliàvame 'e renare.»—E 'o juorne recettere 'ô cumbare, ca sse ne vulevane ì'. Chillo non n' 'e buleva fa' partì': ma, roppe tanta parole, 'o cumbare le rette ruiciente rucate pe' ciascheruno e n' 'e facette ì'. Sse ne jettere e cammenanne sempe, 'a sera sse truvarene rinto a 'nu bosco e pecchè non avevane addò' sse cuccà', sse mettettere 'ngoppa a 'na cercula.[18] Quanno fuje 'a matina, ca sse sussettere, le scappava 'a vorza 'e cinquanta rucate. 'E frate recettere:—«Ah 'o cumbare pe' chesse nce vuleva tene' 'â casa ssoja: chesta è birtù, ca tenimme.»—Sse rettere 'ncammino e cammenavane; e, quanne fuje a 'na 'rucevia,[19] uno 'e chille rummanette arrete 'nu poche; sse mettette a fa 'nu servizio; e sse sperdettere tutt' 'e duje 'e frate. Chillo, ca teneva 'o preggio r'avè' 'a vorza 'e cinquanta rucate 'a matina, sse truvava a 'na città; e chille, ch'aveva essere papa, sse truvava a 'n'auta, ma steva 'mmiez' 'â via, pecchè nun teneva che mangià', e pe' cambà' sse mettette a fà' 'o sacrestano 'rinto a 'na chiesa. Venette 'o tiempo, ca ss'aveva fà' 'o papa rinto a chella città: sse menava 'na palomma pe' berè' 'ncape a chi sse fermava. Anduppave[20] 'ncape 'ô sacristano e isso fuie papa.[21] Lassammo mo' a chisto e pigliammo a chill' auto frate, ca teneva 'o preggio r' 'a vorza. Chisto sse ne va a 'na città, addò' sse faceva 'o triato[22] e se pavava cinquanta rucate 'â sera. 'A ronna, che faceva 'o triato, sse pigliava murti penzieri e deceva 'ntra iessa:—«Chisto chi signore sarrà, ca vene ogni sera ccà?[23] »—Teneva 'na vecchia ruffiana cu' iessa; e le recette, ch'avesse spiato a chillo signore, isso chi era. 'Sta vecchia va vicino a chistu giovane e decette:—«Vuie che pruprietà tenite, ca venite ogni sera 'o triato?»—Respunnette e decette isso:—«I' tenghe 'na vorza 'e cinquanta rucate 'a matina.»—Piglia 'a ronna r' 'o triato, recette vicino 'â ruffiana, ch'avesse ritto a chillu giovane si 'a vuleva spusà'. Chesta nce 'o decette e 'o giovane respunnette:—«Chisse pure iè 'o piacere mmio».—E accussì 'a ronna, 'a sera appriesso, fenuto 'o triato, 'o vulette 'ngoppa addo' iessa, e po' a poco a poco ch' 'e chiacchere ssoie le terava 'â vocca comm' isso aveva 'sta vorza ogne matina. Isso, comm'a 'gnurante, le facette accunoscere, ca ss'aveva mangiato 'o fècato 'e 'n aucielle. 'A ronna, sentenne chesto, 'o vulette a mangià' a casa ssoja; e le dette a mangià' 'na cosa, ca le facette riverzà'[24] tutto cosa e ancora chillo tale fècato; e ss' 'o mangiava iessa. E accussì doppo ne cacciava a chillo povere riavolo 'a rinto 'â casa ssoja, e iessa aveva 'a vorza 'e cinquanta rucate 'a matina e chillo nu' cchiù. 'O pover' omme rummanette 'mmiéz' a 'na via e n'aveva propio, che mangià'. Sse ne iette rinto a 'nu vuosco e mangiava evra comm'animale.[25] Jette a dà' uocchie 'â via 'e coppa e verette 'nu pere[26] 'e fiche contra tiempo.[27] Sse ne mangiava una e l'ascette 'nu cuorno[28] 'ncape: sse ne mangiava 'n' auta e 'n auto cuorno l' ascette; sse iette a butà' e ss'addunavo ca 'e corna 'nduppavane 'nfaccia 'e frasche e decette:—«Mo' haggio fatto a 'nzalata! Sulo 'e corna 'ncapo mme mancavane e chelle mme sònghene asciute.[29] »—Steva rinto 'ô stesso vuosco[30] 'na funtana. Chisto sse iette a fà' 'na véppeta[31] r'acqua e sse sanavane'e corna. Penzava allora e decette:—«Pure hagge truvate 'nu mezzo.»—Doppe le venette 'ncape 'e sse mangià' 'nu poch' 'e 'nzalata e arreventava ciuccio.[32] Sse facette 'n'auta vèppeta r'acqua e arreventava cristiano[33] comm' era e decette:—«Hagge truvate rui mezze mo'.»—Ss' accattava 'na spasella,[34] 'a regnette[35] 'e fiche, ss' 'a mettette 'ncape e passiava pe' sotto a chillu palazzo, addò' steva 'a signora, che faceva 'o triato, alluccanne:—«Fiche 'e paraviso e contra tiempo».—Ss'affaccia chella ruffiana e le facette accattà' 'â padrona ssoja, e chill' omme ss' 'e facette pavà' 'na pezza 'o ruotele.[36] 'E mettettere fora 'a fenesta. Piglia 'o servo, sse ne mangiava roje annascuso;[37] e l'ascettere ruje cuorne 'ncape. Ss'annascunnette pe' nu' sse fa' abberè'[38] cchiù 'â signora. 'A serva pure ss' 'e mangiava; e pure l'ascettere 'e corna e sse 'nghiurette iessa pure. 'A signora 'o mieziuorno[39] chiammava 'e serve; ma chiste, nìsciuno 'a rispunneva. Piglia iessa, sse mangiava tutt' 'e fiche; e l'ascettere 'na murtitudine 'e corna 'ncape. Quanno sse n'addunaje, accummenzava a fà' aggrissa.[40] Currettere allora 'o servo e 'a serva e tutt' e treje sse verettero ch' 'e corna 'ncape. Sse 'nghiurettere 'rinto 'ô palazzo e nun ascevane cchiù. Facettere venì' assaje mièrece, ma nisciuno nc' 'e sapette sanà'. Chillu tale omme sse regne 'na buttigliella r' acqua e po' fa ricere p' 'o paese, ca era venute 'nu mièreche furastiere, ca sanava 'e corna. 'Sta signora priesto, quanto cchiù putette, ss' 'o facette chiammà'; e le recette:—«Signore mièrico, vui m'avite favurirmi si putite sanarmi queste corna, che non pozzo andà' cchiù a triatro.[41] »—«Sì»—respunnette 'o mièrico,—«i' voglio vuarirvi, ma voglio fà' primmo 'o fatto r' 'a muneta.»—«Sissignore, basta ca mmi sanate, chello, cu bulite, i' vi rongo.»—«Mm' avite a dà' cincumila rucate.»—Chella signora nc' 'e dette e isso sse pigliava chesta gran summa. Appriesso esce 'a vecchia ruffiana e dice:—«Signò', pe' carità, i' pure tengo 'e corna e boglio essere vuarita.»—«Tu»—respunnette 'o mièrico—«mm'haje 'a rà' quattuciento rucate»—e accussì sse facette. Po' ascette 'o servo, recenne ca isso pure vuleva essere sanate; e, facenne 'o patto, le recette ruiciento rucate e rummanette buono.[42] E doppe 'o mièrico sse ne jette. 'N'auta vota isso sse regne 'na spasella 'e chell' evra, ch'aveva fatto arreventà' ciuccio a isso, e 'a ieve vennenne pe' sotto 'ô purtone r' 'a signora. Chesta lesta ss' 'âccatta.[43] 'O vennetore nce ne vulette fà' mangià' 'nu poche 'nnanze a isso; e accussì chella arreventava ciuccia. Le mettette 'a capezza e strascinannela e strillanne ss' 'a purtava.[44] Into a chillo tiempe sse faceva 'nu tempio 'ngoppa a 'na muntagna e nce carriavane[45] 'e prete cu' 'e ciucce. E chill'omme iette pure isso e vuleva fà' sempe duje o tre biagge cchiù supierchi[46] 'e l'aute pe' maltrattà' 'a ciuccia ssoja. L'auti cumpagne, ca stevano là a fatecà', sse pigliavane 'e 'mbacce[47] e ghiettero a purtà' nove 'ô papa. 'O papa sse chiammava chistu giovane e l'addemmannava, pecchè berzagliava chella povera bestia. Chillo da primmo recette, ca 'o faceva pe' lucrà' cchiù denare; ma po', verenne, ca 'o papa n' 'o buleva crerere, le cuntave tutto 'o fatto e tutto chello, che l'era succiese 'a che era nate. 'O papa allora le facette accunoscere comm' isso era 'o frate e le cummannava a dà' a chella ciuccia chella tale acqua, ca 'a faceva arreventà' 'n'auta vota femmena. Accussì fuje fatto y 'e duje frati sse stettere felice e cuntente 'nzieme. E ne mannavane a chella signora 'e triate pe' chella vorza, ch'aveva sofferte tanta spaseme.

NOTE

[1] Vedi: Pitré (Op. cit) L'Arginteri —(ch'è sostanzialmente la stessa cosa. Un de' fratelli diventa Re, invece di esser fatto papa. Tutt'e due, per aver mangiato testa e fegato d'un uccello miracoloso, cacano denari. Manca l'episodio delle corna. La domestica della ganza trasformata in asina va a denunziare al fratello-Re il trasformatore).[2] N'aveva. Qui troviamo nuovamente un semplice n apostrofato per non. Abbiamo già avvertito, che questa contrazione ha talvolta luogo anche in lingua aulica. Ne' dialetti toscani se ne trovano di maggiori. Per esempio, nella commedia Un vero amore non cura interesse del Fagiuoli, si legge:—«Tu non brulli, n' ero?»—e quel n' ero è contrazione di non è vero.[3] 'Mmieze 'â via, in mezzo alla strada. Più giù s'incontrerà 'mmieze a 'na via.[4] Va a dà' 'n uocchie, va a dare un'occhiata. Più giù si vedrà: iette a dà' uocchie.[5] Auro, albero, pomiglianesismo.[6] Sarrè, pomiglianesismo per sarrà. In Pomigliano dicesi sempre mangià' e si mette in caricatura chi pronunzia magnà', dandogli del Napolitano.[7] 'Nfacce 'â mugliera, letteralmente in faccia alla moglie, ma quello 'nfacce 'â è venuto ad avere semplicemente il valore di alla. Più giù vedremo detto 'nfacce 'e frasche. Il Fasano, traducendo la stanza XLIII del Canto VII del Tasso, ha detto... e chillo grà' scennente | Dà 'nfacce a 'no pilastro. E così noteremo la formazione di parecchie preposizioni ed avverbî composti, che a mano a ma no surrogano gli antichi semplici. 'Ncopp'a o 'Ngopp'a ha così sostituito sopra. 'À via 'e coppa equivale a verso sopra, all'insù (Vedi più giù: iette a dà' uocchie 'â via 'e coppa.) 'Rinto a surroga ormai il semplice in (Vedi più giù: sse mettette a fà' 'o sacristano rinto a 'na chiesia ).[8] Farinate, polenta di granturco.[9] Criature, bambini.—«Chiagne la criatura e bo' la zizza».—Biagio Valentino.[10] Pazzià', scherzare, trastullarsi. Nel Novellino, parlandosi d'uno uomo di corte, che avea nome Saladino:—«Poi, quando piazzeggiavano, così riposando in sul mangiare,...»—Gli annotatori asseriscono, che:—«Piazzeggiare, propriamente significa passeggiar su e giù per la piazza. E, perchè questo si suol far dagli scioperati, qui vale essere scioperato».—Come si possa andare su e giù per la piazza, mentre si riposa, si meriggia, si fa la siesta dopo pranzo, veramente non so. A me pare, che debba leggersi nel testo non piazzeggiare, anzi pazzeggiare, che sarebbe la forma aulica del pazzià' vernacolo, ed allora capirei benissimo, come in Cicilia si pazzeggiasse, cioè scherzasse, celiasse, riposando dopo pranzo.[11] Farencelle, farceli. Quando, ne' nostri dialetti, al verbo vengono appiccicate due enclitiche, l'accento non rimane, come nella lingua aulica, sulla sillaba del verbo, alla quale naturalmente spetta (p. e. dàccelo, dàrcene, dàndomelo, eccetera) anzi si trasferisce sulla prima delle due enclitiche.[12] Cumbariè' vocativo di cumbariello.[13] Peccerille, bambini.—«Cossi decenno, sse mise a chiagnere, comm'a peccerella, che sse vede levare la marenna.»— Pentam. I. 5.[14] N' 'e può cambà' (letteralmente: non li puoi campare) non li puoi mantenere. Campare, attivo. Poco dopo ho scritto y 'e mannava 'â scola, (e li mandava alla scuola) scrivendo alla spagnuola la congiunzione, che qui, per eufonia, si è attenuata in un semplice i.[15] Cu' murta accuglienza, con molti riguardi.[16] Vuagliune, plurale di vuaglione. Dice Nestore appo il Capassi.

'Ntennite a mme, ca vuje site guagliune

E a mme bedite co' la varva 'janca,

E haggio visto assaie cchiù de vuie guappune.

[17] Sse n' addunarene; se n'accorsero. Il Mormile traducendo Fedro, Libro III, favola VII, scrive:

Mente correnno cchiù de 'na saetta.

Vanno 'sti duie, lo Lupo ss'addonaie,

Che lo cane lo cuollo tenea strutto,

E 'mparte 'mparte era 'nchiajato e rutto.

Ed annotta:—« Addonare, Lat. Advertere. È voce antica. Lo Scoppa, nel suo Spicilegio, spiega così il proverbio: Antyciram navigat: È pazzo e non sse n'addona lo poveriello ».—

[18] Cercula. Quercia. Vedi Lo Tasso | Napoletano | zoè | La Gierosalemme libberata | de lo sio | Torquato Tasso | Votata a llengua nosta | da | Grabiele Fasano | de sta cetate: e dda lo stesso appresentata | a lo llostrissema Nobeltà | Nnapoletana || Napole, Li 15 Abrile 1689. a la Stamparia de Jacove Raillardo, | Co llecienza de li Sopprejure, e Pprevelegio. Canto III, Stanza LXXVI.

Nè a cercole perdonano, nè a tasse,

Che mille vote avettero la zella,

E stero tuoste e saude a li sfracasse

De viente, comm'a mura de castella.

[19] 'Rucevia, crocevia, quadrivio.[20] Anduppave, andò per caso.[21] Nella XXVI delle Fiabe siciliane della Gonzenbach: Vom tapfern Königssohn, si lascia svolazzare un fazzoletto bianco dalla sommità di una torre; e quegli, sul quale si posa, impalma la figliuola del Re. E, nella LXXXV, Vom Crivoliu, l'elezione del papa accade precisamente come nel conto nostro.[22] Sse faceva 'o triato, si recitava, c'era teatro. 'A ronna, che faceva 'o triato, la prima attrice, la prima donna.[23] Ca, che; ccà, qua.[24] Reverzà', rovesciare, vomitare.[25] Evra, erba, pomiglianesismo, invece di erva, per metatesi. Mangiava evra com'animale, paragone proverbiale. Un verso, che ricorre spesso ne' canti popolari, dice:

Erva mangianne comm'a 'n animale.

[26] Pere, (piede) si chiama generalmente ogni albero fruttifero, aggiungendovi però il nome del frutto. Pere 'e fiche, fico, ficaja.[27] Contra tiempo, fuori stagione, primaticci.[28] Cuorno, plur. Cuorne e Corna. Il dittongamento svanisce in questa seconda forma del plurale.[29] Mo' hagge fatte 'a 'nzalata, ora son proprio conciato per le feste. Mme sònghene, mi sono: idiotismo, ma nato dal bisogno di trovare un'uscita, per la terza persona plurale, diversa da quella della prima singolare. Asciute, uscite.[30] Vuosco, bosco.[31] Vèppeta, bevuta (part. e sost.), da vevere; come chiòppeta, pioggia, da chiovere ( Chioppeta è anche forma participiale, per piovuta. Basile. Pentam. I. 8.—«O che mala jornata haggio fatta! che desgrazia mm'è chioppeta da lo Cielo.)»—Così pure Moppeta (part. e sost.) da movere ecc. ecc. Nel maggior numero di versioni, sono i fichi d'un'altra ficaja, che guariscon dalle corna; od i fichi bianchi della medesima ficaja, i cui fichi neri le han fatte crescere; ricordando così

.... la lancia

D'Achille, che soleva esser cagione

Prima di trista e poi di lieta mancia.

[32] Ciuccio, asino. Ciuccia, asina. Omero, appo il Capasso:

Patruocchio (
Patroclo
), ch'è figliulo obbediente

Afferrata Vrasèra (
Briseide
) pe' 'na trezza,

Chella, sibbè', no' ne volea fà' niente,

Consegnaje, comm'a ciuccia pe' capezza,

A li duje Commesarie valiente.......

[33] Arreventava cristiano comm'era, riprendeva la forma umana. Cristiano, uomo, perchè già, secondo la chiesa, gl'increduli e gl'infedeli son peggio che bestie.[34] Spasella, canestrino.[35] Regnette, empì.[36] 'Na pezza 'o ruotele, una piastra il rotolo. La moneta nominale era, nel Regno delle due Sicilie, il ducato di dieci carlini (Lire 4,25); ma la moneta d'uso era la piastra o pezza di dodici (Lire 5,10). Il Rotolo era l'unità di peso.

Inserirò qui una piccola raccolta di voci de' venditori ambulanti o di strada di Napoli, ossia di quegli intercalari, co' quali profferiscono la mercanzia loro al pubblico, tra cui ce ne ha di notevoli per umorismo e molti per gli equivoci licenziosi. Duolmi solo, che la mi riesca tanto breve e di non poter notarne in musica la intonazione.

I. a. Patane, patà'! 'O 'jancore d' 'e patane! (Patate). b. 'E patane nove, 'e patane nove! c. 'Janch' 'e patanelle, 'jà'! II. Belle sasicce! belle sasicce! ( Salsicce ). III. Castagne e noce 'janche, castagne molle d' 'o prèvete! ( Castagne e noci secche ). IV. a. Provale 'n' ata vota! provale 'n' ata vo'! ( Caldallesse.) b. Pallottole allesse! c. Palle, pallone, pallesse! V. a. Vì' che sapore hanno cacciat' 'e ceuze! ( Gelsemore ). b. Saporite, saporite! uh, che ceuze! c. Saporite 'e ceuze, saporite! d. Oh, che bello sapore! oh, che ceuze! e. Ceuze annevate! annevate 'e ceuze! VI. a. Vì', che sciort' 'e palle, vì'! ( Ciriege ). b. Corvine, Napole belle, corvine! c. Vì', che cerase, vì'! Quatt' 'e bengo! ( cioè: le vendo a quattro grana il rotolo ). d. So' tuoste cchiù d' 'a faccia d' 'e femmene! e. 'E majateche d' 'o Vòmmaro! VII. Quagliat' 'e fresche! ( Latte quagliato ). VIII. Novelline 'e carcioffole, novelline! ( Carciofi ). IX. Vruoccole, ca so' buone anca dint' ô lietto. ( Broccoli di rape. Si equivoca sul doppio senso della parola VRUOCCOLE, che significa anche CAREZZE ). X. a. Pesci vivi, pesci! ( Pesce ). b. Mo' eva p' 'o mare chisto! c. Viene, addora e po' vattenne! ( Sottintendi: Se puoi. Ricorda per concisione il Veni Vidi Vici; e per concetto il Vederla | E non amarla ell'è impossibil cosa.) XI. a. Facite merenna, 'o tarallare ( Ciambelle ). b. Vì', quanto nce l'hagge fatte 'ruosse 'o taralle 'ô signore! ( Equivoco osceno sul doppio senso della parola Tarallo ). XII. a. Ammezzarielle 'e fave! ( Fave ). b. Se Majè', te voglie fà' rompere 'o pignate ( Majè', vocativo di Majesta ). XIII. Sbreglia p' 'o saccone! ( Foglie. Glume del granturco, che s'adoperano pe' letti ). XIV. Bell'a spremmere! 'No tornese 'o limone! ( Limoni ). XV. a. Chi tene 'o marito viecchio! ( Peperoni, a' quali siattribuisce virtù afrodisiaca ). b. Triglie 'e palude! ( Triglie, perchè rossi; di palude, perchè vengono dalle così dette paludi di Napoli ).

XVI. Oh cicere e nemmicole, oh cicere! ( Ceci e lenticchie ). XVII. Sapone! sapone! ( Il cenciajuolo, che suol pagare i cenci, che gli si danno, con un tantin di sapone ). XVIII. Fumaria fresca! ( Erba, che si piglia in infusione come depurativa ). XIX. a. Mo' l'hanno cacciate! mo' l'hanno cacciate! ( Scagliuozze, cioè pane di farina di granturco a forma di mostaccioli, ossia schiacciato e romboide ). b. Caure e cuotte, caure e cuotte! XX. A tre, a quatto! 'E purtuvalle 'e Paliermo ( Arance; cioè: tre, quattro per un soldo ). XXI. 'E fravole e Sant'Antonio ( Fragole. Dice un proverbio: «Sant'Antonio 'e fravole ss' 'e piglia 'o remmonio». Perchè verso il dì di Sant'Antonio finiscono. Sant'Antonio è Sant'Antonio di Padova e Sant'Antuone è Sant'Antonio Abate. ) XXII. 'E pollanchelle 'janche! ( Spighe di granturco bollite ). XXIII. 'E lamparielle frische, comme zompeno ( Gamberi ). XXIV. 'A 'nzalatella 'e quatto lagne addorente ( Insalata mischia ). XXV. a. E' oro e non è uva chesta! ( Uva ). b. Provala 'n 'ata vota, l'uva fresca. 'A glianeche 'e Somma! XXVI. a. Trojane 'e fiche! ( Fichi ). b. Fiche 'e paravise! c. Trojane, mo' còvete! XXVII. Rafanielle confiette, si t' 'e magna no' ne ghiette. ( Radicetti ). XXVIII. a. Vecchiariè', te voglie fa rompere pure l'ossa ( Albicocche ). b. Ossa ruce! XXIX. Cetrola, cetrola! 'A mamma rorme e 'a figlia sta sola, ( Cetriuoli. Equivoco osceno sul doppio senso del vocabolo ). XXX. a. Se' Maje'! fatte 'a conserva 'e pommarole ( Pomidori ). b. Ih caruofane 'e pommidore. c. Ih, che cauzette d' 'o cardinale. XXXI. Trentadoje! ( Nocciuole infornate: se ne danno trentadue per un grano ). XXXII. a. Mustacciuole caude ( Caldarroste. I mostaccioli son propriamente una specie di dolce squisito ). b. Susamielle d' 'a Sapienza! ( I sosamelli sono un'altra specie di dolce, e quelli delle Monache della Sapienza eran celebri ). XXXIII. 'U spassatiempo! ( Semi di zucca. A Firenze gridano: Semina trastullino! in Sicilia: Svia-sonnu.). XXXIV. 'E percoche e 'e perziche d' 'a Grotta d' 'o sole! ( Pesche spicche e duracine; chè le pesche duracine si dicono da' meridionali percoche con una parola sola ). XXXV. 'Nu tornese 'o giarrone! Vi' quanta limonate! No sordo doje! 'A figliola! ( Sorbetti ). XXXVI. 'U tortanìello c' 'a 'nzogna! ( Ciambella con lasugna ). XXXVII. A eh! ooh! ( grida il ciabattino, SOLACHIANIELLE ). XXXVIII. 'E fasulille a curnicielle, fasolilli! ( Fagiolini ). XXXIX. Salate! E lupine 'e Napole, salatielle! ( Lupini ). XL. Nera, ne'! e comme so' nere! Sette turnise e novecalle! ( Melagrane ). XLI. C' 'o zuccaro da dinto! ( Poponi ). XLII. Russe, russe! Nce sta 'o fuoco 'a dinto! oppure Nce sta Sant'Antuone ( Cocomeri ). XLIII. Vene 'ô fummo, guagliò'! ( Castagne al forno. Altri più brevemente: 'O FUMMO! )

[37] Annascuso, nascosamente. Bas. Pent. II. 2—«Sentuto 'sta cosa, Nella, che spantecava pe' lo Prencepe, tentase la faccia e stravestutase tutta, annascuso de le sore, sse partette da la casa, pe' ghirelo a vedere 'nnanze la morte ssoja».—[38] Abberè', vedere.[39] Mieziuorne, mezzogiorno.[40] Fà' aggrisse, fa' ammoine, alluccà', urlare, schiamazzare. Veramente la prima espressione indica anche lo azzuffarsi. Ne Le Ffavole | de Fedro | Liberto d'Augusto | sportate 'n ottava rimma napoletana | da | Carlo Mormile || A Napole | nella Tipografia della società filomatica | 1830 (In ottavo di 311 pagg. Le due ultime, non numerate, contengono il parere del revisore e l' imprimatur. V'è premesso il ritratto dell'autore ottuagenario. I due primi libri erano stati già pubblicati nel MDCCLXXXIV) Libbro primmo, Favola XV (Lo ciuccio e lo patrone) si legge:

Ma, quanno stea a lo mmeglio, ecco sse 'ntese

Da ccà e da llà 'n aggrisso de nemmice;

(Ca 'n guerra steva attuorno lo paese,

Scapozzannose tutte comm'alice).

E l'autore annota:—« Aggrisso, da aggredior, che i latini usavano per significar l'attacco di due eserciti nemici.»—Dice il Capasso, che Apollo:

Collera sse pigliaje pe' chill'aggrisse,

Che co' chillo vecchiotto fece Atride,

Che, pe' cercà' la figlia, appe lo sfratto

E le dea 'no trasoro pe' recatto.

[41] Qui la signora si sforza di parlar pulito.[42] Rummanette buono, guarì, restò sano, risanò, rinsanichi.[43] Ss' 'âccatta, se la compra. Ho posto due apostrofi e l'accento circonflesso sulla prima a, per indicare la mancanza e l'elisione del pronome 'a (oltre la vocale del pro nome riflessivo) che sparisce lasciando allungata la iniziale del verbo seguente.[44] Per trasformazioni asinine, oltre i tanti Asini d'oro, vedi Pentamerone IV, I. Minec'Aniello aveva un anello incantato, che ne appagava ogni voto. Anello quindi poco dissimile da quello, che, nel IV dell' Italia liberata, una donzella asserisce esserle stato rubato:

Io fui figliuola già d'una gran Donna,

Signora del paese di Bitonte,

Che maritommi al Duca di Crotone

E diedemi per dote un solo anello

Di pregio extremo, e di valore immenso.

Questo avea tal virtù, che, s'io il basciava,

E poi toccava ogni qualunque cosa,

Quella si convertiva in seta, o in oro,

O in tutto quel, ch'i' aveva dentr'al pensiero.

Hor io, tornando al dolce mio terreno,

Per rivedere i miei, con questo anello,

Ch'io nol lasciava mai da me lontano,

Passai vicina ad una bella fonte,

E veduta, ch'io l'hebbi, ivi discesi,

Per bere, e l'anel presi, e lo lasciai

Volendo farmi un'ottima bevanda; ecc.

Dunque un anello incantato era stato rubato a' Menec'Aniello. Ma egli il ricupera con l'aiuto de' sorci di Pertugiocupo, e subito, con esso anello incantato inasina, inciuca, insomarisce i ladri, che glielo avevan rubato:—«Co' cchiù allegrezza, che non ha lo 'mpiso, quanno l'arriva la grazia; fece subeto deventare due asene le negromante. Sopra l'uno de li quale stiso lo ferraiuolo, sse accravaccaje comm'a 'no bello conte; e, carrecato l'autro de lardo e caso, toccaje a la vota de Pertusocupo, dove, regalato lo Re e li Conziglieri, le rengraziaje de quanto bene pe' causa loro avea receputo, preganno lo cielo, che maje mastrillo le facesse 'mpedimiento, maje Gatta le portasse dammaggio, maje arzeneco le causasse despiacere»— Tra' Conti popolari raccolti in quel d'Agen da Gianfrancesco Bladè, v'è una leggenda intorno ad un viaggio di Gesù:—«Nostro Signore, con San Piero e San Giovanni, cammina cammina, giunse alla porta d'un castello. Picchiano. Un tozzo di pane per carità, signore; per l'amor di dio e della madonna. Pater noster, qui es in coelis, sanctificetur....... = Via di qua, birboni. Non vi darò nemmeno un briciolo, poltronacci. E, se non voltate subito le spalle, sciolgo i cani. = San Pietro, disse nostro Signore, poni il basto a quest'asino. Il padrone del castello si trasformò lì per lì in un asino; e San Pietro gli mise il basto e la cavezza. Nostro Signore, con San Pietro e San Giovanni, cammina cammina, giunsero ad un piccolo molino, dov'era una donna sola. Picchiano. Un tozzo di pane, per carità, mugnaja, per l'amor di dio e della madonna. Pater noster, qui es in coelis... = Poveretti, le vostre preghiere vi frutteran poco. Posso darvi solo questo pezzetto di pane. Dividetelo. = Grazie, mugnaja, disse nostro Signore. Pel vostro pezzettino di pane vi regalo quest'asino col basto e con la cavezza. Fatelo lavorare a più non posso; e non gli date nè paglia nè fieno. Saprà trovarsi di che campare la vita da sè, lungo il ciglione delle strade e presso le siepi. Nostro Signore se n'andò con San Pietro e San Giovanni. Cammina cammina, in capo a sette anni si ritrovarono innanzi al piccolo mulino. Ripicchiano alla porta. Un tozzo di pane, per carità, mugnaja, per l'amor di dio e della madonna. Pater noster, qui es in coelis... = Con piacere, poveretti. Entrate, la zuppa è in tavola. Ecco una pagnotta per ciascuno, ed agli e sale. Scendo in cantina a spillare una botte di quel vecchio. Sett'anni fa, tre poveri, più giovani di vojaltri, passarono di qua. Per un pezzetto di pane, mi donarono un asino col basto e la cavezza, raccomandandomi di farlo lavorare a più non posso, senza dargli nè paglia nè fieno. L'ho sempre lasciato trovarsi di che campar la vita da sè lungo i ciglioni delle strade e presso le siepi. Pure aveva compassione di quella povera bestia, grazie alla quale ho accorsato il mio piccolo molino e mi sono arricchita. == Mugnaja, noi vi abbiamo regalato l'asino col basto e la cavezza, ed ora bisogna restituircelo. == Volentieri, poveretti. Nostro Signore, San Pietro e San Giovanni salirono tutt'e tre sull'asino, che li portò fino al suo castello. Un tozzo di pane, Signora, per carità, per l'amor di dio e della madonna. Pater noster.... == Volentieri, poveretti. Ecco tre pagnotte di dieci libbre l'una. Sett'anni fa, tre poveri vennero a chiedere l'elemosina alla porta di questo castello. Mio marito gl'insultò, minacciando sguinzagliare i cani. Allora uno de' tre il mutò in asino; un altro gli mise il basto e la cavezza ed il condusse via. == Riconoscereste vostro marito, signora? chiese nostro Signore.== Sì, povero, il riconoscerei. == Quand'è così, alzati e riprendi la tua forma prima. Allora l'asino s'alzò, riprese la forma umana, e la signora riconobbe il marito. Il padrone del castello morì la dimane, ma aveva fatto penitenza in terra e Nostro Signore lo accolse nel suo paradiso».—Per uno inasinamento simulato, vedi anche una Novella dell'Abate Michele Colombo, che dice averla stesa giusta la narrazione, che udita n'aveva in mezzo ad una brigata d'Amici ed il soggetto esserne stato trattato eziandio da uno scrittore francese e da un altro Italiano:—«Gianni, andato per legna in un bosco, ne lascia il suo asino fuori legato ad un albero. Due romiti, passando quivi vicino, lo veggono: uno di essi lo scioglie, ci lega sè stesso, e manda il compagno suo al romitorio col somiere di Gianni. Questi, uscito dal bosco, trova il romito in luogo dell'asino: lo mena a casa e 'l trattien seco a cena e ad albergo. Alquanti dì dopo, ito al mercato, s'imbatte nell'asino suo; e, credutolo il romito, lo compera e lo fa vivere più morbidamente, che non si conviene ad asino. La bestia insolentisce, prevarica, scandalezza Gianni, e impenitente si muore».—Confronta con la graziosissima Novella in sesta rima di Lorenzo Pignotti, intitolata Il ricco e l'asino, ch'è il Pignotti appunto lo scrittore Italiano, di cui parla il Colombo ed il Piron il francese. Vedi pure Pitré (Op. cit.) Lu Capaciotu.

Nella commedia del Fagiuoli, intitolata Il sordo fatto sentir per forza, due ragazzi, Celio (con due panieri di erba al collo) e Laura (con una mazza), giuocano all'ortolano.

Laura. Chi vuol l'ortolano? al cavolo, all'insalata; raddicchin di poggio; bietola, prezzemolo, nipitella; fior di borrana, di ramerino, salvia larga, arrò! ( gli dà una mazzata ).

Celio. Oi, tira piano, sai.

Laura. Ma ricordati, che ora io son l'ortolano e tu se' l'asino.

Celio. I' sono anche tuo fratello e tu non se' ortolano.

Laura. Ma ora, che noi ci balocchiamo, tu fai da asino, e io fo da ortolano.

Celio. 'N ogni modo dà più piano; che, se io fo da asino da burla, io non son davvero: e così tu anche non hai a far davvero.

Laura. O via, i' ho 'nteso. Chi vuol l'ortolano? Insalata minuta, cavol bastardo, cavol novellino; lattuga romana, broccoli, spinaci, citriuoli, petonciani; ramolacci della Font'all'erta, barbe di bietola, bar batella. ( Celio passeggia ). Tru, toe ( Celio tira innanzi a passeggiare ). Tru, toe, ti dico ( Gli dà un'altra mazzata ).

Celio. I' ho gusto che tu tiri a tirare; tu mi fai male, sai.

Laura. Se tu non ti fermi.

Celio. Se tu non me lo dii.

Laura. Quand'io dico: tru, toe; allora tu t'hai a fermare. E quand'io dico arrò, arri là; allora tu hai a andare, se tu vuoi far da asino per bene... Tu avrai pur sentuto Tonio quando so' pa' lo mandava coll'asino a vendere l'ortaggio pelle vie; tu avrai pur sentuto a Firenze e non che lui gli altri ortolani.

Celio. I' gli arò sentuti, ma' i' non ci arò abbiadato.

Laura. O badaci. Daccapo. Ortolano! Cavol bianco, cavol nero, cavol bastardo; insalata minuta, radicchin di poggio, arrò!

Celio non si muove.

Laura. Arrò.

Celio sta forte.

Laura. Arrò, arri là; i' ho 'nteso ( Gli dà una mazzata ).

Celio. Oi, oi! Laura, i 'mi disasinerò, veh! e ti darò de' musoni poi io da ultimo.

Laura. Sta cheto, tu guasti il giuoco. Gli asini non parlano, nè l'altre bestie, se non la notte di Befana. A voler far l'asino bene, tu hai a ragghiare, quando tu vogghia dir qualcosa, come fanno loro. Che non gli hai mai sentuto ragghiare? Di maggio e' non fann'altro pure.

Celio. T' hai ragione, ghi è vero; sicchè, quando tu dirai arrò, io ho a star fermo?

Laura. Noe, tu hai a ire.

Celio. E quando tu dirai tru to?

Laura. Tu t' hai a fermare.

Celio. E s'i' scambio?

Laura. Allora, perchè tu intenda, si ridice da capo; e ci và una bastonata.

Celio. O ch' è d'obbligo?

Laura. Certo, a voler, che tu intenda da ultimo.

Celio. E, s'io vorrò dire i fatti mia, che non ho a dir le parole com' i' dich' ora?

Laura. Noe; tu hai a ragghiare.

Celio. So io?

Laura. Pròvati! tu n'arai sentuti tanti, che, se tu hai un po' di cervello, t'avresti a avere imparato.

Celio, contraffà l'asino quando ragghia. Ah ah ah, ah ah ah.

Laura. Uh tu ragghi male; tu potresti ben ragghiare con un po' più garbo.

[45] Carriavano (propriamente carreggiavano) portavano.[46] Cchiù supierchî, l'aggiunta del cchiù è idiotismo, che dà forza.[47] Sse pigliavane 'e 'mbacce, s'immischiavano in affari, che a loro punto non appartenevano. Il Basile, nel Pentam. II. 1, parlando degli amori del Principe con Petrosinella:—«sse n'addonaje 'na commare de l' Orca, la quale, pigliannose lo 'mpaccio de lo Russo, voze mettere lo musso a la merda, ecc.».—Ma la frase pigliarese lo 'mpaccio de lo Russo, non è punto napolitana, anzi solo una traduzione letterale della fiorentina: Prendersi gl' impicci del Rosso.

III. bis. LA COA.[1] ( Variante raccolta in Milano )

Ona volta gh' era on fioeu del Re. Gh' era ona volta on Re, ch' el gh' aveva on fioeu, che el vegneva giò de cera[2] tutt i dì. Allora lu, el gh'ha faa vegnì tanti dottor per visitall; e, dopo avè provaa tanti rimedi, gh' han suggerìi de fagh cambià l' aria. Allora, el pader, el gh' ha daa tanti danee; e poeu, el gh' ha ditt:—«Te daroo ona memoria[3] de gran importanza. Questa l'è ona borsa, che, tutt i volt, che te rugaree denter, te vegnerà foeura tanti danee, come te ghe n' hè de bisogn[4].»—Lu, l' è andaa. L'ha giraa vari citaa; e poeu infin l' è capitaa in d' on sit, dove, andand a spass, l' ha vist su on poggioeu[5] ona bellissima tosa. Allora, lu, el se innamora de botta[6] e cerca de fass presentà. Lee, l' era incantada di gran ricchezz, che gh' aveva sto giovin; e ghe sariss minga dispiasuu de sposall. Intrettant, parland, la gh' ha tiràa foeura el segret de la borsa; e coi bej e coi bonn[7] se l' è fada portà con la scusa de almen vedella. Apenna che l' ha avuda in di ong, è saltàa foeura d' ona stanza visinna di servitor con di baston in man; e l' han casciàa foeura de casa in men de quella.[8] Sto pover diavol, pestaa, senza on ghell,[9] l'è restaa in mezz a la strada. Non restandegh pu nient de fa, dopo avè venduu tutt quell, ch'el gh' aveva, l' ha finìi a tornà a cà. El Re, so pader, foeura de la grazia de dio[10] de sentì, ch' el gh' aveva pu la borsa, la famosa borsa, el l' ha portàa de pes[11]: ma, dopo, l' ha finìi col perdonagh. Ma el pover gioven tutt i dì el diventava magher e smort; e, per la seconda volta, han cominciàa a avegh pagura, ch' el moriss; e i dottor, per la seconda volta, gh' han consigliàa on viagg. On bel dì, so pader, el le ciama in studi. El ghe dis:—«Sent, bisogna propi, che ancamò te vaghet via; perchè i dottor disen, che la toa salud l' è andada. Sent, mi gh' hoo on tabarr, ch' el gh' ha on merit straordinari. Tutt i volt, che ti te ghe l' avret in su i spall, second el to desideri, la toa volontàa, te se trovaret in qualunque sit. Per esempi, te voeuret vess a Paris? Mett su el tabarr e dis: Vuj vess a Paris! E ti te se trovaret a Paris. Te voeuret vess a Mosca? Mett su ancamò el tabarr e dis: Vuj vess a Mosca! E ti te se trovaret a Mosca.[12] »—El Prencip, commoss de la bontàa de so pader, el giura, che mai nissun ghe le toeujrà giò di spall; e lì, el va via. Gira e rigira per tutt el mond, ma el so coeur l'ha finii a menall ancamò in quella tal citàa, dove gh' era quella bella tosa. Per on poo de dì, passand sott al poggioeu, el ghe faseva el muson[13]; ma, dopo, l'ha finii col cercà ancamò de fass presentà e l' è tornàa. Dopo on quaj dì, per fass bell in faccia a sta tosa, l'ha minga poduu fa a men, de digh de la virtù del so tabarr. Sta donna, con milla stori, con milla smorfi, l'ha indott a fagh vedè el tabarr. Per on poo, lu l' ha tegnuu dur; ma dopo, on bel dì, ghe l' ha portàa lì; lu, ghe l' ha portaa in casa. Apenna lee l' ha avuu in man, l'ha mettuu su i spall e la gh' ha ditt:—«Vuj vess in America!»—e sto pover diavol l' è restaa lì, con tanto de nas. Veramente lu, el voreva pu tornà a casa. Ma, quand hin staa finìi i danèe, o per forza o per amor, gh' è toccàa a toeu su el duu de copp[14] e tornà da so pader. El l' ha trovà foeura de la grazia de dio, appenna l' ha sentìi, ch' el gh' aveva pu el tabarr; e l' ha tegnuu el muson per on gran pezz. Ma, vedend la salud del so fioeu andà in malora tutt i dì e al punto, che l' era ridott come un candirin,[15] l'ha interrogaa anmò i dottor; e, per la terza volta, gh'han ditt, che, se el fioeu nol viaggiava, el moriva. Già l' amor de pader l' è senza confin! e l' ha ciamàa per la terza volta e el gh'ha ditt:—«Sent! mi gh' aveva do raritaa unich a sto mond: el borsin, che t' hoo daa, e el tabarr. Men resta on altra, ma l' è l'ultima. Guarda ben de vegnimm pu davanti, se te vegnet a cà senza. Ciappa sta trombetta. Tutt i volt, ten ben a ment, che te trovaret in ona qualunque circostanza d' avegh bisogn d' on ajutt, sonela: e, in men de quella, te gh' avret davanti tant soldaa, che te voreret ti.»—Come l' è natural, el fioeu l'ha faa milla protest e milla ringraziament; e, cont ona gran borsa de danee in saccoccia, l' ha tolt su e l' è andaa. La prima robba, che l' ha faa, l'è staa de giurà de andà pu in quella citaa; e l'ha tegnuu dur per on gran pezz. Ma la curiositaa de vedella ancamò ona volta, l' ha faa sì, che, dopo poch pu d' un mes, el passeggiava sott al poggioeu de quella bella donna. Apenna lee l' ha vist, la gh' ha faa milla cer e milla salut; ma lu, l' è staa seri: per on poo, l' è staa seri. Finalment, com' el doveva succed naturalment, el gh' è tornaa. Lee, la mett in opera tutt i seduzion, per vedè de innamorall anmò come ona volta; e la gh' è reussida; e la gh'è reussida al punt, de fass portà là quella famosa trombetta. Verament, lu, el voreva minga lassaghela in di màn; ma lee, l' è stada tant maliziosa, che in sul poggioeu on bel dì ghe l'ha tolta foeura di man, l' ha messa a la bocca e l' ha sonaa. È soltàa foeura di tutt i contraa ona fila de soldaa pront a eseguì i orden de quella tal, ch' aveva sonaa; perchè, dovii savè, che i soldaa obediven domà a quel tal, che sonava. Lee, alora, la s' è missa a vosà:—«Cascè foeura de cà mia e de la citàa sto omm chì!»—E in men, che nol se dis, l'è stada obedida. Come l'è restaa sto pover Prencip, vel lassi pensà a vialter: scherzàa,[16] senza danèe, senza trombetta, podend pu tornà a cà, in d' unna parola, l'era desperàa. L'ha giràa per on poo de dì, savend gnanca lu quel, ch'el faseva; mangiand la frutta, ch' el trovava in di campagn. E ona mattinna, passand via d' ona vigna, l' ha vist ona bellissima pianta de figh.[17] La famm, che l' era deventada la soa compagna indivisibil, l' ha casciaa in de sto loeugh; e lì, el s' è miss a mangià sti figh. L'era on poo de temp, ch' el ne mangiava, quand, tutt a on tratt, movendes, el se accorg de ona robba, che ghe dondava de dree.[18] El se volta; e el ved, che l' è ona immensa coa,[19] che gh'era cressuu. Lu, el resta lì spaventaa de sta robba; e in principi el capiss minga; ma doppo, pensandegh su ben, el capiss, ch' eren i figh. Di fatti ne mangia on alter (de figh) e la cova la cress quatter dida.[20] Sto pover diavol el ven giò stremii de la pianta, tirandes adree sta cova pelosa come quella d' on ratt. Ma, siccome el ghe aveva anmò famm, l' è andaa su quella pianta visinna; e subet, de principi, el se accorg, che de meneman, ch'el mandava giò vun de quij figh là, la cova la diminuiva. Come l' è natural, el n' ha mangiàa fin a quand ghe n'ha avuu pu. La maraviglia de sta robba la gh' ha faa pensà su; e el gh' è vegnuu ona bellissima idea. L'è vegnu foeura del loeugh; e el primm pajsan, che l' ha trovaa, el gh' ha inzebii[21] de cambià i vestii. El pajsan l' è staa contenton e el gh'ha daa on cavagnoeu[22], ch' el Prencip el gh'aveva cercaa. Vestii de pajsan el Prencip, sto giovin, el s'è sporcaa on poo la faccia e i man; e poeu, l'è andaa a impienì el cavegnoeu di pusee bej figh, che gh' era su la pianta, che faseva vegnì la coa. E l' è andaa in citaa, propi davant de la cà de quella sciora, a vosà:—«O i bej figh! o i bej figh![23] »—Lee, che ghe piaseven immensament, la manda i servitor a comprann; e a disnà n' ha faa ona spansciada.[24] La leva su del scagn,[25] e, tutta stremida, la se sent ona robba, la se sent de dree ona robba in mezz a i vestii. La vosa, compar la donzèlla[26], e lì se ved st' immensa cova longa cinq brazza, pelosa, pelosa, che la vegnèva foeura del vestii on gran tocch. Sta sciora, l'ha voruu deventà matta; l' ha piangiuu, la s' è desperada, ma finalment l'ha mandaa a toeu i dottor. L' ha mandaa in tutt el mond in cerca di pusee bravi: ma tutti gh' han ditt, che no gh' era remedi. Alora, el Prencip, che l' era semper staa sconduu in d' ona cassinna foeura de citàa, ona bella mattinna l' ha ciappàa on scatolin, e lì el gh' ha faa su di pinol[27] con quj taj figh, che faseven andà via la cova. E, siccome gh'eva cressuu la barba, nissun le cognosseva. El s'è presentàa al palazz; e l' ha ditt, che lu, el gh' aveva el remedi per fà andà via la cova. In principi nissun ghe voreva cred; ma la sciora, che l' avea provà tutt i remedi, l' ha voruu provà anca quell lì. E difatti la prima pinola, che lu el gh' ha daa, s'è vist, a vista d' occ, scurtass la cova d'on bel dida, d'on bel dida scurtass la cova. Ve lassi immaginà la consolazion de la sciora! la gh' ha ditt, che tutt quel, ch'el voreva, lee la gh' avriss daa, s' el ghe faseva andà via tutta la cova. Lu a poch a poch, fasendeghela andà via, el gh' ha tiràa via el so tabarr, la soa borsa, la soa trombetta. E on dì, che lee ghe n' aveva ancamò on para de dida, l'è andàa là cont el so tabarr in spalla, la trombetta al coll e la soa borsa in saccoccia. El gh' ha ditt:—«Mi sont quel tal Prencip, che ti t' hê ingannaa. Per fa, che ti te podet ingannà con la toa bellezza pu nissun, te lassi ancamò quij duu dida de cova».—E dicend inscì, siccome el gh' aveva in spalla el tabarr, l' ha ditt:—«Vuj vess a casa mia!»—E là, l' ha trovaa so pader, ch' el l' ha brasciàa su de la consolazion.

NOTE

[1] I riscontri a questa Novella possono dividersi in tre serie diverse. Nella PRIMA SERIE, il possessore di oggetti incantati li perde per l'astuzia d'una donna e poi li riacquista mediante frutta, delle quali una specie produce un difetto corporale, che vien guarito dall'altra. Nella SECONDA SERIE, manca questa ultima parte ed il possessore riacquista gli oggetti, od impedendo la principessa di frodarlo al giuoco o facendosene amare. Nella TERZA SERIE finalmente, due oggetti incantati vengono frodati per sostituzione dagli ospiti e riacquistati mediante il terzo, che suol' essere un bastone, il quale batte comandato senza remissione. Alla PRIMA SERIE di riscontri appartengono:—I.— Gesta Romanorum, il capitolo CXX (dove i fichi fanno diventar lebbroso).—II.— La vurza, lu firriolu, e lu cornu 'nfatatu ( Pitrè. Op. cit.) Tre fratelli trovano sotto tre mattoni della soglia della casa paterna, che il padre s'era riserbati nel venderla, una borsa denaripara, un ferrajuolo invisibilifico ed un corno, che suscita eserciti. Il maggiore si fa rubare tutt'e tre le cose da una Reginotta; cui poi vende de' fichi, che fan venir le corna, e da cui se le fa restituire, per guarirla.—III.— Von dem Schäfer, der die Koenigstochter zum Lachen brachte ( Gonzenbach. Op. cit.) Un pastorello trova sul margine d'una fontana uno anello, che fa sternutire senza fine, chi l'ha alla destra. Delibera servirsene per ottenere la Reginotta promessa in isposa a chi la farà ridere. Pernottando sur un albero, sente un colloquio di ladri; e poi ruba loro un tovagliuolo, una borsa ed un fischietto incantato. Ponendo lo anello sternutatorio al dito del Re, fa ridere la Principessa; ma il Re sdegnato il manda in carcere, dove poi, mantenendo egli allegra la brigata de' prigioni co' tre oggetti incantati, questi gli vengon fatti rapire dal Re. Evade. Scopre una ficaja con fichi bianchi e neri: i primi fanno passar le corna prodotte da' secondi. Ne vende alla Principessa, che, afflitta, disperata, fuor di sè, per farsi guarire dalle escrescenze gli restituisce anello, tovagliuolo, borsa e fischietto. Così riacquista le sue quattro coserelle ed ottiene poi la Reginotta in moglie.—Alla SECONDA SERIE di riscontri, appartengono:—I.— Il figliuolo del Pecorajo ( Imbriani. Novellaja Fiorentina ).—II.— Petru lu Massariotu ( Pitrè. Op. cit.)—Alla TERZA SERIE di riscontri finalmente spettano:—I.— Lo cunto de l' Uerco ( Basile. Pentamerone ).—«Antuono de Marigliano, ped essere l' arcenfanfano de li catammare, cacciato da la mamma, sse mese a li servizie de 'n' Uerco, da lo quale, volenno vedere la casa ssoja, è regalato cchiù bote; e sempre sse fa corrivare da 'no tavernaro. All' utemo le da' 'na mazza, la quale castiga la 'gnoranzia ssoja, fa pagare la penetenzia all'Oste de la furbaria et arrecchisce la casa ssoja.»— II.— Il Racconto dell' Orca (nel già citato Conto de' Conti,) che sarà bene riprodur qui per intero.—«Ebbero gran ragione i Filosofi antichi di chiamar cieca la Fortuna, poichè le sue operazioni son regolate alla cieca, ne, se crediamo all'esperienza, v'è cosa più mutabile della Fortuna istessa, stantechè il più delle volte si compiace d'innalzare in alto e sublime grado le genti dappoco e di niun valore; ed all'incontro deprime in basso stato ed abbietto il fiore degli uomini, come vi farò sentire. Eravi nella Città di Biserta una donna dabbene, chiamata Drusilla, la quale, oltre a sei figlie femmine, avea un figlio maschio, tanto sciocco e scimonito, che la povera madre perciò ne stava scontentissima. Nè v'era giorno, che non l'avvertiva, ora correggendolo dolcemente, ed ora al dolce delle correzioni vi mescolava l'asprezza dell'invettive, ed anche, se v'era di bisogno, delle bastonate. Con tutto ciò, non furono queste cose bastanti a far sì, che Rodomonte si fosse riavuto dalla sua dappocaggine. Per la qual cosa, vedendo Drusilla non esservi speranza, che suo figlio ravveduto si fosse della sua sciocchezza, (quasichè il difetto di natura stato fosse in lui cagionato per colpa sua) un giorno fra gli altri con un bastone lo battè di maniera, che poco vi mancò a non romperle tutte le ossa. Rodomonte, che videsi così mal concio, per isfuggire dalle mani della sdegnata sua madre, si partì dalla casa. E tanto camminò, sinchè un giorno, sul tramontar del Sole, arrivò ad una montagna così erta, che nascondeva le sue cime tra le nuvole. Giuntovi sopra a gran fatica, vide vicino ad alcuni alberi di pioppo una grotta, nella cui bocca vi stava seduta una orribile Orca, che avrebbe spaventata ogni persona, che l'avesse veduta. Ma Rodomonte, che, come s'è detto, era sciocchissimo, senza prendersi timore, salutando l'Orca, le disse: Addio Signora, che si fa? come la passate in salute? comandate niente? Quanto v' è da questo al luogo, dove debbo andare. L'Orca, che intese questo discorso, che non avea connessione alcuna, si pose a ridere; e, perchè le piacque l'umore di Rodomonte, le disse: Vuoi stare a padrone? E Rodomonte replicò, Quanto mi dai al mese? E l'Orca ritornò a dire: Attendi a servire onoratamente, che sarà la tua fortuna. Così concluso, Rodomonte restò a servire l'Orca, la quale talmente lo ben trattava, che Rodomonte, nello spazio di due anni, stiede felicissimamente, ed allegramente. Ma dopo questo tempo, venuto in fastidio de'ben trattamenti dell'Orca, le venne desiderio di rivedere la sua madre e le sorelle; e, pensando alla casa sua, stava afflitto, e malinconico. L'Orca, che conobbe subito il pensiero di Rodomonte, chiamollo da parte, e le disse: Rodomonte mio, io sò, ch'hai una grande ardenza di veder la casa tua; perciò, volendoti bene, quanto le viscere mie, mi contento di darti gusto, purchè ritorni subito. Pigliati adunque quest'Asinello, che servirà per alleviarti la fatica del viaggio. Ma stà attento a non dirli mai: Arre cacaure; chè te ne pentirai. Rodomonte presosi l'Asino, senza licenziarsi, salitovi sopra, si pose a correr di trotto; ma non avea dato ancora cento passi, che, smontato dall'Asino, incomincia a dire: Arre cacaure. Appena disse queste parole, che l'Asino incominciò a cacare perle, rubini, smeraldi, zaffiri e diamanti più grossi d'una noce l'uno. Rodomonte, in vedere tante pietre preziose, per l'allegrezza non credendo appieno se era vero o no, ciò che avea veduto, prese un panno, e dentro ve le avvolse, e ritornò a cavalcare. E, toccando di buon passo, giunse ad una Osteria, dove smontato, la prima cosa, che disse all'Oste, fu: Te', lega quest'Asino alla mangiatoia, e dagli bene a mangiare. Ma avverti a non dire: Arre cacaure; perchè te ne pentirai. E conservami queste coselline in parte sicura. L'Oste, che era malizioso, avendo inteso di botto questa proposta di Rodomonte, e vedute le gioie, che molto valevano, venne in curiosità di vedere, che significavano queste parole. Perciò, dato un buon desinare a Rodomonte, e fattolo bere ben bene, lo lasciò in un profondissimo sonno. Dopo di che, andando frettolosamente alla stalla, disse all'Asino: Arre cacaure. Il quale, in virtù di dette parole, fece la solita operazione, con evacuare tante gemme e pietre preziose, che non è possibile divisarlo. Vedutosi dall'Oste questa preziosa evacuazione, fe pensiero di cambiare l'Asino, e d'ingannare la sciocchezza di Rodomonte. Per la qual cosa, svegliatosi Rodomonte la mattina a buon'ora, chiamando l'Oste, le pagò ciò, che dovea; e, pigliatosi l'Asino cambiato, col sacchetto pieno di pietre, in vece delle gioie, che riposte vi avea dentro, s'incamminò frettolosamente verso Biserta. E, prima di metter piede in casa, incominciò a gridare: Corri, Madre mia cara; corri, che ti voglio arricchire. Spandi in terra una gran tovaglia, che vedrai tesori. La Madre con allegrezza grande, aperta una cassa, cavò fuori molti lenzuoli, spandendoli in terra. Sopra de'quali postovi l'Asino, principiò a gridare: Arre cacaure. Ma che arre cacaure! che l'Asino punto da tali parole non si moveva. Tuttavia replicando Rodomonte tre e quattro volte l'istesse parole, e vedendo, ch'erano gettate al vento, prese un bastone; e tanto lo battè, che il povero Asino, non potendo resistere al dolore delle bastonate, incominciò talmente a cacare, che imbrattò tutti quelli bianchi lenzuoli di maniera, che appestò tutta la casa. La povera Drusilla, che pensava di arricchire la sua povertà, in vedere così imbrattati quei panni, che altri non avea, ed in sentire tanto puzzore, diè di piglio ad un bastone; e tanto lo battè, che appena Rodomonte poteasi muovere. Per la qual cosa, riavutosi Rodomonte dal dolore delle bastonate, ritornò di nuovo all'Orca, che, vedendolo venire e sapendo ciò, che l'era accaduto (perchè era affatata), le fece un'acre riprensione, chiamandolo poltrone, semplice e sciocco, per aversi fatto ingannare da un Oste. Tanto che Rodomonte giurò di mai più lasciarsi burlar da persona vivente. Ma non passò un altro anno, che le venne lo stesso desiderio di vedere le genti di casa sua. L'Orca, ch'era brutta di faccia e bella di cuore, dandoli licenza, le regalò un tovagliolo, e le disse: Porta questo a tua Madre; e, finchè non giungi a tua casa, non dire: Apriti e serrati, tovagliolo. Perchè se t'accade qualch'altra disgrazia, il danno è tuo; ora va col buon anno e torna presto. Partitosi Rodomonte dall'Orca e poco lungi essendo, pose il tovagliolo a terra, ed in dire: Apriti, tovagliolo; (cosa mirabile a vedersi) uscirono da quello tante galanterie, ch'è incredibile a divisarlo quanto erano di gran prezzo e valore. La qual cosa vedutasi da Rodomonte, disse: Serrati, tovagliolo; e, serratavi dentro ogni cosa, s'incaminò verso la medesima Osteria. Nella quale entrando, disse all'Oste: Conservami questo tovagliolo. Ma avverti a non dire: Apriti, e serrati, tovagliolo. L'Oste, ch'era maliziosissimo, disse: non dubitare. E datogli ben bene a mangiare ed a bere, lo mandò a dormire. E pigliato egli stesso il tovagliolo, disse: Apriti, tovagliolo! E 'l tovagliolo cacciò fuora tante cose di prezzo, che fu uno stupore a vedersi. Per la qual cosa, ritrovato un altro tovagliolo, simile a quello, lo cambiò; ed essendosi risvegliato Rodomonte, ce lo consegnò. Ed indi a poco di là partitosi, arrivò a casa sua; e, nel giungere che ivi fece, disse alla Madre: Ora sì, che daremo un calcio alla miseria. E, ponendo a terra il tovagliolo, incominciò a dire: Apriti, tovagliolo. Ma perchè era stato cambiato, vi perdeva il tempo: onde, sdegnandosi contro dell'Oste, giurò, che l'avrebbe fatto pentire del suo inganno; e, senza dir altro, partendosi di nuovo dalla casa, si portò dall'Orca. La quale, riprendendolo più acremente dell'altra volta, le fece a poco a poco conoscere, che, per essere stato così sciocco e così facile a palesare il secreto, avesse perduto una e due volte la Fortuna. Venuto Rodomonte in qualche maniera in sè, seguitò a servire l'Orca, senza più pensare alla casa sua. Ma, dopo tre altri anni, le venne l'istessa voglia di prima, perciò chiese licenza all'Orca, che, per togliersi quella continua vessazione, ce la concedè. Prima di partirsi, le diede una mazza ben lavorata, che l'avesse conservata per sua memoria, ma che si fosse guardato dal dire: Auzate, mazza; e: Corcate, mazza. Rodomonte partissi di nuovo verso la casa; ma non fu lungi di là un mezzo miglio, che disse: Auzate, mazza. Non fu parola questa, ma arte d'incanto; perchè subito la mazza incominciò a lavorare d'intorno alle spalle del misero Rodomonte, tanto che le bastonate piovevano a cielo aperto, e l'una non aspettava l'altra. Il povero Uomo, non sapendo cosa l'era succeduta, disse subito: Corcate, mazza; e la mazza in un istante si fermò, ne più andò in giro. Per la qual cosa imparando a sue spese Rodomonte, si portò frettolosamente alla solita Osteria, ove fu ricevuto con maggiore accoglienza delle altre volte. Onde Rodomonte, in arrivare, disse all'Oste: Conservami questo bastone. Ma non dire: Auzate, mazza; perchè te ne pentirai. L'Oste, tutto allegro di questa terza venuta, dopo averlo fatto ben bene mangiare e bere, lo lasciò dormire; e, prendendo la mazza, con chiamar la moglie a questa festa, disse: Auzate, mazza. La quale incominciò di maniera a battere l'Oste, che, non sapendo cosa l'era succeduto, gridava misericordia. Onde, svegliatosi al romore Rodomonte, e veduto l'uccello dentro la pania, disse. Non v'è rimedio! tu morirai, se non mi restituisci tutte le robe mie. L'Oste, che si vedeva a mal partito, principiò a gridare: Pigliati quanto posseggo, purchè mi liberi da tale incontro; e, per maggiormente assicurare Rodomonte, fè venire tutto ciò, che rubato l'avea. Del quale impadronitosi Rodomonte, con dire e: Corcate mazza, lo liberò da tanta vessazione. Per la qual cosa, pigliandosi l'Asino, il Tovagliolo e la Mazza, ritornossene a casa. E facendo ivi dell'uno e dell'altro esperienza, sollevò la casa poverissima, con maritare le sorelle, e con lasciar ricca la Madre, facendo avverare il motto: che a' Pazzi ed a' Fanciulli dio l'ajuta ».—III.— La fola dl' Om Salvadg (nella Chiaqlira dla Banzola succitata.—IV.— Lu scarpareddu mortu di fami; ( Pitré. Op. cit.)—V.— La Munachedda (Ibid.).—VI.— Zaubergerte, Goldesel, Knüppelchen schlagt zu ( Gonzenbach. Op. cit)—VII.— Ari, Ari, cagadanari ( Bernoni. Fiabe e Novelle popolari Veneziane)— VIII.— Bastoncrocchia ( De Gubernatis. Le Novelline di Santo Stefano). Riproduciamo per esteso quest'ultima versione:—«Un padre aveva tre figliuoli. Va il primo di essi a cercar fortuna e trova per via un vecchio: gli era Gesù in persona, che gli si fa compagno. Ma, vedendo di non avere nessun lieto incontro, si perde d'animo e vuol tornare a casa. Allora Gesù gli regala un tavolino a tre piedi, cui basta dire: parecchiati, ed ei si parecchia di ogni grazia di dio. Arriva il nostro giovine all'osteria e dalla contentezza non si tiene, ch'ei non iscopra il segreto, ch'egli ha. La notte, il tavolino gli viene scambiato dall'oste. Ei torna a casa e si vanta a' fratelli del miracolo, ch'egli ha portato con sè; ma, alla prova, gli convien pigliarsi con pace la berta, che i fratelli gli danno. Parte, alla volta sua, anche il secondo de' fratelli. Ed ancor esso incontra il vecchio Gesù, che gli si accompagna. Non trovando tuttavia da far fortuna con Gesù, dice il giovine, ch'ei vuol tornare a casa. E Gesù gli regala una pecora marcia, che ha virtù di versare, per le parte deretane, luigi d'oro. Ma, arrivato alla stessa osteria, ove il maggior fratello era capitato, il malaccorto si lascia scappare il prodigioso animale, ch'ei porta con sè. E, la notte, la pecora marcia gli vien scambiata. Ei torna a casa ed è burlato ancor lui, mentre s'attendeva esser portato in trionfo. Parte il minor fratello e trova anch'esso Gesù; e si accompagnano insieme. Ma viene il tempo, in cui il giovine vuole andarsene, perch'ei non trova a far fortuna. E gli lascia per ricordo un bastone, cui basta dire: Baston crocchia, ed ei si mette a bastonare per ogni verso; e: Resta, perch'ei cessi dalle bastonature. Per via ei ne vuole far la prova con tre ricchi signori. E la prova gli riesce così bene, che i tre signori, pur ch'ei comandi al bastone di cessare, gli lasciano quanto essi hanno. Arrivato all'osteria medesima, ov'erano capitati i suoi due fratelli, ei dice al bastone: Baston, crocchia. E il bastone a bastonare senza pietà e misericordia l'oste ed i suoi. Nè cesserebbe, se l'oste non s'affrettasse a rendere il tavolino a tre piedi, che si parecchia da sè, e la pecora marcia, che ha quella certa virtù, che abbiamo detta di sopra. E il giovine ritorna a casa pieno di ricchezza e di contento».—il De Gubernatis annota, in altra versione empolese soggiungersi:—«che, col bastone, il giovine uccise tutti i parenti, fu padrone di tutto, fece un bel castello, diventò un gran principe e sposò una bella principessa. L'eroe ( sic ) di questa stessa novellina è chiamato nella tradizione piemontese, Giovannino senza paura e senza rimprocci. Ma, invece della pecora marcia, vi si trova l' asino; invece di Gesù, vi si trova il diavolo ».—La sola prima parte della fiaba (e guasta) si ritrova in Die Geschichte von Ciccu ( Gonzenbach. Op. cit.).[2] Vegnì giò de cera, manca nel Vocabolario Milanese Italiano di Francesco Cherubini, dove però si trova Vess giò de cera, che significa aver mala cera, essere sparuto.[3] Memoria, ricordo, pegno, dono.[4] Nell' Adone del cavalier Marino (Canto XII, stanze CCLXX-CCLXXII,) l'Idonea promette in nome della Falsirena al protagonista il dono d'una moneta,

Che, sempre, a chi la spende, indietro riede.

Se la spendessi mille volte il giorno,

Mille volte in tua man farà ritorno.

Una sua borsa ancor vo', ch'abbi appresso,

La cui virtù meravigliosa è molto

Dentro vi cresce ognor ciò, che v'è messo,

E rende al doppio più, che non n'è tolto.

Vedrai, se l'apri, tosto da sè stesso

Moltiplicarsi quel, che v'è raccolto:

Se poi vota la lassi e d'oro scarca,

Ve ne ritrovi almen sempre una marca.

La lucertola avrai da le due code,

Perchè, giocando, a guadagnar ti serva, ec.

Tra le Novelle morali del Chierico Regolare Somasco Francesco Soave, ce n'è una intitolata Alimek o la Felicità, Novella Araba, il cui protagonista possiede una borsa, ch'è piena d'oro, qualora egli vuole.

[5] Poggioeu, terrazzino, balcone di sollazzo (da podium, podiolum?) da non confondersi con l'italiano poggiolo, che vale balaustrata, spalletta. Si noti che Donna de poggioeu, viene detto in mala parte; chè già lo star tutto il dì sulle finestre o su' terrazzini non sembra essere il distintivo delle donnine ammodo.[6] De botta, manca nel Cherubini.[7] Coi bej e coi bonn, tanto fece che.[8] Oppure: in manch de quella, in men ch'io nol dico. Nel Meneghin sott' ai franzes, deplorando la rapina delle chiese, dice l'autore:

No serv el piansg, no gh'è nè lu ne lee;

E in manch de quella s' è veduu spojàa

Altar e sacrestii, e fin pelaa

On' altra voeulta San Bartolamee.

Alludendo alla statua di San Bartolommeo scorticato, ch'è nel duomo milanese e sotto alla quale si legge: Non me Praxiteles sed Marcus finxit Agrates. Dichiarazione per lo meno superflua, giacchè nessun uomo al mondo, senza rendersi immortale per un tanto alto d'insipienza, potrebbe prender per opera greca quel marmo lì.

[9] Pestàa, zombato, battuto, pesto. Ghell, quattrinello.[10] Andà foeura de la grazia de dio, dar nelle furie. Nel curioso libretto intitolato: Peregrinazione | nella Liguria e nel Piemonte | o | Lettere | scritte di là | dal | Dott. D..i G......i | al | Dott. N....i G......o || Codogno | Dalla Tipografia di Luigi Cairo | 1830; è usata la frase andare fuori della grazia di dio e vien giustificata con la nota seguente:—«L'espressione andar fuori della grazia di dio equivale, in alcuni luoghi di Lombardia, al montar sulle furie; e l'autore, scrivendo questa lettera, contento di essere inteso, non si prese la pena di assicurarsi, se era una espressione da crusca o da farina di semola ».—Qui in Pomigliano d'Arco dicono: piglià' 'na scigna (prendere una scimmia!)[11] Portà de pes, manca nel Cherubini, dove è però levà de pes, fare una canata.[12] In Alimek, novella del Soave, il protagonista ha un anello, che il trasporta tostamente dovunque gli è in grado. L'anello di Gige e quello di Angelica sono diventati proverbiali.[13] Ghe faseva el muson, le teneva il broncio.[14] Toeu su el duu de copp, partirsi, levarla. Nel Meneghin sott' ai franzes:

L' è prest ditt:
Toeu el duu de copp
,

Marcia, corr, mena i polpett;

Ma on maslrans' c, che va a pè zopp,

Senz' avegh gnanca on mulett,

Nè on cavall, nè on brucc in stalla,

In sto cas, com' ha de falla?

Dicesi od almeno dicevasi anche semplicemente Toeu el duu. (Vedi Nova, e curiosa | Bosinaa | intitolada | Viva i Sgrazitt | cont i Sgrazon || In Pavia, per li Fratelli Porri in Piazza | Grande. Con Licenza de' Superiori:

Dopò mangiàa e ben bevuu,

Sti Sgrazon han tolt el duu,

E da par mì là sont restaa,

Che l' ost da mi voeus ess pagàa).

Per Bosinaa o meglio Bosinada, s'intende una storia, o composizione in versi vernacoli milanesi, da Bosin che sarebber gli uomini, che le andavano cantando o recitando per le vie, i rapsodi.

[15] Candirin, candeluzza, candeletta.[16] Scherzàa, burlato.[17] Pianta de figh, ficaja, fico (l'albero) che del resto si dice anche figh e fighee, e fighera. Ma fighera è propriamente quel fico, il quale, da un grosso ceppo terragnuolo, manda fuori molti e larghissimi bracciuoli. È così detto per distinguerlo dall'albero da fico a pedale alto, il quale chiamano semplicemente figh. Intorno a' fichi sarebbe da vedere l'opera curiosa, che non ho potuto procacciarmi, di G. F. Angelita: I pomi d'oro, dove si contengono due lettioni de'fichi l'una e de' melloni l'altra. Aggiuntavi una lettione delle lumache (in quarto, Ricanati, MDCVII) la quale mi si afferma trattar non solo della fichicoltura e della mellonicultura, anzi pure di antichità, proverbi, eccetera.[18] Dondà e dondinà, dondolare. Nella Noeuva Bosinaa d'on contrast tra la patrona e la serva. (In Milano, per li fratelli Bolzani, con licenza de' Superiori, 1717) dice la padrona alla serva pigra:

E te ve dree dondand par cà

Fin che ven vora de disnà.

[19] Coa o Cova, coda.[20] Dida lo stesso che did, dita.[21] Inzebì o insebì, (trovasi nel Supplimento al Vocabolario del Cherubini) esibire.[22] Cavagnoeu, canestrello, canestruolo.[23] Non posso, come pur bramerei, dare un elenco delle voci, che usano adesso i venditori ambulanti di Milano; ma posso bensì riprodurre una storia popolare dal secolo scorso ( In Milano per Carlo Bolzani. Con licenza de' Superiori ) nella quale son registrate le principali di allora. Miglioro alquanto l'ortografia scorretta del raro originale:

NOEUVA BOSINAA,

Che de present l'è sta stampàa

Sopra tugg quang i mestèe

Che va sbragiand (
gridando
) per i contràa:

Sciò mo
,
Donn
,
chilò
(qui)
comprèe
.

L'è dedicàa sta Bosinàa

A quij Donn, ch'hin intrigàa

D'avè el coeur inscia ignà

Par proved alla sova cà.

Voeui parlàa de tugg sti art;

E ogn'un per la sova part,

Che va sbragiand per tutt i port,

Che voeur quest
,
che voeur quest'olt
,

Conforma ogn'un nel so mestee

Sciò mo
,
Donn
, c
hilò comprèe
.

I.
O Squel e Bochàa
!

Sciò mo, Donn, chilò crompèe

Chì, dal vost solet squellèe,

Buon pugnatt e buon baslott,

Bei stuvin (
pignatto
) e padelott,

Tacin, olitt e di bochàa.

G'hoodi vas anch perforàa

E di basla da pissà,

Piatt e tond da mangià;

G'hoo del tutt del me mestèe,

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

II.
Conscia Lavesc e Padella
!

O Donn, l'è chì el Colderèe,

Che el forla l'hoo chì adrèe,

E anch la bolgia e l'usedell.

Consci lechard e di sedell,

Di caldar e caldarin.

G'hoo la tenaia, el stachettin,

E di chiaf e saradur,

De varij sort so figur.

Tutt i voeult no me trovèe,

Sciò mo, Donn, chilò comprè.

III.
O strinch e bindell
!

De foeura, Donn, che hin arivàa'.

Vej daròo a buon marcaa.

Strinch da corda e da bindell

Ghe n'hoo de seda e firisell,

Per i Masc e Gentilomm.

Ghe n'hoo de ricch e poveromm,

De bindell largh e stregg,

De color ghe n'hoo paregg.

Vegnì donqua coi danèe;

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

IV.
Bella tira cambraia
!

Che voeur la tira da fa scosàa

Gh'hoo di bei pizz par i colàa,

Gh'è bella robba par colitt.

Che voeur rens da fa i panitt,

Per camis e per fodretta

Lavorin, reff e tarnetta,

Bella Cambraia e bei batizz!

D'ogna sort mi gh'hoo de pizz.

I bei boton a hin poeu i mè,

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

V.
Peten e Coron e Ogiàa
!

Scià che voeur crompà i ogiàa,

D'ogna sort mi n'hoo portàa

E per tegnì i cavij nett.

Gh'è pechian e pechianett,

E cortij e tamperin.

Al gh'è di spegg e coronin,

Gh'hoo crosett e di medaj,

Di granad e di coraj,

Spaza-oregg, sef diletèe.

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

VI.
O cribbi e boffitt
!

Al gh'è nissun, che voeur comprà

On cribbi da fà passà

O la sciendra, o'l sabion,

E drovall fin che l'è buon?

Gh'hoo sedazz e di boffitt,

De grand e piscinitt;

Gh'hoo trapar da chiapà ratt.

Se vorì anch faroo baratt

Sont pur anch mi on somenzee

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

VII.
Zofreghitt, e stopin, che al veder rott
.

O Donn de sora, vegnì de sott;

Portèe sciò el veder rott,

Se vorì prei d'azzalin,

Zofreghitt o del stopin,

Di gugitt e di gugion,

Di stringhitt e di stringhon.

Gh'hoo la lisca in d'on borsin,

Vej daroo par ses quattrin,

A sti prezij mai ghe rivèe!

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

VIII.
Fer e strasc
!

O Donn, l'è chì el strascèe

Vegnì sciò, chiapèe danee,

Portèe sciò i strasc e i pezz

Scià savì coss'è el so prezz,

Tant di bianch, come di negher.

Vegnì via pur alegher!

A ben che sian on poo brutt

Toeuj sciavatt e ferr del tutt,

Sont par vend anch de l'asee.

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

IX.
Jo fus e rocch
!

Al fa bisogn de rocch e fus

Peston e pirotta per so us,

Oss de pizz e pevarin,

Rocheton, spinn e spinin,

Sarvioeu, busser e bicocch,

Di basloeu (
ciotoletta
) par i pitocch,

Cazzoeu (
mestole
), ruzell (
carrucole
), tacin de brenta,

Di canell per la polenta?

Gh'hoo vertegg (
bandelle
) e candiree;

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

X.
O Zun
!

O Donn, l'è chì el sciavattin.

Hi da bisogn on quaj fodrin?

Gh'hoo el spagh gross e ben impesaa;

Mett sciò el sacch e son seraa

Sont de voeuja da lavoraa

El coeuri ghe l'hoo fin da sorà.

Se non porii poeu incalzalla

Gh'hoo ona forma da slargalla.

Per fa a pianin sont del mestee;

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

XI.
Mora cortij e fores
.

Car i me Donn, l'è chi el moletta.

Vorii, che mora la foresetta,

Cortij, schisora e tamperin?

Vegnì con folg o segurin,

Trinchitt, scopij e rasò,

Quel, chi bisogn, portèe pur sciò,

Che hoo la moeura martelàa

Sarii servii in veritàa

Droeuf la schienna e i man e i pè.

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

XII.
O pomm o pomm
!

Che voeur pomm e che voeur per?

Hin cattaa nomà l'oltrèr.

Pomm ravas e pomm popin,

Ona livra tri quattrin;

Pomm verdes e bergamott;

Se i vorii roeus nol fa nagott.

Gh'hoo pravisan e frascon;

Ma se i vorii mangiaj buon,

Toeuij di apij o santè.

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

XIII.
Mascarpina grossa e butter
!

O Donn, l'è chì la bergamina;

Vorii comprà la mia mascarpina?

Gh'hoo butter e di robioeur,

Di mascarp di quij scur;

Se vorii anch del strachin.

Gh'hoo mascarpon de quij fin

Tastell on poo, s'el ve pias.

Ne guadagn nient asquas;

Al cost vel do in feda dè.

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

XIV.
Iermesc, Scigoll e Laij
!

Che voeur spinasc e meregord?

Se i vorii, ghe voeur on sold.

Insalata e pampinella,

Zucorrin e erba stella.

Erborin e erb amar,

De sti temp hin on poo car.

Che voeur rav, che voeur navon,

Verz, seler e cardon,

Mirisciao, scigoll assee?

Sciò mo, Donn, chilò comprè.

XV.
Polaster, polaster
!

Che voeur polaster, che voeur capon,

Di polin grass e buon?

Se vorii poeu fa carnevàa

Gajin, puvion a buon marcàa,

Passar, dord, merla, franguij

Lodar, quaij e garganij,

Gilardìn e anedott,

Crian di voeult: l'è chì i gasciott,

Senza andà in su el Verzee.

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

XVI.
A pess, a pess
!

Sti recaton, che vend el pess,

Di voeult saraa e di voeult fresch,

Tenchet, agon e perseghitt,

Cavezaij, fusc e gambaritt,

E da quaresma renghitt, rengott,

Saracch, che spuza, nol fa nagott!

E i mostardee se fan sentii:

La par giust merda, che foo mi,

Però da quella de sti fescièe

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

XVII.
Fioritt, fioritt
!

O tosann, che fa l'amor,

Sciò, se vorii comprà di fior,

Giacint, narcis e campanitt,

Di bizzar, malgaretitt,

Trombon e toripan,

Roeus, garofor mantovan,

Di ceder e gessumin,

Vetuperos vegnan al fin,

E no foo olter mestee,

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

XVIII.
Cardeghai
!

Portee sciò, Donn, i cardeghett,

S'hin da conscià gh'hoo i bacchett,

E la lisca da liscaij

Vej consciaroo senza travaij

Se vorii noeuf, mi n'hoo portaa

De fort e bell da sta asettaa,

De grangg, pinit, de meza tacca,

Fin de fioeu da fa la cacca.

Dee guadagn al cardeghee

Sciò mo, Donn, chilò comprèe.

XIX.
Botton da fazzolett
!

Che voeur botton par i panitt?

Hin firaa come i passaritt,

E poeu, gh'è on' altra invenzion,

Al va a voeulta ciert toson

Cont di scatar sott alla cappa

E sì che san menà la tappa.

Che voeur di carton bej

E di rizz par i cavej

Gh'è nissun, che m' da danee?

Sciò mo, Donn, chilò comprèe!

XX.
O spazzacamin
!

Fornimm on poo con sti latin,

Gh'è schieppalegn, spazzacamin,

Teng brutt come el peccaa

E sbragian su par i contraa.

Canester o zaina e incoster fin,

O lagg, e poeu quell di scovin,

Che cria stoeurij, sprella, sprella!

On c.... che i sbudella

Portee in voeulta anch'i miee

Sciò mo, Donn, chilò comprèe!

Schieppalegn, spaccalegna, o schiappazocco. (Come è detto in Le piacevoli | et ridicolose | facetie | di M. Poncino | dalla Torre Cremonese. | Di novo ristampate | con l'aggionta d'alcune altre, che nella prima | impressione mancavano. | In Venetia, M. DC. XXVIII. Apresso Gerardo, et Iseppo Lamberti. Facezia II:—«Quivi M. Poncino condusse uno schiappazocco gagliardo et membruto; et gli diede denari, perchè troncasse et fendesse il trave.»—).

[24] Spansciada, spanciata, scorpacciata.[25] Scagn, seggiola, sedia (corrisponde etimologicamente allo scanno italiano).[26] Donzella, cameriera.[27] Pinola, pillola.

III. ter. A' REGGENELLA[1] ( Variante raccolta in Pomigliano d'Arco )

'Na vota nce steva 'nu padre. Teneva tre figli. 'E mannava a scavà' 'e grammegne[2]. 'E duje primme fatecavane; l' urteme poche ne vuleva 'ncuorpe, e 'o padre cchiù poche mangià' le reve. 'Nu juorne chisto jette a terà' 'na ceppa 'e 'rammegna: nun 'a puteva terà'. Tira e tira, esce 'na vorza.—«Mo' jamme buone! Hagge 'a verè' 'sta vorza 'e che è capace 'e fà'!»—Rice:—«Vorza, fa tu!»—'A vorza cacciave tanta renare. Piglia isso, tutto allegro, iette addò 'o padre.—«'Sti poche 'rammegne hê fatte?»—«I' nu' n'hagge potute fà'. So' ghiute pe' terà' 'na ceppa e hagge terate 'sta vorza, ca mme ra renare; e mo' mme ne voglie ì'».—«No, mo' t'haje sta ccà».—«No: mme n'hagge 'a ì'».—E sse n'iette. Arrevave a 'na città, trasette rinto a 'na cantina; truvave 'a figlia r' 'o Re, 'a Reggenella, che steva iucanne e binceve a tutte quante. Isso sse nce vulette mettere a ghiucà' e perdette 'nu sacch' 'e renare. Comme feneva chille, che teneva 'mmane, sse votave vicino 'â vorza:—«Vorza, fa tu!»—e aveva tanta renare. 'A Reggenella sse n' addunave. Ammente chillo penzava a ghiucà' e teneva 'a vorza 'ngoppa 'ô renucchie, essa nce 'a sceppava[3] e sse ne fujette. Chillo le currette appriesso:—«Ramme 'a vorza! ramme 'a vorza!»—Ma iessa sse ne scappava.—«Papà, Papà! chisto mme vo' vattere».—'O Re ascette 'a fora:—«Mettìte carcerate a chisso!»—E chillu puverielle p'aggiunte 'e ruotele, avette ì' pure carcerate. 'Ncape 'e tiempe fuje cacciate. Jette 'n'ata vota addò 'o padre:—«Ta', mme vulite rà' a mangià'?»—«Tantu tiempe addò' si' state?»—«Ta', accussì accussì. 'A Reggenella mm'ha 'rrubbate 'a vorza».—'O padre 'o rètte a mangià' e 'o mannave a fà' pure 'e grammegne fora. Chisto iette. Terava terava 'na ceppa e chella manche vuleva venì'. Tira tira, nc'esce 'a sotto, 'nu cuorne.—«E verimme 'sto cuorne, che sape fà'!»—Ss' 'o mettette 'mmocca, vuttave 'o fiate e ascette 'na truppe 'e surdate; terave, 'e surdate sse ne trasettere.[4] —«Mo', jamme buone!»—Jètte addò 'o padre.—«Tante poche 'rammegne hê fatte?»—«Tà', ì' nu' poteva terà' 'na ceppa; ma po' tanta fatica hagge fatte 'nfino ch' aggio terato e nc'è asciuto 'stu cuorne; e mo' mme n'hagge 'a ì'.»—«Vire, ca se tuorne 'n' ata vota ccà, ì' nun te ronche cchiù a mangià'.»—Chisto sse n'iette; arrivave a chella città, truvave pure 'a Reggenella iuchanne. Rice:—«Vulite iucà' cu' mme?»—«Sine.»—Sse mettettere a ghiucà', e chella vencette. Sse vutave isso:—«I'nun tenghe renare pe' te pavà'; ma te voglio fa verè' 'na cosa».—Cacciave 'o cuorne; ss' 'o mettette 'mmocca e ascettere 'e surdate. Terave 'o sciato: 'e surdate sse ne trasettere. Recette 'a Reggenella.—«Voglio fà' ì pure».—Ss' 'o mettette 'mmocca, cacciave 'e surdate; e po' ss' 'e turnave a terà'[5] e sse ne fujette cu' tutto 'o cuorne. Chisto le currette appriesso. Quanno fuje addò 'o padre.—«Papà, papà, chisto mme vo' vattere».—Piglia 'o Re, 'o facette afferrà' e 'o facette mettere carcerate; 'o facette sta treie, quatte iuorne e 'o cacciave. Chisto sse n' iette addò 'o padre 'n'ata vota.—«Ta', mme vulite rà' a mangià'?»—Recette 'o padre:—«Addò' si' state fino a mo?»—Rice:—«Mm' è succieso accussì accussì; 'a Reggenella mm'ha luvate 'o cuorne».—«Vattenne 'a ro' si' benute».—«Ta', i' fatiche».—«E statte».—'O mannave a fatecà'. Chisto 'n'ata vota iette a terà' 'na ceppa 'e 'rammegna: terave 'nu cappotte. Ss' 'o mettette 'ncuolle e nu' nze vereva cchiù; ss' 'o luvave e sse vereva. Sse piglia 'ô cappotte e sse ne fuje 'n'ata vota a chella città. Truvave 'a Reggenella rinto a chella stessa cantina, ca pure steva juchenne. Sse nce mettette a ghiucà' e pure perdette. Rice:—«I' manche tenghe renare pe' ve pavà', ma mo' ve facce abberè' 'na cosa».—Cacciave 'ô cappotte; ss' 'o mettette 'ncuolle, e 'a Reggenella nun 'o vereva cchiù. Rice:—«'O voglio verè', 'o voglio verè'!»—Ss' 'o pigliave 'mmane; ss' 'o mettette 'ncuolle e sse ne fujette[6]. Chillo nun 'a verette cchiù, sse ne turnava a ghì'. Venimmoncenne mo' 'â Reggenella. Carette malate; steva pe' murì'. Mannavene chiammenne 'nu prèvete p' 'a fà' cunfessà. 'O sapette chill'omme; sse vestette 'a prèvete e 'a jette a cumbessà'. Quanno fuje all'urtemo le spiava:—«Tu avisse arrubbate cocche vote caccosa?»—«Gnernò!»—«Ricordatelle buone, 'a malatia t'âvesse fatte scurdà'?»—«Mo' mme ricordo: 'na vota a 'n omme l'arrubbaje 'na vorza, 'nu cuorne e 'nu cappotte».—«Embè', rancelle».—«Vene ccà e nce 'o donche».—«Rammelle a mme, ca nce 'o porte i'».—Chesta nce 'o dette. Isso sse pigliava tutte cosa e sse ne fujette. 'A matina appriesso, ievano trovanne chillu prèvete, ca serveva 'n'ata vota, e nun 'o putettere arrivà' a truvà'. Chiammavene 'n ato. E chillo sse n'era fiuto[7] cu' tutt'e tre 'e cose ssoje. Cucherecù! Ssi 'o vuò' cchiù bello t' 'o rice tu.

NOTE

[1] È una lezione, che appartiene alla SECONDA SERIE delle varianti, indicate nella prima Nota alla versione milanese precedente (Ved. pag. 88). Reggenella, vale a dire figliuola del Re, Principessa Ereditaria; in Siciliano Regginotta.[2] Grammegna, 'rammegna, gramigna. Niccolò Lombardi, nella Ciucceide, ne ricava spiritosamente l'etimologia di Gragnano, dove pone la Reggia de' Ciuchi.

Sott'a 'na gran montagna de la
Costa
,

Da la banna de
Napole
, è 'no monte,

Che poco da
Sorriento
sse descosta

E la
Torre
co'
Buosco
le sta' 'nfronte;

Bello, che pare propio fatto apposta

Pe' marchise, pe' princepe e pe' cuonte;

Detto, da la grammegna, Grammegnano;

Po' sse corroppe e sse chiammò
Gragnano
.

Racconta il Domenichi, che—«Don Bernardin Velasco, il quale fu.... Gran Contestabile di Spagna, persona molto nobile et galante, era grandemente innamorato d'una donzella della Reina, et, secondo il costume di Spagna, af fezionatamente la serviva. Et perchè egli le voleva tutto il suo bene, diceva: che non le mancava nulla a farla perfettamente bella, se non che ella avesse un poco più carne; perciocchè ella era magretta, anzi che no, come ordinariamente sono le fanciulle. Questa fanciulla, come s'usa in corte, avea donata una impresa di color verde al suo innamorato Velasco, confortandolo in quel modo a sperar bene del suo amore, acciò che egli vestisse la sua famiglia di quel colore. Comparendo dunque il Velasco et avendo vestito tutti gli staffieri et servidori suoi di verde, se gli fece incontra Consalvo; et lodando quella nuova livrea, disse: Voi l'avete inteso benissimo, Signor Velasco; perciocchè con cotesto verde ingrasserà ella tosto. Burlando in questo modo la sua innamorata magra, et pigliando l'acutezza del motto dalla pastura delle mule. Perchè gli spagnuoli chiamano verde la gramigna fresca et la brocca, che essi danno di primavera alle mule per farle ingrassare. [Il motto parve bellissimo et vivo a tutti i galantuomini di quella corte]».—

[3] Sceppà', scippà'; graffiare, sgraffiare; strappare; rubare. Il Padre Casalicchio ha tentato di aulicizzar la parola:—«Scippare continuamente i canuti capelli di mezzo ai negri (IV. 3. IV.)»—[4] Trasì', entrare. Basile:

Non ghire summo summo,

Non ghire scorza scorza,

Ma spercia e trase dinto;

Ca chi non pesca 'nfunno

È 'no bello catammaro a 'sto munno.

[5] Che potenza di polmoni! Ricorda le millanterie di Orlando, nel Ciapo Tutore del Fagiuoli:—«Non v'era pure una nave... Ne veddi alcune da lungi, che avevan già fatto vela. Io mi posi sul lido, e con veemenza grande, tirando a me il fiato addietro, a dispetto de' venti contrarii, feci retrocedere una di quelle navi maggiori; dove subito entrato, mi condussi prosperamente a Livorno».—[6] Aveva dunque ragione il Galba, ricordato dal Domenichi:—«Essendo pregato Galba da un suo amico, che gli volesse prestare il suo tabarro, piacevolmente rispondendo gli disse: Se non piove, tu non n'hai bisogno; se piove, io l'adopererò. Arguto, ma non già cortese quanto fu M. Marin de' Ciceri, Raguseo, il quale prestò il suo tabarro a un galantuomo, ancora che sapesse, che gliel voleva truffare».—[7] Fiuto, fuggito.

III. quater. LU CUNTO RI TRE FRATI ( Variante della Novella precedente ). ( Raccolta in Bagnoli Irpino[1], nel P. U. )

'Na vota ng' erano tre frati, e non tinievano arte; e ssi ierono a fà' surdati. Roppo furnuto lu tiempo ri fà' li surdati,[2] ssi ni minierano[3] a re case, e pi' via scontarono[4] dui viecchi, che ssi vattievano; e l'addummannarono:—«Che avite?»—Risponniero:—«Avimo trovata 'na borza cacarinari, e nun ssi la vole sparte'[5] »—Risponniero quiddi:—«Mo' rammilla a mme;[6] mo' ve la sparto io».—Sse la pigliavo e ssi ni fuivo. Arrivare cchiù 'nnanzi e truvarono 'n ati[7] dui viecchi; pure accussì ssi vattievano, e pure l'addummannarono:—«Che avite, chi vi vattite?»—«Avimo truvato 'nu cuorno, ca, quanno lu suoni, che vuoi, hai; e nun ssi lu vole sparte'».—«Mo!»—risserò quilli tre—«mo vi lo spartimmo nui.[8] »—Ssi lu pigliarono e sse ne fujerono. Lu primo frate volivo mannà' l'ammasciata[9] a la figlia ri lu Re; e saglivo 'ngoppa a lu palazzo pe' combinà'. Quanto una vota risse a la borza:—«Caca rinari!»—e biristi 'na massa ri rinari! Po' ss' affacciavo a lu barcone e sunavo lo cuorno e biristi tanta surdati! Lu Re risse:—«Sine sine, subito vi voglio fà' sposa'».—La figlia re lu Re ss'ancappavo[10] la borza e lu cuorno 'mmano. Quanno po' ivo l'annammurato pe' sposà', lu menavo pe' re grata.[11] Quisto qua, tutto 'ncazzato[12], ssi ni scenne; e penzava, come avia fà', pe' ssi piglià' la borza e lu cuorno. Roppo picca[13] tiempo, la figlia ri lu Re carivo[14] malata; quisto[15] ssi vistivo da mieruco[16] e ivo dà. L' attantavo lu puzo[17] e risse a li servituri:—«Portatemi 'nu bicchiero r' acqua e 'na fedda ri pane».—Ngi la purtarono. Pigliavo la fedda ri pane e la facivo a moddiche[18] e la mittivo into a lu bicchiere. Risse a la figlia ri lu Re:—«Rimmi tutti li piccati tui».—E ngi ri disse. Po' comme ri ricia 'nu piccato, 'ccussì ssi ni saglìa 'na moddica. All' urdimo nge ierano rimaste roe moddiche:—«Ca tieni 'n ati dui piccati».—La figlia ri lu Re nu' li sapia; ma quiddo li risse:—«Io haggio saputo, ca tu ra 'nu surdato t'hai pigliato 'na borza cacarinari e...»—E, tramente ricia e, la figlia ri lu Re disse:—«lu cuorno pure!»—Rispose quiddo:—«Chiavatillo 'nculo!»—Ss'ancappavo la borza e lu cuorno e ssi ni ivo.

NOTE

[1] Bagnoli Irpino, che dovrebbe più grammaticalmente chiamarsi o Bagnoli Irpina oppure Bagnoli-Irpini, patria di Giulio Acciani, che vi nacque il XIX ottobre MDCLI e vi morì verso il MDCLXXXI. Le sue Rime sono tuttora inedite nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Fra esse vi è una Caputeide nel dialetto Napoletano letterario, la quale incomincia:

Io già leiette co' 'na gran prejezza

Chella lettera toja, Cecca mmia bella,

Co' tanta 'sfazione ed allegrezza,

Ch' io stisso non capea drinto a la pella;

Ca te vuoje maretare a la vecchiezza

Mo' che restata se'sola solella.

E decive, ch' avive resoluto,

De te volè' piglià' Ciccio Caputo;

E cod isso affittà' 'n alloggiamento

E stare a spasso, commo a Carlo 'n Franza,

E scompì', senz'affanno e senza stiento,

'Sso riesto de la vita, che t'avanza.

Ca chiavarete drinto a 'no commiento

Non t' è paruto troppo bona stanza,

Quanno sse pote, co' 'no matremmonio,

Fare 'no chiantaruolo a lo demmonio.

Ma che primmo volive sapè' commo,

E quale e quanto e tutto lo costrutto,

Filo pe' filo ogne cosa de 'st'ommo;

S'è giovane, s'è becchio, o bello o brutto;

S'isso è billano o s'isso è gentelommo;

S'isso è ricco de frisole o s'è strutto;

Azzò, che quanno po' si' maretata,

Non t'asce 'nchiana terra e annegrecata ecc.

Vi è pure un suo sonetto in vernacolo: A lo cappotto de lo Signore Domineco Ronchi-Ruonco.

Micco mmio d'oro, lo cappotto russo,

Che tu 'mprestaste p'otto iuorne a tata,

Ss'è fatto 'janco; e no' mme fà' lo musso,

Se la 'nforra porzì sse n'è lovata;

Perchè l'appise, mente steva 'nfusso

'Mponta a 'no chiuovo; e dove stea 'ppeccata,

'N un attemo ss'asciaje tutta stracciata,

Che manco potte dicere:
Gesusso!

Tu mo' non fà' la cera, che facette,

Quanno zampolejaie lo mostacciuolo,

Chella, che cose duce maje non dette.

Ma, co' 'na bella streuma de Spagnuolo,

Mente la 'nforra a mitto sse ne jette

Contentate d'avè' lo ferrajuolo.

[2] Roppo furnuto lo tiempo ri fà' li surdate, finita la ferma.[3] Minievano, venìvano. Ssi ni minievano a re case tornavano a casa, rimpatriavano.[4] Scontarono, incontrarono.[5] Sparte', dividere. 'No nce ha, che nce sparte, letteralmente:—«non ci ha che dividere»—ossia—«non ci ha, che fare; non c'entra.»—Questo episodio può sembrare allegorico, quasi rappresenti i guai della comproprietà: i due o più comproprietarî a lungo andare vengono a litigare e la roba loro arricchisce i causidici.[6] Rammilla a me, dammela a me. Reduplicazione del complemento pronominale, per maggior energia; frequentissimo. Veramente qui dovrebbe esservi il plurale, perchè erano tre i fratelli. Ma la novellaja pensa a quel solo, che parlava.[7] 'N ati dui, letteralmente: un altri due. Curioso uso dello articolo indeterminato al plurale, frequentissimo ne' dialetti.[8] Mo! mo vi lo spartimmo nui. Il primo mo vale: dà qua, porgi; il secondo: adesso.[9] Ammasciata; domanda di matrimonio. Mandar l' imbasciata, richiedere in matrimonio; Tizia ha avuto l' imbasciata, è stata richiesta.[10] Ancappavo, acchiappò, afferrò, ghermì.[11] Lu menavo pe' re grata, lo precipitò per le scale, gli fece ruzzolare la gradinata.[12] 'Ncazzato, sdegnato, incollerito.—«Inviperito, inserpentito, indragonato»—come dice il Fagiuoli. Fuori della grazia di dio, direbbero i Lombardi. Vedi pag. 99.[13] Carivo, cadde. Carivo malata. S'ammalò. Dice un canto popolare di Bagnoli:

Bella figliola, co' 'sso puzzo cupo,

Da molto tempo non l'hai annettato.

L'acqua, che sta dentro, è de peruto;

Chi ssi la beve, care malato.

Io, meschino, nc'era intrevenuto,

A bevere quest'acqua tribolata.

Si della fede fosse 'ncecaluto,

Manco dinto a 'ssu puzzo calo 'sto cato.

[14] Questo, cioè lo innamorato incazzato.[15] Mièruco, medico, fisico; o come volgarmente si dice il dottore, il professore, che dottore e professore si adoperano assolutamente per colui, il quale esercita medicina. Qual miracolo? se i tedeschi han fatto da artista il loro Arzt (medico).[16] L'attantavo lu puzo, le toccò il polso.[17] Fedda, fetta; feddà', affettare.[18] Facivo a moddiche, sbriciolò.

IV. PETRUSENELLA[1] ( Versione raccolta in Pomigliano d'Arco ).

'Na vota nce steva 'na mamma, e chesta ogne matina ieva rinto 'ô ciardino 'e l'Uorco pe' sse fà' 'e petrusine.[2] L'Uorco sse n'addunava; e, pe' berè chi era, quanno fuie 'a notte, nce mettette a guardà' 'nu ciuccio: ammeno, quanno fosse iuto chella femmena, isso avesse alluccate. Ma chella ronna fui cchiù fina, pecchè, sapenne chesto, 'a matina appriesso sse purtava 'nu fascio d' evra, 'o menava[3] 'nnanze ô ciuccio, e sse facette 'e petrusine. L'Uorco iette a berè' 'a matina e truvava 'e petrusine fatte. Ne luvava 'ô ciuccio e nce mettette 'o cane.[4] 'A femmena 'a matina appriesso sse purtava 'nu piezzo 'e pane; 'o dette 'nnanze 'ô cane; e, ammente[5] chisto ss' 'o mangiava, iessa sse cugliette 'e petrusine. L'autu juorno[6] l'Uorco nu' putette cchiù. Primma nce mettette 'na crapa e po' isso stesso sse mettette sottaterra, cu' 'n'aurecchia 'a fora. Chella femmena, niente sapenne 'e tutto chesso, pinzava sulamente a purtà' l'evra 'â crapa e cu' tutta lebertà cuglieva 'e petrusine. Verette chell' aurecchia e sse mettette alluccà':—«Uh che bella ceppa 'e funge![7] »—Jette a tirà' e ascette l'Uorco, ca le recette:—«Mo' me te mangio, mo'[8].»—Jessa 'o priava, ca nu' ss' 'a 'vesse mangiata; e all'urdemo le prummettette 'e le fà' spusà' 'na figlia r' 'a ssoja.[9] Comme 'nfatte chella femmina facette 'na figlia; e 'a mettette nomme Petrusenella; e 'a mannava a scola. L'Uorco 'nu juorno 'a scuntrava e le recette:—«Vuè, dì a màmmeta, ca non sse scurdasse de chella 'mmasciata.»—'A peccerella nce 'o decette: ma 'a mamma non sse n'incaricava. Doppo tantu tiempo, l'Uorco parlava 'n'auta vota c' 'a vuagliozzola:[10] —«Vuè, dì a mammeta, ca non sse scurdasse de chella 'mmasciata.»—Chesta'o decette 'â mamma; e a mamma respunnette:—«'N'auta vota, ca t' 'o rice, tu rince, ca addò' 'a vere ss' 'a piglia.»—Doppo tantu tiempo, l' Uorco parlava 'n' ata vota c' 'a vuagliozzola:—«Vuè, dì a màmmeta, ca non sse scurdasse 'e chella 'mmasciata.»—Respunnette a' figliola:—«Jessa rice, ca addò' 'a veri t' 'a piglie.»—Piglia l'Uorco sentenne chesto, ss' 'a pigliava e 'e purtava 'ngoppa addò isso, addò' teneva 'na cambra[11] senza scala; e 'a matina, quanno aveva saglì', da vascio sse metteva alluccà':—«Petrusenella, acali li trezze, ca papà sse ne vò' saglì'.»—Petrusenella calava 'e trezza, e l'Uorco sse ne saglieva; e sempe accussì sse faceva.[12] 'Na vota 'o figlio d' 'o Re 'a verette e le spiava si sse ne vuleva fuì' cu' isso. Petrusenella respunnette ca no, pecchè, si faceva chesto, l'Uorco ss' 'a mangiava. Ma 'o figlio d' 'o Re dice:—«No, nui nce ne fuimmo annascuso.»—Basta, ienne e sciavuriglienne[13], Petrusenella sse ne fuiette cu' 'o figlio d' 'o Re. Quanno venette l' Uorco, chiammava Petrusenella, chesta n' 'o respunneva. Piglia l' Uorco sse mettette a correre pe' nce ì' 'appriesso; ma, currenne, carette rint' a 'nu puzzo. E accussì 'o figlio d' 'o Re sse spusava Petrusenella felice e cuntente e tucoliate[14] e nuie nce trovammo ccà assettate.

NOTE

[1] —I.—Confronta col primo trattenimento della seconda giornata del Pentamerone:—«'Na femmena prena sse magna lo petrosine de l'uorto de 'n'Orca; e, còveta 'nfallo, le promette la razza, che aveva da fare. Figlia Petrosinella. L'Orca sse la piglia e la 'nchiude a 'na torre. 'No Prencepe ne la fuje e 'nvertù de tre gliantre gavitano lo pericolo de l'Orca. E, portata a la casa de lo 'nnamorato, deventa Prencepessa».—II.— Chiaqlira dla Banzola, XII. La fola dla Prassulina —III.—Nel Conto dei Conti (edizione del MDCCLIV) la fiaba è intitolata Petrosellini, errore evidente per Petrosinella.—«Una donna gravida si mangia i petrosellini dell'orto di un'Orca. Se ne accorge l'Orca; la prende. Quella per timore le promette il parto, che avea da fare. Esce alla luce una bellissima fanciulla. L'Orca se la prende e la chiude in una torre. Un Principe la rapisce; e, conducendola in sua casa, se la prende per moglie».—Nella edizione del MDCCCLXIII, il racconto si trova intitolato Pietro Sellini. Ameno sproposito, che ricorda quello di Luigi Ferri; il quale, trovando sul sepolcro del Cusano: Promissio Retribucionis non fefellit eum; ha copiato: Promissio Petri Bucionis non fefellit eum. (Nella Nota 11 al conto II. ter. Re tre sorelle, della presente raccolta, ho riportato per estesa questa versione. Vedi sopra pagg. 58 e segg. La nostra pomiglianese è monca, mancandovi gl'incantesimi, che agevolano la fuga).—IV.—Il principio del racconto pomiglianese, fino al rapimento della fanciulla da parte dell'Orco, è anche da confrontarsi con la Prezzemolina della mia Novellaja Fiorentina.—V.—Cf. anche la LIII delle fiabe siciliane della Gonzenbach: Von der schönen Angiola.—VI.—Vedi Fiabe e Novelle | Popolari Veneziane | Raccolte | da | Dom. Giuseppe Bernoni || «Nelle favole poetiche fatte da | tutto un popolo, evvi maggio- | re verità che nel racconto sto- | rico scritto da un uomo». | G. B. Vico. || Venezia | Tipografia Fontana-Ottolini | 1875. Novella duodecima: La Parzamolina.—VII.— Pitrè. (Op. cit.) La vecchia di l' ortu, segue in tutto l'andamento della Prezzemolina succitata.[2] Pe' sse fà', per cogliersi. Fare, parlandosi di piante, frutta, fiori, fronde ecc., vale in napoletano cogliere, raccogliere. 'E petrusine, i prezzemoli, i petrosilli. (Così ha detto il Groto nel Pentimento amoroso, Atto II, scena III:

Per pruova or so, che non può farsi a femina

Maggior dispetto, che cercar di muoverla

Dal suo primiero amante, ch'ella elettosi

Ha di sua voluntate e altrove volgerla.

Anzi, quanto minacce vi si adoprano,

Preghi, promesse e doni, più s'inaspera

Ella e ferma si tien nel suo proposito,

Sì come i petrosilli, che risorgono

Tanto più verdi, quanto più si tagliano.

'E petrusine: suole adoperarsi il plurale ed ha maggior grazia. Ma s'adopera anche il singolare. V. Nunziante Pagano, nella Batracomiomachia d'Omero, azzoè la Vattaglia intra le Ranonchie e li Surece:

Acce, foglia, cocozza e rafanielle

Io non roseco e manco petrosino,

Non marve verde e erve tennerelle,

Che tutte te darria pe' 'no lupino.

[3] 'O menava, lo gettò. Si noti, che nel pomiglianese suole talvolta usarsi l'imperfetto, dove in Italiano adopreremmo il passato remoto e viceversa.[4] Cane ed anche Cano, maschile e Cana femminile. Dice Achille appo il Capasso:

Cossì sse tratta, chi la spata 'mmano

Sempe tene pe' te'? fede de cano!

[5] Ammente, mentre.[6] L'autu juorno, il giorno dopo.[7] Ceppa 'e funge, ceppaja di funghi.[8] Quest'Orco, che vuol mangiarsi la imbolatrice del suo prezzemolo, (in altre varianti, invece del prezzemolo, ci abbiamo de' cavoli) ricorda un detto d'Orazio satiro, il quale forse (chi sa?) alludeva nello scriverlo in pensier suo a questa fiaba, che senza dubbio, dovea narrarsi anche allora in Italia:

Nec vincet ratio hoc, tantundem peccet idemque

Qui teneros caules alieni fregerit horti

Et qui nocturnus divum sacra legerit.

[9] 'Na figlia r' 'a soja, (letteralmente: una figliola della sua) una figliuola sua. Il possessivo si suol mettere spesso al genitivo; curioso idiotismo napoletano, non più bizzarro della forma italianissima: una sua di figliuola.[10] C' 'a, con la. Vuagliozzola o Guagliozzola, è in Pomiglianese il femminile di Guaglione, che a Napoli dicono invece Guagliona; vocabolo, che non si userebbe in Pomiglianese. Equivale a ragazza, giovanetta. Il Galiani:—«È voce che deriva dal latino Calones, che i francesi dicono goujats ».—Il Mazzarella-Farao:—«Nel suo diminutivo: guaglionciello. Forse meglio da γαιων, venalitius agricola, da γαια la tèrra, ed ωγιος venalis ».—Due etimologie spropositate ed assurde.[11] Cambra, camera, zambra; sìncope di cambera per cammera.[12] Questo particolare delle lunghe trecce d'una bella fanciulla, che servono di scala, è molto antico nelle tradizioni de' popoli ariani, poichè si ritrova già nel poema di Firdusi. Appo la Gonzenbach (Novella quinquagesimaterza precitata) la strega dice alla fanciulla sequestrata:—«Angiola, bedd' Angiola cala 'sti beddi trezzi e pigghia a mia.»—E, Novella vigesima, Von dem Pathenkinde des heiligen Franz von Paula, san Francesco custodisce la figlioccia, ch'egli ha rapita, in una torre senza porta e vi sale su per le chiome, ch'essa lascia andar giù, quando egli dice:—«Paulina, Paulina | Cala sti beddi trizzi e pigghia a mia».—In una novella analoga del Tirolo Italiano, raccolta dallo Schneller, l'Orca dice:

Bianca bianca, come la neve,

Rossa rossa, come 'na bracia,

Slòngame zò le tue drezze d'oro.

Nel Pentamerone, II, 1. l'Orca porta Petrosinella nel bosco:—«mettennola dinto a 'na torre, che fece nascere ped arte, senza porte nè scale, sulo c' 'o fenestriello, pe' lo quale pe' li capille de Petrosinella, ch'erano luonghe luonghe, saglieva e scenneva come sole Bratto de nave pe' le 'nsarte de l'arvolo.»—Ibid, II, 7, l'Orca, rincasandosi—«Chiammaie da la strada la figlia, decenno: Filadoro, cala 'sti capille; perchè, essenno senza scala la casa, sempre sse ne saglieva pe' le trezze de la figlia. E Filadoro, sentuto la voce de la mamma, guastannose la capo, calaje li capille, facenno scala d'oro a 'no core de fierro.»— Pitrè (Op. cit.) XVIII. Lu Re d'Amuri:—«E cci affaccia la cugnata, la soru di lu Re d'Amuri. Dici: Rusidda, Rusidda, mentri 'un cc'è mè matri, acchiana. Cci cala le trizzi e la fa acchianari ( salire ).»— Nella mia Novellaja Milanese, Novella intitolata: I trii naranz, una strega rapisce la figliuola d'un albergatore:—«L'ha portada via distant in d'on sit, che gh'era domà ciel e acqua. Gh'era on piccol sentee, che gh'era poeu la cà de la stria. L'ha lassada là e la gh' ha ditt: Guarda, che mi voo via; e quand vegni a casa te diròo: «Figlia mia, figlia cara, lassa giò la toa trezza e tira su la toa mamma cara» ».—Anche nelle poesie popolari si trovano di queste fanciulle che fanno scale delle loro trecce. Un distico romaico appo il Tommaseo:

Alte son le tue finestre com'alberi di nave;

Gettami i tuoi capellini, ch'io ne faccia scala.

Ψνλἀ ϵἰν ιἀ παροθὐρια σον, 'σαν ϰαραῤιοῠ ϰαταρτια.

Ρἢψε ἢνν τἀ μαλαϰκἰα σου, νἀ κἀμω σπαλοπαια.

Ed in un canto di Zante, sempre appo il Tommaseo, tre calogeri di Creta e tre del Monte Sacro consacrano un legno; e cominciasi la carena nell'atto, che la Chiesa canta: Cristo è risorto. Una domenica, che andavano bordeggiando, il Sultano li vede dalla finestra e manda un galeone a pigliarla. Il galeone con la tromba marina grida:

—«Ammaina, o legno, le vele; ammaina, gettate giù.»

—«Non le ammaino io: vuo' tu, ch'io le getti giù?

Son io fanciulla delicata da lasciar ire i miei capelli,

Che ne faccia scale e salga e prenda le poppe mie?..»

Un canto di Mercogliano (Principato Ulteriore) suona:

Nenna, che stai 'ncoppa a 'ssa finesta,

Famme 'na grazia e non te ne trasine

Minami 'no capillo ra 'ste trecce,

Minalo abbascio, ca io voglio sagline.

Quanno nci simmo 'ncoppa a 'sta finesta,

'Mbraccio te piglio e te porto a dormine

Quanno nci simmo 'ncoppa a quillo letto,

Ne voto l'anima 'e chi vò dormine!

Variante di Napoli.

Nenna, che staje 'ncoppa a 'sta fenesta,

Famme 'na grazia, non te ne trasire.

Càlame 'nu cappillo de 'sta trezza;

Calamillo, ca voglio saglire.

Quanno simmo 'ncoppa a la fenestra,

Pigliame 'mbraccia e portame a dormire.

Quanno simmo 'ncoppa a chillo letto,

Mannaggia tanto suonno e chi vo' dormire!

Variante leccese:

Donna, ci stai 'nfacciata a la fenescia,

Famme 'na grazia, nu' te nde trasire,

Miname 'nu capiddhu de toa trezza,

Lu cala a bassu, ca 'ogghiu salire.

Quandu su' giuntu subra alla fenescia,

'Cconza lu liettu, ca 'ogghiu durmire:

Ca, quannu stamu 'ntr' a 'ddhu 'jancu liettu,

Beddha donna, cu' tie 'ogghiu murire.

Altra variante leccese:

Donna, ci stai 'nfacciata a la fenescia,

Famme 'na 'razia e nu' te nde trasire,

Miname nu' capiddhu de toa trezza,

Calalu a bascio, ca 'ogghiu salire.

Ca 'rriatu, ci saraggiu, a la fenescia

Mme stringu a lu tou petto e mme nde moru.

S'è avvalso d'una reminiscenza di questo motivo il Marini, quando, nella stanza LIX del XIV canto dell'Adone, ci narra, che il protagonista,

La chioma, che cresciuta, il femminile

Uso imitando, infin al sen gli scende,

Disciolta allor, con rozzo ferro e vile

Tronca quell'or, che sovra l'or risplende.

Poi degli stami del bei crin sottile

Treccia forte e tenente attorce e stende.

Quasi lubrica fune, in linea lunga

Tanto, che dal balcone a terra giunga.

[13] Jenne e sciavuriglienne, andando e svolgendo, di ragionamento in ragionamento, senz'andar per le lunghe. Locuzione proverbiale. Nel D'Ambra sciavuriglià' non c'è; bensì sciaurià' in due sensi:—«I. Respirare, riprendere lena, rifiatare, alitare.—II. Dare aria, sciorinare, aerare.»—Il Mormile L. I. F. XXX.

E 'mmeretà lo core mme ne chiagne

Nche bedo 'nfì' a li liepre e 'nfì' a li cierve

E tant' aute anemale sciauriare,

E buje tutto lo juorno dejunare.

E l'autore annota:—« Sciauriare, goder dell'aura, che spira».— Basile. Pent. II. 7.—«L'autra sera, 'sciuto lo sole a sciauriarese pe' l'ummeto pigliato a lo sciummo de l'Innia....»—

[14] Modo solito di conchiuder le novelle. Tocoliate, participio di Tocolià' o Tocoleià', che vuoi dire: muovere dolcemente, cullare. Altra chiusura comune, massime ne' conti avellinesi è la seguente:

Cuccurucù,

No' nce n'è cchiù.

oppure:

Cuccurucù,

Ss' 'o vuo' cchiù bello, t' 'o dice tu.

Il Pentamerone termina così:

E buon prode ve faccia e sanetate,

Ch' io mme ne venne a pede a pede

Co' 'na chioccarella de mele.

IV. bis. L'UORCO[1] ( Variante di Petrusenella. ) ( Raccolta a Montella, nel Principato Ulteriore. )

'Na vota 'n Uorco avija 'no giardino: dinto nge teneva zerte piante re petrosino[2]. Doje ronne erano gravite e ssi ievano a coglie' sempe quero petrosino. L'Uorco, non sapenno chi sse ro facia, ssi iette a mette' sotta a 'no pere re fico co' 'na vrecchia ra fore. Re donne, a ro trasì', che facettero, viriero la vrecchia re l'Uorco e ssi cririevano, ca iera fungo e sse lo volievano fà'. A ro fà', chi riero re mano a lo fungo[3], assette e decette:—«Manco mo' v' haggio 'ngappato.»—Roppo ricette 'na ronna:—«No' n'ammazzà', ca nui simo gravite: quanno figlio, fazzo 'na figliola e la metto nomo Petrosinella.»—L'Uorco ne romanivo contente, ca li volia rà' la figliola. L'Uorco 'no juorno 'ncontravo la bardascia, chi era Petrosinella, e li ricette:—«Rì' accossì a mammeta, ca mmi manna la prommessa.»—La matre, pe' no' li rà' la bardascia, recette:—«Rilli accossì ca ti sì' riminticata, ca no' mme r'hai ritto.»—L'Uorco la verette e li tornavo a dimmannà'. La bardascia recette:—«Mmi so' scordata,»—e l'Uorco li facette 'na sbravaria a la bardascia. La mamma recette:—«Mo' la maletratta! Rilli accossì: addò' la sconta, ca sse la piglia.»—L'Uorco nghinchè[4] sentette:—«Che sse la piglia subito»—recette:—«Petrosinella, vieni a papà, ca ti ravo ro zuccaro.»—Lo palazzo, chi tinia l'Uorco, era rimpetto a lo palazzo re lo Re. L'Uorco risse a la bardascia:—«Tu, a tutti barcuni affàcciati; a questa fonestra non te nge affaccià'.»—Quera, pi' sse levà' la crusità, ricivo:—«Pecchè ha ditto, ca no' mm'haggio affaccià'?»—Ivo e ss' affacciavo. Roppo affacciata, ascivo lo cuoco re lo Re e risse:—«O ssoja Majestà! tene 'na figliola l'Uorco, si la viri quanto è bella!»—Lo Re risse a lo cuoco:—«Quanno ti tuorni a affaccià', rilli accossì: Petrosinella, mo' ti 'ngrassa patito e po' ti mangia. »—Petrosinella carivo malate re la pena, ca l'avia ritto accossì lo cuoco. L'Uorco ivo, e trovavo Petrosinella malata; e le risse:—«Petrosinella, pecchè stai malata?»—Petrosinella no' nge lo bolia rice, ca ss' avia affacciata a la fonestra: e po' nge ro dicette. L'Uorco li risse:—«Va t'affaccia 'n'ata vota e dilli accossì: Allininio, trippitinio[5], mo' ti 'ngrassa lo tujo patrone e ne facimo 'no stufatone. »-Lo cuoco re lo Re carivo malato; rice:—«Mo' mmi vole mangià' isso a mme.»—Lo Re li risse a lo cuoco:—«Pe' chi 'ggetto stai malato?»—Lo cuoco recette:—«So' caruto malato, pecchè l'Uorco ha detto: Allininio, trippitinio, mo' ti 'ngrassa lo tujo patrone, ne facimo 'no stufatone. »—Lo Re mannavo 'na lettre e 'na vesta a la figliola, ca la volia pe' sposa. L'Uorco, nghinchè vedde la lettre e la vesta, risse: —«O Petrosinella, mo' ti perdo!»—Li risse l'Uorco:—«Piglia 'ssa vesta; appiennila a lo furno. Piglia 'na canestrella re renari; e che sse ne vai lo sèrevo re lo Re.»—Accossì facette. Lo iuorno r' appriesso, li mannavo l' ata vesta co' 'n'ata lettre. Lo cuoco n'avia rispiacere, ma Petrosinella n'avia piacere, ca li portava re lettre. Recette l'Uorco:—«Piglia 'ssa vesta e appiennila arreto a la porta. Piglia 'n'ata canestra re renari e mannannello.»—E iessa accossì facette. Lo terzo iuorno li mannavo 'n'ata vesta e 'n'ata lettre. Recette l'Uorco:—«Uh Petrosinella! è giunta l'ora re sposà'.»—Rice:—«Mente ch'è benuta l'ora re sposà', non potarrai poi figlià', si non mm'ammazzi prima a mme.»—La figliola li rispiacia re l'ammazzà', como che l'avia voluto bene. Roppo li risse l'Uorco:—«Quiro sanco mmio ro spanni pe' bicino a re mura; re biscere mmia re spanni pe' sopra a lo lietto; re brazza ri mitti a capo lo lietto; la testa la mitti 'nfacci'a 'na perteca 'nfilata e la mitti a capo a lo lietto 'nfacci' a le brazza.»—Roppo li risse:—«Non puoi sgravità', si non bieni 'ngimma a lo lietto mmio».—Lo Re sse la sposavo. Giunta l'ora re sgravità', la ronna non potìa sgravità'. Lo Re li risse:—«Mo' a ghìre là è 'no puzzore e 'na cosa sporca!»—E iessa risse:—«Là haggio ra esse».—A ro trasì', chi facette a lo palazzo, re mura, chi avia spargiuto ro sango, re trovavo tutto oro; lo lietto copierto r' oro; e re brazza e la capo trovavo una croce r' oro. Sgravitavo e fece uno bravo figliulo. Lo Re restavo tutto consolato, ca facette 'no bello figliulo.

NOTE

[1] Versione, che corrisponde perfettamente a quella del conto di Nicastro, riassunto a pagina 61 del presente volume. Se non che, in esso, la protagonista, come nel conto siciliano della Gonzenbach, è nomata Angiola Bell'Angiola.[2] Dal Comm. Scipione Capone, ricevo la seguente lettera:—«Montella, primo luglio M.DCCC.LXXVI. Carissimo amico, non vi do del seccatore, nè vi mando a tutti i trenta mila diavoli, solamente vi voglio pregato di scusarmi, se vi rimando le strisce senza le note. Io sono stato occupatissimo in questi giorni; nondimeno non ho trascurato di rivolgermi a quanti e quante mi sono capitati, dimandando di canti, conti, detti, canzoni e proverbî, che avessero che fare colle tre novelle di che trattasi: e così staccato non mi hanno saputo dir niente, niente, niente! Già cotesta genterella è tutta dubbî e sospetti; e poi par che dimentichi tutto quello, che sa, quando gli dimandi qualche cosa. Quindi è, che imploro la vostra indulgenza, se non vi ho potuto servire. Intorno alla parola petrosino ecco che aveva notato. Petrosino o pretosino, prezzemolo, nota erbolina aromatica. Dioscoride Anuzarbeo, nella Materia Medicinale, attribuisce al prezzemolo tra le altre virtù quella di liquefare il latte rappreso nelle poppe; e questa credenza si conserva qui in Montella; onde le donne pregnanti e quelle, che hanno figliato o lattano, preferiscono le vivande, nelle quali entrar può largamente il prezzemolo, mercè cui credono di procurarsi una più larga secrezione di latte. In un canto:

Mo' ch'haggio misto a nasce ro pretosino,

Lesto lesto mmi voglio 'nzorare:

A capo re l'anno 'no bello bammino,

'Na cocchiarata po' ha da seguitare.

Quanno vero li parienti mmi fazzo la risa,

Restare mmi volievano senza cammisa.

Frati, sore, figliastri e neputi,

Quanto cchiù fai, cchiù è perduto.

«Il prezzemolo, del resto, è usitatissimo dappertutto per dare odore e sapore alle vivande, e considerasi un amminicolo indispensabile di ogni cucina. Indi, per similitudine, Bon pretosino, nel dialetto, dicesi il ficcanaso; Pretosinieddro, vale: intromettitore, intrigante, raggiratore. Il dinota quest'altro canto:

Pretosinieddro mmio, pretosinieddro,

Che mme ne 'mporta, se no' mmi vuoi amare?

La guerra rinto casa nge hai portata,

No 'mmi fai cchiù dormire, nè mangiare.

Chi te nge fa benì', chi te nge chiama?

Re sotta casa cchiù no' nge passare.

Vattinne a dove vuoi, vattinne a malora.

Re ti sentì' crepà', no' mbero (
non vedo
) l'ora.

«Adoperasi pure proverbialmente questo modo: Petrosino re ogni menestra; in senso di fac-todo, e talvolta di uomo vario ed incostante, come in quest'altro canto:

No' boglio cchiù prommesse e ghiuramienti,

Fenchè 'no iuorno no' nge siti stato.

Si songo scopierti mille trarimienti,

Nisciuna 'a 'reto nge aviti lassata.

Pigliatevenne puro ciento e una!

Pròsito a voi se aviti fortuna.

'Ntutto lo voglio pe' mme, uno assoluto:

Amante 'nnammorato o resoluto.

« Sotto a 'no pere re fiche. Vuol dire: a piè di un albero di fico. Un canto dice:

Sera cantai, cantai, cantai

Sotto a lo pere re fico v'aspettai:

Lo suonno traritore mmi 'ngannavo,

A picca a picca l'uocchi mmi 'nzerravo.

A giuorne 'na perata haggio trovata;

Figliola, rimmi tu, chi ng'è passato?

Te n'hai amoreggiato uno a lo mese,

No' mme nge 'ngapparai a fare 'sse spese.

Cerco r'accostaremi a re cchiù schette:

Quere re trìrice anni a recessette.

«Chi sa quante altre ne girano per la bocca de' miei paesani! ma io non le ho intese».—

[3] A ro fa' chi riero re mano, non così tosto diedero di mano. Nella pronunzia suona però così: rare ro-mano, ghermire.[4] Nghinchè, quando, come tosto, subito che.[5] —« Hallininio, tacchino (l'aspirazione è leggerissima). Trippitinio, voce neologica, per maggiore invilimento o capricciosamente forse, fatta terminare in inio. Deriva da Trippa e qui è adoperata per: trippone, che vive per la pancia, o gonfiato come un tacchino».—

IV. ter. LA PREZZEMOLINA[1]. ( Variante di Petrosinella. ) ( Raccolta al Montale-Pistojese. )

C'era una volta una donnetta, contadina, con un po' di terra, e a male brighe ci ricavava il campamento. E lei tieneva a fargli le faccende un garzone. Si sa: le donne; quand' 'ènno sole accanto all'omo, finiscano tutte a un modo. Quella donnetta e' garbò al garzone, e lui a lei. Sicchè, dunque, non potiedero stare tanto tempo a patire, e conclusono lo sposalizio; e subbito la donna fu pregna. Ma nun istiede ma' bene, perchene lei nun trovava nulla di bono per mangiare, e nun c'era versi, che gli entrasse 'n bocca altro che prezzemolo. Ma sì! il prezzemolo dell'orto, ce ne fussi stato! gli era finito da un pezzo. E 'mperò la donna rimase insenza metter qualcosa nello stomaco da tre giorni 'n fila. Eran disperati lì per casa. Eccoti, comparisce un merciajo, di quelli, che vanno colla paniera a zonzo per le campagne a vender ninnoli, spilli, cotone alle massaje. Lui, a vedere que' due mezzo allocchiti, dice:—«Oh! ch' ate voi? oh! che v'ène apparita la Versiera?»—Dice l'omo:—«Eh! no. La mi' donna, poeraccia, gli ène pregna e nun pole mangiare che prezzemolo. Ma s'ène rifinito tutto quello dell'orto e 'n questi loghi non se ne trova più; sicchè lei, da tre giorni, l'è resta a denti asciutti».—Dice il merciajo:—«Ve lo 'nsegno io addove del prezzemolo ci se ne trova a dovizia. A un cinque o sei miglia da qui, un signore gli ha un orto tutto serrato, con ogni ben di dio dientro e con tre prode di prezzemolo fitto e rigoglioso, che proprio ène una maraviglia. Corrite là a bruzzolo, che del mangiare vo' n'arete a corbelli».—Il garzone nun intese a sordo; e la mattina, che il sole non era nemmanco levo, pigliato un sacchetto con seco e un falciole, se n'andiede a ricercare l'orto, e cammina cammina ci arrivò. Ma gli ci volse del bono a ripire su per il muro erto: insomma, gli rinuscì entrarci. Non c'era anima viva; e lui lesto lesto segò mezza una proda di prezzemolo. N'empiette il sacchetto e via. Via a corsa a portarlo alla su' donna, che, contentona, n'ebbe da sfamarsi per una settimana, figuratevi! Ora, bisogna sapere, che quell'orto l'avea nel su' possesso l'Orco; e, quando lui sortì dal letto e vedde lo sciupinio del prezzemolo, gli prese una gran passione, e principiò a berciare alla su' moglie:—«Scendi giù, Catèra! Vieni a vedere, che m'hanno rubo il prezzemolo. Ladracci 'nfami! Almanco, se gli bisognava, me l'avessin chiesto. Ma rubbarmelo, è stato da birboni. S'i' vi scopro!... S'i' vi scopro!... E da tornare vo' ci avete».—Anzi lui in questa credenza, rizzò lì in disparte un capanno ricoperto con delle frasche verdi, e ci si messe a far la guardia al su' prezzemolo. In capo a otto giorni il prezzemolo era bell' e finito; sicchè, dunque, il garzone, col su' sacchetto e col falciolo, riviense di niscosto all'orto dell'Orco, per farne un'altra provvista. Ma, a male brighe che principiò a segare, eccoti, salta fori l'Orco e l'agguanta per il collo.—«T'ho chiappo, malandrino!»—scramò con una vociaccia da metter paura a un sacco di Madonne:—«E ora, nun c'è scampi, e tu me l' ha' a pagare colla tu' pelle».—E in quel dire lo strascica in casa, e lì lo sbacchiò per la terre per finirlo. E gridava:—«'Gnamo[2], corri Catèra, s'ha da mangiar subbito».—Il garzone, a quegli strapazzi, si credè morto; ma poi gli prese un animo, s'arrizzò in ginocchioni e si diede a raccontare la su' storia all'Orco; e seppe lui accosì raccontarla bene e con tante lagrime, che l'Orco si sentette intenerire e disse:—«Ti perdono, via! ma a un patto».—«Dite pure»,—gli arrispose il garzone rinfranchito:—«V'accordo ugni cosa, purchè mi lassate ritornare dalla mi' poera donna».—Dice l'Orco:—«Questo è il patto. Piglia pure del prezzemolo nel mi' orto quanto ti ce ne vole per mantienere la tu' moglie; lei col prezzemolo fresco accosì partorirà una bella creatura fresca. Ma, quando lei avrà partorito, io la creatura la vo' mezza per me, che m'ha da servire per culizione[3] ».—«Guà! sia fatto il piacer vostro»;—arrispose in senza pensarci il contadino. E poi, pienato il sacchetto col prezzemolo, più morto che vivo, reggendosi appena sulle gambe, ritornò a la su' casa. La moglie, quando lo vedde a quel modo sficurito, s'insospettì a bono; e volse sapere quel, che gli era intravenuto. E lui gli disse tutte le disgrazie, che gli eran tocche. Scrama la donna:—«Oh! sciaurato, quel, che tu ha' 'mpromesso! Dunque la creatura bisognerà squartarla in du' pezzi?...»—E il contadino:—«Cattadeddina! i' voleo vedere, se tu fossi stata lì e t'avessin volsuto stiaffare dientro a una caldaja per poi mangiarti allesso, icchè aressi tu fatto. Quand' e' siemo lontano de'pericoli, è anche facile fare il brào; ma lì, 'n que' ferri, anche e' brai s'attutano. 'Gnamo via! nun si pensi tanto a male; quando alle cose c'è del tempo, e' si pole anco mutar la fortuna».—La donna, a quel discorso, si chetò; e poi nun c'era rimedio; e allora deliberorno di tirare innanzi insenza sgomentarsi, sicchè tutti i giorni il garzone andeva dall'Orco a pigliare il prezzemolo fresco, e la su' donna ingrossava accosì a vista d'occhio vispola e forzuta.—«Il tempo è galantomo»—dicevano. Viense il giorno del parto; e la donna partorì una bambina grassa, co' capelli biondi, ch' era propio una gran bellezza a vederla, con quegli occhini aperti e luccichenti. Eccoti, picchiano all'uscio.—«Chi è?»—«Aprite, i' son l'Orco. Che ve ne siete scordi de' patti?»—Figuratevi lo sgomento di que' du' genitori disperati! Ma l'Orco, duro! Tira fori un segolo arrotato, poi agguanta la bambina per un piedi, dà quell'altro alla su' donna e poi alza il braccio col ferro, per isquartare nel mezzo la creatura. A quella vista la mamma nun si potiede tienere; salta giù dal letto e si butta in ginocchioni, e principia a urlare e piagnere come un' anima dannata:—«Nun me la squartate! nun me la squartate! Piuttosto pigliatevela tutta, chè almanco nun la vedrò guasta accosì[4].»—Dice l'Orco:—«I' accetto, la piglierò tutta per me. Ma ora subbito nò. I' ve la lasso a custodire; e anzi vi pagherò tutti i mesi per l'incomido. Poi, quando la bambina sarà grande, la menerò con meco, e ci vo' fare una pietanza ghiotta. Dunque, addio, e siamo intesi. Arrivedersi!»—L'Orco e la su' donna tornorno a casa e mantiensero la parola, perchè tutti i mesi mandavano a' genitori della bambina una bella somma di quattrini, e robbe di vestuario, e cose bone e trascelte per mangiare. Ma, quando la bambina gli ebbe cinqu'anni, l'Orco viense a prenderla, e fu tutto inutile, chè la volse con seco in ugni mò; e, quando l'ebbe portata a casa sua, la rinchiuse a ingrassare in una stanza dientro una torre, addove nun c' era per montarci su punte scale; e poi disse alla Catèra:—«Custodiscila, che non gli manchi nulla; e bada che nissun la vegga e che lei nun iscappi, quand' i' sono fori per i fatti mia».—E, per poterla chiamare, lui gli messe nome Prezzemolina. Dunque la Prezzemolina, lassù serrata in quella stanza, cresceva sempre più bella; e, siccome chi la custodiva era la Catèra, lei gli diceva mamma; e, quando la Catèra voleva salir su nella torre a tenergli compagnia, chiamava dal fondo:—«Prezzemolina, Prezzemolina! butta giù le trecce e tira su tu' madre».—E Prezzemolina ciondolava le trecce da una finestra e la tirava nella stanza. Un giorno dice la Catèra:—«Pettinami, Prezzemolina».—Subbito Prezzemolina prese un pettine e si messe a pettinare la Catèra. Dice in quel mentre la Catèra:—.«Che ci trovi tu, Prezzemolina?»—Guà! che volete voi? ci trovo di molti pidocchi».—«Brava, Prezzemolina! Sai quel, che tu ha' da fare?»—dice la Catèra:—«Pigliagli questi pidocchi e mettigli dientro un cannone di canna. Ti potrebbano abbisognare qualche giorno; perchè, a soffiarci nel cannone, loro si spargano e nasce subbito una gran siepe addove cascano».—E la Prezzemolina fece come voleva la su' mamma. Un'altra volta la Catèra urla dal pian terreno della torre:—«Prezzemolina, Prezzemolina! butta giù le trecce e tira su tu' madre!»—e, quando l'ebbe tirata su, la Catèra gli disse:—«Ma s' ì' avessi bisogno di star fori del tempo, che te saperessi fartelo da mangiare?»—«Io no»;—gli arrispose Prezzemolina:—«E poi, addov'ènno le robbe da mangiare e le legne per cocerle?»—Dice la Catèra:—«A tutto c' è rimedio. Piglia qui: ti dò questa bacchetta fatata, e chiedi pure a tu' piacimento, chè in ugni cosa sarai subbito contentata».—Poi gli diede l'addio e andette via di casa per istar fori del tempo a fare i su' interessi. Una mattina, tutt'a un tratto, Prezzemolina sentiede, che la chiamavano di fondo alla torre:—«Prezzemolina, Prezzemolina! butta giù le trecce e tira su tu' madre».—Lei si pensò che fusse la Catèra; ma, quando gli ebbe tirato su colle trecce, lei s' avvedde invece, che era un bel giovane, un figliolo di Re. Guà! l'esca accanto al foco! S'innammororno in nel momento e restorno assieme anco la notte. Il giorno doppo eccoti la Catèra:—«Prezzemolina, Prezzemolina! butta giù le trecce e tira su tu' madre».—Figurarsi, che sconfondimento per que' du' poeri giovani innamorati!—«Come si fa? come si fa?»—Perchè, se la Catèra gli trovava assieme, chi sa mai come gli andeva a loro!—«Niente paura[5]! che ci ho il rimedio»,—dice Prezzemolina; e, pigliata la bacchettina dello 'ncanto, il figliolo del Re lo fece diventare un fascino di legne; doppo calò le trecce e tirò su la su' mamma. A male brighe che la Catèra gli entrò nella stanza, diviato e' vedde quel fascino; dice:—«Oh! questo, ch' è qui, a che serv' egli?»—«To', a che serv'egli? A cocere da desinare»,—gli arrispose Prezzemolina:—«Oh! che nun ve n' arricordate, che m' avete dato la bacchetta per supperire a' mi' comodi, quando vo' nun ci siete?»—Dice la Catèra:—«Sì, sì, t'ha' ragione. Brava la mi' bambina! Dunque, fa le cose a modo, perch' ì' torno via; e bisogna, ch' i' stia fori de' giorni. Addio, addio».—E se ne va per istar fori del tempo a fare i suoi interessi. Doppo tre o quattro mattine, eccoti che riviene la Catèra:—«Prezzemolina, Prezzemolina! butta giù le trecce e tira su tu' madre».—Ma Prezzemolina, prima di tirarla su, fece diventare un porcellino il figliolo del Re[6]. Dice la Catèra:—«Oh! che bel porcellino! Chi te l'ha egli dato quest' animale?»—«La vostra bacchetta»,—arrispose Prezzemolina:—«Oh! che non ve n' arricordate de' vostri insegnamenti? I' lo tengo qui per mi' compagnia, per non istar solingola, quando vo' non ci siete».—Dice la Catèra:—«Brava la mi' bambina! Portati sempre bene accosì, sai. Ma bisogna, che ti lassi, perchè non l'ho anco finite fori le mi' faccende. Addio, addio.»—E se ne va fori a fare i su' interessi. Quando la Catèra fu andata via, Prezzemolina fece ritornare omo il porcellino; e fissorno tra di loro di scappare assieme. Ma Prezzemolina aveva paura, che gli facessan la spia gli arnesi della su' camera, perchè erano tutti fatati; lei però si messe in capo d'abbonirli. Subbito disse alla bacchetta:—«Voglio una bella caldaja piena di maccheroni:»—e, quando i maccheroni apparirne in nella stanza, Prezzemolina ne diede una ramajolata a ugni cosa: una ramajolata al letto, una alle seggiole, una allo specchio; insomma a tutto; ma della cassetta della spazzatura lei se ne scordò. Doppo, presa la meglia robba, Prezzemolina e il giovane si calorno dalla finestra e via! a gambe a traverso i campi. Lassamoli correre a quel mo' e torniamo alla Catèra. Lei riveniva di fori coll' Orco su' marito; e, quando fu in casa, urla, come al solito:—«Prezzemolina, Prezzemolina! butta giù le trecce e tira su tu' madre».—Risponde il letto:—«Nun posso; i' sono a letto».—Dice la Catèra:—«Spicciati, nun mi fare aspettare».—Risponde la seggiola:—«Nun posso; i' son sulla seggiola».—Dice la Catèra:—«Oh! che ha' tu stamani, che sie' tanto pighera? Spicciati, gnamo».—Risponde lo specchio:—«I' mi guardo allo specchio».—Insomma, a una per volta, tutte le mobilie e gli attrezzi e i serrami della cammera trovavano delle billere per non iscoprire Prezzemolina, scappata via col su' giovanotto; soltanto la cassetta della spazzatura principiò a sbraidare:—«Nun è vero, nun è vero. Prezzemolina nun c' è più; è pe' campi con il su' damo, che la porta con seco».—A questo discorso la Catèra e l'Orco figuratevi come rimasono! Dice la Catèra:—«Corri, mi' omo, corri; colle tu' gambacce tu l'arriverai in du' salti. Oh! birboni! me l'hanno fatta!»—E in quel mentre, che l'Orco dava dietro a que' du' sciaurati, la cassetta della spazzatura badava a berciare:—«Poera padrona! l'avete visto il fascino? l'avete visto il majalino? Gli eran lui, il su' damo, e vo' non l'avete cognosciuto. E' maccheroni sono tocchi a tutti per dir le bugie, e a me niente; ma io le bugie nun ve le dico».—E la Catèra a sentirsi raccontare com' era ita via Prezzemolina nun si poteva racquetare, nun si poteva! Infrattanto l'Orco a corsa gli era arrivo a vedergli da lontano, Prezzemolina col su' giovanotto, e s'arrapinava per raggiungergli e acchiappargli. Dice Prezzemolina:—«Giannino! i' sento fresco alle rene».—«Mettiti lo scialle,»—dice lui. Dice Prezzemolina:—«Chè! gli è mi' padre di sicuro. Se ci piglia, poeri noi! Ma ora l'accomodo io».—E, in nel parlare accosì, cava fori di seno il cannone co' pidocchi e gli soffia inverso l'Orco; sicchè, in un momento, eccoti, che nasce un siepone alto e largo ismisurato, che pareva un bosco di spini. E quando l'Orco ci fu arrivato, nun vedde più niente, e nun lo potiede passare, e gli toccò a ritornare addietro. Dice la Catèra:—«Oh! dunque?»—Dice l'Orco:—«Quando ero lì per acchiapparli tutti e due, mi sono spariti; perchè io ho trovo un siepone di spini, che serrava tutte le strade, e nun c' era valico per andare oltre».—Scrama la Catèra:—«Oh! me sciaurata! son' io, che gli ho insegnato le malizie: sono i mi' pidocchi del cannone! Corri, corri, mi' omo! Tu sie' sempre a tempo a arrivargli».—E l'Orco, via! E, doppo un pezzo, eccoti, che rivede Prezzemolina col su' damo, che camminavano. Dice Prezzemolina:—«Giannino! i' sento fresco alle rene».—«Copriti meglio»;—dice lui.—«Chè! gli è mi' padre, gli è l'Orco, che ci dà dietro»—arrispose Prezzemolina:—«Ma ci ho anco il rimedio!».—E, colla bacchetta fatata, lei si trasmutò in una chiesa e il su' giovanotto era il prete, che si parava in sagrestia per dire la messa; e po fece apparire un ragazzino, che badava le pecore in sul prato dinanzi alla chiesa. Eccoti! arriva l'Orco e domanda subbito a quel guarda-pecore:—«Di' su, bambino; che gli ha' tu visti due, che erano assieme, un giovanotto con una ragazza?»—E il guarda-pecore:—«Galantomo! gli entra la messa[7] e i' nun ho tempo da perdere; se volete sentirla anche voi, vienite in chiesa».—Dice l'Orco:—«I' ti domando, se tu ha' visto passare due assieme per di qui, un giovanotto con una ragazza a braccetto?»—Dice il guarda-pecore:—«Avete sentuto? gli è sonato il cenno. Ecco, il prete monta all'altare. Se volete vienire anche voi in chiesa, sbrigatevi. Io ci vo e addio».—A farla corta, all'Orco non gli riescì raccapezzar nulla, e pensò meglio ritornare a casa sua. Guà, non era malizioso, lui. Quando la Catèra vedde il su' marito senza nessuno e lui gli raccontò della chiesa, del prete e del ragazzo, che guardava le pecore sul prato, tutta imbizzita scramò:—«Oh! mammalucco d'omo! non te ne sie' accorto, che la chiesa era Prezzemolina e il prete il su' giovanotto? Lei ha fatto quella trasfigurazione colla mi' bacchetta fatata, che da grulla i' gli regalai. Corri, mi' Omo, corri; raggiugnigli e non ti far vincere dagli inganni».—A quelle parole della su' donna, l'Orco si messe daccapo a correre dietro a Prezzemolina; e, doppo camminato di molte miglia, e' la vedde sempre assieme col so' damo andare per la strada. Dice Prezzemolina:—«Giannino! i' sento fresco alle rene. Dicerto gli è l'Orco al solito! e poeri noi! se ci acciuffa. Presto, presto, niscondiamoci accosì».—E in quel mentre, lei, colla bacchetta fatata, fece comparire un lago; e tutti e due ci si tufforno dientro; sicchè Prezzemolina diventò una lasca, e Giannino, figliolo del Re, un bel luccio, e navicavano nell'acqua a più nun posso. In du'salti, l'Orco viense in sulle sponde del lago; dice:—Questa volta nun mi scappate: v'ho cognosciuti!»—e, per acchiappargli meglio colle su' manacce, si buttò diviato nei lago. Ma fu tutto inutile: lui pigliava il luccio e il luccio via, gli scivolava d'intra le dita; pigliava la lasca, e quella il medesimo. Si sa, i pesci sono a quel modo, tutti moccicosi; e in mano non ci stanno. Sicchè, dunque, l'Orco, impermalito, sortì fori dell'acqua; e poi disse a que' pesci:—«Vi maladico. E te, che t'avevo rileva come figliola, ti maladico per la prima. Sie' maladetta da me; e lui, il tu' damo,

«A un'osteria ti lasserà;

«E, quando su' madre lo bacerà,

«Di te si scorderà».—

E se n'andette doppo, senza voltarsi nè in qua, nè in là. Quando Prezzemolina e il figliolo del Re furno ritornati nelle su' persone di prima e che erano a male brighe lontani cinque miglia dalla città reale, disse il giovanotto:—«Senti, Prezzemolina, io a questo modo non ti ci posso condurre al palazzo del mi' babbo. Bisogna, che lo faccia sapere alla corte, che ho trovo la sposa; e che poi ti vienga a pigliare colla carrozza e le guardie in figura di Principessa e tu sia vestita da signora. Dunque, ti lasserò qui a questo albergo; e fra tre giorni al più i' sarò di ritorno, com'i' t'ho detto».—Dice Prezzemolina:—«Fate la pace vostra, che io sto a quel, che voi comandate. Ma arricordatevi, che la mamma nun vi baci; perchè l'Orco, lo sapete, ci ha dato quel brutto avviso e ci maladisse».—«Chè, chè, nun aver temenza, Prezzemolina»,—gli arrispose Giannino:—«La mamma non lasserò, che mi baci».—E, doppo averla raccomandata all'oste, il figliolo del Re si partiede per la su' città. Alla corte, quando Giannino entrò in palazzo, nacque un chiasso e una festa, chè la gente corse tutta a vedere quel, che era stato.—«Ben'arrivato! ben'arrivato! Gli era tanti mesi, che nun si sapeva più dove Lei era, se era morto oppuramente vivo. Si steva in pena, sa; anco il su' babbo e la su' mamma».—Questi discorsi a Giannino gliegli facevano lì, in nel mentre, che lui saliva le scale del palazzo; e, sul pianerottolo, gli viensero incontro il Re e la Regina colle lagrime agli occhi; ma lui, non ci fu versi, che si lassasse baciare da su' madre; e lei gli era mezza disperata e nun si poteva capacitare, che il su' figliolo fosse tanto senza core. Lui però gli disse, per rabbonirla, che ce l'aveva una ragione, e che gli perdonassi, perchè poi a su' tempo si sarebbe lassato baciare a su' piacimento. Insomma, finiti i complimenti, si messano a cena; e in quel mentre, che mangiavano, Giannino raccontò la su' vita, e che aveva trovato una bella sposa, e che sarebbe andato a pigliarla nell'osteria assieme a tutta la corte e colla carrozza e co' cavalli del Re; e doppo, quando fu tardi, che stiedero molto a tavola, i servitori gli accompagnorno ognuno alla su' cammera per dormire. A male brighe che il sole spuntò, la Regina, che nun aveva potuto serrare un occhio in tutta la notte dalla pena, che il su' figliolo nun s'era lassato baciare da lei, sortì dal letto; e in peduli se ne andiede in camera di Giannino, che dormiva tavia come un loppo; e, senza nemmanco svegliarlo, gli saltò al collo e lo baciò quanto volse. A tutto quel tramestio Giannino si riscosse, vedde su' madre, gli rese i baci e intanto della su' sposa Prezzemolina se n' era bell' e scordato. E accosì passorno tre giorni, passorno tre mesi, senza che lui pensassi mai alle su' promesse e a quella poera dibandonata, che l'aspettava nell'osteria. Infrattanto la Regina pensò di dargli moglie; e fu trova per lui una figliola di Re; e s'era già incomincio a fare l'apparecchio delle feste per le nozze; e i bandi gli appiccicorno in tutti i paesi del Regno. Torniamo ora a Prezzemolina a quel mo' solingola in un'osteria e che si struggeva dalla pena. Poerina! lei diceva tra di sè:—«Di certo Giannino s'è lassato baciare dalla su' mamma, epperò di me se n'è scordato. Oh! com'i' ho da fare?»—E figuratevi poi se la pianse, poera sciaurata, quando sentì i bandi dello sposalizio del figliolo del Re! Ma pure, gli viense in capo di provare la su' bacchetta fatata; e fece apparire du' be' piccioni, un mastio e una femmina, che tutt'e due parlavano come Cristiani, e gli mandò a discorire sulla finestra della cammera del su' giovanotto, quando lui era sempre a letto. Dunque, i piccioni s'eran messi lì sul davanzale: e il mastio figurava di non gli voler dare retta alla su' sposa, e quella gli diceva:—«Nun te n'arricordi, quando volasti su in quella torre, dove stevo serrata; e i' ti messi nel mi' nidio?»—E il mastio:—«Sì, sì, ora me n'arricordo».—E la femmina daccapo:—«O di que' giorni, che ti trasmutai in fascino di legne e poi in porcellino, perchè la mi' mamma nun ti ricognoscesse; e di quando si feciano i maccheroni e si diedano a tutti, fori che alla cassetta della spazzatura, e che poi si scappò assieme, nun te n'arricordi più?»—E il mastio:—«È vero, è vero, ora me n'arricordo».—E la femmina a seguitare:—«Che ti sie' scordato anco di quando s'era per la strada? E che l'Orco ci corse dietro per tre volte? E io da prima feci comparire una siepe di spini; poi ci si trasmutò in una chiesa con te dientro a dire la messa e il ragazzo guarda-pecore sul prato; e poi si diventò du' be' pesci in mezzo a un lago, e che l'Orco ci maladisse?»—Dice il mastio:—«No ve'! e' mi rinvengono in mente queste cose».—E la femmina:—«O che l'Orco disse a me:

«
A un'osteria ti lasserà;

«
E, quando su' madre lo bacerà,

«
Di te si scorderà;

e che te davvero mi lassasti a quell'osteria, colla promessa di tornarmi a pigliare fra tre giorni al più, nun l'arricordi, mi' sposo? Che dunque la tu' mamma t'ha baciato?»—In nel sentire questi ragionamenti de' due piccioni, il povero Principe si scionnò; e si messe a ripensare alla su' vita passata; e finì col ricordarsi d'ugni cosa e della Prezzemolina, che l'aspettava da tanto tempo in quell'osteria; sicchè, dunque, salta infurito dal letto, sona tutti i campanelli e comincia a urlare: che venghino i servitori e il su' babbo e la su' mamma. A quel buggianchio, che lui faceva, corsano a vedere quel, che era successo. E Giannino si messe a raccontare i discorsi, che aveva sentuti da' piccioni sulla finestra, e che loro erano stati quelli, che gli avevano fatto ricordare della su' sposa Prezzemolina, dibandonata all'osteria a motivo de' baci di su' madre e della maladizione dell'Orco.—«Presto,»—dice:—«Si vadia colle carrozze a cercar la Prezzemolina».—In senza indugio attaccorno i cavalli; e tutta la corte andette a pigliare Prezzemolina. E la portorno in trionfo al palazzo, dove si feciano le nozze con gran feste e giostre e desinari, e con invito a tutte le persone del Regno. E accossì finirno le pene di Prezzemolina e lei stiede allegra e contenta col su' sposo in sin che campò.

NOTE

[1] Raccolta dal prof. avv. Gherardo Nerucci, cui la dettava la Luisa Ginanni. Corrisponde, nella seconda parte, alla Novella VII della Giornata II del Pentamerone: La Palomma:—«'No Prencepe, pe' 'na jastemma datole da 'na vecchia, corze gran travaglio; lo quale sse fece cchiù peo pe' la mardezione de 'n' Orca. A la fine, pe' 'nnustria de la figlia de l'Orca, passa tutte li pericole e sse accasano 'nsiemme».—Nel Conto de'Conti, questa Novella è intitolata la Palomba:—«Il figlio del Re di Castromonte, essendo bestemmiato da una vecchia, passò gran travagli; i quali vennero maggiori par la maledizione di una Orca. Alla fine, per industria della figlia dell'Orca, supera tutti i pericoli, e diventano sposi».—Riporterò qui questa versione, secondo ho fatto ne'casi simili:—«Eravi una volta, nella Città di Rocca Pelosa, una vecchiarella miserabile e carica assai d'anni, che, per mantenersi, andava elemosinando. Li fu dato per carità una pignata di fagioli. La quale, andatasene a sua casa, li pose sopra di un finestrino; e, trovatosi a passare il figlio del Re, che andava alla caccia, e visto questa pignata sopra al finestrino, li venne volontà di far una scommessa con le genti di sua corte, a primo colpo frantumare la pignata. Come infatti, prese un sasso; e, buttatelo, fe la pignata mille pezzi. E venuta la vecchia nell'istesso tempo, e veduta la pignata ridotta in mille pezzi, li diede la maledizione, che si fosse innamorato della figlia di un'Orca; e che dalla socera fosse maltrattato in maniera, che sarebbe meglio per lui il morire, che vivere in così misero stato. E, se bene soglia dirsi, che le bestemmie, che da persone scelerate ci s'irrogano, il più delle volte soglionsi spargere ai venti, tuttavia colsero al Principe; tantochè in men di due ore n'esperimentò gli effetti, mentre, essendosi smarrito per quel bosco, nè sapendo dove aggirarsi, vide per casualità una donna così leggiadra e bella, nominata Filadoro, che, in mirarla solamente, restò talmente sorpreso dalla sua bellezza, che, divenuto estatico per qualche tempo, non sapeva comprendere ancora, s'era umana cosa, o divina. Indi, venuto in sè e fattosi animo, procurava con le più espressive parole amorose divisare gli affetti del suo cuore verso di lei e di esprimere la vittoria, ch'ella, in quella guerra di amore, aveva ottenuta sopra di sè. A quali parole corrispondendo Filadoro con altrettanta cordialità d'affetto, quanto era vaga, poteva dirsi, e con ragione, essersi tra di loro scambievolmente invaghiti. Ma, perchè le contentezze del mondo sono per lo più asperse dall'assenzio di qualche disavventura, accadde, che nel tempo tra di loro parlavano, fu sopraggiunto Ricciardetto dalla madre di Filadoro (ch'era una bruttissima Orca) e Ricciardetto subito tirò fuori la spada per ucciderla. Quale dalla medesima fu incantato, e condotto alla sua casa, ove disse l'Orca: attendi a lavorare come un cane, altrimenti sarai ucciso come un porco; facendoli assaggiare i più spaventevoli strazj, che avrebbero atterrito ogni magnanimo cuore. Onde l'Orca impose a Ricciardetto, che per la sera l'avesse fatto ritrovare sei canne di legna spaccate; e per ciascun legno ne facesse quattro pezzi. Con la promessa, che, se le dette legna non l'avrebbe trovate tutte spaccate, avrebbe fatto lui in pezzi come si fa un piccatiglio. A cotali parole, Ricciardetto si prese tanto timore, in sentir darsi quest'ordine dall'Orca, che restò estatico. Ma Filadoro fu subito a ristorarlo, e dissegli: Non dubitare, perchè io son fatata; e, per questa sera, farò trovare le legna spaccate a mia madre. E venuta la sera, l'Orca si portò in sua casa; ed andato a vedere, se Ricciardetto avea spaccate le legna, le ritrovò tutte spaccate, secondo l'aveva ordinato. Onde l'Orca pigliò in sospetto la figlia, e volle far un'altra pruova. Disse di nuovo a Ricciardetto, che, per la ventura sera, l'avesse fatto ritrovare spazzata una cisterna, che teneva mille botti d'acqua; e, se faceva il contrario, l'avrebbe ucciso, facendosene quattro bocconi. Filadoro, vedendo il suo caro amante star assai afflitto, li fe animo, e dissegli: Sta di buon cuore ed allegramente, perchè già è passato il tempo, che stava impedita la mia fatazione, ed io voglio venirmene teco, o viva o morta. Ricciardetto, sentendo questa nuova, cominciò con tanti gestri amorosi a farli carezzi, fin tanto che Filadoro fè un buco per sotto d'un giardino, che ivi era un condotto; e se n'uscirono fuori della strada, caminando frettolosamente verso la casa del padre di Ricciardetto. Ed arrivati ad un'osteria, poco lontano dalla casa del Padre, disse a Filadoro, che si fosse ivi trattenuta, che andava a sua casa a prendere cavalli, carrozze e servitori. Filadoro, restando a quell'osteria, e Ricciardetto, già incamminatosi verso la casa paterna ed arrivato, cominciò a salire le scale, la sua madre subito li fu addosso abbracciandolo; e, baciandolo, li fè molte carezze. Ma, per la bestemmia, ch'avea avuta dall'Orca, subito l'uscì di cervello Filadoro. Onde la madre di Ricciardetto l'esortava, che non fusse più andato alla caccia, e che si fusse accasato. Ricciardetto subito disse di sì. E la madre l'accasò con una gran signora, ch'era di Fiandra. Ora, facendo gran festa, ed avendo fatto un gran convito di gente, bisognavano de' cuochi; e, sparso per tutto quello Reame sì gran festino, venne all'orecchio di Filadoro. La quale, vestitasi da uomo, s'incamminò verso il palazzo reale; ed ivi, pregato i cuochi di cucina, la presero per guattero; e, postosi le tavole reali, tutti li signori e dame si posero a desinare. E Filadoro, avendo fatto di sua propria mano un grandissimo pastone, lo scalco, cominciato a tagliarlo, ne uscì una palomba così bella, che li signori e dame convitati restarono a mirare questa bellissima cosa. La quale con voce pietosa li disse: Avete desinato cervello di gatta, o Principe, che vi siete scordato dell'affezione di Filadoro? Oh sconoscente, così paghi li beneficj, che ti sono stati fatti, per averti levato dalle granfi dell'Orca, con averti dato la vita, e questa mercè le dai! E, dette queste ed altre parole, sparì fuori della finestra, che se la prese il vento. Il Principe, inteso questa doglianza, volle sapere da dove era venuto questo pastone; ed inteso dallo scalco, che l'avea lavorato un guattero di cucina, preso questo per bisogno, il Principe se lo fè venire in sua presenza. E, buttatosi a' suoi piedi piangendo gli dicea: Che ti ho fatto io? Il Principe, per la vaga bellezza di Filadoro, e per virtù della fatagione, che avea, si ricordò dell'obbligazione, che l'avea; e subito la fece alzare e sedere appresso di esso, raccontando a sua madre l'obbligo grande, che le dovea a cotesta bella giovane, e quanto avea adoperato per esso, e per la parola datagli, che era di necessario d'attendercela. La madre gli disse: Figliuol mio, fa quello, che a te piace, purchè sia onorata e la volontà di questa Signorella, che ti hai presa per moglie. Rispose la zita: Io vi dico il vero, che stava di mala volontà in questa città, ma voglio ritornarmene in casa di mio padre. Dove, inteso questo, il Principe gli offerse vascelli e servitù per farli compagnia. E subito fè vestire Filadoro con vesti reali, e si cominciorno i festini. E in un subito s'intese un gran rumore per le scale, salendo un brutto mascarone in mezzo della sala, quale disse di esser l'ombra della vecchia, che Ricciardetto l'avea fracassata la pignata, che per la fame era morta, e dissegli: Io ti biastemai, che fossi inciampato nelle mani di un'Orca: di già furno esaudite le mie preghiere, e, per la forza di quella bellissima fata, ne scampasti. E di più ti diede la maledizione l'Orca, che allo primo bacio ti fussi scordato di Filadoro; dove ti baciò tua madre, e Filadoro ti passò dalla mente. Ed adesso ti ritorno a maledire, che sempre ti possa ritrovare i fagioli d'avanti, che mi buttasti, e si faccia vero il proverbio, che chi semina fagioli le nascono corna. E detto, ch'ebbe questo, subito sparì. La Fata, che vidde il Principe impallidito, le diede animo; e con festa lo portò al letto; per confirmare lo istromento della nuova fede datoli, vi fece firmare due testimonj; e, per li travagli passati, furono più saporiti li gusti presenti».—Cf. Gonzenbach (Op. cit.) XIV. Von der schönen Nzentola; e LIV. Fon Autumunti und Paccaredda. In fondo, questo conto è tutt'una cosa con Rosella, Trattenimento IX della Giornata III del Pentamerone.—«Lo Gran Turco, pe' farese 'no vagno de sango de Signore, fa pigliare 'no Prencepe. La figlia sse ne 'nnamora e sse ne fujeno. La mamma l'arriva e le so' tagliate le mano da lo Prencepe. Lo Gran Turco ne more de crepantiglia. Ma, 'jastemmata la figlia da la mamma, lo Prencepe sse ne scorda. Ma, dapò varie astuzie fatta da essa, torna a mammoria de lo marito, e se gaudeno contiente».—Nel Conto dei Conti, si legge come segue:—«Il Gran Turco leproso, per quanto s'adoperasse, non poteva trovar rimedio al suo male. Fu consigliato da' Medici, che si facesse un bagno di sangue ottimo, come quello d'un Principe. Ansioso il Gran Turco d'esser guarito, subito spiccò varj corsari per mare, acciò facessero preda di qualche gran Cavaliere d'alto sangue. Ora li corsari, costeggiando le parti di Fortechiaro, incontrarono un battello, dentro al quale andava Paulino, figlio del Re di quel paese, divertendosi; e presolo, subito lo portarono in Costantinopoli. Li medici, quali avevano consigliato tal bagno, più tosto per dar tempo all'Imperatore, che per altro, senza frapporvi tempo, dissero, che il sangue del Principe reale non era buono, a causa che stava malinconico, per essere stato fatto schiavo, ma che era spediente farlo stare alcuni mesi allegro e piacevole. Il Gran Turco l'assegnò un appartamento, al quale era contiguo un giardino delizioso; e, per farlo stare d'animo sollevato, disse alla sua figlia Rosella, che avesse fatta compagnia al Principe, perchè ce lo voleva dare per marito. Subito che Rosella vidde la fattezza del Principe, se ne invaghì; ed il Principe scambievolmente di lei. Per la qual cosa, avendo gli amanti mezzo udito il segreto, pensarono di fuggire. Come in fatti, postisi sopra una filuca, principiarono a navigare in verso Fortechiaro. Il Gran Turco ogni giorno andava nel giardino, per veder come stava il Principe. Non trovandolo e vedendo, che la figlia parimenti era fuggita, svegliò la madre; e la fè andare nel giardino. Quando non vidde sua figlia e nemmeno il Principe, disse al Re: Lascia fare a me, che adesso io li accorto il cammino. E subito si partì verso la marina; e, buttata una fronde di lauro in mare, fe nascere una filuca sottile con molti marinari, che vi erano sopra; onde di tutta fretta si posero a navigare per giungere al Principe e sua figlia. Ma ella, vedendo venire la madre, che era vicina alla loro barca, disse al Principe: Tira mano questa tua spada, e siedi a questa poppa di barca; e, come sentirai rumori di catene e di crocchi, per incatenare questa nostra barca, con questa tua spada darai tanti colpi a chi ci perseguita, altrimenti sarem perduti. Il Principe, perchè aveva cara la sua vita, stiede sempre vegliante; e, quando la barca s'accostò verso di loro, e viddero gettate le catene in mare dalla Gran-Turchessa, il Principe con la sua spada li diede tanti colpi, che li tagliò le mani. Quale, gridando ad alta voce, bestemmiò la figlia, con dirgli: Il primo piede, che il Principe poneva nella sua terra, si fosse dimenticato della figlia. E, ritornata la Gran Turchessa in Barberia, se n'andò in presenza del Gran Turco con le mani tagliate, che scaturivan sangue in abbondanza; e li disse: Ecco, marito mio, che, nella mensa della fortuna, abbiamo giocato assieme, tu la sanità ed io la vita; e, finito di dir queste parole, se ne morì la Gran Turchessa. Arrivato Paolino alla propria città, disse a Rosella, che si fusse trattenuta per poco, acciò egli prima fosse andato a baciar le mani agli genitori. Non così presto pose Paolino il piede a terra, che, vedute le bellezze paterne e gli agi lasciati, si scordò della sua amante. Fattosi tardi, stimò Rosella espediente calare a terra. Si pose in cammino verso la città, ove si locò un palazzo dirimpetto al Re, sperando, che affacciatosi qualche volta Paolino, fosseli venuto in mente l'antico amore. Appena fu veduta alle finestre Rosella, che una quantità di cavalieri invaghitisi di lei, principiarono con mille maniere e vezzi a tentar, se la potevano far condiscendere alle di loro voglie. Procurò la giovane non isdegnarsi la Nobiltà, la quale potevale fare arrivare al suo desiderato fine; ma li tratteneva con varie e sempre dubbie parole. All'ultimo, secretamente si accordò con un Cavaliere, che le dasse mille scudi ed un abito di gala, e che fosse venuto la notte, che l'avrebbe contentato. Onde il Cavaliere, compratoli un bell'abito, tutto con schiuma d'oro, e portatoli mille scudi, andiede da Rosella; e la trovò coricata nel letto, che pareva una Venere in mezzo un campo di fiori. La quale disse al Cavaliere, che non si fosse coricato, se prima non avesse chiusa la porta. E, parendo ad esso di esser cosa di nulla, andò e chiuse la porta, e la porta si riaprì; e lui tornò a chiuderla e la porta nuovamente ad aprirsi. Tutta la notte se ne passò in questo spassatempo, senz'aver adoperato cosa alcuna. Onde, fatto giorno, chiamandolo poltrone ed altre ingiurie, il Cavaliere fu costretto andarsene. La seconda sera appuntò con un altro Cavaliere, domandandoli mille altri scudi ed un vestito ricamato. Subito il Cavaliere le fe fare il vestito; e, portatolo assieme con i mille scudi, si portò in casa di Rosella, quale (trovandola coricata) li disse: Smorza quel lume. Ed il Cavaliere, levandosi il cappello e la spada, cominciò a soffiare verso quel lume. Ma egli quanto più soffiava, più s'accendeva quella luce; dove tutta la notte non fè altro, che soffiare il lume; e non potè mai smorzarlo. Onde, fatto giorno, si partì vergognosamente. E venuto un altro gran Signore, e fatto appuntamento con Rosella, accordandosi con mille scudi ed una sontuosa veste, subito si portò in casa. Dove Rosella disse: Non volersi coricare, se prima non si fosse pettinato il capo. Rispose il Cavaliere: Lasciatelo fare a me. Onde Rosella si sedè ad una sedia, ed il Cavaliere ad un'altra. E, postosi il capo di Rosella nel seno, col pettine alle mani, cominciò a pettinar la testa di Rosella. E, quanto più pettinava, i capelli di Rosella più s'imbrogliavano, onde tutta la notte se la passò con questo passatempo, che non potè mai accomodarle la testa. Fattosi giorno, convenne al Cavaliere andarsene. E, portatosi nell'anticamera del Re, cominciò a discorrere con altri suoi pari, raccontando ciò, che li era successo. Rispose il secondo: Sta cheto, che se Africa piange, Italia non ride; e pianto comune è mezzo gaudio. Rispose il terzo: Vedete, che tutti tre siam macchiati di un'istessa pece, e ci possiam dar la mano senz'invidia; non stà di bene di esser corrivi, ma facciamonela pentire. Così si unirono tutti e tre; e andarono dal Re a raccontargli il fatto. Li Cavalieri, accorgendosi dell'inganno, non volendo restar burlati e delusi, la fecero chiamare dal Re, cercandole le loro gioje, abiti e denari; dicendo: Che ce l'aveano dato in prestito. La giovane, senza punto perdersi d'animo, andò dal Re, cui disse: Sire, non in altra maniera si poteva mantenere una Real Donzella, come io sono, fuori della paterna casa. Io son figlia del Gran Signore; e mi trovo in questa città, per aver liberato dalla morte il vostro Paulino, e per avermi egli dato la fede di sposo. Adesso corrono più mesi, che arrivati siamo colla filuca; e, sbarcato in questa Regia. Ed io più non lo viddi. Nè aveva gran somma di argento da potermi mantenere secondo lo stato de' miei natali. Li Cavalieri, quali mi querelano, mi diedero quelle somme, che cercano, ma per fine impudico e disonesto. La mia necessità mi sforzò a prendere il danaro; ma non per questo dovere degenerare dall'esser mio, con acconsentire al loro dissoluto appetito. Questo è, Sire, lo stato mio; fate ora di me quel, che vi piace. Restò a tale avvento attonito il Re; e, chiamato il figlio, si fece confirmare quanto per suo affetto operato aveva la generosa donzella. Si risvegliò allora la memoria del passato affetto di Paulino. Cercando perdono a Rosella dell'involontario oltraggio, allora, col consenso del Re, le diede l'anello, e la condusse per la mano nel suo appartamento da Consorte».—Cf. Gonzenbach. (Op. cit.) LV. Geschichte von Feledico und Epomata. Tra le Ducento Novelle del Signor Celio Malespini, nelle quali si raccontano diversi amorosi avvenimenti, così lieti come mesti et stravaganti ecc. ecc. ( In Venezia, MDCIX, al segno dell'Italia ) ve ne ha una, che, essendo perfettamente identica, merita d'esser quì riprodotta. S'intitola: Matrimonio di Filenia, figliuola del Re d'Egitto. Ma dee leggersi Pirinia, come vien sempre chiamata nel corpo del Racconto.

Matrimonio di Filenia, Figliuola del Re d'Egitto.

Fu già nell'Egitto un Re, chiamato Aristodemo, il quale oltremodo tiranneggiava tutto quel Regno; il che compassionando il giusto Dio cotanti mali, lo fece divenire leproso. E, facendo egli la sua principale residenza nella città di Menfi, teneva (male suo grado) per tale infirmità, basse l'ali. Onde, per non rimaner sepolto continovamente in cotanta miseria e calamità, fece chiamare a sè tutti i medici del suo Regno, dicendogli:—«Procurate il modo e la via, perchè ricuperi la mia perduta salute, che io ve ne renderò buon guiderdone, e non poca mercede delle fatiche vostre; ma avenendo, che ne segua il contrario, io vi giuro per la mia Corona, di farvi morire tutti miseramente, senza havervi al mondo un minimo rispetto, cotanto voi mi sarete in odio e disprezzo».—Udito coteste parole da uno di loro, quale era riputato più dotto e savio de gli altri, rispose:—«Se la vostra infermità, o Sacra Corona, ella fusse curabile, l'arte nostra vi sarebbe giovevole e buona. Ma essendo ella una egritudine molto difficile et inscrutabile da risanare, che appena il figliuolo di Latona ardirebbe di prenderne la cura, imaginatevi se noi hora ne temiamo».—Al quale il Re rispose:—«Che mi deggio hormai far de' fatti vostri, essendo l'arte vostra manchevole nelle parti più necessarie? Ella è adunque propriamente un aggiungere l'acqua al sale. Con tutto ciò, io vi assegno termine di tre giorni, per cercare e trovar rimedio tale, acciocchè io mi riveggia nel mio pristino stato, se però voi non vorrete morire tutti di morte acerba e crudele. E per ciò fare, io voglio, che rimanghiate tutti nel mio palazzo; e che in questi tre giorni stieno chiuse tutte le porte, acciocchè potiate vedere meglio e considerare la mia infirmità».—Sentendo ciò i poveri medici, io il vi sò dire, che l'hebbero bella, e che filarono filo sottile. Nulladimeno, fattosi avanti un intrepido vecchio, che era dietro a tutti gli altri, gli disse:—«A volervi in somma, Sacra Corona, guarire, io conchiudo, che al vostro dispietato male, non si trovi, se non un rimedio solo; che è, che volendovi risanare, egli conviene, che voi habbiate un delicato giovanetto, nato di sangue illustre; quale fattolo svenare, vi facciate bagnar sovente il corpo con il sangue suo, e tutte le altre parti offese. Et avenga che il rimedio sia crudele et inhumano, non resterà però, ch'egli non vi possa risanare».—«Io non mi curo»,—disse il Re—«di cotesta crudeltà, pur che io ne rimanga guarito: non ripugnando legge alcuna là dove si vede la necessità, essendo quella, che annulla e rompe ogni Decreto. In oltre la primiera carità incomincia da sè stesso».—E dette queste parole, egli mandò a chiamare alcuni Pirati, suoi fedeli schiavi, dicendogli:—«Amici, che nel bisogno siete perfettamente stati lontani da gli adulatori, hora io vederò, quale di voi mi ami».—Poscia loro narrò la sua calamità e tutto quello, che si doveva esequire in cotanto bisogno. Sentendo eglino il desiderio suo, risponderono con larghe e pronte parole:—«Se la salute vostra, o Sire, ella consiste in cotesto, rendetevi sicuro, che ben tosto voi rimanerete ubidito, e servito da noi». —E detto ciò, si aviarono incontanente verso il mare; e, con otto legni spalmati e provveduti benissimo di tutte le cose necessarie, si divisero in quattro parti, navigando per diverse regioni. Il più pratico e perito del mare, havendo buone ciurme e soldati, egli prese il camino verso la Sicilia. E, costeggiando d'intorno l'Isola di Malta, si avenne in un figliuolo del Re Terminione, bello et accostumato fuori di modo, accompagnato da molte Dame e Cavaglieri, quale se n'andava sopra di una fusta a diporto per il mare. Ma quegli, che considera i piaceri humani, vi trovarà sempre mescolato dentro qualche amaritudine, che gli amareggia, però non sono veri; e, quanto più si prendono dall'huomo prontamente, tanto più lo trabbocca, e spinge in parte malvagia e tenebrosa, che così adivenne al giovanotto, che (come io ho detto) se n'andava sollazzando per la marina. Il che la fusta fu in modo intorniata e stretta dal crudel Pirata, che non puotè mai trovar riparo, nè difesa alcuna, che le giovasse, che finalmente non restasse presa, rimanendo egli prigione con tutti i suoi. Credendo l'addolorato padre, ch'egli fusse andato a Malta, l'attese più e più giorni. Tra tanto, il lieto Corsale se ne ritornò con vento propizio verso il Levante; e, giunto in Alessandria, libero da ogni periglio, vendè tutti i prigioni ad un Ammiraglio suo amico, salvo che Lirinio, che così si chiamava il giovanetto; quale lasciò sotto buona custodia sin tanto, ch'egli ritornò in Menfi, che l'appresentò poi al Re, che l'hebbe molto caro; e gli fece donare tant'oro et argento, ch'egli non si vide mai più povero, potendo lasciar da canto il corseggiare. Or il lieto Re, fatto chiamar a sè i Medici, loro impose, che hoggimai gli dovessero apprestare il bagno, prima che il male (non lo potendo più sopportare) ne prendesse maggior radici. Al quale il Medico, che gli parlò prima del rimedio, rispose: Come non bisognava correre così frettolosamente, importando più il danno, che la vergogna, poi che il sangue del giovanetto, per il timore sofferuto, era molto corrotto, vedendosi far prigione nel proprio paese, et ivi condurre: però il bagno non gli farebbe operazione alcuna, anzi potrebbe danneggiarlo molto. In oltre, la stagione era contraria all'impresa. Però, che si dovesse attendere la Primavera. E che fra tanto si dovesse trattenere il giovanetto in dolce conversazione, nè lasciarlo patire di cosa alcuna, facendogli ogni favore e cortesie, dandogli servitori, armi, cavalli, falconi, sparavieri, cani, et ogni altro simile diletto e trattenimento. Et anco infingere di volerlo maritare nella sua figliuola; poi che così lieta speranza lo farebbe star allegro e consolato, sì come si fusse propriamente nella patria sua. Avertendo sopra tutte le cose, che non gli venisse mai all'orecchio il suo fine doloroso: poi che qualunque diletto, che egli godesse, per tale raccordazione, lo tenirebbe sempre in continue amare lagrime e sospiri; di modo, che l'opera rimarrebbe impedita et infruttuosa. Convinto il Re dalle tante vere et apparenti ragioni, si fece condurre innanzi il giovanetto; e, con lusinghe e belle parole, favellò seco buona pezza, dicendogli:—«Non pensate già, che io vi voglia tenere come gli altri miei schiavi; havendovi io eletto per unico herede del mio regno, se il tempo però, si come spero, mel concederà, poi che la fama, che io ho havuta di voi, m'indusse a farne così bella e dolce rapina.»—Soggiungendo:—«Sappiate, come io ho solo al mondo una figliuola, molto bella e gentile, la quale può stare perfettamente ad ogni parangone nelle sette arti liberali e così anco in qualunque altra scienza e dottrina, chiamata Perinia, con la quale io vi voglio maritare, per lasciare al mondo, dopo di me, qualche rampollo».—E, per darle di ciò più maggiore speranza, la mandò a chiamare. La quale, accompagnata dalla Regina sua madre, comparve. All'apparire di così suprema bellezza, il giovanetto pose in oblio ogn'altra pena et affanno, rallegrandosi grandemente fra sè, dicendo:—«Or se costei risplende tanto in questa terrena vita mortale, che fie mai poi il contemplare l'anima sua nel cielo? Sia pure egli benedetto l'anno, il mese, il giorno e l'hora, nella quale io fui legato e preso, ed ella, che cotanto m'infiamma et accende, inducendomi in così dolce fuoco! Benedetto sia il paese e l'albergo, dove io son giunto; e fiamma così dolce e soave, quale senza offendermi punto, m' arde e distrugge per lei, anzi mi raviva e raccende tutto d' vn puro et vero amore. O soavissima feruta, che io sento e patisco per lei! O felice catena, nella quale mi ha Amore involto e legato! Non mi sciolgere già, o fortuna, da così mia dolce e soave servitù! Non pianger più, mio Genitore, rasciugati gli occhi e le guance, poichè le tue lagrime sono perdute et infruttuose: ma goditi in pace il tuo bello e lieto paese Siciliano; poi che io mi trovo lietissimo in cotesto mio stato».—Non meno di lui, la bellissima Perinia rimase accesa del bel giovanetto, piacendole molto il suo leggiadro sembiante e dolci maniere. La quale, havendo già vdito dalla madre l'iniqua volontà del Re suo Padre, rimase per buona pezza molto sospesa; considerando, come potesse raffrenare la crudeltà paterna. Mentre che il bel giovanetto dimorò dalla fine d'ottobre sino nel principio d' Aprile nella città di Menfi con il petto pieno d' amorose saette, le quali l'havevan reso così sicuro: poi che l' innamorata Perinia le faceva parere con la sua vaga e dolce vista, lo 'nferno, il Paradiso. Il perchè, in molte giostre e tornei, fatti per amor suo, egli rapportava sempre da quelli la gloria e l' honore, per il quale s' augumentava vie più maggior fuoco nella giovanetta. Giunto il tempo di sacrificarlo, per meglio nascondere il Re la sua morte, lo mandò con la Regina e Pirinia ad vn suo Castello fuori della Città, chiamato Monteflorido, nel quale nell'estate vi faceva la residenza, con promissione, che tantosto vi sarebbe anch'egli venuto, parendogli essere hoggimai il tempo d'accompagnarlo. Onde il lieto giovane vi andò volentieri. Ma ella, che sapeva il fine crudele e doloroso, che il Padre gli haveva preparato, pianse fra sè grandemente; parendole, che cotesta fusse grandissima crudeltà, che per conservare vn huomo vecchio, si dovesse così bello giovanetto annichilare et estinguere. Or giunti nel Castello, ella terminò di voler porre l'honore e la vita per la sua salute; onde, trattolo a parte, le scoperse la trama del padre crudele, e che per risanarsi voleva fare un bagno del suo sangue, soggiungendo:—«Io ve l'haverei già detto più mesi innanzi, ma, per non cagionarvi cotanto dolore, con grandissima fatica, me ne sono sin hora rattenuta. Ma trovandoci noi hora in cotesto luogo, dove è il fiume Nilo, io ho provveduto e proveggo tuttavia, per l'infinito amore, che io vi porto, per il vostro scampo e per la nostra salute. Ma avertite di non far poi sì, come fece Theseo verso di colei, che lo trasse di prigione; non movendomi io per fine alcuno cattivo, ma solamente per pura pietà e compassione, che io ho di voi; non credendo io mai, che il Cielo mi danni o riprenda di cotesto: poichè, come si dice, Vn pietoso vfficio è atto e bastante a placare i Dei nel Cielo. Ma io voglio però, che voi mi prendiate in moglie, promettendomi con vera e pura fede, di non spiccarne mai da me frutto, nè fiore, fin che non habbiate fermo il piede là, dove (credendovi morto) vostro padre sospira e piange».—Sentendo il giovanetto così dolorose novelle, rimase in così fatto modo attonito e confuso, ch'egli perdè la favella, e dimorò per buon spatio di tempo pensoso et addolorato. Di che l'innamorata Pirinia vedendolo in stato tale, le disse:—«Aimè, chi v'impedisce mai la lingua, e la voce, che voi non mi potiate rispondere? dove è egli mai il vostro solito ardire; e le vsate forze vostre? Come è egli mai possibile, che voi non mi favelliate?»—Alle cui dolci et humane proposte, innalzando gli occhi ne' suoi, così gli rispose:—«Il colore, l'ardire e le forze, anima mia, et anco quasi lo 'ntelletto, per il grave duolo, che io ho sentito nell'animo, non vi è mancato poco, che non mi sia morto il core nel petto. Il che ciò sarebbe seguito, se non fussero state le vostre dolcissime parole, le quali m'hanno fatto risuscitare da morte a vita. Perlochè io vi priego, di non temere giamai, che io vi tradisca et abbandoni; accettandovi per mia dilettissima e carissima sposa. E di ciò io chiamo in testimonio gli Dei, i quali co' suoi tremendi fulmini m'ancidino, se io sarò giamai ripugnante ad ogni minimo vostro volere».—E, ciò detto, gli pose l'annello in dito. Conchiuso fra loro il matrimonio, ella le diede vn pezzo d'Elitropia, dicendoli:—«Sappiate, Signore, che cotesta nasce nell'Ethiopia, la cui virtù rende invisibile quello, che la tiene addosso. Però gite voi per questo giardino alle sponde del Nilo, et ivi attendetemi, sin che io ritorni da voi. E perchè vederete venire gente in vna barchetta giuso alla seconda per il fiume, ditegli che si fermino, che subito vi ubidiranno; e non vi partite mai da loro, fin che voi non mi veggiate ritornata, che io non tarderò molto».—Ond'egli si aviò incontanente verso il fiume accennatogli. Ed ella se n'andò in camera; et vedendo dormire profondamente la Regina sua madre, appressatasele, le pose nella veste vn certo breve, composto a guisa di raggi solari, la cui virtù augumentava il sonno in modo tale, che il dormiente non si poteva mai risvegliare, sin che lo tenesse addosso. Ciò fatto, havendo anch'ella dell'Elitropia, che la custodiva dall'esser veduta dalle cameriere, aperto ch'ebbe un coffano pieno di gemme preciose, d'esse ne prese a sufficienza. E se n'andò poi frettolosamente verso il Nilo, là dove era il suo sposo nella barchetta; et entratovi dentro, spiegarono i marinai subito le vele; et, volando a guisa di pennato strale, n'andarono giuso alla seconda per il fiume. Di che il lieto Terminione, cangiato viso e maniere, gli disse:—«Dove è mai egli, Pirinia mia, il Castello, che non guari dianzi ci era a fronte? O quanto noi l'abbiamo perduto di vista!»—Di che ella, ridendo, rispose:—«Non cercate voi di sapere altro per adesso, poichè, volendo io, e che mi bisogna, io sò far di molte cose, che l'istesso saperebbe far anco mia madre, se io non l'avessi sommersa nel sonno, parendo morta veramente. Sì che voi potete vedere quanto egli sia grande l'amore, che io vi porto, e quanto che possono l'onnipotenti forze d'Amore».—L'addormentata Regina, trovata a dormire dalle sue Camariere, havendola tollerata per lungo spatio di tempo, incominciarono molto a temere di lei. Onde più e più fiate la chiamarono e scossero, senza poterla mai far risvegliare; di che non poco se ne isbigottirono. Et incontanente mandarono due donzelle a chiamar Pirinia. Le quali, chiamandola per il giardino, là dove l'havevano lasciata, e chiedendo di lei a tutti quelli del palagio, i quali dicevano, non haverla veduta, cagionò loro un grandissimo pianto. E mentre che, piangendo, la cercavano tuttavia, vennero i Medici del Re; et, vedendo piangere ogn'vno, dimandarono quale si fusse di ciò la cagione. A' quali le povere donzelle dissono:—«Noi non piangemo senza cagione, non trovandosi Pirinia. Nè sappiamo, dove ella sia andata. E la Regina è tramortita, che non può favellare».—Sentendo ciò i Medici, andarono subito là dove era l'addormentata Regina; et imposero alle Camariere, che la spogliassero. Le quali non così tosto l'hebbero levata la prima veste, che il breve perdè ogni sua forza et vigore. La quale risvegliata, si avvide, benissimo all'insolito dormire, che Pirinia, sua figliuola, l'haveva ingannata e tradita. Il perchè il grandissimo duolo e furore più e più volte ella si morse le mani; e, crollando la testa, girò tanto gli occhi, che finalmente ella trovò il breve nella veste. E conosciutolo, sì come Maga dotta et esperta, s'avidde subito per le sue arti, che la bella e gentile Pirinia era già lontana più di dieci leghe, navigando per il grandissimo e corrente fiume; e che il Cielo era propitio al loro viaggio, e che era meglio il lasciarla gire in pace, che impedirla. Nulla di meno se ne sdegnò fuori di modo, che, essendole figliuola, et vscita dal suo ventre, per liberar dalla morte vn huomo non conosciuto, l'havesse tradita et abbandonata; rimproverandosi, dicendo:—«Io ho voluta far costei più di me dotta e perita nell'arte magica, acciochè ogn'vno dicesse apertamente, che io havessi vna figliuola, la quale non havesse prodotta giamai la natura vna simile. Ecco hor il bel guiderdone, ch'ella mi ha reso!»—Finalmente, vinta dal dolore e dallo sdegno, incontanente ella fece apparire vna barchetta simile a quella di Pirinia; e le andò dietro così velocemente, sì come gisse mai falcone dibattendo l'ali, assediato et vinto dalla fame, sì come fece ella seguendo la figliuola: poi che in meno di vn'hora fece più d'ottanta miglia. Ispaventati i Medici del caso, si risolsero di sgombrare il paese, dicendo:—«Se noi siamo ritrovati dal Re, tutte l'offese caderanno sopra le nostre spalle: essendo cosa pessima l'havere da far co' disperati».—E così, tutti d'accordo se ne girono in Damasco a salvamento. Presentita la saggia Pirinia il furore, e la vicinità della madre, l'avisò subito al suo sposo, immonendolo di quanto egli dovesse fare, essendosi ella mossa con grandissima comitiva di spiriti per vendicarsi di loro. Soggiungendo:—«Se l'vsato cuore et ardire regnerà in voi, noi se n'andaremo (male grado suo) vittoriosi et salvi. Prendete dunque l'Elitropia, che io vi diedi; la quale, mentre che voi l'haverete adosso, non vi potrà mai veder humana vista».—E, formato poi un circolo, le disse:—«Per qualunque horribile e spaventosa cosa, che vi apparirà o veggiate, non vscite mai fuori di esso, tenendo sempre in mano la vostra spada, non temendo punto; poi che mia madre non potrà vedere se non il corpo della barchetta: ma conoscerà però, per il grandissimo suo sapere, se sì o no, noi vi siamo dentro, e si sforzerà di primo affronto di legare la sua barchetta insieme con la nostra. Il che, se ciò le succedesse, sì come ella desidera, ne rimarrebbe vana et infruttuosa ogni difesa nostra. Però sarà il vostro dovere e carico a tenerla lontana con la spada da noi. E non vi caglia, se gliene aviene danno alcuno, mentre che noi rimanghiamo vincitori».—Allhora videro incontanente venire la Regina con grandissimo rumore e fracasso di venti e procelle, che altre simili non videro giamai nel mondo. Con tutto ciò, l'ardito e coraggioso Terminione, attento sempre e pronto nelle difese, non paventò nulla, nè declinò da gli ordini impostigli dalla saggia Pirinia; attendendola coraggiosamente, a guisa di ferocissimo leone, che attende, che il cerbio giunga al varco. Haveva già l'adirata Regina vnite insieme le due barchette, volendole legare con una catena di ferro nelle parti estreme, che ciò veduto dal non paventato Terminione, gridando gli disse:—«Tu procuri di fare quello, che non ti succederà!»—e con la spada d'vn rovescio le tagliò ambo le mani. Quando la furibunda Regina vide multiplicato il grave danno, priva d'ogni speranza e carica di dolore, l'incominciò a maladire, dicendole:—«Io ti condanno, traditore, che quando tu sarai giunto nella tua patria, la prima volta, che sarai baciato, ti scordi in tutto e per tutto di costei».—E, dopo lo congiuro, colma di cordoglio e di spasimo, fuggendo, rivolse subito la barchetta verso di Monteflorido (stridendo fortemente, poichè l'ingorda Parca se l'appressava già per darle l'vltimo crollo). Dalla quale vscita fuori, ella vi giunse appunto il Re suo marito, che era entrato nel giardino. Al quale con brevità di parole il tutto le fece palese, dicendole:—«Tu speravi già di bagnar il corpo tuo brutto e lacerato nell'altrui sangue; ma colui, che volesti far esangue, egli si è condotto con Pirinia in così fatto modo, che perisco e moro, rimanendo tu senza moglie e senza figliuola, ripieno di acerbissime doglie».—E, detto queste parole, ella pose il fine al corso della vita sua, cadendo ai piedi del mesto et addolorato marito, che non gli puotè dar soccorso alcuno, essendogli vscito da' monchi tutto il sangue dalle vene, del quale ella era tutta lorda e bagnata. Per la qual cosa il povero e dolente Re, veduto il strano fine della 'nfelice Regina, rimase buona pezza isbigottito, senza muoversi punto. E, ritornato in sè, disse:—«Niuna altra cosa non mi ha fatto danno, se non che io volli prestare troppo fede a' Medici, i quali, sì come io veggo apertamente, m'hanno tradito, essendosi fuggiti; ma faccino pure quanto si vogliano, che io porrò loro cotante reti e lacci, benchè sieno salvati in altre parti, che non potranno fuggire dalle mani mie».—Seguirono i duo lieti amanti il loro viaggio con allegrezza infinita, a guisa di quelli, che, vsciti fuori della catena, ricuperano la loro perduta libertà, quali, havendo salvata la vita, non si sovengono più di pena alcuna. E navigaron tanto, che finalmente giunsero nel porto di Trapani, nel quale isconosciuti, vi rimasero alcuni giorni, infingendo d'essere mercatanti fuggiti dalla fortuna del mare. Poscia il lieto Terminione gli disse:—«Il stare nostro così egli è un perdere il tempo. Però io ho deliberato di lasciarvi qui con vna o due serve, sin tanto, che io vadia in Siragusa, là dove dimora mio padre, quale non sa anco nuova alcuna di me. Et indi poi con la commitiva di Dame e Cavaglieri, che si richiede a Dama cotanto magnanima, sì come siete Voi, piacendo a Dio, io vi verrò a ritrovare».—Vdendo ciò la bella Pirinia, se ne contentò, rimembrandole l'obligo e la fede, che le diede e giurò; e ch'egli non comportasse giamai, che lo baciasse donna alcuna; soggiungendo:—«Voi vi dovete sovenire, che la Regina mia madre, disperata dell'impresa, vi diede la maladittione, che, giunto che voi fusti nella Corte di vostro Padre, non accettiate per questo rispetto bacio alcuno da qualunque donna, per bella, ch'ella sia, e che vi s'appartenga di sangue, se voi amate et apprezzate la persona mia. Imperocchè, non così tosto che voi fusti baciato (che vi sarebbe però non poco biasimo) voi vi scordareste di me».—L'allegro Terminione, che gli haveva promesso con giuramento di non toccare mai donna alcuna se non lei, gli promisse di nuovo e giurò di così fare. Il che chiamato a sè l'hoste, quale era huomo da bene, gli disse:—«Voi potete acquistare un buono amico, del quale vi giovarete e lodarete sempre, e forse più che voi non pensate, e ciò con durare pochissima fatica, conservandomi questa mia giovane, sino al mio ritorno, accarezzandola e servendola».—«Andate pure voi allegramente»,—rispose l'hoste—«poi ch'ella sarà servita e custodita da me, sì come s'aspetta all'honestà di quattro figliuole da marito, che io ho al mondo, la più grande delle quali dimostra essere di uno stesso tempo di lei, che non è forse men bella e leggiadra. Io oltre, io vi prometto d'haverne il pensiero e governo, ch'ho delle mie proprie, e di non albergare mai mercadanti forastieri, nè altri, mentre che voi sarete lontano da noi».—Egli alhora, dopo d'haverlo ringraziato, lagrimando quasi di tenerezza, prese congedo dalla bella Pirinia; et imbarcatosi in vn naviglio, egli navigò tanto, che finalmente giunse in Siragusa. Et vestitosi in guisa di mercante se n'andò a Corte; chiedendo ad alcuni cortigiani la cagione, per che si fussero vestiti di nero. Al quale vno di loro rispose, dicendogli:—«Tu sei bene, amico fratello, fuori di te stesso, non sapendo caso tale! Come può egli mai essere, che tu non habbia vdito, là dove tu sei stato, l'horribile avenimento di Terminione, che ha perduta la vita, e noi non sappiamo dove, nè quando? Però la Corte si è vestita tutta di panni lugubri; e già fa l'anno, che il Re suo padre sta rinchiuso per la morte sua, in vna camera».—Vdito da Terminione, disse:—«Io il vi so dire, che voi piangete vno, che è vivo tuttavia. E, se il Re vuole, io gli ne farò vedere prima che passi questo giorno. E trovandomi in bugia, io voglio, sì come bugiardo, perdere la vita e tutti i miei beni».—Allhora uno di loro, che era Maggiordomo del Re, sentendo coteste parole, lo condusse subito nella camera del Re, quale era coperta tutta di panni neri, non vi si scorgendo, se non che mestitia infinita. Or per accertare di sè il padre, deposto Terminione l'abito mercantile, gli si scoperse per figliuolo. Il Re, che si haveva sognato la notte di vedere tre volte il figliuolo in habito tale, nel quale gli si era appresentato, al primiero sguardo subito lo conobbe. Il che lagrimando, ancorchè havesse scacciate da sè le lagrime e non sentisse più duolo alcuno, nondimeno non le puotè rattenere per gran tenerezza, dicendogli:—«Quale mai fortuna iniqua e ria fu quella, figliuolo mio, che mi ti tolse?»—Et vedendo egli sopraggiungere la Regina sua madre, ch'haveva già vdito lo arrivo suo, et lo voleva abbracciare e baciare, sovenendosi del grave danno della sua bella Pirinia, si disciolse da lei, dicendogli:—«Non v'incresca, io vi priego, o madre mia, se io ricuso i vostri baci et le accoglienze vostre; nè vi dirò però la cagione, che mi muove a ciò fare, havendo bisogno di riposare».—Vdito ciò dalla Regina, le disse:—«Fate ciò, che vi piace, che io me ne contento: poichè, essendo io stata vn anno intiero senza baciarvi, io potrò ben anco dimorare vn giorno; contro però ogni mio volere, per compiacervi».—Poscia, spogliatosi l'habito funebre, Terminione se n'andò a riposare securamente. Nè appena hebbe chiusi gli occhi, che la pietosa madre sopravvenne; et, vedendolo dormire soavemente, lo baciò furtivamente, non si potendo satiare di non accarezzarlo. Per i quali baci, ne rimase spenta in lui la sua gentile Pirinia, sì come non l'havesse veduta giamai. Poscia risvegliato, raccontò al Padre di punto in punto tutte le sciagure sue, senza però nominare l'obbliata Pirinia, che le era vscita affatto dalla mente, per i baci ricevuti dalla madre.—«Essendo, figliuolo mio, ritornato,»—disse il Padre—«ricco di salute e povero di spoglie, ti devi però allegrare, havendo posto il fine alle miserie tue. E, s'egli non ti spiacesse, volentieri io ti vorrei accompagnare con una bella e ricca moglie di stirpe illustre, et herede di tutta la Sardigna, e per molti bei e rari costumi, sì come il sole, risplendente».—Egli alhora, che punto non si rimembrava della sua vaga Pirinia, rispose, di esequire ogni suo volere. La Regina, desideratissima delle nozze, sollecitava il marito, acciocchè si dovesse subito conchiudere il matrimonio, e mandare per la sposa, senza di attendere, che altri la chiedesse in moglie. Sopra di che mandò il Re incontanente quattro ambasciatori per trattare e terminare il parentato. I quali, senza molta difficoltà, in nome di Terminione, le dierono la mano; rimanendo uno di loro Luogotenente di Sardigna, confermato da tutti i vassalli e paesani con infinita allegrezza e soddisfatione; e gli altri tre s'imbarcaron poi con la bella sposa, con molto tesoro e pompa, accompagnata da cinquanta cavaglieri, più ricchi e nobili di tutta l'Isola. Or havendo anteveduto la leggiadra Pirinia l'affronto, che ne doveva ricevere dal marito, frettolosamente ella dipartì da Trapani. Et prima che si licentiasse dal buon hoste, le fu cortese e donò tanto, ch'egli puotè benissimo maritar le figliuole. E salita poi con due serve nella barchetta, le fece fare cose maravigliose, et in un baleno ella giunse in Siracusa. E fra i più nobili della città ella prese a pigione un bellissimo palagio, molto dissimile però dal suo, ch'haveva nell'Egitto, havendo più rispetto alla necessità sua, per il caso adivenuto, che alla grandissima sua nobiltà; dimorando in quella Città, nella quale non si poteva dar altra donna, che lei il preggio di singolare beltà, per la quale molti ardevano e consumavano per suo amore. E fra gli altri, ci erano tre baroni de' più principali della Città, più ricchi e favoriti del Re, i quali, credendosi d'essere vguali al stato suo, si erano accesi fuor di modo et invaghiti delle sue dolci maniere e gentili costumi, stando tutto il giorno su l'ali, pensando di poter adempire i vani desiderij loro, conducendogli Amore in modo tale, che l'uno non sapeva dell'altro. Avedutasi di loro la bellissima Pirinia, fra sè disse:—«Havendomi il mio sposo tradita, ingannata, obliata; e non più conosciuta da lui, havendo havuto l'intenzione di mia madre, il suo desiderato effetto; io voglio cotesti tre, che cotanto mi oppressano e lusingano (favorendomi però il Cielo) trattargli in modo tale, che, innanzi ch'eschino fuori del laccio amoroso, tremino nel fuoco et isfavillino nel ghiaccio».—E per ciò eseguire, ella si lasciava vagheggiare da tre finestre, che scoprivano diverse strade, hora dall'uno et hora dall'altro, accrescendo di giorno in giorno le rare et vniche bellezze sue con diverse preciose gemme, che in grandissima coppia haveva seco arrecate, potendole cangiare molte volte al giorno, e prenderne dell'altre più ricche e belle. Et avendo una serva molto veduta e scaltrita, che gli manteneva in grandissima speranza, parlandole sovente in vna certa casetta alquanto fuori del vicinato, non restando di non aggiungere sempre legna al fuoco, conforme all'vso delle ruffiane, la quale finalmente gli indusse a pagar tutti di molti scudi, volendo godere dell'amore della sua padrona. Ella si compose con il primo, che, dandogli per vna notte sola quattromila scudi, haverebbe havuto la bella Pirinia ad ogni suo piacere, ispicandone la primiera rosa del suo dolce giardino. Egli, che tutto si distruggeva per amor suo, gli disse:—«Se non bastano quattromila, gli ne darò anco diecimila, se tanti ella ne chiederà, i quali già sono in pronto et apparecchiati. Et da cotesto voi potrete comprendere, se io l'amo di perfetto core».—E così gli mandò e denari, pregando instantemente che 'l sole si tuffasse nell'Occidente; perchè non lo potesse vedere persona alcuna, per ritrovarsi con essa lei. La sagace serva, così instrutta dalla sua padrona, le disse: Ch'egli non dovesse venire innanzi, che non fosse passata vn'hora di notte; e che si riducesse all'vscio del giardino, che l'haverebbe introdotto. Or vedendo egli declinato il giorno e giunta l'hora impostale, se n'andò, sperando egli d'haver la più dolce e felice notte, ch'havesse havuta giamai. E, giunto all'vscio del giardino, fu subito introdotto, e condotto nella camera della leggiadrissima Pirinia, la quale fiammeggiava e risplendeva, come un proprio sole. Il che egli, rimirandola tale, si maravigliò oltre modo; e stupefatto, non puotè mai favellare. Poscia fra sè riprendendosi, disse:—«Che fai tu adunque, sciocco, che tu sei, a contemplarla tanto? O quanto ti starebbe bene ogni male, che ti avenisse, potendo tu hora estinguere il tuo gran fuoco, quale non spegnendolo cotanto t'arde e consuma, lasciandoti distruggere per viltà di cuore».—E, detto ciò, si mosse per abbracciarla. Ond'Ella contrariandolo, le disse:—«Voi siete, Signore, tropo frettoloso, et importuno. Però, potendovi io comandare in casa mia, vorrei che voi osservaste l'uso del mio paese, qual'è: ch'egli non è lecito ad vn amante di corcarsi con la sua Dama senza pettinarsi il capo».—Il perchè, parendogli ciò obbligo e carico, molto facile e lieve, punto non gli si oppose. Ond'ella, in lieto et amoroso viso, le diede in mano un pettine d'avorio, incantato in modo tale, che l'astringeva vbidirle. Mentre ch'egli si pettinava, havendolo destinato a stare tutta la notte con il pettine in mano, spogliata se ne andò a giacere; e, schernendolo, lo chiamò, dicendole:—«Venite hoggimai, se voi vi sete pettinato, che io sono pronta et apparecchiata ad ogni vostro piacere».—Egli, che non solamente l'vdiva, ma anco la vedeva corcata nel letto, non guari lunge da lui, nondimeno, violentato dallo incanto, non vi poteva gire, convenendosi pettinare e star con il pettine in mano. Di che non vi fu giamai chioccia più ispennacchiata di lui, cadendogli dal continovo pettinare i capelli, e dolendogli tutto il capo, dicendo fra sè:—«Chi mi ha egli mai condotto, senza frutto alcuno, in cotanta servitù? che siagli maladetto Amore, e chi gli crede, e chi fu mai il primo a risolversi di perseverare nella fede sua, la quale conduce l'huomo fuori di sè stesso: poi che per frutti così insipidi et amari, io gitto via il tempo, la fama et e danari».—Havendo dormito la vaga Pirinia tutto il suo bisogno, si risvegliò; e, per più dileggiarlo, le disse:—«In vero, che io in servizio vostro, io mi vergogno, che essendo già vscito il sole dall'Oriente, parendomi in sogno propriamente; voi non vi siate fornito di pettinare. O bella prova d'un innamorato, sì come siete voi!»—Vedendo egli avicinare l'Aurora, languido e stanco, gli disse:—«Egli non mi duole, se non di me stesso, benchè voi mi habbiate legato con le vostre diaboliche arti, con questo pettine in mano, pettinandosi tuttavìa. Ma increscemi bene, che hoggimai voi non mi liberiate, godendo cotanto del mio dolore et affanno, lasciandomi gire per i fatti miei. De' quattro mila scudi, che io vi ho donati, non me ne curo, facciovene dono, mentre che voi mi sciogliate da cotanti tormenti, innanzi che sieno piene di genti tutte le strade».—«Perchè non ve ne gite voi?»—disse ella—«potendo, piacendovi, gir liberamente ad ogni vostro talento; bastando a me di conoscere quanto si vaglia vn cavagliere Siracusano con le Donne, impiegandosi, in vero, malamente l'amoroso strale in un corpo, così rozzo et villano, sì come è il vostro?»—Cotesta così cruda e rigida risposta le parve così strana et amara, che, trattone il pettine in terra, senza parlare si fuggì fuori dell'vscio a capo chino; e non attentò giamai di volgersi indietro, tanto l'assalse la vergogna, che hebbe; e, giunto in casa, ne rimase con infinito scorno e dolore. Con il secondo Amante quella sagace serva disse e fece tanto, che lo trasse a pagare tre mila scudi. E, quando egli si credette di calcare le bianche piume, abbracciatosi con l'amorosa Pirinia, ch'ella le disse:—«Egli si usa, signore, nel mio paese, che tutte le volte, che l'amante trova ricetto dalla sua Dama, di spegnere il lume».—Egli alhora, senza pensar ad altro, disse di farlo volentieri; e, credendosi di spegnerlo incontanente, ella lo ridusse in stato tale, ch'egli vi spese il fiato infruttuosamente, soffiando sempre mai tutta la notte. E, dopo ch'ella hebbe dormito a suo piacere, infingendo, le disse:—«Ah misera a me, che, se si fusse acceso il fuoco in casa mia, chi mai l'haverebbe spento? poi che così picciol lume è durato quà tutta tutta la notte? Et voi, che dovereste spegnere un Mongibello, siete rimaso confuso da così minimo splendore».—«Ahi, falsa meretrice»,—rispose lui,—«da te io sono (e non dal lume) stato ingannato, havendomi schernito con le tue arti, novella Circe, e malvagia incantatrice. Io mi ti offersi, pensando di essere beato e felice; e tu mi hai escluso non solamente da cotanto bene, ma anco sommerso in questo baratro infernale, nel quale io non posso altro che male raccogliere. Degnati hora almeno, havendomi beffato a modo tuo, di ritornarmi nel mio pristino stato; essendo cotesta ingiuria troppo grave a sopportare».—Alle cui pietose preghiere ella sciolse l'incanto. Ond'egli, vedendosi libero da cotanto impaccio, minacciandola, gli disse:—«Tu mi hai ridotto a tanto, che io mi posso a gran pena reggere in piedi. Ma non ti pensar già di rimanere impunita, nè che la tua borsa sìa gonfia e piena a costo d'un Barone Siracusano: poi che hora fie il tuo incanto da me superato e vinto».—E, ciò detto, egli se n'andò per sforzarla; ch'ella, vedendo ciò, non volle comportare, che le ponesse le mani addosso, che gli parve di essere percosso molte volte, non sapendo da cui, non vedendo altri, che essa nel letto, che per via più spaventarlo, le disse, che, s e egli non se ne gisse, che l'haverebbe trasformato in un asino o in qualche altro sozzo e vile animale. Di che l'infelice temendo, che ciò non gli succedesse, si pose a fuggire, lasciandogli insieme con la spada il mantello et una catena d'oro; e ritornò a casa, come un bel fante, in giuppone. Il terzo Amante, che era più de gli altri duo infiammato, sollecitava giorno e notte la sagace serva, perchè non lo dovesse tenere più cotanto sospeso et appassionato. La quale, venuta nella conclusione, le disse:—«Egli vi fie atteso dalla mia padrona tutto quello, che voi vorrete: ma vi bisognano due mila scudi».—Alla quale egli rispose:—«Se io non havessi il commodo del danaro, sì come io ho, impegnarei la propria vita, più tosto che privarmi di cotanto mio gusto e piacere».—E, datogli il prezzo, ella le diede l'istesso ordine, che haveva dato a gli altri, due per cogliergli tutti in una rete et in uno istesso laccio. Ma nissuno de gli altri vi andò così precipitosamente, sì come fece lui, a traboccarvi dentro. Vedendolo giunto ella, e caduto nelle insidie, disse fra sè:—«Essendo egli così vivamente punto, e feruto d'Amore, ogni mio schrezo (sic) gli parerà propriamente essere uno spasso e giuoco».—Che, per effettuarlo, le impose, che dovesse chiudere l'uscio della camera. Egli, credendo subito di espedirsene, per poter poi abbracciar la gentil Pirinia, lo racchiuse; e, vedendolo riaprire, lo riserrò di nuovo. E, quanto più lo richiudeva, tanto più egli s'apriva, tenendole ella detto tuttavia:—«Chiudete hoggimai l'uscio, e venite a giacere».—Onde egli di nuovo riserrandolo:—«Io mi credo»—suggiunse ella,—«che voi lo vogliate gittare in terra, per far poi una via publica della mia camera».—«Io sono venuto,»—rispose lui,—«per godervi e festeggiare, e non per far cotesto esercizio; ma io non mi posso astenere di non farlo».—Soggiungendo:—«Rammentatevi, che io non sono venuto qua per ispendere il mio tempo in chiudere gli usci tutta la notte, havendovi dato, per possedervi solamente una notte, tutto quello, che voi mi havete dimandato».—«Io non vi ricuso»,—rispose ella,—«havendovi ricevuto cortesemente nella mia camera, non attendendo altra cosa, se non che voi riserriate l'uscio et venghiate a letto».—E ciò detto, rispostogli da lui, vinta dal sonno, si addormentò. Vedendo il povero amante le cose così indisposte per lui, disse fra sè:—«Egli non mi vale punto il mio venire qui, quantunque egli mi costi molto caro».—Soggiungendo:—«Ahi, misero colui, che presta fede a meretrice. Poi che finalmente egli si trova con il danno occulto e con la perdita manifesta; e benchè si penti, però non gli giova nulla. Così adiviene a me, ingannato da cotesta Maga incantatrice, la quale fa prova delle sue arti a grande costo di cui l'ama e quasi adora, per sottrargli il senno, la robba e la fama».—E, dette queste parole, spese e consumò tutto il rimanente della notte senza piacere alcuno, senza ch'ella mai udisse i lamenti suoi, sin che apparve il giorno, che si risvegliò: rinfacciandolo severamente, dicendole:—«Voi menate tuttavia attorno l'uscio!»—Il che vedendosi il meschino così schernito, gli disse fra sè:—«Se io n'esco quindi, egli non fie poco; e n'haverò buona derrata».—Poscia, addolorato e mesto, si rivolse verso di lei, pregandola, che hormai l'increscesse delle sue cotante pene, e non lo volesse (non meritandolo, essendo ciò cosa indegna) punire così severamente e privare d'ogni suo bene. La quale compassionandolo, disfece l'incanto. Ed egli, senza parlare, gli si levò davante; e, sospirando, giunse nel suo albergo. Or ritrovandosi in corte i due primi Amanti, e non vedendovi il terzo, che era solito di esservi sempre, se ne maravigliarono molto. Onde uno di loro, vedendo l'altro sospeso e cangiato di colore, sovenendosi de' suoi danni e della beffa, subito egli sospettò, che la falsa Pirinia, avezza di porre i suoi amanti in gabbia, l'havesse schernito et ingabbiato anch'egli. E non potendosi più allargare, per non essere iscoperto da lui, che andava considerando tuttavia, quando e quale fusse stato seco il suo acquisto; e tenendo per fermo, ch'egli fusse caduto nello istesso frangente, là dove era caduto lui, gli disse:—«Egli non conviene nascondersi più, poi che volli anch'io nuotare in simile pelago, nè apena io vi fui entrato, che oltre modo non mi pentissi, non facendo mai altra cosa, che pettinarmi tutta la notte, potendovi poi voi imaginare, come la passasse. In oltre, per ischernirmi maggiormente, ella mi fece pagar quattro mila scudi, che per mettergli insieme, mi bisognò impegnar tutte le gioie, ch'havevo in mio potere».—Sentendo ciò l'altro, mestissimo e turbato, rispose:—«Ed io ne ho pagato tre mila; e, quando io mi pensavo d'appressarmegli, ella mi trattò per un mantice di cucina, imponendomi, che io dovessi spegnere il lume. Il che io soffiai cotanto, che quindi non mi è rimasto più fiato; quale è così poco, e sì debole, siccome ti puoi avedere alla mia languida e rauca voce. E quando io mi vidi sciolto dallo 'ncanto, affine di spaventarla, l'assalsi, pensandomi seco adempire le voglie mie. Ella alhora, affissatimi gli occhi nel viso, mi isbigottì in modo tale, che io non hebbi ardire più di toccarla; e peggio mi adivenne, che io fui, nè so da cui, percosso villanamente. E sopportato, che n'hebbi alquante, minacciandomi di peggio, io ritornai a casa, io ritornai a casa in giupparello».—Vdendo l'altro simile proposte, si puotè a gran pena rattenere dalle risa, per il gran piacere, ch'hebbe. Mentre che insieme discorrevano, sopraggiunse Terminione, dicendogli:—«Ditemi; io vi priego»—vedendogli così mesti e smarriti—«vi è egli forse adivenuto disastro od inconveniente alcuno?»—Alhora eglino sospirando, gli esposero tutto quello, che era loro succeduto, e dove, e quando. Fazio, che era il terzo amante, sopra arrivò; anch'egli pieno di dolore e malenconia. Al quale Terminione disse:—«Or tu non sai, Fazio, che il nostro Andronico è divenuto vn mantice da fucina? E Racclio si è pettinato in modo tale, che gli sono quasi caduti tutti i capelli della testa, così ambedui dileggiati da vna signora,»—dicendogli il nome,—«con la quale facevano l'amore?»—Vdendo ciò il mesto Fazio, rispose:—«Ed io pure di essa fui fatto portinaio, il cui vfficio molto mi è spiaciuto».—E così tutti tre esposero a vicenda ciò, che era loro succeduto; dicendo:—«Se tu, o Terminione, non provedi al nostro torto e grave male, ella ne spoglierà più d'un paio d'altri. Adunque non sopportare tu, che una malvagia incantatrice svaligi e rovini tutta la tua Corte».—Soggiungendo:—«Noi, in vero, malagevolmente potremmo honorare le nozze tue, trovandosi al verde ognuno di noi. Egli è bene il vero, che per noi non vi è scusa alcuna; pure ricorriamo da te, non tanto per il danaro, ch'abbiamo perduto, quanto per lo 'nganno, ch'ella n'ha fatto, al quale essendo tu giusto giudice, vi doverai provedere».—Sentendo Terminione cotesti lamenti, e compassionatigli, n'andò seco dal Re suo Padre, pregandolo caldamente per loro favore. Ond'egli incontanente fece citare la bella Pirinia innanzi di sè. La quale, non già perchè temesse di essere punita, ma per rivedere il suo ingrato Consorte, vi andò. E giunta alla presenza del Re, ornato di cotanto splendore e magnificenza, rimirò Terminione in modo tale, che gli fece più volte abbassare gli occhi e dire fra sè:—«Io non prenderei giamai in moglie altra donna, che questa».—E contemplandola, gli pareva d'haverla veduta altre volte, dicendo:—«Siasi pure egli benedetto lo strale, che mi trafigge per costei l'anima et il cuore; provando io incomparabile diletto nel rimirarla!»—benchè non si sovenisse dove o quando veduta l'havesse. Havendo vdito il Re tutto il progresso, egli sentenziò, ch' ella dovesse attendere a' suoi amanti, tutto quello, che le haveva promesso; o che restituisse loro i suoi danari e ristorasse del danno patito per lei. Ella alhora, non si perdendo per ciò punto di cuore, nè iscolorì il suo leggiadro viso, ingenocchiatasele davante, le disse:—«Serenissimo signore e giustissimo Giudice, havendo voi vdito loro ragioni, voi dovete, per equità, udire anco le mie. Questi vi hanno dipinto il Paradiso, e negato lo 'nferno; in modo che voi mi havete senza altra prova condennata a soddisfargli. Di che, certo, egli mi viene fatto gran torto; perchè io vi supplico, di rinnovare la sentenza, o sospenderla almeno, sin che io haverò detto le ragioni mie».—Convinto il Re dalle sue parole, rispose:—«Poi che voi volete opponere et arguire contra la vostra accusa, allegate quello, che più vi piace, che, come retto Giudice, io non inchinarò quinci, nè quindi, se non là dove comporterà la giustitia».—Alhora diss'ella.—«Se alcuno, o Sacra Corona, si movesse d'Italia per torvi il vostro Regno e cotesta vostra città, e ch'egli l'assediasse, vedendo voi l'inimiche squadre, non cercareste al meglio, che poteste, al diritto et al torto, di havere preso o morto lo inimico vostro nelle mani?»—«Non solamente,»—rispose il Re,—«che se movesse un barbaro strano a farmi oltraggio, io l'anciderei, ma non meno anco il proprio fratello, per la conservatione del mio stato. Poi che quegli, ch'ha cuore d'huomo nel petto, non s'arrende giamai; ma si difende coraggiosamente sino alla morte».—«Così appunto, Sire, ho fatto io,»—diss'ella,—«per conservarmi quello, che perduto, non vi sarebbe persona alcuna nel mondo, che me la potesse mai ritornare. Poi che, perdendone la pudicitia, egli pare, che la donna si disarmi della più preciosa cosa, che le possa dare il Cielo e la natura. E che mi valerebbe mai la beltà mia, mancandole il debito ornamento, nel quale solamente consiste l'honestà? Certo, nonnulla. Però io non mi pento di havere raffrenata la temerità di questi vostri vassalli, il proponimento dei quali era, d'vsurparmi lo splendore muliebre, condennandomi in vna perpetua infamia e dishonore. Ma io non ho fatto però tanto male, come si conveniva al loro delitto; anzi io le ho posto innanzi gli occhi vn esempio tale, che se lo vederanno sempre scolpito nel core; acciocchè, quando l'appetito sensuale cercherà di trargli fuori del diritto sentiero, sovenendosi alhora del danno passato, subito vi porranno il freno. Ma volendo voi, o Sire, che io le renda la preda giustamente guadagnata da me, io non vi voglio contradire, essendo io pronta a farlo, mentre che però si trovi anco giustitia per me contra vno de' vostri; il quale m'ha ingannata, e più schernita, che non fu unque mai Ariadna da Theseo, nè Medea dal nepote di Pelleio. Primieramente, io mi trovo, per la salute sua d'haver perduto un Regno assai maggiore di tutta la Sicilia; et ho sostenuto per lui cotante fatiche, che ve ne fareste grandissima meraviglia, essendo vedute e conosciute dagli occhi vostri. Ma quello, che più m'affligge e tormenta, egli è, che le sono vscita fuori mente, mostrando di non mi havere veduta mai più. Egli mi prese in moglie; e mi giurò di non si ingerire mai, che meco, con donna alcuna. Or voi potete vedere quale fondamento egli edificasse nella sua ingannevole impresa! Imperocchè ridotto, per opra mia, a salvamento, egli mi lasciò in pegno ad un hoste con due serve, in vece di mille, che io havevo a casa mia. E, per maggior ingratitudine, l'iniquo ha preso una novella moglie, per la quale io ho sopportato e sopporto, nella solitudine mia, infinite doglie, e tormenti. Ma alcuno non speri mai felicità là dove si toglie il senso e divide la ragione. Et avenga, che il principio paia assai lieto, nondimeno il fine egli è increscevole et amaro».—«Deh, dinne»,—disse il Re—«(essendo lecito) chi sia cotesto ingrato e disleale della mia Corte, che ti prometto di farlo morire miseramente, s'egli non ti trattarà da vera moglie, e consorte».—«Pon cura, signore,»—rispose ella—«di non mi promettere cosa, la quale, per una tal morte, non te ne risultarebbe altro, che infinito duolo et affanno; poi che l'ingrato, che tu cerchi di sapere da me, egli è il tuo figliuolo Terminione».—Soggiungendo:—«Sappi, o Sire, come io sono figliuola d'Aristodemo, Re dell'Egitto, e mi chiamo Pirinia, sua vnica herede, la quale, per trarre egli fuori di pena, io non mi curai di non volgere il tergo alla mia reggia sede, seguendo l'orme sue, ripiena d'ogni speranza; il quale, in vece di cotanto beneficio, mi ha fatta venire qui in giuditio, per meretrice. E, per dimostrare ch'egli sia quello, che mi ha tradita et ingannata, pon cura diligentemente a cotesto anello, con il quale egli mi sposò, poichè io lo gittarò fra le genti.»—E, trattoselo fuori di dito, disse:—«O sommo Giove, testifica, io ti priego, con qualche evidente segno, com'egli m'accettò in moglie».—E, ciò detto, io gittò all'insuso, dicendo:—«Vanne a trovare il mio legitimo marito, non volendo io più rimanere senza di lui».—Ond'egli andò a porsi nel dito di Terminione. Atto veramente stupendo e portento maraviglioso, per il quale egli subito riconobbe la sua amata Pirinia; aprendoselo la memoria, che l'offuscò il materno incantato bacio. Il che ciò non fu picciola lode e gloria; dimostrando di non esser venuta, nè mossa a caso, ma ch'ella havesse anteveduto ogni cosa prudentemente, prima che movesse le piante dal suo palazzo. Grande egli fu veramente e mirabile il contento et allegrezza di Terminione, ancorchè il Re suo padre n'havesse infinito affanno e dispiacere, considerando non già nelle leggiadre operazioni e bei costumi della sua magnanima nuora, ma nell'altra, che di breve doveva giugnere con le sue genti a Siracusa, essendo d'uopo di ritornare in dietro schernita et ingannata delle speranze sue. Stando egli sommerso fra tanto in così grave pensiero, e quasi fuori di sè stesso, non si potendo imaginare scusa alcuna, che fusse buona per lui; sopraggiunse vn messaggieri, che, lagrimando, gli disse:—«Egli è cotanto grande, Sire, il male, che quasi io non lo posso esprimere. Curzio Pirata, figliuolo del gran Côrso, ha rubbato la bella Innia, sposa di Terminione, e cagionatoci grave cordoglio. Havendogli noi però detto, ch'egli non volesse offendere quegli, che l'haveva già diffeso et agiutato; e che si tenesse sicuro, che la vendetta horribile e crudele ne scenderebbe sopra di lui. Il quale, acceso d'ira e di sdegno, ci disse: Direte a Terminione, che non gli si conveniva havere costei per moglie; poichè, vivendo suo padre, me la promisse; però, come cosa mia, io la ho rapita ».—Vdendo Terminione coteste novelle, rispose:—«Io le perdono volentieri ogni rapina, quale mi piace tanto e mi è cotanto grata, sì come egli mi havesse donata tutta la Sardigna, godendo io oltre modo, che il fatto sia succeduto in cotesto modo».—Or egli, con infinita festa et allegrezza, sposò di nuovo la bellissima Pirinia nella presenza di tutta la Corte: le cui regali, e splendidissime nozze non furono mai vedute simili sotto il sole. Per le quali i tre baroni rimasero molto attoniti e confusi. Ma, havendo ella ricuperato il suo sposo, le disse:—«Poi che lo errore vostro è stato conosciuto innanzi il Re, e che ognuno di voi ne dimostra pentimento, io vi voglio far restituire e vostri danari, e questa egli vi deve bastare».—Alhora eglino più e più volte gli chiederono humilmente perdono, confessando d'haver errato per ignoranza e fragilità; che così anco loro perdonò Terminione, cangiando i loro dispiaceri in contento infinito. Il quale, festeggiando più di un mese, tenne sempre corte bandita. Or vdito il Re Aristodemo il grido e la fama delle grandissime nozze e trionfi, impose ad vno dei suoi Baroni, che, con molto tesoro, andasse a ritrovare Terminione in Siracusa, facendogli fede, com'egli l'haveva creato Re e Signore di tutto l'Egitto; e che in nome suo gli promettesse piena indulgenza d'ogni passato errore. E ch'egli e la figliuola potessero ritornare a ripatriare senza timore alcuno, ch'egli appieno attese et osservò. Il perchè ambodui passarono poi nell'Egitto, e goderonsi insieme, et vissero per lungo tempo regalmente et allegramente.

[2] Gnamo, andiamo, (ch'è qui divenuto una interjezione, come l' allons francese). Gnamo per andiamo, presuppone le forme anniamo-annjamo.[3] Culizione, indecente storpiatura idiomatica di cole zione. Chi non ricorda la graziosa caricatura del Monti?—«Allora frate Macario, recatosi al munimento del beato Ilario, situato nel mezzo del Munistero, pieno di santo zelo fece a' suoi traviati fratelli una severissima munizione; e, con questo munitorio, li ridusse pentuti alla via di Messer Domeneddio».—[4] Ricorda il giudizio di Salomone.[5] Niente paura! Espressione resa famosa dal prefetto B. Casalis.[6] Ricorda la verga della Circe.[7] In Toscana dicono entrar la messa; nel Mezzogiorno, uscire: lì sottintendendo in chiesa, e qui dalla sacristia.

IV. quat. PETROSINELLA ( Variante raccolta in Avellino in P. U. )

Nci steva 'na vota 'na femmena prena, chi steva sempe malata. 'No juorno chiammavo 'o miedico; e dicivo, ca voleva 'na cura pe' stà' bona. 'O miedico risponnivo, ca nci voleva 'na menesta de petrosini ogni ghiuorno, e accossì ssi poteva sanà'. Accanto 'a casa 'e 'sta femmena nci steva 'o giardino 'e l'Uorco, e dinto nci stevono tanta belli petrosini. Essa penzavo, ca chilli erano buoni, e sempe ss' 'e ghieva a coglie'. E 'no juorno, e dui; finalmente l' Uorco sse n' addonavo, e dicivo:—«Io haggio vedè' chi è, ca ssi vene a coglie' tutti i petrosini mmii».—Pigliavo 'no gallo; e'o mettivo a guardia d' 'o giardino; e li dicivo:—«Statti lloco; quanno vidi quaccheduno, chi ssi cogli i petrosini, tu canta, ca ia subbito vengo».—'Sta femmena 'o sapivo, e, quanno fu 'a notte, ssi portavo 'no poco 'e granodinio; e, quanno 'o gallo accominciavo a cantà', essa li menavo 'o granodinio, e chillo ss' 'o mangiavo e ssi stivo zitto. 'A matina, l' Uorco trovavo mancante 'n' auta vota i petrosini; e dicio:—«Mo' nci metto a guardia 'na vacca e vedimo chi è».—'Sta femmena 'a notte li portavo 'no poco d'erba. 'A vacca ss' 'o mangiavo; e non allucavo. 'A notte appriesso, l'Uorco nci mettivo 'no ciuccio; e li dicivo:—«Statti attiento! quanno vene quacchedune, tu arraglia forte, ca io ti sento e vengo».—'A femmena, come a lo solito, sapeva tutto; e ssi portavo 'no poco de fieno. Quanno 'o ciuccio 'a vedivo, accominciavo a raglià'; essa pigliavo 'o fieno e l'appilavo 'a vocca. Chillo povero Uorco steva disperato, pecchè vedeva ca no' nci poteva arrivà'; e dicivo:—«Io haggio mettuto a guardia a lo giardino 'o gallo, 'a vacca, e 'o ciuccio; e nisciuno mm' hâ saputo vedè' chi era. Mo' mmi nci metto io; e vedimo, si 'a scappa».—Scavavo 'no fuosso; e ssi nci mettivo dinto, ca no' nzi vedeva nienti. Sulo 'na 'recchia 'a rimanivo 'a fore, pe' sentì' quanno veneva gente. Quanno fu 'a notte, 'a femmena jivo, e no' vedivo nisciuno a guardia. Ssi mettivo à coglie'; e ssi coglivo tutti i petrosini. Quanno steva pe' sse ne ì', ssi sentivo move 'na cosa sotta i piedi; calavo 'a lucerna, chi teneva 'mmano; e dicivo:—«Che bello fungo, mm' 'o voglio propio coglie'».—Pigliavo 'o cortiello e ss' 'o steva coglienno. L' Uorco subbito ss'azavo e dicivo:—«Birbante, mariola; tu si' stata; mo' t'haggio accide'».—Ma po' ss' addonavo, ca era prena, e dicivo:—«Io te ne manno senza fa' nienti, c' 'o patto, ca, quanno sgravi, 'sta figlia 'a voglio io; e l' hâ mette' nome Petrosinella ».—'A femmena li divo 'a parola, ca, quanno era fatta grossecella, nce la mannava. 'Ncapo 'e tiempo 'sta femmena sgravavo, e fece na bella piccirella e li mettivo nome Petrosinella. 'O marito l' addommannavo:—«Pecchè li metti 'sto brutto nome?»—E essa li contavo 'o fatto, e li dicivo, ca quanno era cchiù grossa, sse l' avev'a piglià' l'Uorco. 'Sta figlia ssi fece grossa, e ghieva a scola; e l'Uorco, quanno 'a vedeva, li diceva sempe:—«Dì a màmmeta, si mmi vo dà' chella cosa».—'A figlia 'o diceva 'â mamma; e 'na vota, e doje; finalmente 'a mamma dicivo:—«Dincello, ca quanno 'a trova, che ss' 'a piglia».—'Sta figlia 'a matina passavo 'n'auta vota, e l'Uorco li dicivo:—«Mm' 'a pozzo piglià'? che t'ha ditto mammeta?»—«Ha ditto, che v' 'a pigliati».—L'Uorco scennivo, e ss' 'a pigliavo. E li voleva tanto bene; e, pe' paura ca ss' 'a'rrubbavano, no' la faceva ascì' mai. L' aveva dato tre segge: una d'oro, 'n' auta d' argiento e 'n' auta de brillanti; e li dicivo:—«Quanno stai allegra, t' assitti 'ncoppa a chella 'e brillanti; quanno stai malata, 'ncoppa a chella d' oro; e quanno stai afflitta, 'ncoppa a chella d' argiento; e accossì io subbito mme n'addono».—E essa accossì faceva. 'No juorno l'Uorco escivo; e, quanno ssi ritiravo come 'ô solito, Petrosinella li calava 'e trecce e isso sse ne saglieva p' 'a finesta. 'Sta vota chiama:—«Petrosinella, Petrosinella, cala le trecce, ca voglio saglì'!»—e nisciuno risponneva. Isso chiano chiano saglie 'ncoppa, e no' trova nisciuno, e 'a casa tutta sfrattata. Ss' affacciavo 'â finesta; e vedivo Petrosinella, chi se ne fojeva c' 'o figlio d' 'o Re. Accominciavo a chiamà'; e chiama e chiama e nisciuno ssi votava. L'Uorco, disperato, ssi menavo 'a coppa abbascio e morivo. Cucurucù, no' nce n'è cchiù.

IV quinq. CUNTO DI PETROSINELLA ( Variante raccolta in Bagnoli Irpino )

'Na vota ng' era 'n Uorco, e tenia[1] 'n uorto ri putrosino; e 'na femmena ogne mattina ssi lu ivo a fà'. L'Uorco, pi' nge l' ancappà', 'na matina nge messe lo ciuccio a guardà', e li risse:[2] —«Quanno vene la femmena a fà' lu putrosino, allucca;[3] ed io vengo pe' mmi la mangià'».—Quanno fù la matina, venne la femmena a fà' lu petrosino e purtavo[4] a lo ciuccio 'nu truocchio[5] ri fieno; e mente ssi lu mangiava, essa ssi facìa lu putrosino. 'N ato juorno, l' Uorco nge messe a guardà' la vacca; e li risse pure accossì[6]:—«Quanno vene la femmena a fà' lu putrosino, tu allucca, e io vengo.»—«Sine»—risse la vacca. Quanno fo a la matina, venne la femmina, pe' sse fà' lu putrosino, e portavo alla vacca pure 'nu truocchio ri fieno; e mente la vacca ssi mangiava lu truocchio ri fieno, essa ssi facìa lu putrosino. 'N ato juorno, l'Uorco nge messe la pecora; e li risse pure accossì.—«Quanno vene la femmena a fà lu putrosino, tu allucca; e io vengo pe' mmi la mangià'»—La femmena, a la matina, purtavo 'nu vrazzato[7] d'erba a la pecora; e, mente sse ro mangiava, essa ssi facìa lu putrosino. 'N ato juorno nge messe lu cano; e li risse:—«Tu, quanno vene la femmena a fà' lu putrosino, tu currili appriesso, ralli[8] ru mano a la gunnella, e tienila; po' vengo io, e mmi la mangio».—«Sine»—risse lu cano. Quanno fo a la matina, venne la femmina a fare lu putrosino; e purtavo a lu cano 'n'uosso. E, mente lu cano ssi mangiava l' uosso, la femmina ssi facìa lu putrosino. 'Nu juorno, l'Uorco fece 'into a l'uorto 'nu fuosso, e ssi nci messe 'into sulu[9] cu' 'na recchia da foro. Venne le femmina a fà' lu putrosino; e, mente ssu lu facìa, vedde la 'recchia ri l' Uorco; e, crirenno[10] ca fosse fungo, ivo a scepparlo; e, mente lu scippava, ascivo[11] l' Uorco e li risse:—«Mo ti voglio mangià'».—«Nun mmi mangià'»—li risse la femmina,—«ca, quanno figlio, ti ravo[12] figlima.»—«Sine»—risse l'Uorco. Figliavo[13] e li rivo la figlia, ca ssi chiamava Putrusinella. L'Uorco sse la pigliavo; e ssi la purtavo alla casa. Putrusinella po', cu' lu tiempo, sse fece 'na bella giovane, e cchiù bella ri la luna. 'Nu juorno, l'Uorco era juto a caccia, passavo ra là lu figlio ri lu Re, e la virivo[14] accossì[15] bella, ca ssi la pigliavo, e ssi ni fuirono. Putrusinella, ca era fatata, ssi pigliavo 'na montagna ri sapone, 'na montagna ri sale, 'na montagna r'uoglio,[16] e sse ne fuievo. Venne l' Uorco, e non truvavo la figlia Putrusinella. Ss' informavo ra li vicini; e li rissero, ca ssi ne era fuiuta cu' lo figlio ri lu Rè. Ssi pigliavo lu cavallo, e ssi messe in camino. Po' tanno[17] l' arrivava, quanno la figlia fece assì'[18] 'nnanzi a l' Uorco 'na montagna ri sapone, picchè lu cavallo scivolava e nu' la passava. Finarmente la passavo; e tanno l' arrivava 'n'ata vota, quanno li fece assì' 'nnanzi 'na montagna ri sale, picchè lu cavallo ss'abbuttavo[19], e nun fujìa[20] cchiù. La passavo; e tanno l'arrivava 'n'ata vota, quanno fece assì' 'nnanzi 'na montagna r'uoglio, picchè lu cavallo ssi vivia r' uoglio 'ngoppa 'ô sale e nun fujìa cchiù. La passavo; e tanno l' avia arrivati, quanno facettero assì' 'ra montagna ri spingole.[21] Lu cavallo ssi pungìa e non voze passà'. Risse l'Uorco:—«Già mme l'hai fatta, Putrusinella!»—e sse ne ivo. Po' loro sposarono llà e nui nce stamo cquà.

NOTE

[1] Tenia, aveva, alla spagnuola.[2] Risse, disse; quasi sempre si muta la D in R.[3] Allucca, grida, cioè raglia in questo caso. E più giù, dove parla della vacca, s'ha a tradurre per mugghia; dove della pecora per bela; dove del cane, abbaja.[4] Portavo, portò.[5] Truocchio, fascio non grosso, ma tale da portarlo sotto il braccio, si appropria pel fieno o l'erba.[6] Accossì, egualmente.[7] Vrazzato, quantità tale da portarla col braccio; si dice di erba o legna.[8] Ralli ru mano (Cf. la nota 3 a pag. 135), dalli di mano; nel senso di afferrare con le mani o con la bocca.[9] Sulu, in questo caso sta nel senso di solamente.[10] Crirenno, credendo.[11] Ascivo, uscì.[12] Ti ravo figlima, ti darò mia figlia.[13] Figliavo, partorì, sgravò, anche parlando di donna e non solo degli animali. Si discaricò, come dice Sabadino nelle Porrettane, LV.[14] Virivo, vidde; spesso si dice birivo.[15] Accossì, qui nel senso di talmente.[16] Uoglio, olio. Va a quella volta allor zillo com'oglio, ha detto in lingua aulica il Carteromaco.[17] Tanno, allora allora.[18] Assì', uscire, onde l' ascivo precedente.[19] Abbuttare, vale: saziarsi a crepa pancia.[20] Fuija, fuggiva.[21] Spingole, spille. Nell'altro conto Bagnolese (pagg. 116. 117) sono corsi gravi errori. Pag. 116. L. 2. leggi furnuto, invece di funuto.—L. 3.4 a re case, invece di a ri loro case; dui, invece di due; vattievano; invece di battievano.—L. 5 e 11. l'addummannarono, invece di r'addummannarono.—L. 6 e 7 due volte risponniero, invece di risposero; e quiddi invece di quilli.—L. 16 frate, invece di fratello.—L. 22. risse e sine (due volte) invece di disse e.—Pag. 117. L. 1. sposà' e re, invece di sposare e ru.—L. 4. Quisto qua, invece di quisto qui.—L. 8. invece di.—L. 10. la invece di ra.—L. 11 e 15 e 16. fedda e moddiche invece di fella e molliche.—L. 11. facivo, invece di facette.—L. 13. tui, invece di tua.—L. 16. roe, invece di due.—L. 17 e 21 quiddo, invece di quillo.—L. 19. 20. tramente, invece di mentre.

V. L'AUCIELLO CRIFONE[1] ( Versione raccolta in Pomigliano d'Arco )

'Na vota nce steva 'nu Re e teneva tre figlie. A isso le venette 'o male a l'uocchie.[2] Chiammava 'o mièreche; e chisto le recette, ca (pe' sse sanà) 'nce vuleva 'na penna d'auciello crifone.[3] 'O Re decette vecino 'e figlie:—«Chi mme trova sta penna, i' nce rongo 'a curona.».—'E figlie sse mettettere 'ncammino. 'O cchiù peccerillo scuntava 'nu viecchio, ca l'addimmannava, isso che ghieva facenne. E chisto le respunnette:—«Sta malato papà'.[4] Pe' sanarlo nce vo' 'na penna d'auciello crifone. E papà ha ditto, ca chi trova 'a penna have 'a curona ssoja».—'O viecchio recette:—«Embè', tecchete[5] 'stu graurinio.[6] Quanno sì a tala parte, mittele rinto 'ô cappiello. Chille venene l'aucielle a mangià'. Tu 'ngappe chillo, ca sta 'mmiezo; le tiri 'na penna e 'a puorte a papà».—'O giovane accossì facette; e, pe' paura 'e non ss' 'a fà' luvà' a nisciune, 'a mettette rinto 'â scarpa; e tutt'allegro ieva a d' 'o patre, pe' nce 'a purtà'. Via facenne, scuntava 'e frate suoi, ca le spiavano, si aveva truvata 'a penna. Chisto respunnette, ca no: ma 'e fràte nun 'o crerettere e 'o vulettere scùrere.[7] Vedettere pe' tutte 'e parte e non 'a truvarene. Po' le jettere a berè' rint' 'â scarpa e ss' 'a pigliarene. Accerettere 'ô frate peccerillo; 'o 'tterrarene; e purtarene 'a penna 'ô patre, decenne, ca loro l' avevane truvata. E 'o Re sse sanava l' uocchie. 'Nu pecurare, ca jeva pascenne 'e pecure, 'nu juorno, verenne, ca 'o cane ssujo scavava sempe 'ô stesso pizzo, jette a berè' chi era, e truvava 'n uosso. Ss' 'o mettette 'mmocca; e berette, ca chillo sunava e deceva:—«Pecuraro, ca mme tiene 'mmocca, | tieneme strinto e non mme lascià'! | Pe' 'na penna d'auciello crifone, | e fratemo[8] è stato 'nu traritore; | e fratemo è stato 'nu traritore[9] ».—'Na vota, 'o pecoraro, cu' 'sto siscaro[10] 'mmocca, passava pe' sotto 'â casa d' 'o Re. Chisto 'o sentette; e 'o chiammava, pe' berè' chi era. 'O pecuraro le raccuntava 'a storia e comme isso l' aveva truvate. 'O Re ss' 'o mettette 'mmocca; e 'o siscaro deceva:—«Tata, tata, ca 'mmocca mme tiene, | tieneme strinto e non mme lascià'. | Pe' 'na penna d' auciello crifone, | fratemo è stato 'nu traritore; | e fratemo è stato 'nu traritore».—'O Re 'o rette 'mmocca a chillo frate; ca l'aveva accise; e chisto deceva:—«Frate frate, ca 'mmocca mme tiene, | tieneme strinto e non mme lascià'. | Pe' 'na penna d'auciello crifone, | tu sì' stato 'nu traritore; | e tu si' stato 'nu traritore.»—'O Re allora capette tutta 'a storia e facette accirere pure chill' aute figlie. E accussì chiste accirettere 'o frate e roppo furone accise pure loro.

NOTE

[1] —I.—Cf. con la quinquagesima prima novella della Gonzenbach: Vom singenden Dudelsack.—II.— Vedi anche: Le | Novelline di Santo Stefano | Raccolte | da | Angelo De Gubernatis | e precedute da una introduzione | sulla parentela del mito con la Novellina || Torino | Presso Augusto Federico Negro Editore | 4. Via Alfieri. 4 | 1869. Novellina vigesima: La penna del pavone. Eccola per esteso:—«Un padre, che aveva tre figliuoli, disse loro un giorno, che avrebbe avuto bene da lui quello, che, nel bosco, gli raccattasse una penna di pavone. Andarono dunque cercandola i tre fratelli; e finalmente l'uno d'essi ebbe la sorte di trovarla. Del che, nata invidia negli altri due, all'istante lo ammazzarono e seppellirono. E, dov'egli era sepolto, nacque un fusto di sanguine. Arriva a passare di là un mugnajo. Vede il sanguine vegeto e rigoglioso, e lo stronca per farsene una zampogna. Ma la zampogna canta così: Mugnajo mio, tenetemi forte, | Sonatemi ben; | M'hanno morto nel bosco del M. (sic) | Senza un peccato e senza un dolor, | Per una penna d'uccello pagon. Il mugnajo, atterrito, porta la zampogna al Signore di quel luogo; e la zampogna ricomincia a cantare: Babbo mio, tenetemi forte, | Sonatemi ben; | M'hanno morto nel bosco del M., | Senza un peccato e senza un dolor, | Per una penna d'uccello pagon. Il Signore passa la zampogna alla sua consorte; e la zampogna ripiglia il canto: Madre mia, tenetemi forte, | Sonatemi ben; | M'hanno morto nel bosco del M., | Senza un peccato e senza un dolor, | Per una penna d'uccello pagon. La signora consegna all'uno e poi all'altro de' figli la zampogna; e questa in mano d'en trambi, canta: Fratello mio, tenetemi forte, | Sonatemi ben; | Tu m'hai morto nel bosco del M., | Senza un peccato e senza un dolor, | Per una penna d'uccello pagon. Allora il padre, scoperto il misfatto, manda i due figli col mugnajo al bosco, affinchè facciano resuscitare il loro fratello. Ma invano. E l'erba in quel luogo, ove il sanguine sorgeva, rimase poi sempre fresca, poichè il morto fratello vi era seppellito.»—In altre versioni toscane, questa novella s'intitola: L'uccello grifone o sgriffone.—III.—Vedi, appo il Pitrè (Op. cit.) LXXIX. Lu Re di Napoli (Villalanza).—IV.— Schneller ( Märchen und Sagen aus Wälschtirol ) LI. Die Greifenfeder.[2] 'O male a l'uocchie, qualunque oftalmia, ma specialmente la cataratta.[3] Auciello Crifone, uccello grifone. Animale fantastico, che si finge raro, bello e fortissimo. Basile. Pent. IV. 3.—«Cossì decenno, lo sproviero fece venire na mano d'Aucielle Grifune, che volanno a la fenesta de la torre, ne zeppoliaro la giovane.....»—Dove nascano questi uccelli grifoni cel dice Brunetto Latini:—«E sappiate, ch'el Danubio è un grande fiume, ch'è appellato Istro, che nasce da grandi monti in Alamagna, in occidente verso Lombardia; et riceve sessanta fiumi sì grandi, che navi vi possono andare, tanto che si parte in sette fiumi et entra in mare verso Oriente; onde li sette v'entrano si rapinosamente, che le loro acque mantengono dolcezza ben venti leghe, anzi che si mescolino con acqua di mare. Oltre quello luogo, all'entrata d'Oriente è la terra di Scizia, di sotto al monte Rifeo et Iperborei, ove gli uccelli grifoni nascono».—[4] Richiesta la Novellaja, se il figliuolo del Re non avesse dovuto dir piuttosto tata, rispose:—«Chillo era figlio d' 'o Re e deceva tata?»—Ma proprio, comunemente, nel dialetto, babbo si dice tata, antica parola latina.[5] Tècchete, eccoti.[6] Graurinio, gravurinio, (grano d'India) granturco, granone, fromentone, meliga.[7] Scùrere, visitare, frugare. Vocabolo pomiglianese, che manca nel D'Ambra.[8] Fratemo, Fratelmo.[9] Appo la Gonzenbach dice la piva:

Sonami, sonami, miu viddanu!

Chiù mi soni e chiù mi piaci;

E pri tri pinni d' aceddu pauni,

Fui ammazzatu a lu sciumi Giurdanu,

Di me frati, lu tradituri.

Lu menzanu nun ci curpa

E lu granni va a la furca.

Il zufolo ( friscaliettu ) fischia appo il Pitrè:

O picuraru, chi 'mmanu mi teni,

E m' ammazzaru all'acqua sirena,

E m' ammazzaru pi' 'na penna di hu:

Tradituri me frati fu.

In un'altra versione sicula (di Villabate) ricordata dal Pitrè, i versetti suonano:

Viddaneddu, chi 'n vrazza mi teni,

Io fu 'ammazzatu 'ntra l' acqua sireni,

Pi' pigghiari tri pinni di cù.

Tradituri me frati fu.

E (dice il Pitrè) si canta ancora in Palermo da' fanciulli:

Viddaneddu, chi 'n vrazza mi teni,

Tenimi forti, 'un mi fari cadiri;

Ca' pi' 'na pinna d' aceddu farcù

Lu traduturi mè frati fu.

La zampogna, appo il Gubernatis, come abbiamo visto, dice:

Mugnajo mio, tenetemi forte,

Sonatemi ben;

M'hanno morto nel bosco del M,

Senza un peccato e senza un dolor,

Per una penna d'uccello pagon.

E quel raccoglitore annota:—«Questi rozzi versi sono dal novellatore accompagnati con una di quelle monotone nenie, che dovettero, parmi, essere patrimonio comune della gente ariana (sic!) prima che andasse divisa. La nenia è semplice, come il lamento d'una vittima: ma, come il lamento d'una vittima, mette freddo.»—Lo Sgubbernatis non ci spiega cosa significhi quella M. nel terzo verso. In una versione fiorentina inedita, posseduta dal Pitre', il Flauto dice così:

Pecoraro, che in bocca mi tiè,

Sonami adagio e sonami ben;

Fui ammazzato nel bosco Olivè,

Senza colpa e senza ragion

Per la penna dell'uccello Grifon.

[10] Siscaro, Fischietto, Zufolo. Nel vocabolario del D'Ambra, manca siscaro, sebbene vi sia il diminutivo siscariello.

V bis. L' AUCIELLO GRIFONE ( Variante raccolta in Avellino, in P. U. )

Nci steva 'na vota 'no Re, chi teneva tre figli. 'Sto Re cadivo malato co' l' uocchi; e mannavo a chiama' i primi miedici d' 'o munno, pe' ssi fà' sanà'; e nisciuno nci potivo. Finalmente chiamavo 'no segretista. E chisto li dicivo, ca nci voleva 'na penna de l' auciello crifone; e ca 'st' auciello steva dinto a 'no deserto. Quanno ss' ancappava e li tiravono 'na penna, tanno isso steva buono; pecchè co' chella penna ssi faceva 'na polvere; e chella polvere ssi metteva dinto a l' acqua, e po' ssi lavava l'uocchi. 'O padre ssi chiamavo i tre figli, e li dicivo:—«Sentiti, figli mmii. Pe' mmi sanà', nci vo' 'na penna de l' auciello crifone; chi de vui tre mm' 'a porta, io li davo 'o trono e 'a corona».—I figli ssi mettettero 'ncammino. Quanno fu 'â metà d' 'a via, ssi spartero. 'O primo sse ne jivo pe' 'na via, 'o secondo pe' 'n'auta, e 'o terzo pe' 'n' auta. A 'o cchiù piccirillo li comparivo 'no vecchiariello e li dicivo:—«Bello figlio, teccoti 'sto granodinio; quanno arrivi dinto a chillo deserto, mena 'sto granodinio 'nterra. Mente l' auciello ss' 'o mangia, tu li tiri 'na penna e te ne scappi».—Chisto accossì fece. Ssi pigliavo 'a penna e sse ne steva tornanno, quanno 'ncontravo i frati, chi l'addommannaro:—«Avissi trovato 'a penna?»—E isso risponnivo, ca sì. Chisti, pe' 'nvidia, ca l'urdimo frate ss' avev'a piglia' 'o trono e 'a corona, li levaro 'a penna e l' accidettero e 'o 'nfossaro sotto a 'no pede 'e pera. Loro jettero addò lo padre e li portaro 'a penna. 'O padre, tutto contento, divo a 'o primo figlio 'o trono e 'a corona. Ma po' steva 'mpenziero, ca l' urdimo figlio no' veneva; e finalmente, doppo tanto, ssi persuadivo, ca era muorto, pecchè i figli l' avevono ditto, ca no' l' avevono visto cchiù da che erono partuti. 'No juorno, 'no pecoraro, mente pasceva 'e pecore sotto a chill'albero, addò' steva 'o muorto, vedivo ca 'o cane scavavo e trovavo 'n uosso. 'O pecoraro, appena 'o vedivo, dicivo:—«Che bello fiscariello!»—Lo mettivo 'mmocca e voleva sonà', mente sentivo 'na voce, chi asceva 'a dinto 'o fiscariello, chi diceva:—«Pecoraro, chi 'mmocca mmi tieni, | Tienimi astrinto e no' mmi lascià'! | Pe' 'na penna d' auciello crifone, | Fratemo fui lo traditore».—'Sto pecoraro remanivo maravigliato; e, sapenno 'sto fatto d' 'o figlio d' 'o Re, sse ne jivo sotta 'ô palazzo[1] reale, e accominciavo a sonà'. I serveturi accomminciaro a capì' 'na cosa, e subbito 'o dicero a 'o Re. 'O Re 'o fece saglie' 'ncoppa; e volivo sonà' propio isso. E l' uosso cantava.—«Caro padre, chi 'mmocca mmi tieni, | Tienimi astrinto e no' mmi lascià'! | Pe' 'na penna d'auciello crifone, | Fratemo fui lo traditore! | Castiga lo primo, e l' urdimo perdona».—'O padre, quanno sentivo 'sta nova, pigliavo i figli, 'e fece arde' dinto a 'na votte 'e pece e le fece menà' a mare. 'O pecoraro, ss' 'o tenivo po' figlio e li divo 'o trono e 'a corona.[2] Felice e cutoliati,[3] nui stamo quà assettati.

NOTE

[1] Se ne ivo sotta 'ô palazzo reale, andò sotto la Reggia, o, come avrebbe detto il De Notariis, vi si traslò: bel vocabolo!

E 'l fremito e 'l fragor mostra, che deggia

Del Tartaro traslarsi ivi la reggia

(
Costantino
, XII. 58).

[2] Ricorda l'arietta metastasiana:

Nasce al bosco in rozza cuna

Un felice pastorello;

E, con l'aure di fortuna,

Giunge i Regni a dominar.

Presso al trono, in regie fasce,

Sventurato un'altro nasce;

E, fra l'ire della sorte,

Va gli armenti a pascolar.

[3] Cutoliati. Cutoliarsi, vale proprio il dimenarsi con la persona per vezzo o per civetteria.

V ter. CUNTO DE L' ACIEDDO GRIFONE ( Variante raccolta in Bagnoli-Irpino. )

C'era 'na vota 'nu Re cu' tre figli. 'Stu Re carivo malato[1] coll'uocchie, e cecavo co' tutte e duie. Chiamavu lo mieroco; e quisti li ricivo,[2] ca pe' sanà' ci vulia 'na penna r'acièddo Grifone. Lu Re sse votaie[3] 'nfaccia a li figli, ricenno,[4] ca chi sse ferava[5] ri l'ascià'[6] 'na penna r'acieddo grifone, a quiddu ria la crona sua. Li tre figli ssi mettiero[7] subbeto 'ncamino pe' trovà' 'sta penna. Lu cchiù picciriddo scontavo[8] 'nu viecchio, che l'addimmannavo, che ghieva[9] facenno. Lu giovenieddo li ricivo:—«Staie cecato tata,[10] co' tutte e duie l'uocchie; e pe' sse sanà' ce vole 'na penna r' acieddo grifone. E tata ha ditto, ca a chi l'ascia, li raje[11] la crona sua».—Lu viecchio li ricivo:—«Teccote 'st' acini re granorinnio,[12] e mo che vai cchiù 'mpieri[13], truovi tre acieddi; tu piglia 'stu granorinnio e menaggello 'nnante. L'acieddi corrono subbeto a mangià'. Tu, a quiddo re miezzo, sceppele[14] 'na penna re la cora, ca quiddo è l'acieddo grifone».—Lu figlio de lo Re accussì' facivo; e, pe' paura che l'arrubbassero la penna, sse l'accovavo[15] into a la scarpa; e, tutto preato[16], sse abbiavo alla casa sua. Non facivo assai camino e scuntavo l' auti[17] dui frati, che voliero sapè' ra iddo, se avia asciato la penna re l'acieddo Grifone. Lu guaglione negavo, ma li frati non lo creriero e lo scennerarono[18] ra la capo a lu pero, e jero pe' verè' 'into a la scarpa: ce asciarono la penna. Li frati, tanno, che faciero? Lu pigliaro e l'accerierono e lo roprecarono[19] dà stesso. Loro po' portaro la penna a lu patre; e, come toccava l'uocchie co' quedda penna, sanavo ciesso.[20] Roppo picca tiempo, 'nu purcarieddo[21] 'nu juorno jia pe' quedde parte, pascienno li puorci; lu canu suo, justo a quiddo punto, addò' stia roprecato lo figlio picciriddo ru lu Re, sse mittivo a scavà'; e cacciavo fore tutte l' ossa. Lu purcarieddo cu' 'n uosso sse facivo 'nu 'iscarieddo.[22] Juto po' pe' sse lu mette 'mmocca, lo 'isculo accommenzavo a dice accussì:—«Purcarieddo, che 'mmocca mmi tieni, | Tieneme strinto e non mme lassà'. | Pe' 'na penna r'acieddo Grifone, | Fratemi feciero li traditori».—E quante vote 'mmocca sse lo mettia, sempe lo 'isculo così ricia. 'Na vota, sse trovavo a passà' pe' 'nante a la casa re lu Re, cu' lu 'isculo, che ricia accussì. Lu Re sentivo e subbeto lu facivo 'nchianà' 'ncimma[23] a lu palazzo. Lu purcarieddo sse mettivo lo 'isculo 'mmocca; e lu 'isculo ricia.—«Purcarieddo, che 'mmocca mmi tieni, | Tieneme strinto e non mme lassà'. | Pe' 'na penna r'acieddo Grifone, | Fratemi feciero li traditori.»—Lu Re volivo sapè' ra lu purcarieddu, chi l'avia rato quiddo 'isculo; e lu purcarieddu li ricivo lu trascurso come era juto. Lu Re tanno sse lo volivo mette 'mmocca iddo; e lo 'iscarieddo ricivo po' accussì':—«Tata, Tata, che 'mmocca mmi tieni | Tienemi strinto e non mme lassà' | Pe' 'na penna r' acièddo Grifone. | Fratemi feciero li traditori».—Lu Re, roppo, lo rivo 'mmocca a 'nu figlio; e lu 'isculo ricivo:—«Frate, Frate, che 'mmocca mmi tieni, | Tienemi strinto e non mme lassà'. | Pe' 'na penna r'acieddo grifone | Tu mme tenivi, e l'auto fò».—Lu Re capivo tutto; e subbeto fece accire'[24] tutte e due li figli. E accussì ss'abberavo, ca chi accire oje, resta acciso craje.[25]

NOTE

[1] Carivo malato, s'ammalò.[2] Li ricivo, gli disse.[3] Votaje, voltò. Sse votaje 'nfaccia a, si rivolse a.[4] Ricenno, dicendo.[5] Ferava, chi avrebbe avuta abilità, chi fosse stato da tanto.[6] Ascià', trovare, rinvenire.[7] Mettiero, misero.[8] Lu cchiù picciriddu scuntavo, il più piccolo, l'ultimo dei figliuoli incontrò.[9] Ghieva, andava.[10] Tata, Babbo.[11] Raje, dà.[12] Teccote 'st' acini de granorinnio, prendi questi semi di fromentone, questi chicchi di granturco.[13] Cchiù 'mpieri, più abbasso.[14] Sceppele, strappagli.[15] Accuvavo, nascose.[16] Preato, allegro, consolato.[17] Scuntavo l'auti, incontrò gli altri.[18] Non lo creriero e lo scennerarono, non lo credettero e l'osservarono, lo ricercarono; propriamente ricercare nelle tasche, frugare.[19] Acciererono e lo roprecarono, l'uccisero e lo seppellirono.[20] Ciesso, subito, all'istante.[21] Purcarieddo, piccolo guardiano di porci.[22] 'Iscarieddo, fischietto.[23] 'Nchianà' 'ncimma, salire sopra.[24] Accire', uccidere.[25] Oje, oggi; Craje, dimani.

VI.—VILLA[1] ( Versione raccolta in Pomigliano d'Arco )

'Na vota nce steva 'nu Re; e facette 'o patto cu' tutte 'e cavaliere ssuoje ca nisciuno ss'aveva 'nzurà'.[2] 'Nu juorno, 'nu cavaliere verette 'na giovane 'ngoppa a 'nu barcone e sse n'annammurava. 'O decette 'ô padre e ss' 'a spusave annascuso d' 'o Re.[3] O' Re però 'o sapette, e, 'nu juorno, mente chillo cavaliere 'nzurato era asciute, isso iette a casa ssoja a berè' 'a mugliera, pecchè le decevano, ca chella era tanta bella. 'A truvave addurmuta. 'A verette e le piacette. E nu' nze cuntentave sulamente d' 'a tenè' mente,[4] ma 'a vulette pure tuccà'; e pe' fa chesto, sse luvave 'o vuanto;[5] e quanno sse ne iette, ss' 'o scurdave 'ngoppa 'ô tavuline a fianco 'ô lietto. Venette chillu cavaliere e sse pigliava tanta collera, ca, quanno fuie 'a matina e 'a mugliere 'o jette a scuntà', comme faceva sempe, isso nun 'a rette retta. Chella povera femmena sse vereve perduta; e, quanno fuje chell'auta matina, 'o jette a salutà'; e, comme verette, ca 'o marito le vutava 'a faccia, iessa recette:—«Villa era e Villa sono | Era amata e mo' non ci sono; | Io non so per quala ragione | Non mi tratta più il mio padrone.[6] »—'O cavaliere manco 'a respunnette; e, sempe ca chella nce 'o ghieva a dicere, isso vutave 'a faccia. 'O Re sapette chesto; e,'nu juorno, facette 'na tavula; e 'mmitava tutt' 'e cavalieri ch' 'e mugliere loro: e a chillo cavaliere le cummenette purtà' pure 'a mugliera ssoja. Quanno furene all'urtemo d' 'a tavola, 'o Re recette, ca tutte avevane a ricere 'nu cunto. Tutte quante 'o recettere; e, quanno ss'arrivava 'à mugliera d' 'o cavaliere, chella recette:—«Villa era e Villa sono, | Era amata e mo' non ci sono; | Io non so per quala ragione | Non mi tratta più il mio padrone».—'O marito respose:—«Per la guancia del leone[7] | Non ti tratta il tuo padrone».—Accussì 'o Re svelava 'o fatto[8] y 'e duje cumpagne facettero pace felice e cuntente.

NOTE

[1] Fiaba di lezione molto guasta. Jacopo d'Acqui, Chronicon Imaginis Mundi, porta il seguente racconto intorno a Pier della Vigna:—«Hic Petrus notarius habuit uxorem pulcherrimam, quam habet Petrus suspectam de Imperatore Federico; et tamen non creditur quod ibi esset malum, licet de hoc multus sermo fieret in curia imperatoris. Accidit uno mane Imperatorem intrare domum Petri: sicut saepe intrabat propter officium quod habebat notarie et etiam quia homo sollempnis erat. Et videt Imperator in absentia Petri cameram ipsius apertam; et intrat Imperator cameram, et invenit uxorem Petri in lecto dormientem, quam Imperator cooperuit, quia habebat brachia discooperta: et tunc Imperator cooperuit dominam et cum frequentia recessit. Nec aliquis propter honorem domine de hoc adverteret, nihil aliud faciens; sed super coffanum domine relinquit Imperator suum cyrotheca vel libenter vel ignoranter. Venit Petrus a casu et invenit cyrotheca Imperatoris in lecto suo. Et cognoscens cum dolore, totum dissimulat. Tamen Petrus non loquitur domine, que de hoc multum affligitur. Notificat domina Imperatori de duritia viri sui. Contra illam vadit Imperator ad domum Petri, et est Imperator et Petrus et domina simul, et alia familia a longe. Et Petrus, videns se cum Imperatore et cum domina sua, vult Imperatorem reprebendere cum concordantia verborum, non nominato Imperatore nec domina; et dicit. Petrus de Vineis loquitur stillo materno: Una vigna ho piantà. | Per travers è intrà, | Chi la vigna m'ha goastà. | Han fait gran peccà | Di far ains che tant mal. Domina loquitur concordiam verborum: Vigna sum, vigna sarai | La mia vigna non falì mai. Consolatus Petrus respondit concorditer: Se cossì è como è narrà | Plu amo la vigna che fis mai. Et sic facta est pax inter dominam et Petrum. Et tunc Petrus cantat pro gaudio metrice de VII mensibus anni et de proprietatibus corum».—Il Carducci annota:—«Narrazioni e versi son citati anche da ( sic; leggi: dal ) Cantù ( Storia degli Italiani VIII.XCI. not. 39 ). Primo gli aveva citati il Fauriel (Dante et les origin. de la lang. ital. II. Leç. XVI. ) senza però accennare le fonti. Noi non crediamo, che la redazione in dialetto subalpino di Fr. Jacopo d'Aqui sia la forma originale della meridional tradizione; ma non sappiamo con quale autorità il Fauriel legga così i primi sette versi: Una vigna ho piantata: | Ma per traverso è entrato | Chi la vigna m'ha guastato: | Hanne fatto gran peccato | Di fare a me tanto male».—Il D'Ancona soggiunge:—«L'avventura è più antica del secolo XIII; ma neanche il più recente ed egregio biografo di Pier delle Vigne, il De Blasis ( sic. Leggi: De Blasiis ) ne conobbe la origine orientale. Essa è infatti un racconto, che trovasi in parecchie versioni del Libro di Sendabar e precisamente nel Mischlé Sandabar ebraico, nel Syntipas greco e nei sette Vizirri turchi, col titolo: L'Orma del Leone. Su di che, vedi Loiseleur: Essai sur les fables indiennes (pag. 967). Questa tradizione trovasi anche nel Milo di Matteo da Vendôme. (Ved. Hist. litt. de la France. XXII. 56). Dell'attribuirla al cancelliere di Federigo, certo, dev'essere stata principal causa l'immagine della vigna. Poi la novella durò nella memoria delle genti, ma perduti i nomi dei protagonisti; ed altri, pur illustri e noti, furono scelti a sostituire gli antichi».—Presso il Pitré (Op. cit.) ne abbiamo una versione popolare palermitana: LXXVI. Lu Bracceri di manu manca. Ecco le parole metriche de' tre personaggi:

Donna
.

Vigna era e vigna sugna,

Era stimata e ora nun sugnu,

Senza causa e raggiuni

Haju persu la me' fataciumi.

Marito
.

Vigna era e vigna si';

Eri stimata e ora nun si';

Mi jeru l'occhi 'ntra lu pavigghiuni,

Vitti la 'nguanta de lu me Liuni,

Ed hai persu la to fataciumi.

Re
.

Di 'ssa vigna, chi parrati,

Diu mi senti e diu lu sapi,

E la pampina di 'sta viti,

Nu' la côsi nè la toccai,

Pri 'sta curuna, chi m'incurunai!

Il Pitré ne cita un'altra versione palermitana, che differisce grandemente nel dialogo:

Marito
.

Una vigna avia chiantatu;

Ma pi' dintra cc'eni entratu,

Cu la vigna m'ha guastatu.

Iddu ha fattu gran piccatu.

Donna
.

Vigna hê statu e vigna sugnu,

E curata cchiù nun sugnu;

Ma qual' eni la ragiuni,

Ca 'un mi cura lu patruni?

Marito
.

Vigna ha' statu e vigna sì',

Ma curata cchiù nun si',

Pi' 'na vranca di draguni,

Ca truvau lu to' patruni.

Re
.

'Nta 'ssa vigna io cci hê statu,

Una frunna haju tuccatu,

Una vranca cci hê lassatu;

Ma ti juru a diu sagratu

Ca racina 'un n'hê manciatu.

Marito
.

S'iddu è comu m'ha juratu,

Ca 'na frunna hai tuccatu,

E racina 'un n'ha' manciatu,

L'amu quantu l'haju amatu.

In un'altra versione di Marsala, ricordata pure dal Pitré, il dialogo è come segue:

Marito
.

Bemminuta, donna savia,

Cu' 'ssu saviu parlari;

Iu mi susu di la tavula,

Assittativi a manciari.

Donna
.

Iu nun vinni pi' manciari,

Mancu vinni pi' sidiri;

Vigna era e vigna su'

Dicitimi pirchì fu?

Re
.

A la to vigna hê annatu,

Rosi e ciuri haju truvatu;

Pi' la mia sagra curuna,

Nun ti l'haju maniatu.

La 'nguanta di liuni l'haju lassatu.

Come ognun vede, i sei primi versi debbono appartenere ad altra canzone; e sono male appiccicati a questa. Il Bernoni ha recentemente pubblicata una variante veneziana di questa novella, intitolata: Vigna era e vigna son.—«'Na vota, ghe gera un Re; e sto Re no 'l voleva, che el so magiordomo se sposasse; come no 'l se sposava gnanca elo. Dunque, un zorno, sto magiordomo vede 'na belissima zovene e el s'ha inamorà in ela e el se la ga sposada. Sta zovene se ciamava Vigna; e so mario, parchè el Re no se ne incorzesse, la tegniva sempre serada in te la so camara. Dopo tanto tempo, ghe xe andà a recia del Re, che sto magiordomo xe maridà; e alora, elo, per vedar se xe vero, el lo ga ciamà con furia, che el vaga subito a portar 'na letara a un altro Re. E sto magiordomo ga tocà andar; e da la premura el s'ha desmentegà de serar la camara, in dove che ghe giera la so sposa. Co' l'è sta via, el Re xe andà a vedar se xe vero. El xe intrà in camara; e el vede sta belissima zovene, che xe in leto, che dorme. Vedendola scoverta in nel peto, ga parso a elo de doverla coverzar, parchè no la se vergogna, quando la se svegia. Intanto xe vegnuo el mario; e el Re, da la furia de scampar via, el ga lassà sul leto el guanto, ch'el s'aveva cavà. Sto so mario vede sto guanto e el lo rancura, e no 'l dise gnente; ma no 'l ghe fa più a so muger i trati d'amor, che el ghe faseva prima, credendo d'esser sta tradio da ela. Ela po no saveva, par che rason so mario ghe fasea sta difarenza; e, povareta, la giera vilia. Un zorno, el Re, desideroso de vedar ancora sta belissima zovene, l'ordena un pranzo; e 'l vol, che tuti porta la so sposa; e el ghe dise a sto magiordomo: Ti portarà anca ti la toa. Elo dise, che lu no ga sposa; e el Re ghe dise, che el deve portarla, parchè a lu no 'l ghe pol negar. Infati, co' xe sta quel zorno, sto magiordomo ga portà anca lu sta so sposa. Al pranzo, tuti parlava e diseva la soa; e questa no parlava mai. Alora el Re ghe domanda, par che rason, che no la parla. E ela ghe dise: Vigna era, e Vigna son. | Amata era e più non son; | E non so per qual cagion, | Che la Vigna ha perso la so stagion. El mario, che sente cussì, dise: Vigna eri e Vigna sei | Amata eri e più non sei. | Per la branca del leon | La Vigna ha perso la so stagion. Alora, el Re, che il s'ha incorto de quelo, che loro voleva dir, el dise: Ne la vigna io son entrato, | Di quei pampani ghe n'ho tocato; | Ma lo giuro per la corona, che porto in capo, | Che de quel fruto no ghe n'ho gustato. Alora, parchè el magiordomo ga capio, che so mugier la giera innoçente, sti do sposi ga fato la pase e i ga vivesti sempre feliçi e contenti».—Giuseppe De Blasiis mi comunica una lettera di Sp. Zambelios, dalla quale trascrivo il brano seguente:—«La mia Signora, semi-Italiana per origine ed ammiratrice de' distinti letterarî prodotti di questo paese, nel leggere le vicende di Pier delle Vigne nel suo scritto, si fermò al IX capitolo (laddove particolarmente viene fatta menzione d'una peripezia conjugale del celebre Protonotario, ricordata da Jacopo d'Acqui) e mi avvertì d'una leggenda popolare, a lei raccontata nell'infanzia dalla sua governante, vecchia sessagenaria oriunda di Messina e ita col marito a stabilirsi a Corfù, or sono cinquant'anni e più, al seguito dell'armata britannica. Quella leggenda discorre del caso suddetto, sebbene senza nominare Federico ed il secretario di lui; e corrisponde perfettamente a quanto viene riferito nell'Imago Mundi, tranne la qualità di Pier delle Vigne; il quale, da Cancelliere, è convertito, nel racconto popolare, in Grande Cacciatore del Re. In quanto alle scambievoli spiegazioni de' conjugi e del Principe, esse, a tenore della leggenda, hanno luogo in un banchetto, a quest'uopo imbandito dal Re. Il quale, invitati uno per uno i commensali, alla fine del pranzo, a raccontare il fatto più penoso di loro vita, e giunto per vicenda alla moglie di Pietro, s'ebbe in risposta la seguente metrica reticenza: Vigna era e vigna sono, | Però amata più non sono; | Non so per qual ragione | Perduta ho la stagione. Il marito, cui toccava immediatamente parlare, riprese il filo della reticenza così: Vigna eri e vigna sei, | Però amata più non sei; | Hai perduta la stagione | Per la griffa del leone. Federico allora, che ben comprese di qual discordia domestica era stato fino a quel punto cagione il proprio guanto, dimenticato sul letto conjugale, volle calmare la gelosia del suo Grande Cacciatore; e si spiegò così: Nella vigna sono stato, | Fronde e pampani ho toccato; | Ma del frutto, giuro a dio, | Non gustai, perchè non mio. Onde il marito, sentitosi pago e rasserenato, abbracciò la moglie alla presenza de' convitati e soggiunse: Se così la cosa è stata | Tua stagion non è passata.... ».— Racconta Pietro Brantolmense nel secondo discorso delle Donne Galanti:—«Moy estant a Milan, un jour on me fit un conte de bonne part, que feu M. le marquis de Pescaire, dernier mort, vice-roy en Sicile, vint grandement amoureux d'une fort belle dame; si bien qu'un matin, pensant que son mary fust allè dehors, l'alla visiter qu'il la trouva encores au lict; et, en devisant avec elle, n'en obtint rien que la voir et la contempler à son aise sous le linge et la toucher de la main. Sur ces entrefaites survint le mary, qui n'estoit du calibre du marquis en rien; et les surprit de telle sorte, que le marquis n'eut loisir de retirer son gand, qui s'estoit perdu, je ne sçay comment, parmy les draps, comme il arrive souvent. Puis, luy ayant dit quelques mots, il sortit de la chambre, conduit pourtant du gentilhomme, qui, amprès estre retourné, par cas fortuit trouva le gand du marquis perdu dans les draps, dont la dame ne s'en estoit apperçue. Il le prit et le serra, et puis, faisant la mine froide à sa femme, de meura longtemps sans coucher avec elle, ny la toucher: parquoy un iour elle seule dans sa chambre, mettant la main à la plume, se mit à faire ce quatrain: Vigna era, Vigna son, | Era podata e più non son; | E non so per qual cagion | Non mi poda il mio patron. Et puis,laissant ce quatrain escrit sur la table, le mary vint, qui voit ces vers sur la table, prend la plume et fait réponse: Vigna eri, Vigna sei, | Eri podata e più non sei. | Per la granfa del leon | Non ti poda il padron. Et puis les laissa aussi sur la table. Le tout fut apporté au marquis, qui fit réponse: A la vigna, che voi dicete, | Io fui e quì restete; | Alzai il pampano, guardai la vite, | Ma non toccai, si dìo m'aite. Cela fut rapporté au mary, qui, se contentant d'une sì honorable réponse et juste satisfaction, reprit sa vigne et la cultiva aussi bien que devant; et jamais mary et femme ne furent mieux. Je m'en vais les traduire en français, a fin que chacun l'entende. Je suis esté une belle vigne et le suis encore, | Je suis esté d'autrefois très-bien cultivée; | Ast heure je ne le suis point; et si ne scay | Pourquoi mon patron ne me cultive plus. — Response. Ouy, vous avez esté vigne belle et l'estes encore, | Et d'autrefois bien cultivée, ast heure plus; | Pour l'amour de la griffe du lyon, | Vostre mary ne vous cultive plus. — Response du marquis. A la vigne que vous autres dites | Je suis esté certes, et y restay un peu; | j'en haussay le pampre et en regardai la vis et le raisin, | Mais dieu ne me puisse aider si jamais j'y ai touchè! Par cette griffe du lion, il veut dire le gand qu'il avoit trouvé esgaré entre les linceuls. Voilà encor un bon mary, qui ne s'ombragea pas trop, et, se despouillant de soubçon, pardonna ainsi à sa femme».—

[2] 'Nzurà' (quasi inussorarsi ) tôr moglie. 'Nzurato, ammogliato.[3] Annascuso d' 'o Re, di nascosto dal Re.[4] Tenè' mente, guardare.[5] Vuanto, guanto.[6] Questi versicoli vorrebbero essere in lingua aulica.[7] Per la guancia del leone. Altri probabilmente crederebbe, che bisogni correggere granfia. Ma è un fatto, che il vocabolo guancia ha anche avuto il significato di mano. Dice il Pollio, che Cola Catania di Bracigliano, compare ed amico e beneficato ed omicida di Masaniello, irruppe nella casa del compare e, senza riguardo alcuno al San Giovanni, afferrata la Bernardina:—«maltrattandola di poco onore et boffettoni et strascinata la condusse in strada, con la sua guancia dentro il petto di quella meschina».—[8] La risposta del Re dovrebb'essere anch'essa in versetti. In una lezione leccese il dialogo è come appresso:

Moglie
.

Vigna eru e vigna su'

Eru putata e mo' nu' su'.

Marito
.

Pe' la guancia de lu glione,

La vigna ha perzu la sua stagione.

Re
.

Signursì, a la vigna andai,

Tutte le pampane spampanai;

Ma lu giuru pi' 'sta curuna

Ca l'ua nu' la tuccai.

VI bis. VILLA ( Variante, anch'essa di Pomigliano d'Arco )

'Na vota nce steva 'nu Re; e facette 'o giuramento, isso cu' tutte 'e cavaliere ssuie, ca nisciune 'e loro ss'aveva 'nzurà'. 'Nu cavaliere 'e chisto, 'nu juorno, ammente passiave, verette 'na giovene 'ngoppa a 'nu barcone, che le piacette tanto. Receva 'ntra isso:—«Mo', se mm' 'a piglio, manco 'ô giuramento.»—Ma chella l' aveva ferite 'o core; e 'o cavaliere nu 'nze ferave cchiù e le mannave 'a 'mmasciate. Chella le recette, ca sì. E isso ss' 'a spusave annascuse 'e tutte; e pe' cierto tiempe sse vulevane tantu bene; nun 'a faceva abberè' a nisciune, e le mettette pure a cammariera. Roppe cierto tiempo, vene sapenne 'o Re, ca chillo cavaliere ss' iera 'nzurate. Sse chiammave 'e cavaliere e le recette:—«Comme avimmo 'a fa', pe' berè' 'sta spose, ca sse rice, ch'è tanta bella?»—«Maistà, nu' nc' è aute mezzo, ca chiammà' 'a serva, prummetterle 'na summa 'e renare, e iessa ha da penzà' 'ô more e manere pe' nce 'a fà' verè'».—«E pure recite buone»,—recette 'o Re:—«Parlate c' 'a serva; e berite, che cose putite fà'.»—Sse chiammavene 'a serva e decettere:—«Vire, ca sua Maistà vo' verè' 'a signurina toia, annascuse r' 'o marito. Trove tu, comm' avimme 'a fà'».—«Signurine mmio, cheste nun po' essere; ì' songh' accise r' 'ô patrone».—«No, tu haie 'a verè' 'e nce fa' 'stu piacere. Nuie te ramme 'na bona summa 'e renare».—Chella recette:—«Embè', sê cu bulite fà'? Venite rimane 'e sera a doie ore 'e notte; ì' v' 'a facce truvà' addurmute; le ronghe 'nu poche r'adduobbie, ammene chella nu' nze scete».—Ss' abbaccaiene accussì c' 'a serva; e, quanno fuie l' auta sera, 'o Re sse mettette 'ncarrozza, 'nziemme cu' 'nu cavaliere, e ghiette llà. 'A serva le facette truvà' 'ô palazze apierte; e trasettere adderitte rinto c' 'a carrozza. 'A signurine aveve avute adduobbie e durmeve. 'O Re sagliette 'ngoppa e ghiette vicino 'ô lietto. Sse luvave 'nu vuanto r' 'a mane pe' 'a 'ccarezzà' 'nu poche; e 'o mettette 'ngoppa 'o liette. 'A tenette mente bona bona; sse stette 'nu poche; e po' sse ne iette, e sse scurdave 'e sse purtà' 'o vuanto. Quanno venette 'o marito 'a sera, 'a verette rinto 'ô liette e spiave 'â serva, pecchè ss' era cuccate? Chesta respunnette, ca teneva relore 'e cape: e 'o cavaliere s'abbecenave 'â mugliera pe' 'a verè'. Truvave 'ô vuanto r' 'o Re 'ngoppa 'ô liette, 'o canuscette, e nu' decette nisciuna parola. Quanno fuie 'a matine, 'a mugliera iette pe' le fà' 'e ciremonie; e chillo le vutave 'a faccia e n' 'a respunneve. Chella puverelle sse mettette a chiagnere; e chiagneva sempe. Jette a sfugà' c' 'a serva ssoia e le recette, ca 'o cavaliere ssuie l' aveva vutate 'a faccia. Respunnette a serva:—«Signurì', nun ve ne 'ncaricate; chillo fa accussì e po' le passe».—Passaie 'nu juorno e 'n aute: e chillo manco 'a teneva mente e nu' respunneve 'ê ciremonie, ca chella le faceve. Jette 'a signore a chiagnere 'n'ata vota addò 'a serva. Rice:—«Chillo nu' mme vuarde, ì' comme hagge 'a fà'?»—«Sê che bulite fà'? quanno chillo sse retire, e buie 'o iate a scuntà' e nu' ve responne, vuie recite accussì: Villa era, e Villa sò'; | era amata e mo' nu' nce so'; | non mi ama il mio patrone, | io non so per quala ragione ».—Chella accussì facette; quanno chillo sse riterava, l'ascette 'nnanze e le recette comme l' aveva cunzigliata 'a serva. Chillo nu' nze ne 'ncarricava e pure le vutava 'a faccia; e 'a puverelle chiagneva sempe. 'O benette sapenne 'o Re; sse chiammave 'e Cavaliere e decette:—«Comm' avimme 'a fà', pe' nun fà' patì' cchiù chella povera giovene?»—«Sê, che bulite fà', Maistà? facite 'na tavule a tutte 'e cavaliere; e chille, che so' 'nzurate, hanne 'a purtà' 'e mugliere. E accussì 'e facimme fà' pace.»—Ascette l' ordine; e chillu cavaliere nun puteva fà' ammene 'e purtà' 'a mugliera. Jette addò 'a serva e le cummannave, ch' avesse ritto 'â signora, ca sse fosse vestute, pecchè avevene 'a ì' a mangià' addò 'ô Re. Avubberette chella, sse vestette e ghiette 'nziemme c' 'o marito, senza tenerse mente. Ma primme 'e ì', iette vicino 'â serva e decette:—«I' mo' comme hagge 'a fà'? chillo nun mme tene mente; tutte chilli signure sse n' addonene; e po' comme rìcene?»—E chiagneva p' 'o dispiacere.—«Sê, che bulite fà'?»—recette 'a serva.—«Vuie mettiteve a tavule e faciteve verè' 'mbestata 'mbestata. Chille v'hanne 'a ricere, vecine a buie: Nèh, pecchè state cusì malinconica? Vuie responnite e decite: Villa era, e Villa so', | era amata e mo' nu' nce so'; | non mi ama il mio patrone, | io non so per quala ragione; e berite, che ne succere».—Accussì fuie: iessa sse facette verè' 'mbestata 'mbestata; chille le spiavene pecchè steva culerica, e iessa respunnette comme l' aveva ritto 'a serva:—«Villa era e Villa so' | era amata e mo' nu' nce so; | non mi ama il mio patrone | io non so per quala ragione».—Respunnette subeto 'o marito:—«Per la guancia del leone | non ti ama il tuo padrone».—Respunnette 'o Re:—«Aggiate pacienzie, 'sta povera figliole nu' ne canosce niente; mo' ve conte ì' 'o fatte comme va'».—Lo cuntave; e accussì 'e facette fà' pace, e sse ne jettero felice e cuntente.

VII.—'A MUZZELLA[1]

Nce steva 'na vota 'na mamma; e teneva 'na figlia, ca era muzzella.[2] 'Nu giovane ss'annammurave 'e chesta e ss' 'a vuleva spusà'. 'A mamma le recette:—«I' t' 'a ronghe[3], ma chesta sse piglia scuorne[4] 'e parlà'.»—'O giovane respunnette:—«Nu' 'mporte.»—Pecchè isso sse faceva 'ncapo[5], ca roppo pigliata 'a faceva parlà'. Ss' 'a spusava, ma chesta nu' buleva ricere nisciuna parola. 'O povero marite sse verette perze. Jette addo' 'nu cumbare ssujo e li facette cunuscere, come isso tineva 'na mugliera, ca nu' parlava mai. 'O cumbare decette:—«Sê'[6] cu buò' fà'? Falle 'nu pare 'e scarpe strette strette. Chell'ha da ricere: Tu che mm' hê fatto? E bire, ca parla».—'O marite accussì facette; ma 'a mugliera manco vulette parlà'. Jette 'n'auta vota a d' 'o cumbare a cercarlo 'nu sicondo cunziglio; e chisto le recette:—«Falle 'na vesta corta corta; e biri iessa, che fa».—Chillu pover'omme nce 'a facette, ma 'a mugliera manco vulette parlà'. Jette 'n'auta vota a d' 'o cumpare. Chillo cumpare, sapenne chesto, cunzigliava 'o marito 'e sse mittere arret' 'a porta: ammeno, quanno chella traseva, isso le faceva fa' 'na paura; e accussì 'a mugliera aveva ricere:—«Mamma mmia!»—Ma manco ne recavava niente, pecchè 'a femmena manche vulette parlà'. Chillo marite jette 'n'auta vota a d' 'o cumbare e chisto le recette:—«'N'urdema cosa te rummane 'a fà'. Fa berè', ca si' muorto; pecchè chella t'ha da chiagnere[7] e accussì 'a siente parlà'.»—Na matina, 'o marite sse mettette 'ngoppa 'ô lietto; e faceva abberè', ca era muorto. 'A mugliera ss' 'o crerette e sse mettette a chiagnere:—«Malite mmio, malite! 'a cappa tetta tetta, 'a vunnelluccia cotta cotta, 'a paula allete 'a potta; malite mmio, malite mmio, comm 'hagge 'a fà'?[8] »—'O marito allora sse sussette e decette:—«Ah tu pe' chesse nu' bulive parlà', pecchè eri muzzella? 'N'auta vota, ca nu' parli, te facce abberè' i'».—E de chesta manera 'o marite sentette parlà' 'a mugliera.

NOTE

[1] Il Pitré mi scrive:—«Un aneddoto simile correre in varie versioni in Toscana e sotto varii titoli, quali: Le figliole pappagalle, La tessitora (Firenze), Le tre ragazze (Prato-vecchio nel Casentino). Lo sposo però non arriva a prendere la ragazza, chè s'accorge della balbuzie di lei e scappa via. In una versione, lo sposo balbutisce anche lui e le chiede: Tapete tettere? (sapete tessere?) Ed ella risponde: Ti te to: (Sì, che so.)»—Il difetto degli scilinguati ha fornito agli scrittori comici spesso modo di suscitare schietto riso (sebbene certo di bassa lega, come ogni riso suscitato da difetti corporali). Ricorderò solo il Fagiuoli, col suo Conte di Bucotondo, ridicoloso oltr'ogni dire:—«Quando intoppa davvero, talvolta parla con qualche dilazione; del resto hà un discorso tersissimo ed ordinato al maggior segno. E poi è un cavaliere, ch'ha viaggiato, fatti varii studii in molte lingue; e per questo intoppa, perchè la varietà de' linguaggi, fa cendo tutti a gara nell'escirgli di bocca e tutti volendo aver l'onore di esser il primo da lui profferito, ed egli volendo, com'è giusto, fare onore al suo nativo toscano, gli recano quella po' di confusione, la quale po' poi, unita colle qualità personali, gli dà grazia grande e lo fa veramente comparire qual Grazioso, com'egli si noma».—[2] Muzzella, voce pomiglianese, vale scilinguata; e specialmente persona, che non può pronunziare alcune lettere, come l' erre. Vocabolo non registrato nè dal Galiani, nè dal D'Ambra.[3] Ronghe; dò.[4] Sse piglia scuorne: ha vergogna.[5] Sse faceva 'ncapo: s'immaginava.[6] Chiagnere, piangere. Il pianto clamoroso e pubblico pe' morti è cerimonia, che quasi interamente può dirsi ita in disuso.[7], sai; e poco dopo mm' hê, m'hai. Già l' e nasce dall' ai. Abbiamo già avvertita la tendenza del pomiglianese a mutare l' a accentato in e larga.[8] Parla scilinguatamente. Marite mmio, marite! 'a scarpa stretta stretta, a' vunnelluccia corta corta, a' paura arret' 'à porta; marite mmio, marite mmio, comm'hagge 'a fà?

VII bis. La CACAGLIOSA ( Variante di 'A Muzzella ). ( Raccolta a Montella, in Principato Ulteriore. )

'Na vota ng'era uno: ssi volia 'nzorà'. Volia una, chi era cacagliosa. Jia a la casa; e la cacagliosa, pe' non ssi fà' appurà', ca era cacagliosa, non parlava mai; e lo 'nnammorato non sapia nienti, ca iera cacagliosa: isso, quanno jia a la casa, parlava sempe co' la mamma. Arrivavo lo tiempo stabilito e sposavo; sse la portavo a la casa e non sapia come parlava. 'No juorno assette a cunti co' 'n amico ssujo. Li recette 'st'amico:—«Falli 'no paro re scarpe, una stretta e 'n'ata lasca: vere, ca re scarpe so' ammalamente fatte, ha da parlà'».—Accossì facette lo marito. Jessa manco parlavo. Parlava 'n' ata vota lo marito co' l'amico ssujo. Rice:—«L'haggio fatte re scarpe e manco ha parlato».—Recette l'amico:—«'Nfincite muorto».—Lo marito accossì facette. Jessa verette lo marito muorto, ssi mettette a chiange, ssi mettette a fà':—«Uh! maito mmio! È muotto maito mmio! Mmi facette 'na cappa tetta tetta e 'n'ata lacheta! Maito mmio!»—Ssi resbegliavo lo marito:—«L'anima re pateto!»—recette.—«Pe' quesso no' bolivi parla', ca ieri cacagliosa!»—Accossì l'appuravo lo marito, ca era cacagliosa.

VIII.—NATALE[1] ( Versione raccolta in Pomigliano d'Arco. )

'Na vota, nce steva 'nu marito e 'na mugliera 'nu poco scema. 'Nu juorno 'o marito le recette:—«Vuè![2] pulizza[3] 'a casa, ca mo' vene Natale».—Appena 'o marito ascette, 'a mugliera sse mettette affacciata 'ô barcone; e ognune, che passava, le spiava, se ssi chiammava Natale. Tutte quante recevane, ca no: ma uno, pe' berè', chella pecchè 'o spiava, recette, ca sì. Piglia iessa, 'o facette saglì' 'ngoppa e le rette quante teneva. Venette 'o marito e le spiava, che n'aveva fatte 'â robba. 'A mugliera respunnette, ca l'aveva rate a Natale, pecchè isso accussì aveva ritto. Chillu puveriello, tanto d' 'o currivo, ca sse sentette, ca l'afferrava e le rette 'nu sacco 'e mazzate. 'N'auta vota, 'a mugliera spiava 'ô marito, quanno vuleva accirere 'o puorco. 'O marito respunnette:—«A Natale».—Piglia 'a mugliera, facette pure comme aveva fatto primma; e, truvato l'omme, ca ssi chiammava Natale, 'o chiammava. Mettette 'e rusette e 'o lazzetto[4] ssujo 'ô puorche e lo rette, recenne, ca 'o marito ssujo accussì l'aveva rummase ritto. Quanno venette 'o marito, sapenne 'o fatto, 'a carricava 'e mazzate; e da tanno ss'imparava a non dicere niente cchiù 'â mugliera.

NOTE

[1] Vedi:—I.— Pitrè. (Op. cit.) CLXXXVI. Maju longu. (Polizzi-Generosa).—II.— La Patalocca tra le Novelle popolari Bolognesi della Coronedi-berti, dove Natale è invece Gennaro.—III.—Beroaldo di Verville. Le Moyen de parvenir (LXXVIII)—«L'engin et l'esprit sont tout un, ainsi que le pratiqua la chambrière d'une veuve. Je vous assure, que cette garce était jolie, mais un peu follette; sur quoi sa maîtresse lui disait toujours, qu'elle n'avait point d'esprit. Or est-il qu'il y avait un jambon à la cheminée; et cette fille, le voyant là si longtemps, s'en ennuyoit; elle demanda a Madame, si elle le mettrait cuire. Non, dit-elle, c'est pour les Pâques. Cette fille en fit le conte a quelques autres de ses compagnes, i qui s'en gaussaient en son absence. Mais le clerc du notaire Bardé ne fut point si sot, qu'il n'y prit garde, pour éprouver le sens de la fillette. Un jour, que la bonne femme était allée a sa métairie, et qu'elle avait laissé Mauricette toute seule, il vint heurter et demanda madame. Mauricette dit, qu'elle n'y était pas: J'en suis bien marri, pource que je suis Pâques, qui etais venu quérir le jambon, quelle m'a promis. Il passa: et la chambrière le laissa paisiblement entrer et prendre le jambon. Lui, qui la voyait si nicette et belle, pensait à meilleure aventure. Il faut, dit-il, que je voie si c'est ici mon jambon. Si ce l'est, j'ai un esprit, qui me le dira. Il tira son chouart vif et glorieux. Quand la fille le vit: Qu' est-ce que cela? == C'est mon esprit. == Je vous prie, donnez-m'en un peu? ma maîtresse ne me fait que tancer, et dire que je n'ai point d'esprit. Il la prit, et lui un distribua autant qu'à lui; dont elle se trouva passablement bon; aussi, en etait-elle toute réjouie...... Quand sa maîtresse fut venue, elle lui conta comme Pâques etait venu quérir le jambon. Et endà, madame, vous ne me reprocherez plus, que je n'ai point d'esprit. Pâques m'en a baillé a bon escient ».—IV.— Un giornaletto fiorentino, defunto da un pezzo, dopo breve vita, La Civiltà italiana, nel Numero XIII (Anno MDCCCLXV) pubblicava una variante assai più compiuta di questo conto, somministratale da un tal Chieco, che il direttore del periodico chiamava—«egregio scrittore pugliese».—Questo egregio scrittore (scrittore, forse, perchè sa materialmente scrivere; ma egregio poi, perchè?) questo egregio scrittore pugliese ha voluto vestire di gala la novelletta, invece di darcela nella schietta veste vernacola. Ad ogni modo, ecco la sua lezione:—«Un uomo aveva tre figli, dei quali due maschi di mente sana ed una femmina di mente scema. Questa era oggetto di strapazzo nella famiglia: a lei i meschini avanzi di cibo, a lei gli abiti dimessi, quand'erano ridotti a brandelli; sì che affamata sempre ell'era e quasi ignuda. Un dì, suo padre, era di gennaio, vedendola tremare pel freddo, che quasi ogni membro aveva scoperto, prese dieci ducati, e, mostrandoli alla figlia, le disse: Quando verrà Maggio, o con questo danaro ti farò un abito nuovo; e ripose il danaro in una cassa. La povera scema, da quel dì, nel mattino, sul pianerottolo della scala, cantava così: Quando verrà Maggio avrò l'abito nuovo. Ora avvenne, che un dì, passando per di là un merciajuolo, udì quella cantilena e le dimandò: Perchè, quando verrà Maggio, avrai l'abito nuovo? E qui la semplicetta raccontò al merciajuolo la promessa del padre; e indicò, ove i dieci ducati erano. Allora il merciajuolo disse, che egli era Maggio, che le aveva portato l'abito nuovo (e, sì dicendo, le dette un pezzo di tela grossolana) e cercava i dieci ducati. La povera innocente prese la tela e diede i dieci ducati al merciajuolo. Tornato a casa il fratello maggiore, la sorella, tutta ilare, gli mostra la brutta tela; gli raccontò, che Maggio era venuto, che le aveva dato l'abito nuovo, e che essa aveva dato a Maggio i ducati riposti dal padre. Il fratello, imbestialito, dette molte busse alla sorella, e, andato a casa il fratello minore, che ammogliato era e più buono, gli propose di uccidere la sorella. Il fratello minore si negò. Allora il maggiore menò seco in campagna la sorella; e, non avendo coraggio di ucciderla violentemente, decise di accecarla, intromettendole negli occhi molto terreno; e poi di abbandonarla. Così fece; e, fattala salire su d'un pero smisurato, l'abbandonò. Si fece notte. Una banda di ladri andò a posare sotto a quel pero; e, prima di spartire il ricchissimo bottino, accese un gran fuoco per cuocere poi agnelli e capretti. Il fumo di quel fuoco di legna verdi, salendo, faceva lagrimare la povera scema, che era sempre sul pero; ed a misura, che le lagrime sgorgavano, la vista le tornava limpida. Al principio, scorse un ladro appiè del pero, e gridò: Ne veggo uno! Per questa voce, che non sapevano donde venisse, i ladri incominciarono a temere di essere scoverti. Gli occhi della scema, per nuove lagrime versate, discèrsero un altro ladro e poi un altro. E, ad ogni scoverta, la scema, tutta lieta, dava un altro grido: Ne veggo due! Ne veggo tre! e, per ciò, maggiore cagione di paura pei ladri. Finalmente la sciocca, avendone scorti cinque, gridò forte: Ne veggo cinque, basta! A questo, i ladri non si tennero più; e fuggirono via, abbandonando il ricchissimo bottino, di cui erano carichi muli e cavalli. La scema, scesa dal pero, menò i muli ed i cavalli, carichi com'erano, a casa del fratello maggiore suo assassino. Picchiò, e, domandato di dentro chi fosse, rispose essere la sorella. Non fu ricevuta. Allora essa andò a casa del fratello minore ammogliato e fu ricevuta. A lui dette il ricco bottino e raccontò tutto. Nel sentir questo, la moglie del fratello, certa che quel bottino arricchiva il marito, e prevedendo, che, un dì, sarebbe stata forse chiesta ragione a lui del cangiamento di fortuna, cercò d'ingarbugliare la mente della sciocca cognata. Mentre questa era al focolare di casa, andò sul letto, e, per la rocca del cammino, versò quattro panieri di fichi secchi e di uva passa, in modo da far cadere fichi ed uva innanzi alla cognata. La povera sciocca dimandò al fratello cosa succedesse? E questi, indettato con la moglie, rispose, che il cielo pioveva fichi secchi e uva passa. Passarono molti mesi. Il fratello maggiore della sciocca, vedeva, che il fratello minore comprava molte case e grandi terre. Andato a casa di lui, dimandò alla sorella, che cosa avesse fatto nella notte, in cui era stata in campagna. La sciocca disse tutto ingenuamente. Allora il fratello maggiore andò dal giudice, per avere metà del bottino, od almeno, maligno com'era, per farlo togliere al fratello, perchè malamente acquistato. Il giudice chiamò il fratello minore e gli dimandò del bottino. Rispose: Non saperne nulla. Il giudice mandò per un gendarme a chiamare la scema. Questa, al solito, era vicina al focolare di casa: al focolare era una pignatta, in cui cocevano delle fave. Bollendo, le fave andavano di su e di giù; appena andavano sù, la scema le ghermiva e le mangiava, e a squarciagola cantava: Chi sale non scende; alludendo alle fave. Il gendarme, udite quelle parole, temè vigliaccamente; e tornato, riferì al giudice la creduta minaccia. Allora il giudice mandò quattro gendarmi; ed a questi, il fratello minore raccomandò, dicessero alla sorella, che, venendo via, si tirasse dietro di sè la porta di casa. La povera scema, udita l'ambasciata, sollevò dai gangheri la porta e la tirò dietro di sè, seguendo i gendarmi fino al giudice. Questi, che aveva inteso la raccomandazione del fratello, incontanente fu certo, che quella donna era scema di mente; e, domandatala di quella notte, in cui era stata fuori di casa, la sciocca, come sempre faceva, raccontò il vero. Il fratello minore protestava, che quelle erano novelle, e che ad una scema di mente non doveva credersi più che tanto. Sua moglie aggiungeva, che essa era certa, che la povera cognata non saprebbe nemmeno indicare quale fu quella tale notte. Il giudice dimandò alla sciocca, in quale notte essa aveva raccolto un così ricco bottino; e questa, memore della strana piova, rispose: In quella notte, in cui piovve fichi secchi ed uva passa. Allora il giudice ridendo molto, di certo, che era, fattosi certissimo, che quella povera donna fosse sciocca, e che perciò le sue parole non meritavano fede alcuna, mandò via tutti. E così il fratello maligno restò in povertà e 'l benigno fu ricco».—Ommetto i riscontri a tutti i particolari di questa versione, chè non servirebbero ad illustrare il conto pomiglianese.[2] Vuè, è il guà toscano, il voj lombardo.[3] Pulizzà', pulire, nettare ed anche vuotare d'ogni cosa.[4] 'E rusette e 'o lazzetto.—« Rosetta, specie di orecchino senza gocciola. Buccola.— Lazzetto. Laccio a piccole magliette d'oro. Catenella».—Così il D'Ambra. In Pomigliano, Rosette sono degli orecchini formati di parecchi giri di perle piccolissime, con una pietra in mezzo, per lo più verde, rare volte rossa. Quando le rosette son piccole, le perle sono più grosse; e viceversa, quando le rosette son più grandi, le perle si scelgono più minute. Nel paio di rosette, che ho innanzi agli occhi, mentre scrivo, ciascuna rosetta ha un diametro di sei centimetri, i giri delle perle son dodici, e ne' sette maggiori le perluzze sono traforate da un filo d'oro, del quale si vede la testa.

IX.—MICCO[1] ( Versione raccolta in Pomigliano d'Arco. )

'Na vota nce steva 'na mamma e teneva 'nu figlio, ca sse chiammava Micco.[2] 'Nu juorne aveva cuotte 'e maccarune[3]; e decette vecino 'ô figlio:—«Va fora a fa' 'nu fasce d'evra».—Micco nu'nce vuleva ì', pecchè sse vuleva mangià' primma 'e maccarune. Ma 'a mamma le prummittette, ca nc' 'e stipava; e accussì 'o figlio jette a fà' l'evra. 'A mamma, verenne, ca Micco nu' turnava cchiù, mangiava, e sse scurdava 'e rummanè' 'a porzione 'ô figlio. All'urdemo sse nn'allicurdava. Jette a 'bberè' rinto 'â caurara[4] e ne truvava 'nu filo. 'O rignette 'e caso e broro; e, quanno vinette 'o figlio, lo vuleva fà' mangià'. Chisto sse mettette a chiagnere, pecchè erane poche; e 'a mamma sse vutava e decette:—«Mazza, vatte a Micco, ca nu' nze vo' mangià' 'o maccarone».—'A mazza nu' nze ne 'ncarrecava. 'A mamma sse vutava e decette:—«Fuoche, arde 'a mazza; pecchè 'a mazza nun bo' vattere a Micco e Micco nu' nze vo' mangià 'o maccarone».—'O fuoche non sse ne 'ncarrecava. 'A mamma sse vutava e decette:—«Acqua, stuta[5] 'o fuoche; ca 'o fuoche nun bo' ardere 'a mazza, 'a mazza nun bo' vattere a Micco e Micco nu' nze vo' mangià' 'o maccarone».—Chesta nu' nze ne 'ncarrecava. 'A mamma sse vutava e decette:—«Voje,[6] vìvete[7] l'acqua; ca l'acqua nun bo' stutà' 'o fuoche, 'o fuoche nun bo' ardere 'a mazza, 'a mazza nun bo' vattere a Micco e Micco nu' nze vo' mangià' 'o maccarone».—'O voje nu' nze ne 'ncarrecava. 'A mamma sse votava e decette:—«Fune, attacca 'o voje; ca 'o voje nu' nze vo' vevere l'acqua, l'acqua nu' bo' stutà' 'o fuoche, 'o fuoche nun bo' ardere 'a mazza, 'a mazza nun bo' vattere a Micco e Micco nu' nze vo' mangià' 'o maccarone».—'A fune nu' nze ne 'ncarrecava. 'A mamma sse vutava e decette:—«Sorece, rosec' 'a fune; ca 'a fune nun bo' attaccà' 'ô Voje, 'o Voje nun sse vo' vevere l' acqua, l' acqua nun bo' stutà' 'o fuoche, 'o fuoche nun bo' ardere 'a mazza, 'a mazza nun bo' vattere a Micco e Micco nu' nze vo' mangià' 'o maccarone».—'O sòrece non sse ne 'ncarrecava. 'A mamma sse vutava e decette:—«'Atta, mangiate 'o sorece; ca 'o sorece nun bo' rusecà' 'a fune, 'a fune nun bo' attaccà' 'o voje, 'o voje nun bo' vevere l'acqua, l'acqua nun bo' stutà' 'o fuoco, 'o fuoco nun bo' ardere 'a mazza, 'a mazza nun bo' vattere a Micco e Micco nu' nze vo' mangià' 'o maccarone».—Accussì a 'atta sse mangiava 'o sorece, chisto rusecava 'a fune, 'a fune attaccava 'o voje, 'o voje sse vevette l'acqua, l'acqua stutava 'o fuoche, 'o fuoche ardette 'a mazza, 'a mazza vattette a Micco e Micco sse mangiava 'o maccarone.

NOTE

[1] Vedi—I.— Imbriani ( Novellaja Fiorentina ), Petruzzo —II.— Gradi. ( Saggio di letture varie ) La Novella di Petruzzo.—III.— Pitré: ( Op. cit.) CXXXI. Pitidda.—IV.— Bernoni ( Tradizioni popolari veneziane. Puntata terza) Petin-Petele.[2] Micco, diminutivo di Domenico. Mimì ne è il verseggiativo.[3] Maccarune, plurale di Maccarone. Prima si diceva anche maccare, come ricavo dal Prologo del Capasso, contro il Gravina, autore di cinque tragedie:

E co' lo 'ngegno e co' 'no po' de sprèmmere

Le faje ascire justo comm'a maccare

Da lo pertuso a cinco a cinco l'opere.

Che i maccheroni siano d'origine siciliana; e che, come dice un proverbio citato dal Pitré: Sicilianu, mangiamaccaruni, (Vedi le Canzoni scritte dal P. Paolo Catania e pubblicate da Andrea Olicchia in Palermo nel MDCLXIII. vol. VIII pag. 173) a' Siciliani, prima che a' Napoletani, dovesse venire attribuito l'epiteto di Mangiamaccheroni, è cosa, che non può essere inforsata da chi rammenta le parole di Ortensio Lando:—«Fra un mese (se i venti non ti fanno torto) giungerai nella ricca isola di Sicilia, et mangerai di que' macheroni, i quali hanno preso il nome dal beatificare. Soglionsi cuocere insieme con grassi caponi et caci freschi da ogni lato stillanti butiro et latte; et poi, con liberale mano, vi sovrapongono zucchero et cannella della più fina, che trovar si possa: ohimè, che mi viene la saliva in bocca sol a ricordarmene. Quando io ne mangiava, mi doleva con Aristoxene, che iddio non mi avessi dato il collo di grue, perchè sentissi del trangugiarli maggior piacere; mi doleva, che il corpo mio non si facesse una gran capanna».—L'antico soprannome dei Napoletani era Mangiafoglia. Andrea Perruccio, (il quale, si noti, sebbene scrivesse in partenopeo letterario, era siculo) descrivendo una rassegna, dice, che primo veniva lo segnò Cianno:

Chisto portava li Napoletane,

Che de le foglie fanno gra' strapazzo;

So' lenguacciute e longhe hanno le mane,

Ma maje sse danno e fanno gra' scamazzo.

Songo tutte sordate veterane;

A la bannera portano 'no mazzo

De vruoccole, e 'sto scritto:
'Nira la panza

Haggio de la vettoria la speranza
.

Che i maccheroni, del resto, non abbian preso il nome del beatificare, è aperto. La più probabile etimologia mi apparve, leggendo in Plutarco, che il padre di Demostene fu soprannominato Macaropeo, che vuol dire fabbricatore di spade, ecc. Maccheroni dunque varrebbe quanto spadoni, lunghe spade.

[4] Caurara, caldaja.[5] Stutà', spegnere.[6] Voje, bue. Nunz. Pagano. Batrac.

... Li surece.... a quatriglia

Sautano 'nfesta pe' l'autare tuoje (
di Pallade
)

Quanne puosto nce sia 'na vacca o voje.

[7] Vìvete, béviti. Vévere, bere. Vevette, bevve.

X.—'O VALLO E 'O SORECE[1] ( Versione raccolta in Pomigliano d'Arco.)

'Na vota nce steva 'nu vallo[2] e 'nu sòrece. Jettero a scugnà'[3] 'e noce tutti e duje. 'O vallo sagliette isso 'ngopp'a l'auro:[4] scugnava 'e noce, 'ê[5] menava ô sòrece. Piglia chisto, ss' 'e mangiava tutte quante, e po' 'e 'nghiureva 'n'auta vota. Sse n'addunave compà' vallo e decette:—«Compà' sòrece, mo'che scenco[6] da ccà 'ngoppa, te faccio abberè' i'!»—Accussì scennette e le chiavave[7] 'nu pizzeche 'ngoppa 'â catarozzola. 'O sorece sse ne fujette; jette a d' 'o mièreche e decette:—«Mièreche, mièreche merecòzzolo, | sanami 'sta mmia cataròzzola.[8] | Cu' 'na noce ch'hagge 'arrubbate | Compà' vallo mm' 'ha sciaccate».[9] —'O mièreche respunnette:—«Portame 'e pezze».—'O sòrece jette a d' 'o pezzajuolo:[10] —«Pezzajuolo, ramme pezze; | pezze port'a mièreche; mièreche merecozzolo, | mme sana 'sta mmia catarozzola; | cu' 'na noce ca mm'haggio mangiate | combà' vallo mm' 'ha sciaccate».—«Portame 'a mantechiglia.[11] »—'O sorece jette a d' 'o putecare:—«Putecare, damme 'nzogna; | 'nzogna porto a pezzajuolo; | pezzajuolo mmi rà pezze; | pezze porto a mièreche; | mièreche merecozzolo | mme sana 'sta mmia cataròzzola; | cu' 'na noce ch'hagge 'arrubbate | cumbà'vallo mm' 'ha sciaccate».—'O putecare recette ca vuleva l' ove. 'O sòrece va add' 'e galline:—«Ralline, ramme ove; | ove porto a putecare[12]; | putecare mme rà' 'nzogna; | 'nzogna porto a pezzajuolo; | pezzajuolo mmi dà' pezze; | pezze porto a mièreche; | mièreche merecozzolo | mme sana 'sta mmia cataròzzola. | Pe' 'na noce ch' 'hagge arrubbate, | combà' vallo mm' 'ha sciaccate».—'A rallina ricette:—«Portami farina».—'O sòrece 'na notte sse 'nficcava sotto 'a porta 'e 'nu farinare: sse regnette 'e farina: 'o purtava 'ê galline. 'E galline le rèttene l' ove. L'ove 'e purtava 'ô putecare. 'O putecare le rette 'nzogna.[13] 'A 'nzogna 'a purtava 'ò pezzajuolo:—«Pezzajuolo mme dà pezze; | pezze puorto a mièreche; | mièreche merecòzzolo | mme sana 'sta mmia cataròzzola; | pe' 'na noce ch'hagge arrubbate | cumbà' vallo mm' ha sciaccate».—

NOTE

[1] Vedi—I.— Imbriani, Novellaja fiorentina ( VII. Il topo ).—II.— Pitré ( Op. cit.) CXXXV. Lu nasu di lu sagristanu (seconda parte)—III.— Bernoni ( Tradizioni popolari veneziane. Puntata terza) Galeto e Sorzeto.[2] Vallo, gallo; pomiglianesismo.[3] Jettero, andarono. Scugnà', abbacchiare (trattandosi di noci.) Scugnà' è anche il battere il grano sull'aja.[4] Auro, albero.[5] Ê, contrazione di e 'e (e le).[6] Scenco, scendere. Abbiamo già visto altri esempli dell'intercalazione di una palatina nel presente, terza pers. sing. Songo, Rongo.[7] Chiavà', dare, tirare, appiccare.[8] Catarozza e catarozzola. Parte superiore del capo, coccia; la testa, la zucca.[9] Sciaccato, fiaccato.[10] Pezzajuolo: venditore di pezze, stracci. Pizzajuolo poi è colui, che fa le pizze, specie di schiacciate.[11] Mantechiglia, pomata, manteca.[12] Potecaro (letteralmente Bottegajo ) pizzicagnolo. Però, altro è potecaro ed altro è casadduoglio.[13] 'Nzogna, sugna, strutto. Ha detto il Capasso:

Dàlle a 'sso ciuccio, dà, senza sparagno...

Tu mme lo puoje fà' muollo comm'a 'nzogna.

X. bis.—'O GALLO E 'O SORECE ( Variante raccolta in Avellino, nel Principato Ulteriore ).

Nci steva 'na vota 'no gallo e 'no sorece. 'No juorno 'o sorece dicivo vicino 'ô gallo:—«Compà' gallo, nci volimo ì' a fà' 'na mangiata de noce 'ncopp'a chill' albero?»—«Come vuo' tu.»—E sse ne iettero tutti dui 'a sotta a chill' albero. 'O sorece ss'appizzicavo subbito subbito; e saglivo 'ncoppa; e accomminciavo a mangià'. 'O povero gallo accomminciavo a volà'; e vola e vola e mai non arrivava addò steva 'o sorece. Quanno vedde, ca no' nci steva speranza de putè' saglì', dicivo:—«Ohi compà' sorece, sa' che buò' fà'? menammenne una».—'O sorece jivo pe' nce ne menà' una e li cuglivo 'nfronte. Chillo povero gallo, co' 'a capo rotta, tutta chiena 'e sango, sse ne jiva addò' 'na vecchia:—«Zi' vecchia, dammi doje pezze, pe' mme sanà' 'sta capo».—«Si mmi dai dui pili, ti davo 'e pezze».—'O gallo sse ne jivo addò 'no cane:—«Cane, dammi pili; pili portare vecchia; vecchia dare pezze, pe' sanà' la capo mmia».—«Ssi mmi dai 'no poco 'e pane»—dicivo 'o cane—«io ti davo i pili».—'O gallo sse ne jivo a d' 'o fornaro:—«Fornaro dammi pane; pane dare cane; cane dare pili; pili portare vecchia; vecchia dare pezze, pe' sanà' la capo mmia».—«Sì?»—risponnivo 'o fornaro—«io ti deva 'o pane a te, senza ca tu mmi portàvi doje legne!»—'O gallo sse ne jivo a 'o bosco:—«Bosco, dammi doje legne; legne portare fornaro; fornare dare pane; pane dare cane; cane dare pili; pili portare vecchia; vecchia dare pezze, pe' sanà' la capo mmia».—'O bosco risponnivo:—«Si mmi puorti 'no poco d' acqua, ti davo doje legne».—'O Gallo sse ne jivo a 'na fontana:—«Fontana, dammi acqua; acqua portare bosco; bosco dare legne; legne portare fornaro; fornaro dare pane; pane dare cane; cane dare pili; pili dare vecchia; vecchia dare pezze, pe' sanà' la capo mmia».—'A fontana li divo l' acqua; l' acqua 'a purtavo 'ô bosco; 'o bosco li divo 'e legne; 'e legne 'e portavo 'ô fornaro; 'o fornare li divo 'o pane; 'o pane 'o portava 'ô cane; 'o cane li divo i pili; 'i pili 'e portavo 'â vecchia; 'a vecchia li divo 'e pezze; e 'o gallo ssi sanavo la capo ssoja. Cucurucù, no' nce n'è chiù.

X. ter.—LO HADDRO E LO SORECE[1] ( Variante raccolta in Montella, nel Principato Ulteriore )

'Na vota 'no Haddro[2] recette a lo Sorece:—«Volimo i', a coglie' lo piro?»—Recette lo Sorece:—«Compà' Hà', io tengo li pieri curti; non pozzo saglie'».—Recette lo Haddro:—«Compà' Sò', tu ti stai sotto e io saglio 'ngimma».—Sagliette 'ngimma lo Haddro e roddrecavo lo piro; cariero 'nguoddro a lo Sorece e li faciero la 'jacca. Recette lo Sorece:—«Compà' Hà', mm'hai 'jaccato[3] ».—«Va addò lo Mièrico,»—recette lo Haddro. Jette addò lo Mièrico lo Sorece; recette—«Mièrico sana capo; compà' Haddro mm'ha ghiaccato».—Recette lo Mièrico:—«Portami re pezze e ti sano».—Lo Sorece ssi parte e ghiette addò lo Pezzaro:—«Pezzaro rammi roie pezze; re pezze porto a Mièrico; Mièreco sana capo; compà' Haddro mm'ha ghiaccato».—Recette lo Pezzaro:—«Rammi la cora, ca ti ravo re pezze».—Lo Sorece iette addò lo Cane, e recette:—«Cane, rammi la cora; cora porto a Pezzaro; Pezzaro mmi rai pezze; pezze porto a Mièrico; Mièrico sana capo; compà' Haddro mm'ha ghiaccato».—Recette lo Cane:—«Portami ro pane, ca ti ravo la cora».—Lo Sorece iette addò lo Fornaro, recette:—«Fornaro rammi pane; pane porto a Cane; Cane mmi rai cora; cora porto a Pezzaro; Pezzaro mmi rai pezze; pezze porto a Mièrico; Mièrico sana capo; compà' Haddro mm' ha ghiaccato».—Recette lo fornaro:—«Portami re lèona, ca ti ravo ro pane».—Lo Sorece iette a la Montagna:—«Montagna rammi lèona; lèona porto a Fornaro; Fornaro mmi rai pane; pane porto a Cane; Cane mmi rai cora; cora porto a Pezzaro; Pezzaro mmi rai pezze; pezze porto a Mièrico; Mièrico sana capo, compà' Haddro mm'ha ghiaccato».—Responnette la Montagna:—«Portami l'accetta, ca ti ravo re lèona».—Lo Sorece ietta addò lo Ferraro; recette:—«Ferraro, rammi accetta; accetta porto a Montagna; Montagna mmi rai lèona; lèona porto a Fornaro; Fornaro mmi rai pane; pane porto a Cane; Cane mmi rai cora; cora porto a Pezzaro; Pezzaro mmi rai pezze; pezze porto a Mièrico; Mièrico sana capo; compà' Haddro mm'ha ghiaccato».—Recette lo Ferraro:—«Va addò lo Galantomo[4], ti fai rà' li renari; vieni qua e ti ravo l'accetta».—Jette addò lo Galantomo lo Sorece, e recette:—«Galantomo rammi renari; renari porto a Ferraro; Ferraro mmi rai accetta; accetta porto a Montagna; Montagna mmi rai lèona; lèona porto a Fornaro; Fornaro mmi rai pane; pane porto a Cane; Cane mmi rai cora; cora porto a Pezzaro; Pezzaro mmi rai pezze; pezze porto a Mièrico; Mièrico sana capo, compà' Haddro mm'ha ghiaccato».—Recette lo Galantomo:—«Mittiti a serivì', e pò' ti ravo li renari».—Ssi mettette a serivì pe' lo Galantomo lo Sorece, li 'angiavo[5] lo capo e morette.

NOTE

[1] In questa Variante la Novella o Filastrocca, per via della conclusione, prende quasi la forma e l'importanza di una satira sociale, diretta contro i cosiddetti galantuomini.—Ad ogni modo, sarà buono notare la lontana somiglianza, che corre fra la prima parte della Novelletta e la facezia seguente del Bebelio:—«Duo fratres fatui, ex quercu pyra decerpere cupientes, convenerunt, ut unus ascenderet atque concutiendo demitteret, alter sub arbore colligeret. Et cum alter diu conquassando arborem nihil proficeret, (unde enim pyra produceret quercus?) conquestus est ille qui sub arbore erat, quod frater omnia pyra comederet, ut sibi nihil reliquum fieret: e contra alter super arbore conqueritur, illum omnia quae ipse dejiceret seu praecipitaret pyra devorare. Unde ex summa contentione ad verbera deveniunt. Sed quomodo concordes facti sunt nondum habeo compertum».—[2] Haddro, gallo; al vocativo Ha'.[3] 'Jaccato, in napoletanesco sciaccato, risponde etimologicamente al fiaccato italiano.— Cortese. Rosa.

Non saje, commo solea cantare Rienzo,

D'uno, ch'happe ammicizia co' 'no serpe;

Po' pe' 'na defferenzia lo sciaccaje?

Pentuto l' ommo volea fare pace.

—«No, no!»—disse lo serpe,

—«Va, ca penzanno le cose passate,

Non farrimmo maje cchiù bona farina.»—

[4] Galantomo, signore, persona ricca.[5] Li 'angiavo, gli si confiò.

XI.—'A VICCHIARELLA[1] ( Lezione raccolta in Pomigliano d'Arco.)

'Na vota nce steva 'na vicchiarella. Jette a scupà[2] 'a chisiella;[3] truvava 'nu turnesiello.[4] Dice:—«I' mo' che mm'accatto?[5] Se mm'accatto 'e mele, hagge a jettà' 'o streppone.[6] Si mm'accatto 'e noce, hagge a jettà' 'e scorze[7]. Si mm' accatto 'e castagne, pure hagge a jettà 'e scorze. Si mm' accatto 'o pane, si mm'accatto 'o scagnuozze,[8] mme carene 'e mulliche. Mo' mm'accatto 'o ghianco e 'o russo e mm' 'o metto 'nfaccia[9] ».—Accussì facette. Ss'accattavo 'o ghianco e 'o russo, ss' 'o mittette 'nfaccia, e ssi mettette affacciata 'â fenestella.[10] Passava 'nu ciuccio.—«Zi' vicchiarè', che fai lloco?[11] »—«Mme voglio maretà'».—«Te vulisse piglià' a mme?»—«Famme abberè' che bocia tieni».—«Ingò! Ingò! Ingò! Ingò!»—«Fuie, fuie; mme fai mettere appaura 'â notte».—'O ciuccio sse n'iette. Passava 'na crapa.—«Zi' vicchiarè', che fai lloco?»—«Mme voglio maretà'».—«Te vulisse piglià' a mme?»—«Famme abberè' che bocia fai?»—«Be! be! Be! be!»—«Fui, fui; mme fai mettere appaura 'â notte».—'A crapa sse n'iette. Passava 'na miscia:—«Zi' vicchiarè', che fai lloco?»—«Mme voglio maretà'».—«Te vulisse piglià' 'a mme?»—«Famm'abberè' che bocia fai?»—«Miaò, miaò! Miaò, miaò!»—«Fui, fui; mme fai mettere appaura 'a notte».—'A miscia sse ne fuiette. E accussì passavano tutt' animale r' 'o munno; e a zi' vicchiarella nisciuno nce ne piacette. All' urtemo passava 'nu surecillo.—«Zi' vicchiarè', che fai lloco?»—«Mme voglio maretà'».—«Te vulisse piglià' a mme?»—«'Assa verè', che bocia tiene «.—«Zivuzì, zivuzì! Zivuzì, zivuzì!»—«Sagli 'ngoppa, ca mme piace».—'O surecillo sagliette e sse steva cu' zi' vicchiarella.[12] 'O juorno appriesso, zi' vicchiarella iette a messa; e rummanette 'o pignato vicin' 'ô fuoche; e decette vicino 'ô surecillo:—«Vuè, non te spugnà' 'o pane rint' 'ô pignato, ca tu nce vai rinto. Statt' attiente, ca i' hagge 'a ì' 'â messa».—'O surecillo respunnette:—«Gnernò, gnernò; iate cunnìa[13] ».—E zi' vicchiarella iette 'â messa. Quanno turnava, truvava 'a porta 'nghiusa. Chiammava:—«Cumbà' surecì', cumbà' surecì'!»—'O surecille nu' respunneva. Pigliava zì' vicchiarella, facette scassà'[14] 'a porta, trasette rinto 'â casa, iette verenne pe' tutte parte, e non 'o truvava. Verette sott' 'ô lietto, e manco nce steva; sotto 'â seggia, e manco nce steva; rint' 'ô mortale e manco nce steva; rint' 'ô tiraturo[15], manco 'o truvava; 'ngoppa 'â cemminera[16], e niente nce steva. All'urtemo sse sfasteriava[17] e decette:—«Cumbà' surecillo vurrà pazzià'[18] cu' mme. Mo' nu' mm'incarreco. Mme mangio 'a menesta[19] e zitto; ca po', quanno piace a isso, tanno iesce».—Jette pe' menistà',[20] e truvava cumbà' surecillo rinto 'ô pignato.—«Uh! 'maramè!»—sse mettette alluccà', menava 'a menesta pe' l'aria e chiagneva, chiagneva. 'A cennere 'ngoppa 'ô fuculare, verenne chesto, sse spartugliava[21] tutta quanta. 'A fenestella l'addimmannava:—«Neh, tu pecchè te spartuogli?»—«Ah, tu nu' nzai niente. Cumbà' surecillo rinto 'o pignato; zi' vicchiarella chiagne, chiagne; e i', che so' stata cennere, mm'hagge voluto spartuglià'».—Respunnette 'a fenestella, e dice:—«I', che so' fenestella, mme voglio arapì' e 'nzerrà'.[22] »—Sse n'addunuva 'a 'rariata[23]; e dice:—«Fenestella, tu pecchè t'arapi e 'nzierri?»—«Tu manco sai niente! Surecillo 'rint' 'ô pignato; zi' vicchiarella tutta sse scippa;[24] 'a cennere sse spartoglia; e i', che so'stata fenestella, mm'hagge voluto arapì' e 'nzerrà'»—«Neh,»—respunnette 'a 'rariata—«e i', che so' 'rariata, mme voglio scarrupà'[25].»—E 'a 'rariata sse scarrupava. 'N auciello, che ghieva sempe 'ngoppa a 'n auro, rice:—«'Rariata, pecchè te si' scarrupata?»—«Tu pure sai niente! Cumbà' surecillo 'rint' 'ô pignato; zì' vicchiarella tutta sse scippa, 'a cennere ss' è spartugliata; 'a fenestella ss' è arraputa e 'nzerrata; e i', che so' stata 'rariata, mm'hagge vuluto scarrupà'»—«E i', che songh' auciello, voglio spennà'[26] ».—E spennava tutto quanto. L'auro appena verette l'auciello spennato, l'addimmannava:—«Pecchè te si' spennato?»—«Uh, gioja mmia, tu stai 'nfurmata 'e niente! Cumbà' surecillo rint' 'ô pignato; zi' vicchiarella tutta sse scippa; 'a cennere ss'è spartugliata, 'a fenestella ss'è arraputa e 'nzerrata; 'a 'rariata ss' è scarrupata; e i', che so' stato auciello, hagge voluto spennà'».—«Neh? e i', che songh'auro, mme voglio sfrunnà'».—E sse sfrunnava. 'Na serva, che ghieva a tirà' l'acqua, spiava a l'auro, pecchè era sfrunnato. L'auro le cuntava pure tutta 'a storia.—«Cumbà surecillo rint' 'ô pignato; zi' vicchiarella tutta sse scippa; a cennere ss'è spartugliata; 'a fenestella ss' è arraputa e 'nzerrata; 'a rariata ss' è scarrupata; l'auciello ss' è spennato; e i', che songh' auro, mme voglio sfrunnà'».—Piglia 'a serva, recette:—«E ì', che so' serva, voglio rombere 'a rangella.[27] »—Jette 'ngoppa addò 'a signora; e chesta le spiava, si aveva tirate l'acqua. 'A serva respunnette:—«Uh, signora mmia! cumbà' surecillo 'rinto 'ô pignato; zi' vicchiarella tutta sse scippa; 'a cennere ss' è spartugliata; 'a fenestella ss'arrape e 'nzerra; 'a rariata ss'è scarrupata; l'auciello è spennato; l'auro ss'è sfrunnato; e i', che so' stata serva, haggio vuluto rombere 'a rangella».—'A signora, che teneva 'a farina preparata pe' fa 'ô pane, rice:—«E i', che so' signora, voglio menà' 'a farìna p' 'o barcone».—Venette 'o signore; e spiava 'a mugliera s' aveva fatto 'ô pane; e chesta respunnette:—«Marito mmio, niente sai tu 'e tutto chello, ch' è succieso! Cumbà' surecillo rinto 'ô pignato; zi' vicchiarella tutta sse scippa; 'a cennere sse spartuglia; 'a fenestella ss'arrape e 'nzerra; 'a 'rariata ss'è scarrupata; l'auciello è spennato; l'auro è sfrunnato; 'a serva ha rotta 'a rangella; e ì', che so' stata signora, hagge voluto menà' 'a farina p' 'ô barcone».—Respunnette 'o signore:—«E i', che so' signore, voglio rombere l'ossa a tutte e doje».—Pigliava 'na mazza e teretungo e teretanga, facette 'na bona mazziata primma 'â serva e pó' 'â padrona[28].

NOTE

[1] Questo conto (o piuttosto questa filastrocca) è il primo, che soglia raccontarsi a' bambini pomiglianesi. L'esordio è simile a quello del seguente omonimo. Cf.—I.— Pitré. (Op. cit.) CXXXIV. La gatta e lu surci, versione di Capaci. La gatta tiene il luogo della nostra vecchierella. La chiusa è:—« Lu surciddu muriu; la gatta si gratta e pila; la purtiera sbattulia; la finestra si grapi e chiui; l' arvulu si sdirubbau; l'acidduzzu si spinnau; la funtana si siccau; lu cuocu si misi lu culu 'nt'a lu fuocu; lu monacu di S. Nicola, si dissi la missa cu lu culu di fuora; e jeu, comu Riggina, vaiu a cernu la farina.==E ieu, comu Re, mi pigghiu lu cafè. »—II.—Lo stesso Pitrè ricorda due altri varianti; l'una palermitana, intitolata Sasizzedda, dove un rocchio di salsicce surroga il topolino; e l'ultimo crescendo è:—« Sasizzedda cadiu 'ntra la pignata; lu ferru fa tippitappi; so matri si gratta e pila; la figghia di lu Re si misi la gramagghia; l'arvulu si sdirubbau; l' aceddu si spinnau; la funtana si siccau; la criatazza rumpiu la quartarazza; la donna pazza jittau la farina chiazza chiazza; e lu monacu di Santu Nicola, si dissi la missa cu lu culu di fora ».—III.—e l'altra di Polizzi-Generosa, intitolata Donn' Anna; in cui la tartaruga di Donn'Anna riman cotta nella pentola bollente. Eccone il crescendo finale:—« Tartuchedda si vugghiu; Donn' Anna si gratta e pila; lu corvu si spinnau; lu firrizzu si scadduzzau; la scala s' allavancau; la picciuttedda rumpiu la quartaredda; donna Pazza jittau la farina chiazza chiazza; la valenti pigghia un lignu e si scaddozza li denti; lu sagristanu si jetta di lu campanaru; e li zappunara levanu la testa a cu veni veni ».—IV.— Bernoni ( Tradizioni popolari veneziane. Puntata terza) Sorzeto e Luganega; dove la chiusa è:—« 'Na gran disgrazia xe nata in sta tera; el sorzeto xe morto in caldiera; la Luganega pianze, che se despera; la tola va atorno atorno; la scanzia buta zozo i piati; la porta se inciava e se des'ciava; la fontana no buta più aqua; e mi, che fo la massera, camino sempre col cul per tera. Dise el patron: E mi, che so' el paron, me butarò zozo per el balcon. E là, el s'hà butà zo dal balcon; e el s'ha copà. E tuto questo xe nato per la morte de sto sorzeto.»—V.—Una lezione nel vernacolo copertinese o leccese è stata poco accuratamente e non intieramente pubblicata nel matto opuscolo e curioso dal titolo: A. Trifone Nutricati-Briganti | Intorno | ai | Cunti e Racconti popolari | del | Leccese | Illustrazioni e Note || The sources of Italian are not to be found | in the classical literature of Rome, but in | the popular dialects of Italy. | Max Müller-Lectures on the science | of Language. II, p. 61 || Wictor (sic) Thaler | und Geselshaft (sic) | Wien | 1873. (Ma l'opuscoletto è stampato effettivamente in Lecce; nè so comprendere per qual cagione l'autore abbia voluto apporvi una data falsa). Questo è l'unico conto, che vi si contenga. Epperò non sarà forse discaro ai leggitori, i quali non saprebbero come procurarsi l'opuscoletto del Nutricati, ch'è fuori commercio, ch'io il riproduca migliorandone e compiendone la lezione. (Il signor Nutricati, al quale ho mandato le pruove di torchio, s'è benignato anch'egli farvi qualche emendazione, e vuole, che si avvertano due cose:— a ) Che in Lecce si dice sempre rumpere e rompere negli altri paesi della provincia:— b ) che la filastroccula (così la chiamano) non finisce ordinariamente con la mamma ( fimmina sciacculata;) ma viene lu tata e lu figghiu e lu signore, riccu, riccone. Tutta questa filastrocca si racconta ai bambini, perchè si addormentino; e la povera balia o governante non sa cosa far entrare nel suo racconto, quando il bimbo non fa subito nanna). Alla versione del Nutricati, fo seguire una variante, leccese anch'essa, comunicatami dall'egregio Duca Sigismondo Castromediano di Caballino.

LU CUMPARE SANGUNAZZIEDDHU

( Dialetto Leccese )

Lu cumpare Sangunazzieddhu aìa 'n annu, ci nu' sse mutaa. 'Scìu a la chiazza, 'ccatiau 'nu cofanieddhu, lu mise susu a l' ancutieddhu. L'ancutieddhu cadiu, e lu cofanieddhu sse rumpìu.—«Sorte mmia, furtuna 'mara!»—Sse mise sutta a la porta della strada e chiangia. Le porte, pe' la pena, sbattianu.—«Cce aìti, porte mmei, ci sbattiti tantu?»—«Eh, cummare mita mmia, le pene de lu mundu nu' le sai comu suntu?»—«Comu suntu?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu aìa 'n annu, ci nu' sse mutaa. 'Scìu a la chiazza, 'ccattau 'nu cofanieddhu, lu mise susu a l'ancutieddhu. L'ancutieddhu cadìu e lu cofanieddhu sse rumpiu. Sse mise sutta a la porta e chiangia. E ieu, pe' la pena, sbattu».—«E jeu»—disse la mita—«pe' l'amore 'oscia mme spinnu tutta.»—Sse nde 'sciu susu a 'n arveru e sse spennau. E l' arveru disse:—«Cce hai, cummare mita mmia, ci te sta' spinni tantu?»—Eh, cumpare arveru mmiu, le pene de lu mundu nu'le sai comu suntu?»—«Comu suntu?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu aìa 'n annu, ci nu' sse mutaa. Scìu a la chiazza, 'ccattau 'nu cofanieddhu, lu mise susu a l'ancutieddhu. L'ancutieddhu cadìu e lu cofanieddhu sse rumpìu. Sse mise sutta a la a porta e chiangia. Le porte, pe' la pena, sbattianu. E ieu mme spinnu tutta».—«E jeu»—disse l'arveru,—pe' l'amore toa, mme spàmpannu tuttu.»—Sutta a l'arveru c'era 'nu puzzu; e nci cadianu le fronde intru.—«Cce hai, arveru mmiu, ci te stà spampani tantu?»—«Eh! puzzu mmiu, le pene de lu mundu nu' le sai comu suntu?»—«Comu suntu?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu aìa 'n annu, ci nu' sse mutaa. 'Sciu a la chiazza, 'ccattau 'nu cofanieddhu, lu mise susu a l' ancutieddhu. L'ancutieddhu cadiu e lu cofanieddhu sse rumpiu. Sse mise sutta a la porta e chiangia. Le porte, pe' la pena, sbattianu. E la cummare mita sse spennava tutta. E jeu, pe' l'amore ssoa, mme spampanu tuttu!»—«E jeu,»—disse lu puzzu—«pe'l'amore toa, mme 'ssaccu tuttu.»—Ha 'sciuta la massara cu tira acqua, ha calatu lu capasieddhu e ss'ha ruttu.—«Ah sorta mmia! cce aìsti mo' ci te 'ssaccasti, puzzu mmiu?»—«Eh! massara mmia, le pene de lu mundu, nu' le sai comu suntu?»—«Comu suntu?»—«Lu Cumpare Sangunazzieddhu aìa 'n annu, ci nu' sse mutaa. 'Sciu a la chiazza, 'ccattau 'nu cofanieddhu, lu mise susu a l'ancutieddhu. L'ancutieddhu cadiu e lu cofanieddhu sse rumpiu. Sse mise sutta a la porta e chiangia. Le porte, pe' la pena, sbattianu. E la cummare mita sse spennau tutta. E lu cumpare àrveru sse spampanau. E jeu, pe' l'ammore ssoa, mme 'ssaccu tuttu».—«E jeu»—disse la massara—«su' 'na gioane tantu beddha, rumpu quartara e quartareddha».—'Scìu a la mamma e disse:—«Le pene de lu mundu nu' le sai comu suntu?»—«Comu suntu?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu aìa 'n annu, ci nu' sse mutàa. 'Scìu a la chiazza, 'ccattau 'nu cofanieddhu. Lu mise susu a l' ancutieddhu. L' ancutieddhu cadiu e lu cofanieddhu sse rumpiu. Sse mise suttu a la porta de la strada e chiangia. Le porte, pe' la pena, sbattianu. La cummare mita sse spennau tutta. Lu cumpare àrveru sse spampanau. Lu puzzu, pe' l'amore soa, sse 'ssaccau. E jeu, ca su' 'na gioane tantu beddha, rumpu quartara e quartareddha».—«E jeu»—disse la mamma—«su' 'na fimmena sciacculata, pigghiu la banca e la minu a la strada».—

( Variante )

Lu campare Sangunazzieddhu hia 'n annu, ci nu sse 'mmuaa. 'Sciu alla chiazza; 'ccattau 'nu cofanieddhu; lu mise subbra 'n ancutieddhu. L'ancutieddhu catiu e lu cofanieddhu sse rumpiu. Eccu ca lu cumpare Sangunazzieddhu pella dogghia sse nde 'sciu a campagna alla despersa. Truau 'na mita, ci stia subbra 'n àrveru. Sse 'utau la mita e disse:—«Cce hai, campare Sangunazzieddhu mmiu, ci 'ai 'ccussì 'maru?»—«Ci sapissi le pene de lu mundu!... Nu' mangiai e nu' beìi».—«Cce su' 'ste pene de lu mundu?»—«Aia 'n annu, ci nu' mme 'mmutaa. 'Scii alla chiazza; 'ccattai 'nu cofanieddhu, lu misi subbra 'n ancutieddhu. L'ancutieddhu catiu e lu cofanieddhu sse rumpiu».—Eccu ca la mita, pella corla, sse spennau tutta quanta. L'arveru 'ddhu sse 'ncummia la 'idde; e disse:—«Cce hai, cummare mita, ci te spinni tutta?...»—«Ci sapissi le pene de lu mundu comu suntu! Nu' mangiai e nu' beii!»—Le pene de lu mundu comu suntu?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu 'ia 'n annu, ci nu' sse mutaa. 'Sciu alla chiazza; 'ccattau 'nu cofanieddhu; lu mise subra 'n ancutieddhu. L' ancutieddhu catiu, e lu cofanieddhu sse rumpiu. Lu cumpare Sangunazzieddhu, pella corla, sse dese alla campagna alla despersa. Ieu lu 'iddi; e, pella corla, mme' su' tutta spennata».—«Sì, cussì bete?»—respuse l' arveru.—«E ieu, pella corla, 'ogghiu mme spampanu!»—E sse spampanau. Sutta l'arveru nc'era 'nu puzzu, ddhu' catianu le pampane. Sse 'ota lu puzzu e disse:—«Cce hai, cumpare arveru mmiu, ci tuttu te spampanasti?»—«Ci sapissi le pene de lu mundu, nu' mangiai e nu' beii!»—«Comu suntu 'ste pene de lu mundu?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu 'ia 'n annu, ci nu' sse mutaa. 'Sciu alla chiazza; 'ccattau 'nu cofanieddhu, lu mise subbra l'ancutieddhu. L'ancutieddhu catiu; lu cofanieddhu sse rumpiu. Lu cumpare Sangunazzieddhu, pella corla, sse nde 'sciu 'n campagna pe' la despersa. Lu 'idde la cummare mita, ci, pella corla, tutta sse spennau; e ieu, pella corla puru, rame spampanai».—«Sì, quistu nc'ete! E ieu, pella corla, tuttu mme 'ddessaccu».—E lu puzzu sse 'ddessaccau. 'Sciu 'na fimmena cu ba tira acqua; e l'acqua nu' benia.—«Cce hai, cumpare puzzu, ci nu' mme dai acqua 'sta matina?»—«Ah, cummare mmia, le pene de lu mundu nu' sai comu suntu! Ca, ci le sapissi, nu' mangiai e nun beii!»—«Comu suntu, cumpare?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu hia 'n annu ci nu' sse mutaa. 'Sciu alla chiazza; 'ccattau 'nu cofanieddhu; lu mise subbra 'n ancutieddhu. L'ancutieddhu catiu; lu cofanieddhu sse rumpiu. Lu cumpare Sangunazzieddhu, pella corla, sse dese alla campagna pella despersa. E, pella corla, la mita sse spennau, l'arveru sfrundau, e ieu 'osi mme 'ssaccu.»—«E ieu, ci su' fimmena, ci mme dicenu, ca su' beddha, spezzu la zuca e rumpu la quartareddha!»—La fimmena curre 'mmeru la mmassaria, e troa la massara; ci la 'idde e li dice:—«Cce hai, cummare mmia, cussì spamentata?»—«Eh, se sapissi le pene de lu mundu, nu' mangiai e nu' beii!»—«Cce cosa su' le pene de lu mundu?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu 'ia 'n annu, ci nu' sse mutaa. 'Sciu alla chiazza; 'ccattau 'nu cofanieddhu; lu mise subbra 'n ancutieddhu. L'ancutieddhu catiu; lu cofanieddhu sse rumpiu. Lu cumpare Sangunazzieddhu, pella corla, curriu alla campagna pella despersa. E, pella corla, la mita sse spennau: l'arveru spampanau: lu puzzu 'ssaccau: e ieu, ci su' fimmena, ca dicenu, ca su' beddha, spezzai la zuca e rumpii la quartareddha!»—«E ieu»—respuse la massara:—«su' 'na massara sciacquarandara, e rumpu la fersura e la quatara!»—E sse mise a currere 'mmienzu le chesure, e da frunte sse 'ncontra cu' lu massaru—«Cce hai, massara mmia, ci curri tantu?»—«E ci sapissi le pene de lu mundu comu suntu! Nu' mangiai e nu' beii.»—«Dine, comu suntu 'ste pene de lu mundu?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu 'ia 'n annu, ci nu' sse mutaa. 'Sciu alla chiazza; 'ccattau 'nu cofanieddhu, lu mise subbra a 'l' ancutieddhu. L' ancutieddhu catiu, e lu cofanieddhu sse rumpiu. Lu cumpare Sangunazzieddhu, pella corla, sse mise a currere pella campagna alla despersa; e, pella corla, la mita spennau, l' arveru seccau, lu puzzu 'ssaccau, la fimmena, ci dicenu, ca ete beddha, spezzau la zuca e rumpiu la quartareddha, e ieu, ci su' 'na massara sciacquarandara rumpii la fersura e la quatara!»—«E ieu, ci su' massaru stralunatu, scapulu li 'uei e minu pell' aria li 'uembri cu' tuttu l'aratu.»—Eccu, ca 'rria 'nu monacu, e disse allu massaru:—«Cce hai, massaru? Cce si' 'mpacciutu 'sta matina?»—«Ci sapissi, Patre mmiu, le pene de lu mundu! Nu' mangiai, e nu' beii!»—«Cce su' le pene de lu mundu?»—«Lu cumpare Sangunazzieddhu 'ia 'n annu, ci nu' sse mutaa. Sciu alla chiazza; 'ccattau 'nu cofanieddhu; lu mise subbra l' ancutieddhu. L' ancutieddhu catiu; lu cofanieddhu sse rumpiu. E, pella corla, cumpare Sangunazzieddhu sse mise a currere pella campagna alla despersa. E, pella corla, la mita spennau, l' arveru spampanau; lu puzzu 'ssaccau; la fimmena, ci dicenu, ca ete beddha, spezzau la zuca e rumpiu la quartareddha; la massara sciacquarandara rumpiu la fersura e la quatara; e ieu, ci su massaru stralunatu, scapulai li 'uei e menai all' aria li 'umbri cull' aratu!»—«E ieu, ci su monacu 'nchirecatu, portu 'nu pertusu, cu mme cacu!»—

[2] Scupà', spazzare, scopare.[3] Chisiella, chiesetta.[4] Turnesiello, diminutivo di tornese. Il tornese era ultimamente mezzograno, ossia valeva due centesimi.[5] Accattà', comprare. Dice una canzone pomiglianese:

Quattordece e quattordece fanno vintotte,

Nennì', se vuò' 'a mme, voglio fà' 'o patte.

Ogne mattina 'na 'allina cotta;

Nennì', si nu' la tiene, mme l'accatte.

[6] Streppone (delle mele) torso, torsolo.[7] Scorze (delle noci) guscio; (delle castagne) buccia. La vecchierella però non è molto esatta: della noce avrebbe dovuto gettar via anche la cica o pellicina ( pellecchia ) e della castagna anche la peluia o sansa ( pellecchia anch'essa in pomiglianese).[8] Scagnuozze.—« Scagliuozze e Scagliuozzole, sorta di frittelle di grano d'India, gratissimo cibo del nostro volgo di figura triangolare e per lo più quadrata ( sic ); e perchè fritti fan come una pellicola intorno, quindi con graziosa metafora calennarie a beste de cammera son chiamati».—Così il Galiani. Il D'Ambra poi dice:—« Scagliuozzo, Scagliuozzolo. Piccolo pezzo triangolare di pasta di farina di formentone, fritto in padella».—E dicon bene, salvo intorno alla forma degli scagliozzi napoletani, che soglion per lo più essere romboidali. Ma, in Pomigliano, scagnuozze significa pane di formentone.[9] Ricorda un Madrigale del Michiel, nella Benda di Cupido.

Vecchia imbellettata.

Con tanti lisci e tanti,

Deh, perchè a tutte l'ore

Al vecchio volto dai nuovo colore,

E mentisci i sembianti?

Credi forse ingannar così gli amanti?

Folle, d'Ecuba mai

Elena non farai.

[10] La finestra ha un importanza grandissima negli amoreggiamenti. Ed è continuamente ricordata nelle canzoni popolari. Ma certo più nella città, che ne' piccoli paesi, dove il popolino abita principalmente ne' bassi, cioè in istanze a pian terreno, che finestre non hanno, anzi solo una o due porte (l'anteriore e la postìca). Ecco una storia romanesca intorno ad una conversazione alla finestra.

Discendi, o mia Bettina,

E non aver timor,

Che questa è la mattina

Di favellar d' amor.

Discendi, che t' aspetta

Un fido tuo amator;

Discendi, mia diletta,

Non darmi più dolor.

—«Io la tua compagnia

«Non la posso accettar,

«Perchè la madre mia

«Potrebbe capitar.

«E da giovane onesta

«Non mi posso azzardar,

«Son qui sulla finestra

«Se tu mi vuoi parlar».—

Io la tua genitrice

L'ho veduta passar

Con una pescatrice

Sulla riva del mar.

E se ne va bel bello

Del buon fresco a pigliar,

È verso del Castello

Non vi è da dubitar.

—«Che pretensione è quella,

«Volermi comandar?

«Sappi, ch' io son zitella,

«E non mi disturbar.

«Se a basso non vengo io

«Tu mi puoi ben capir,

«Un ordine tengo io

«E lo deggio eseguir.

«Rammenta il tuo pensiero,

«Che non potrai mentir:

«Tu sei un lusinghiero,

«Venuto per tradir».—

Non sono un lusinghiero,

Neppure un traditor;

Ti parlo da sincero,

Non tengo altro amor.

—«E se brami d'amarmi,

«Ascolta il mio dir;

«Ch' io voglio ritirarmi,

«Qualcuno puol venir.

«Domani un foglio scritto

«Ti farò capitar.

«E bada di star zitto

«Saperti regolar».—

Ecco poi alcune canzoni pomiglianesi intorno alle finestre della innamorata

I. Fenesta, cu' 'sta nova gelosia,

Staje martellata co' centrelle r'oro.

Si v' hagge scummitate mm' 'o decite,

Ca lu stesso bene fa gran cosa.

Si v' hagge 'scetate da lu suonn'ammuruse,

Teccot' 'o suonno mmio, e vatte 'rriposa.

Gelosia:—«sorta di graticcio da finestra o simile, dello da' latini transenna »— Centrelle, bullette.— Scummitate, scomodato, incomodato

II.
Uomo.
Figliola, cu' 'sta preola a 'sta fenesta,

Da luongo mme la mina la frescura.

Tu te mange l'uva quanno è aresta,

I' no' a pozzo verè' quanno è matura.

Bella vasinicò' 'rint'a 'sta testa,

Mm' 'a vularria fa' 'na fronn'a posta!

Donna.
Nu'nzerve, ca mme sische, ca fora i' esco

Nennì', ca no' nce songh' 'a para vosta.

Para vosta non songhe, a 'ossignoria,

Manco nce venerò in casa vosta.

Prevola, pergola:—«Ingraticolato di pali, di stecconi o d'altro, a foggia di palco o di volta, sopra il quale si mandano le viti».— Da luongo, di lontano.— Vasinicò', vocativo di vasinicola, basilico, Ocymum basilicum, pianta solita a coltivarsi su' davanzal delle finestre e celebre per la canzone della Lisabetta, ricordata dal Boccaccio.— Testa, vaso di fiori.—«Dimandando una gentildonna ad un Cavaliere, il quale si dilettava di tener bellissimi testi di verdura, che rimedio c'era di farli vedir vosì belli, si mostrò il Cavaliere un poco ritroso a dirgliene; ma, importunato da lei, alla fine rispose: Le teste di verzura, signora, sono come le donne, che bisogna coprirle et innaffiarle; a dimostrare, che le belle cose con l' artificio e con l' industria s'abbelliscon più. E disse teste in femminino, come s' usa in Napoli, per rendere il motto più grazioso».— Tommaso Costo. Fuggilozio. E Giovan Francesco Peranda, scrivendo a Giulio Cesare Riccardi, Napoletano, e manifestandogli un desiderio del Cardinal Gaetani:—«Desidera Sua Signoria Illustrissima un Giardiniero et lo domanda ad impresto per due mesi, perchè vuol persona, che vaglia et che non cerchi ricapito. Sopra tutto, che sappia la quinta essentia delle piante piccole, perchè studia in haver quantità di teste. Parlo all'usanza vostra; et so, che non ci torrete per antiquarii».—

III. Bella figliola, 'ncopp'a 'sta fenesta,

Chiunque passa le piecche mettite:

Chi è zuoppe e chi è scancellate,

Le piecche vuoste non 'e cuniscite.

Vuje parite 'na campana scassata

Manco lu battaglio vuje tenite.

È canzone di dispetto. Li piecche mettite, trovate da dire, apponete difetti. Scancellate, storpio.

IV. Schiocca d'arruta mmia, addò' si' sagliuta!

'Ngimma a 'sta fenestella nce sì' arrivata.

Dinto nce sta nenna mmia addormuta,

Schiocca d'arruta mmia, nu' la 'scetare.

Schiocca, ciocca. Arruta, ruta.

[11] Lloco, là. Vedi pag. 54 e segg. del volume presente la Nota 6 alla Novella II ter.[12] Troppo averei da fare, se volessi qui riferire tutte le voci d'animali, imitate dagli scrittori vernacoli. Citerò solo di memoria l'imitazione onomatopeica del ronzio della pecchia, che si trova appo il Capasso:

Haje visto maje, quonn'esceno le lape

Da Io cupo pe' ghire a la pastura?

Fanno tale zu zu, che, chi non sape

Lo naturale, sse mette appaura.

Comm'avessero chello de le crape,

Zompano ccà e llà pe' la verdura;

Ment'esce l' una, l' auta non aspetta;

E po' volano 'nsiemmo, a chietta a chietta.

Del resto, queste onomatopee sono talmente superate da' moderni, che non valgon la pena di venir ricordate. Ne voglio per testimonio solo un articoletto, che rintaglio da un giornale francese:

«Triomphe de l'onomatopée. Un poëte méridional a publié un Chant du Rossignol qui laisse bien loin toutes les poésies imitatives connues jusqu'à ce jour.

Un rossignol chantait la nuit, sous la feuillée.

De son chant j'écrivis ce peu sous sa dictée;

De son chant mélodieux, plus agréable au coeur

Que le plus doux parfum de la plus belle fleur.

Tiû, tiû, tiû, tiû, pipit, tossit...

Ihpé, tûi, tûi, tûi, tûi, ritz.

Ihpé, tcho-tcho-tcho-tchou, psit.

Tcharry, tcharry, tcharry, tcharrit...

Tchi, tio, tio, tio, tio-tiossi.

Kouiô, trrrrrrrrrrrrrritz!!!

«Nous voici loin du fameux vers où Virgile, copiant Ennius, imite le galop d'un cheval: Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum. Les vers de Du Bartas sur l'alouette dans sa Première semaine, déjà bien grotesques, ne sont rien eux-mêmes auprès de l'onomatopée de notre sténographe des chants d'oiseaux. On se souvient des vers de Du Bartas:

La gentille alouette, avec son tire-lire

Tire l'ire à l'irè, et tireliant tire

Vers la voûte du ciel, puis son vol vers ce lieu

Vire et désire dire, adieu, Dieu, adieu, Dieu.

«On pourrait peut-être faire quelque chose d'aussi bête. Mais plus bête, non pas.»—

[13] Cunnia (idiotismo), con dio. Gnernò (idiotismo) gnornò, nossignore.[14] Scassà', scassinare, aprire con effrazione.[15] Tiraturo, fodero, cassetta (di cantarano, tavolino, ec.)[16] Cimminera.—«Dalla cima nera così detto il cammino del fuoco. Forse dall'Ebraico cimmer ( nigrescere ), donde i Cimmerii. In fatti, sovvienmi un passo del gran Bochart, il quale, nel suo Phaleg, scrisse: Cimmerios a tenebris numen habere Phoenices fabulati sunt, quia CAMAR vel CIMMER est NIGRESCERE, unde CIMRIR est TENEBRARUM ATROR; sic Jobi CAP. 3. v. 5., ubi vir sanctus tot malis incumbentibus natali suo maledicit: POLLUANT inquit, ILLUM TENEBRAE ET UMBRA MORTIS: TERRANT EUM CIMRIRE JOM, ( atrores diei; idest: tenebrae densissimae) ecc.».—Così quel monomane del Mazzarella-Farao. Ma dico a suocera perchè nuora intenda; son coloro, che rinnovano adesso le follie etimologiche del Mazzarella-Farao, che vorrei veder rinsavire. 'Ngopp' 'a cimminera, vuoi dire su quel cornicione della cappa del cammino, dove soglion porsi i zolfanelli ecc.[17] Sse sfasteriava. S'infastidiva.[18] Pazzià', scherzare, folleggiare. Vedi, pag. 69, la Nota 10 alla Novella III del presente volume. Ecco un esempio di pazzeggiare nel senso di folleggiare, scherzare:—«Era una sera a spasso per Pisa una frotta di giovani; i quali, come avviene, essendo notte forte, andavano pazzeggiando per tutto»...— Domenichi. Facezie.[19] Menesta, minestra.[20] Menistà', scodellare.[21] Spartugliava (vocabolo che manca nel Galiani e nel D'Ambra).[22] Arapì' e 'nzerrà', aprire e chiudere.[23] 'Rariata, gradinata, scalinata.[24] Scippà', graffiare. Vedi pag. 114 nota 2 alla Novella III ter. del presente volume.[25] Scarrupà', rovinare.[26] Spinnà', spennare.[27] Rangella o langella, brocca, mezzina. In Napoli lancella. Perr. Agn. Zeff. C. VI.

Non facette sei iuorne auto, che chiovere;

E a butte, a fuste, a barile, a lancelle.

Il Galiani dice:—«Viene chiaramente dalla parola latina lagena ».—La langella è di cretaglia ed ha due manichi; e serve di solito per l'acqua, sebbene Titta Valentini nel Vasciello de l'Arbascia, dica:—«Cacciaieno fora po' tanta lancelle | Che de latte de crapa erano chiene; | Quale erno grosse e quale peccerelle, | Ma stevano appelate muto bene».—Una canzone popolare pomiglianese suona così:

'Nu juorno viddi la Calavresella

'Ncopp'a lo puzzo la rangella 'ngneva. (
empiva
)

I' nce lu dissi:
Addio, Calavresella,

'Na vèppeta 'e chess'acqua mme faciarria.

Essa sse vota aggraziata e bella:

Nu' nzulo l'acqua, ma perzona mmia.

Accorto, ca nun rumpe 'sta rangella!

Ih quanta mazza mme dà mamma mmia!

==
Si te la rompo, te la faccio nova

Cu' li denare de la vorza mmia.

[28] Di simili esercizii mnemonici ce n'è in ogni dialetto. Eccone uno in trevigiano, intitolato: La bossa del vin bianco.—«Questa xe la bossa del vin bianco. Questo xe quel omo de la bossa del vin bianco. Questo xe quel can, che gà morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questo xe quel baston, che ga bastonà quel can, che gà morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questo xe quel albero, che ga fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questa xe quela piegora, che pascolava soto quel albero, che ga fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questo xe quel aseno, che pascolava insieme con la piegora sotto quel albero, che ga fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Ih, ih, ih! oh, oh, oh! questa xe quela cansoneta, che cantava quel aseno, che pascolava insieme con la piegora, soto quel albero, che ga fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questa xe quela lana, fata da quela piegora, che pascolava insieme con quel aseno, che cantava quela canzoneta ih ih ih! oh oh oh! soto quel albero, che ga fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questo xe quel gaban, fato de quela lana de quela piegora, che pascolava insieme co l'aseno, che cantava quela canzoneta ih ih ih! oh oh oh! soto quel albero, che ga fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questo xe quel pastor, che portava quel gaban, fato de quela lana de quela piegora, che pascolava insieme co quel aseno, che cantava quela canzoneta ih ih ih! oh oh oh! soto quel albero, che ha fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questa xe quela casa, che stava quel pastor, che portava quel gaban, fato de quela lana de quela piegora, che pascolava insieme co quel aseno, che cantava quella canzoneta ih ih ih! oh oh oh! soto quel albero, che ga fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questo xe quel leto, che sta in quela casa, che xe morto quel pastor, che portava quel gaban, fato de quela lana de quela piegora, che pascolava insieme co quel aseno, che cantava quela canzoneta ih ih ih! oh oh oh! soto quel albero, che ga fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. Questo xe quel prete, che ga compagnà al sagrà a quel pastor, che xe morto in quel leto, che stava in quela casa; che portava quel gaban, fato de quela piegora, che pascolava insieme co l'aseno, che cantava quela canzoneta ih ih ih! oh oh oh! soto quel albero, che ga fato quel baston, che ga bastonà quel can, che ga morsegà quel omo de la bossa del vin bianco. E cosi ga fenio quel omo con l'andarsene al sagrà anca lu, portando in man la bossa del vin bianco».—

XI. bis.—'A GATTA ( Variante di 'A Vecchiarella.) ( Raccolta ad Avellino, in Principato Ulteriore. )

Nci steva 'na vota 'na gatta, chi scupava 'a chiesia. Mente scupava, trovavo 'no tornesiello; e diceva:—«Che mme n'hagge 'âccattà' de 'sto tornesiello? Si mm' 'âccatto 'e pane, ne cadono 'e molliche; si mm' 'âccatto 'e castagne, n'haggio iettà' 'e scorze; si mm' 'âccatto 'e cirase, n'aggio jettà' 'e nuzze. Mo' mm' 'âccatto 'e 'janco e russo e mm' 'o metto 'nfaccia».—Accussì fece. Ss' 'âccattavo 'e 'janco e russo e ss' 'o mettivo 'nfaccia. E ssi mettivo 'ncopp' 'â finesta, ca ssi voleva 'mmarità'. Passavo 'na vacca e dicivo:—«Ohi, gatta, pecchè stai lloco?»—«Ca mmi voglio 'mmarità'».—«Ti volissi piglià' a mme?»—«Lassa sentì', che voce tieni».—«Hu! Hu!»—«Va, vattenne, ca mmi fai mette paura 'a notte. Passa 'nnanzi, ca non ti voglio».—Po' passavo 'na pecora:—«Ohi, gatta, che fai lloco?»—«Mmi voglio 'mmarità'».—«Ti volissi piglià' a mme?»—«Lassa sentì', che voce tieni».—«Mbè! Mbè!...»—«Passa 'nnanza, ca non te voglio».—Po' passavo 'no sorecillo; puro dicivo:—«Ohi gatta, che fai lloco?»—«Mmi voglio 'mmarità'.»—«Ti volissi piglià' a mme?»—«Lassa sentì', che voce tieni.»—«Zì zì zì!»—«Uh quanto mme piace! Sagli 'ncoppa, ca te voglio».—'O sorecillo saglivo e sse stevone 'nzieme tutti dui. Quanno fu 'na matina, 'a gatta jio a messa; e mettivo 'a pignàta c' 'o bollito vicino 'ô fuoco pe' fa' a menesta. Essa se ne jio; e 'o sorecillo rimanivo a guardà' 'a casa. 'Sto sorecillo chiano chiano sse voleva arrobbà' 'o bollito dinto 'a pignata; jio pe' ssi calà' e nci cadivo dinto. Venivo 'a gatta e ghieva trovanno 'o sorecillo. Vota quà, vota llà, finalmente 'o trovavo muorto dinto 'â pignata. Ssi mettivo a chiagne' e disperà', ca aveva perduto 'o marito, e accossì fenivo. Cucurucù, saglio io e scenni tu.

XI ter. CUNTV DELLA FURMICULICCHIA[1] ( Variante di 'A vecchiarella ) ( Raccolta a Novoli, in Terra d'Otranto )

Era 'na fiata 'na cummare furmiculicchia; e sta scupa 'a casa e truau tre caddhi e subbetu dicìu:—«Ce mme nde 'ccattu? ce mme nde 'ccattu? Mme nde 'ccattu cupeta? No, ca mme chiammanu cannaruta. Mme nde 'ccattu nuci? No, ca 'mbugu casa. Mme nde 'ccattu zaareddhe[2]? Sì, sì, ca mme paru e mme 'mmaritu».—Sse 'ccattau le zaareddhe e sse 'nfaccìu alla fenèscia. Passau lu cumpare cane e ni diciu:—«Furmiculicchia mmia, ca t'ha' parata mutu».—Respuse:—«Ca mm'haggiu 'mmaretare».—«'Uei mmie pe' maritu?»—E iddha diciu:—«Comu faci la notte?»—«Bau, bau!»—«No, no, ca mme faci 'mpaurare!»—Doppu passau lu cumpare ciucciu e ni disse:—«Cummare furmiculicchia mmia, ca t'ha' parata mutu».—«Ca mm'haggiu 'mmaretare».—«'Uei mmie pe' maritu?»—«Comu faci la notte?»—«Huo! Huo!»—«No, no, ca mme faci 'mpaurare».—Passau lu surcicchiu e ni disse:—«Furmiculicchia mmia, ca t'ha' parata mutu».—«Ca mm'haggiu 'mmaretare».—«'Uei a mmie pe' maritu?»—«E comu faci la notte?»—«Cih! cih!»—«Sì, sì!»—Spusara la dumineca matina. La furmiculicchia hia pusta la carne cu la coca, quandu sunau missa; e 'sciu a la Chiesia cu ss' ha biscia missa; e restau lu surcicchiu cu bota la carne. Quando la sta buta, cadiu intra a lu pignatieddhu. Turnau de missa la furmiculicchia e 'ccumenzau chiammare lu surcicchiu:—«Surcicchiu mmiu, surcicchiu mmiu, 'ndu' sinti? no te trou».—Quandu 'sciu biscia la carne e bidde lu surcicchiu 'ntra lu pignatieddhu muertu, tandu 'ccumenzau a chiangere e 'retare:—«Surcicchiu mmiu, surcicchiu cadutu a pignaticchiu, suppatu a la pezzuddha, e precatu a l'imbrecicchiu».—'Scìu e lu precau. E lu cuntu nu' foi cchiùi. Sia benedittu diu e tutti nui.

Cinga l' ha cuntatu

'Nu piattu de muscatu;

Cinga l' ha 'ntisu,

'Nu piattu de 'ranurisu;

Cinga l' ha spiatu

'Nu cuccalu de muertu 'ndelessatu.
[3]

NOTE

[1] Negli Studi | sui | dialetti greci della Terra d'Otranto | del | prof. dott. Giuseppe Morosi | preceduti da una raccolta | di | Canti Leggende Proverbi e Indovinelli | Nei dialetti medesimi || Lecce | Tip. Editrice Salentina | 1870, v'è una leggenda grecanica di Martano, della quale trascrivo la traduzione, che ne dà lo stesso Morosi:—«Ci era una volta una formica: e, un giorno, mentre scopava in casa sua, trovò tre quattrini e incominciò a dire. Che cosa compro? Che cosa compro? Compro carne? No; perchè la carne ha le ossa ed io mi affogo. Compro pesce? No, perchè il pesce ha le lische e mi pungono. E dopo che ebbe detto molte altre cose, pensò di comprare un nastro rosso. Se ne adornò e salì ad una sua finestrella. Passò per caso un bue, e disse: Come sei bella! Mi vuoi per tuo marito? Ed ella: Canta, che io vegga (sic) com'è la tua voce. E quello con grande superbia mise fuori la sua voce. E la formica, quando ebbe udito, gli disse: No, no. Mi fai impaurare. Passò un cane; e pure incontrò quello, che aveva incontrato il bue. E, dopo che furono passati altri animali, passò un topolino e disse: Come sei bella! mi vuoi per tuo marito? Ed ella: Fammi udire il tuo canto. Quello cantò e fece: Pi, pi, pi! Questa voce piacque alla formica e volle il topolino per suo marito. Venne la domenica; e, mentre la formica stava con le altre amiche, disse il topo: Formichetta mia, io vado a vedere, se è cotta la carne, che tu hai messo al fuoco. E andò; e, come sentì la carne odorare, volle pigliarne un poco, e calò un piede e se lo bruciò; calò l'altro, e pure se lo bruciò; calò il muso, e il fumo lo tirò dentro la pignatta, e il topo poverino tutto si bruciò. La formica ora lo aspettava a mangiare. Aspetta due, aspetta tre ore, il topo non veniva. E quando non poterono più aspettare, apparecchiarono da mangiare. Ma, quando trassero fuori la carne, trassero fuori il topo bell' e morto. E, quando lo vide, la formica incominciò a piangere; e tutte le sue amiche piansero. E la formica rimase vedova, perchè chi è topo bisogna che sia goloso. Se non credete, andate in casa sua e la vedrete».—[2] Zaareddhe, nastri, in pomiglianese ziarelle. Dice un canto popolare pomiglianese:

Schiocca d' arruta e fronna de murtella

Chisto è lu vico re le ronne belle.

Nce stà 'na nenna, sse chiamma 'Ngiulella;

Vir'ammore mmio, quanto si bella!

Quanno sse fa 'a cape 'sta piccerella,

Pe' l'aria 'e fa vulà' le zïarelle;

Quanno nce va a messa 'sta nennella

Appriesso nce fa 'ncantà' l'uommene belle!

Ne' Registri Angioini del M.CCC.XXIX si legge: Pro pretio librarum quinque zagarelle de auro de Venetiis ad rationem de tar. 5 et gr. 5 per unciam. Pro pretio zagarelle de argento de Venetiis ad rationem tar. 5 per unciam. (Vedi Studii Storici | fatti | sopra 84 Registri Angioini | dell'Archivio di Stato di Napoli | per | Camillo Minieri Riccio || Napoli | Tipografia di R. Rinaldi e G. Sellitto | Vico SS. Filippo e Giacomo n. 21 | 1876).

[3] Cioè un teschio di morto lessato!

XI quad.—EL RATTON E EL RATTIN. ( Variante, raccolta a Milano )

El Ratton l'è andaa a provved el disnà. El gh'ha ditt al Rattin de scumà la carne; e el Rattin l' è borlaa dent in del caldar. Ven a cà el Ratton; el cerca el Rattin per tutta la cà e le troeuva no. Guarda in del caldar; el troeuva dent el Rattin mort. Allora, disperaa, el tra el caldar in mezz a la cà. La banca, la dis:—«Perchè t'hê traa el caldar in mezz a la cà?»—«Perchè el Rattin l' è mort; e mi hoo traa el caldar in mezz a la cà».—La banca, la dis:—«E mi saltaroo!»—E la s' è missa a salta. L' uss, el ghe dis a la banca:—«Perchè te saltet?»—«Perchè Rattin l' è mort; Ratton l' ha traa el caldar in mezz a la cà; e mi salti».—L' uss, el dis:—«E mi andaroo innanz e indrèe».—La scala, la dis:—Perchè te vee innanz e indrèe?»—«Perchè Rattin l' è mort; Ratton l' ha traa el caldar in mezz a la ca; banca salta; e mi voo innanz e indrèe».—La scala, la dis:—«E mi andaroo tutt a tocch».—La port, la dis:—«Perchè te set tutta a tocch?»—«Perchè Rattin l'è mort; Ratton l' ha traa el caldar in mezz a la cà; la banca salta; uss innanz e indree; e mi sont andada tutta a tocch.»—La porta, la dis:—«E mi andaroo giò de canchen!»—Gh' eva on carr de foeura de la porta; e el gh' ha ditt:—«Perchè te set giò de canchen?»—«Perchè Rattin l'è mort; Ratton l' ha traa el caldar in mezz a la cà; banca salta; uss innanz e indree; la scala tutt a tocch, porta scanchignada».—El carr, el dis:—«E mi andaroo senza i boeu».—Passa ona vipera e la dis:—«Perchè te vee senza i boeu?»—«Perchè Rattin l'è mort; Ratton l'ha traa el caldar in mezz a la cà; banca salta; uss innanz e indree; scala tutta a tocch; porta scanchignada; e mi voo senza i boeu».—La vipera, la dis:—«E mi me pelaroo».—La vipera, la passa d' on fontanin. El fontanin, el dis:—«Perchè te see pelada?»—«Perchè Rattin l' è mort; Ratton l' ha traa el caldar in mezz a la cà; banca salta; uss innanz e indree; scala tutt a tocch; porta scanchignada; el carr, el va senza i boeu; e mi sont pelada.»—El fontanin, el dis:—«Ben! e mi me sugaroo!»—Ven ona serva a cavà' l' acqua; e la ghe dis:—«Perchè te see sugàa, fontanin?»—«Perchè Rattin l' è mort; Ratton l'ha traa el caldar in mezz a la cà; banca salta; uss innanz e indree; scala tutta a tocch; porta scanchignada; el carr, el va senza i boeu; la vipera la s' è pelada, e mi me son sugaa».—E lee, la dis:—«Ben! e mi trarroo el sidell in mezz a la strada».—È vegnuu el padron; el ghe dis:—«Perchè t' hè traa el sidell in mezz a la strada?»—E lee, la ghe dis:—«Perchè Rattin l' è mort; Ratton l' ha traa el caldar in mezz a la cà; banca salta; uss innanz e indree; scala tutta a tocch; porta scanchignada; el carr, el va senza i boeu; la vipera, la s'è pelada; el fontanin s' è sugàa; e mi hoo traa el sidell in mezz a la strada».—E lu, el dis:—«E mi, che sont el padron, la faroo in di calzon».—

XII.—'A VICCHIARELLA[1] ( Versione raccolta a Pomigliano d'Arco. )

'Na vota nce steva 'na vicchiarella. Jette a scupà' 'a chisiella, truvava 'nu turnesiello. Rice:—«I' mo' che mm'accatto? Si mm' accatto 'e sciuscelle[2] hagge a jittà' 'e sciuscielle. Si mm' accatto 'e pastenache,[3] hagge a jittà' 'o struppone. Si mm'accatto 'e castagne, hagge a jittà' 'e scorze. Mo'mm'accatto 'nu turnese 'e farina; e[4] mme faccio 'a farenata».—Tirava 'nu cato r'acqua; 'o miscava cu' chillu turnese 'e farina e facette 'a farenata. 'O mettette rinto 'e piatte, 'ngoppa 'â buffetta[5]; e ghiette 'n'auta vota 'â chiesa: e ssi scurdava 'a fenestella aperta[6]. Passava 'na morra 'e crape. Una 'e chesse sentette addore r' 'a farenata, sse menavo pe' dinto 'â fenestella, trasette rinto 'a casa e sse mangiava 'â farenata. Venette zi' vicchiarella, iette p'aprì' 'a porta e nu' putette, pecchè steva 'a crapa arrete. Piglia 'a povera zì' vicchiarella, rummanette 'mbocca 'â casa; e chiagneva chiagneva. Passava 'na morra[7] 'e ciucce.—«Zi' vicchiarè', che fai lloco?»—«Sta 'a crapa rint' 'â casa mmia».—«Statte zitto, ca mo' la faccio ascì' i'».—Sagliette 'ngoppa.—«Tuppo tuppo».—«Chi è lloco?»—«Songh' 'o ciucce».—«E i' songh' 'a crapa | cu' tre corna 'ncapa; | cu' trei 'â trippa | si non fui ti strippo».—'O ciucce sse ne fuiette. Passava 'na morra 'e cane:—«Zi' vicchiarè', che fai lloco?»—«Sta 'a crapa rint' 'â casa mmia».—«Statte zitta, ca mo' t' 'a faccio ascì' i'».—Sagliette 'ngoppa e—«tup, tup».—«Chi è lloco?»—«Songh' 'o cane».—«E i' songh' 'a crapa, | cu' tre corna 'ncapa; | cu trei 'â trippa; | si non fuje, mo' te strippo».—'O cane avette a car'e grazie 'e fuì'. Passava 'na morra 'e pecure:—«Zi' vicchiarè', pecchè chiagne fora 'â porta?»—«Stà 'a crapa rint' 'â casa mmia».—«Mo' t' 'a faccio ascì' i'».—Sagliette 'ngoppa.—«Tup, tup!»—«Chi è?»—«Songh' 'a pecura».—«E i' songh' 'a crapa | cu' tre corna 'ncapa; | cu' trei 'â trippa; | si non fuje, mo' te strippa».—'A pecura sse ne fuiette. Passava 'na morra 'e surece; e uno 'e chiste, verenne a zi' vicchiarella chiagnere, le recette:—«Zi' vicchiarè', che fai lloco?»—«Sta 'a crapa rint' 'â casa mmia».—«Uh! tutto chesto iera? Statte zitta, ca mo' t' 'a facce ascì i'!»—«Ebbiva! No' mm' hà potuto fà' ascì' 'o ciucce, nu' 'o cane, nu' 'a pecura; mo' mm' 'a fai ascì' tu!»—Surecillo sagliette 'ngoppa. Tuppetiava[8] 'â porta. Respunnette 'a crapa:—«Chi è lloco?»—Songh' 'o surecille».—«E i' songh' 'a crapa | cu' tre corna 'ncapa, | cu' trei â trippa; | si non fui, mo' te strippa».—Recette 'o sorece:—«E i' songhe combà' sorecille, c' 'o cuolle stuorte; si nun fuie, mo' te ceche l'uocchie».—'A crapa subbeto fuiette. E accussì zi' vicchiarella trasette rint' a 'a casa 'nziemma cu' cumbà' surecillo. Sse spusavane e sse stettere 'nzieme tutti e dui.

NOTE

[1] L'esordio di questa filastrocca è identico con quello della precedente omonima.[2] Sciuscella è la carrubba; sciusciello, il baccello d'essa carrubba. Il Galiani ed il D'Ambra registrano questo vocabolo; ma solo nel senso di—«pietanza, che preparasi di ova sbattute in cacio o ricotta e pangrattato in acqua bollente, condita di butirro o lardo od altro untume, prezzemolo, zibibbo, pepe»—come dice il primo, il che veramente non risponde alla—«frittata ripiena,»—che il secondo dà come equivalente Italiano. Dice una canzoncina popolare pomiglianese:

Sicco e luongo quanto a 'na sciuscella,

Addirizzati, ca fai lu scartiello?

Tieni 'sse cosce, mme parano stêlle:

Quanno cammini, fai lo sega e molla.

Si' sottile comm'a 'na sciuscella,

Si' saporito comm' 'â fogliammolle.

Scartiello, scrigno, gobba, ( Mormile: Ma la famma, a lo lupo poveriello, L'aveva fatt' ascì' 'nfì' a lo scartiello, dove annota:—« Scartiello. Dall' écarter de' francesi, sarà venuto una tal voce. Vedi il Richelet nel suo vocabolario all'espressione: Écart d'os ».—) Stelle (con l' è larga) ceppi. Fogliamolle. Le ranocchie, appo Nunziante Pagano Li vrocchiere de foglia sse facero, Li giacche de vorracce e fogliammolle.

[3] Pastenache, carote.[4] Confronta questo particolare con la Novella della donna ch'avea fatta una fine crostata d'anguille, nelle Cento Novelle Antiche.[5] Buffetta.—«Tavolino. Po' chiano chiano fecero le statue. E 'ncopp'a le boffette le posavano. Biase Valentino.»—Così il D'Ambra.— Perr. Agnano Zeffonnato, Canto III.

'Na boffetta de preta prezejosa

Nce steva 'mmiezo co' 'na sottacoppa,

E de prete 'ncrastate assaje famose

'Na rota co' duje pizze nce stea 'ncoppa.

[6] Confronta il resto del conto—I.—con la Novella della mia Novellaja Fiorentina, intitolata: La capra ferrata.—II.— Morosi. (Op. cit.)—«Una volta entrò una capra nella tana della volpe, mentre questa non era in casa. Si fece sera e la volpe si ritirò a casa. E trovò la capra, e fuggì; perchè si spaventò delle corna della capra. E passò un lupo e anche si spaventò. E passò un riccio; e questo entrò là dentro e punse la capra. E la capra uscì; e il lupo la ammazzò e la volpe la mangiò.»—[7] Nella traduzione napoletana delle favole di Fedro, opera di Carlo Mormile, Libro I. favola XXX; dicono Le ranonchie paurose de la Vattaglia de li tore:

Chille so' buoie, nuie simmo ranonchielle

Nuie stammo dint' a l'acqua e chille no;

So' chille gruosse assaie, nuie piccerelle;

Nuie facimmo
crà crà
, chille
bò bò
.

'Ncrusione: nuie simmo pettolelle,

Chille so' granne e so' chille, che so',

E fanno guerra agnuno pe' restare

Sulo 'mmiezo a la morra e addommennare.

E l'autore annota:—« Morra. Branco, moltitudine di animali».—Nella favola III avea detto:

'Na morra de Paùne e Paonesse.

[8] Tuppetià', (verbo onomatopeico) bussare, picchiare.

XII bis. LU CUNTO RI 'NA VECCHIA ( Variante raccolta in Bagnoli-Irpino. )

'Na vota ng' era 'na vecchia e tinìa 'nu grano.[1] Risse:—«Se mme lo accatto ri pane, haggio jittà' la scorza; picchè nu' tengo rienti. Si mme lu accatto ri caso, pure n'haggio jittà' la scorza».—E ssi l'accattavo ri farina. Fece la farinata e suonavo la messa. Pi' ng'ire a la messa, pigliavo la farinata e la mittivo 'ngoppa lu banco e ssi ni ivo. Trasivo 'na Crapa e ssi mangiavo la farinata. Venne la vecchia ra la messa e tuzzolavo la porta; e rispose 'a Crapa:—«Io so' Crapa; tengo roi corne 'ngapo; se vengo lloco, ti ri chiavo into a ri costate».—La vecchia chiangia. Passavo 'na Vacca, e risse:—«Zia vecchia, che hai?»—Risse:—«Ss'è ficcata ra Crapa into casa e nun ssi ni vole assì'».—Ivo la vacca:—«Tuppi tuppi!»—«Chi è?»—«So' la Vacca, apri!»—Risponne la Crapa:—«Io so' Crapa; tengo corne 'ngapo; si vengo lloco, ti ri chiavo rinto a ri custate».—E la Vacca ssi ni fuivo. Passavo 'no Jerillo;[2] e addummannavo a la vecchia;—«Che hai?»—Risse la vecchia:—«È trasuta 'na Crapa 'into casa, e non ssi ni vole assì'».—Risse lo Jerillo:—«Mo' te la fazz'assì' io».—Tuzzulavo lu Jerillo:—«Chi è?»—Rispose la Crapa:—«So' lo Jerillo».—Risse la Crapa:—«Io so' Crapa; tengo roe corne 'ngapo; se vengo lloco, te re chiavo 'into a re costate».—Rispose lu Jerillo:—«Io so' Jerillo; tengo quatto parmi e miezo ri c...illo, si vengo lloco, ti ri chiavo 'into a lu culillo».—Pigliavo la Crapa e ssi ni fuivo. E la vecchia trasivo 'into e truvavo la farinata mangiata.

NOTE

[1] Adesso i ragazzi dicono: un soldo. Nota di Michele Lenzi.[2] Uccelletto, così nominato. Prima di questo però si fanno intervenire altri animali, come il cavallo, l'asino, il cane, eccetera. Ma sempre con le stesse parole e ritornello. E ciò più o meno, secondo la svogliatezza del ragazzo, che racconta. Jerillo, Scricciolo d'Europa (Famiglia de' dentirostri, genere becchifieri, sottogenere regolo). Il regolo propriamente detto è il più piccolo uccello d'Europa. Lo scricciolo forma il nido, che pare un baldacchino di muschio e di piume, fatto con delicata intelligenza, collocandolo ordinariamente al riparo sotto i margini de' fossi. In questo globetto imbottito, la madre cova con grande affetto la sua graziosa famigliuola; e non osa quasi uscirne, tanto è affezionata alla sua nidiata. Gli scriccioli sono comuni di estate ne' boschi montani e scendono al piano a passarvi l'inverno. Jerillo, corruzione di reillo, piccolo Re, reatino, chiamato anche per ispregio Re dell' aucielli. Viene anche indicato col nome di perciasepe ( Nota di Michele Lenzi ed Achille Martelli ).

AGGIUNTE

Pagina 16.

E all'urtemo iessa rise e i' risi, e Corna r'oro pi' iessa haggio acciso. Risponde al motto toscano: E' rise a me e io risi a lui; intorno al quale il Domenichi:—«Questo nacque da Donatello. Dal quale essendosi partito un giovine suo discepolo, con chi avea fatto quistione, se n'andò a Cosmo per trar lettere al Marchese di Ferrara, dove era il giovane fuggito, affermando a detto Cosmo, che in ogni modo voleva andargli dietro e ammazzarlo. Ora, conoscendo Cosmo la sua natura, gli fe lettere come a lui parve; et per altra via informò il Marchese della qualità di detto Donatello. Il signore gli diede licenza di poterlo uccidere, dove lo trovasse. Ma, incontrandosi il garzone in esso, cominciò di lungi a ridere. Et Donatello, a un tratto rappacificato, corse ridendo in verso lui. Domandavalo poi il Marchese, s'egli l'avesse morto. A cui Donatello: Non, in nome del diavolo; che egli rise a me; e io risi a lui.[Licenzioso.]»—

Pagina 41.

Per incantesimi, riposti in un uovo, vedi anche la Leggenda di Virgilio Mago, dov'è detto, che da un ovo chiuso in una caraffa, posta in una gabbia, dentro una stanzetta, sotto il castel dell'Uovo, a Napoli, pendono le sorti del castello, il quale durerà finchè quell'uovo si conserverà sano e salvo.

Pagina 48.

Una versione popolare della Novella del Sacchetti è la seguente, raccontata in Firenze da un custode di Pagliano Fiorentino (stato guardia doganale quarant'anni e che l'avea sentita da un soldato alla Porta Romana a Siena) all'avv. Giovanni Siciliano e da lui comunicata al Pitrè, che me l'ha favorita (N. B. In Toscana, ci ha molti luoghi chiamati LAMA: il più importante è Lama di Calci nel Valdarno Pisano, che conta circa trecento abitanti. Eccetto Lama di Val di Marina in quel di Carraja, gli altri non meritano neppure il nome di casali. Buzzi DI API, son le arnie. L'ELSA è una fiumana della Maremma Orbetellana: il fiume, che, secondo la Novella, vi sbocca, dev'essere il torrente Serra, che scende dal Montiano vecchio. L'episodio del Magnanino con la Massaja è argomento d'una infinità di canzoni e di novellette. Ciò premesso, prego le signore di uscire, ed ora, che siamo rimasti fra noi altri uomini, ecco la Novella).

Il Magnanino

In un paesetto di montagna chiamato Lama, esisteva una famiglia composta: la madre, il padre, e un giovinetto di dodici quattordici anni. In questo paesetto, di quando in quando ci capitava un di questi magnani ambulanti, che si chiamava Liorani. Tutte le volte, che andava in questo paesetto, questo giovinetto andava lì a menare i mantrici. Questo magnano non avendo figli, cominciò ad allettare questo giovinetto, dandogli qualche soldo, qualche chicca, qualche cosa, e dicendogli sempre: Vieni con meco, vieni via con meco a casa mia, che ci ho un giardino, che ci ho uva, pesche, fichi. Vedrai mia moglie come ti vorrà bene, perchè io non ho nissuno figlio. Questo giovinetto, vinto dalla gola, decise di andare secolui. Può considerare il dispiacere di questo genitore, vedendosi sparire il figlio, ma mai dubitando, che fosse scappato con questo magnano. Fecero ricerche per mezzo della polizia, tutto fu vano, 'un gli riescì di rintracciarlo. Dopo un annetto, che era con quest'omo, essendo questo un giovinetto intelligente, imparò il mestiere del magnano, in modo tale da potersi disimpegnare al paragone del maestro. Veduto il maestro, che questo ragazzo era capace a disimpegnarsi per qualunque lavoro, gli disse: Sai, tu sei capace da quanto me; dunque devi andare a girare il mondo. Ora farai un viaggetto per la Maremma: vedrò come saprai far gl'interessi, e ti farò fare un viaggio più, lungo. Come difatti, una bella mattina, il maestro gli diede arnesi, rame: Vai, fai un giro qui ne' contorni della Maremma. Starai fori un mese, che io ti aspetto qui in Grosseto; e ti sperimenterò, come sei capace a fare gl'interessi. Come difatti, la mattina, di bon'ora, se ne partì da Grosseto; di paese in paese, era vicino a sera, che il Magnanino non aveva trovato da far niente, malgrado che avesse una bella voce da farsi sentire anche da lontano, gridando: Magnanino! rassetta paioli e padelle!.. Giunto presso un casolare, si presenta una bella massaia sulla porta di casa, dicendo: Oh Magnanino, ci ho una buca nella mia caldaia; sarai capace a tapparmela?==Mi posso provare. Quando 'un ci riesco, 'un mi dovete dar niente. Difatti, il Magnanino, benchè giovinetto, messe su subito svelto come una gazzella il su' negozio. Difatti, la bella bionda massaia gli presenta la caldaia; e il Magnanino gli risaldò la buca. Ecco, Massara, la vostra caldaia bella e accomodata.==Ma terrà?==Po! ci vuoi poco, si ci mette dell'acqua dentro, e si vede se geme.==Sì! Acqua 'un c'è n'ho in casa. 'Un vo' far altro, che andare alla fonte, per provare, se l'hai saldata bene la mia caldaia! S'alza la sottana, si mette la caldaia fra le gambe, e ci fece una bella pisciata..... Questa delle buche l'hai tappata bene, vedremo, se ti riesce tapparne un'altra; quest'altra, che è qui. Il Magnanino gli rispose: Adesso; aspetta, che tiri fuori il martelluccio; e poi vedrai, se sarò capace di tapparti anche questa buca. E cavò fuori il su' martello. La massaia, vedendo un arnese di una grossezza non tanto ordinaria, dice: Martelluccio tu lo chiami, perdio! e quando tu aspetti a chiamarlo martellone? E intanto, già si era fatto notte, dopo aver lavorato tra il Magnanino e la massaia più di una volta. Il Magnanino dice: Ora, dove debbo andare a quest'ora?==Dove vuoi andare? starai qui a alloggio. A momenti aspetto i mi' omini, che sono al lavoro. Ceneremo tutti insieme, e poi ce ne anderemo a letto. Non tardarono tanto a entrare in casa sette o otto uomini di forme robuste e con certe ghigne da far venir la pelle d'oca anche all'omo più ardito. Figuratevi il Magnanino, che sapeva come stava con la Massaia, e che il marito della massaia era uno degli uomini più robusti e di ghigna più severa. Io dico, che a il povero magnanino 'un ci entrava proprio un chicco di panico nel culo! Dopo che aveva quasi terminato di cenare, ordinò il marito alla moglie: Domani, alzati di buon'ora, metti su la caldaia grande, chiamaci quando la caldaia è a bollore, che domattina voglio ammazzare il Magnanino. Questo omo aveva un porco che si chiamava il Magnanino. Il Magnanino, sentendo queste parole, e ritornandogli alla mente quello, che aveva fatto con la moglie di il capoccia, lascio considerare a quelli, che mi stanno a ascoltare, in che trista condizione si trovava, non avendo capito il Magnanino, che il padrone di casa aveva un maiale, che portava lo stesso nome[a]. Giunta l'ora di andare a letto, la massaia dice: Via, Magnanino, è l'ora di andare a dormire, ti ho preparato il letto in quella camera in fondo. Dice i' Magnanino: Noi altri Magnanini non siamo assuefatti ad andare a letto, si dorme sempre accanto al foco. Giusto stasera voglio fare delle bullette, se domattina mi capitasse del lavoro; e, quando sarà cert'ora, mi butterò accanto al foco.==Quand'è così, fa come meglio ti aggrada. Allora il Magnanino, assicurato, che tutti dormivano, aprì l'uscio piano piano, e andiede vagando per la campagna. Non pratico, ed essendo la notte scura, quando fu a certo punto, sentì delle voci in lontananza, che imprecavano, bestemmiavano e dicevano: Permio! stanotte 'un si è potuto rubar niente! Il primo, che trovo, lo voglio fare in pezzi! Il Magnanino allora potè capire, che erano ladri. E' dice: L'ho fatta bona! son sortito dalla brace, e sono entrato nel carbone! Guà! vediamo, se ci si può nascondere in qualche modo! Ed infatti, girando di qua e di là, di sopra e di sotto, benchè la notte fosse molto scura e in lontananza minacciasse un temporale, potè scorgere alla meglio una casetta. Questa casetta era circondata da un orto e da un muro a secco e chiusa per mezzo di un piccolo cancello di legno. Al Magnanino gli riescì di aprire il cancello, e introdursi nell'orto. Dice: Vediamo, se qui si ci può salvare. Girando per l'orto, per trovare un nascondiglio, gli si presenta davanti diversi buzzi di api. Ne tastò diversi; erano tutti pieni. Finalmente ne capita uno dei più grandi vuoto. Decise di entrare dentro il buzzo delle api, lui con tutti gli arnesi, i paioli e le padelle, essendo il Magnanino piccolo di statura e piuttosto asciutto. I ladri, che aveva sentito, che avrebbero ucciso il primo, che avessero trovato, passando presso all'orto, ove era nascosto il magnanino, videro questi buzzi di api. E disse uno di questi: Giacchè questa notte, non abbiam potuto rubar niente, guardiamo, se si può portare via qualche buzzo di api, qualcosa si prenderà. Come difatti, entrano nell'orto, tastano diversi buzzi, e fra i quali quello, dove c'era dentro il Magnanino. Sentendol molto peso dicevono: Qui c'è molta roba, c'è molto miele e molta cera... Obbligato! c'era il Magnanino con tutti gli arnesi, era peso sì! Difatti, lo legano con una fune, e uno se lo mette dietro le spalle, e vanno via. Ora lascio considerare la situazione di quel povero Magnanino, trovandosi in quelle mani. Ora, quando vanno per vedere, credendo di trovare la cera e il miele, vedono a me, mi fanno a pezzi. E studiava il modo per potersi liberare. L'uragano era cominciato e sempre rinforzava; lampi, tuoni, saette; il finimondo! Senti, or ora, qualche cosa studierò. Comincia a fare il verso delle api, e ogni quando quando, con la lesina gli dava una punzecchiata. Il ladro credeva, che fossero le vespe che lo pinzassero, e 'un gli faceva caso. Arriva, e vedendo, che 'un risolveva nulla, viene un fulmine forte, in quel mentre il Magnanino gli dà una punzecchiata forte con la lesina. Il ladro si sente male, lasciò andare il buzzo, e, sendo per una via scoscesa, cominciò a ruzzolare i paioli, le padelle, tutti gli arnesi del Magnanino. I ladri s'impaurirono, credendo che fosse il diavolo, e scapparono[b]. Il povero Magnanino si liberò dai ladri; ma si trovò sperso in questo bosco, in una nottata d'inverno, e si riparò sotto una querce. Finalmente, dopo tanto sospirare, (si vede, aveva de'fiammiferi!), accese un po' di foco. Finalmente si fece giorno. Ma il Magnanino perduta la via, 'un si sapeva come rintracciarla. La fame cominciava a farsi sentire, e lì non c'era che macchia; nè case, nè niente. Gira di qua, gira di là, finalmente incontrò tre assassini. Fanno: Cosa fai, ragazzo, in questo posto? chi ti ha portato in questo diserto? Gli raccontò, che s'era smarrito, senza dire del fatto, che gli era successo, del buzzo e de' ladri. Uno di questi, che all'aspetto sembrava il capo, gli disse: Vieni con me, giusto abbiamo di che farti lavorare, tu lavorerai. Ma un altro più tristo, cominciò a molestarlo, dicendogli: Tu devi essere una spia. Ma il capo sempre lo difendeva: Che vuoi un ragazzetto così, che sia una spia? Finalmente gli riescì di abbonire il compagno; e lo conduce con sè in una grotta. Vanno giù in un burrone. Quando sono a certo punto, uno di questi fa un fischio prolungato lì. Danno una parola di ordine. Sente schiavacciare un chiavistello, vede alzare per mezzo di una specie di croce una gran pioggia di roghi, e sotto questi roghi c'era la porta. Entrarono dentro. C'erano tanti altri masnadieri, alcuni feriti, e delle donne, che davano latte a' bambini, mogli, di certo, di loro. Quando entrarono dentro c'era il coco, quello che faceva da coco, che girava dell'agnello. Quando vidde questo ragazzo: Vieni qui; gira, se tu vuoi mangiare. Infatti il Magnanino si messe a girare l'arrosto. Quando fu cotto, andiedero a mangiare. Di dentro, questa grotta v'era una riuscita, che si andava in un prato, mezzo di una specie di scala formata dalla natura, e forse abbozzata anche da loro; e lì andavano a mangiare. Quando ebbero mangiato, lo stesso brigante cominciò a molestare il povero Magnanino, dicendo: Dev'essere una spia. Ora ha imparato il nostro nascondiglio, lo si deve ammazzare. Il Magnanino si raccomandava sempre a il capo. I più de' briganti erano contro; ma poi fu deciso: Questa botte è vota; mettiamolo in questa botte: se campa campa, e se more more. Prima, che avessero deciso di ammazzarlo, si era fatto notte. Levano l'usciuolo della botte, cacciano a forza il povero Magnanino, e lo chiudono perbene. Il Magnanino dovette stare tutta quella notte lì, e tutto quell'altro giorno nella botte. Viene il giorno, e sentiva campani dei pastori a una certa distanza; e lui, il Magnanino: O pastori, venitemi a levare dalla botte, per l'amore di Dio! Quelli sentivano quella voce, (chi sa che voce lugubre, che faceva di dentro la botte) e scappavano via della paura! Passa anche tutta quella giornata, e il poerino sempre chiuso nella botte. Fortuna, che si era cacciato un po' di pane e un po' di ciccia, che gli era avanzata, in tasca. Viene la notte daccapo. Quando è notte avanzata, sente sgrigliolare gli ossi dell'agnello sotto i denti di un animale, che gli parve un cane. Ogni tantino, questo animale andava lì ad annusare a il buco della botte, che aveva sentito l'odore della carne umana. E poi si voltava e si metteva a pisciare a il buco della botte. Disgraziatamente, nel voltarsi a pisciare, gli vien messa la coda nel buco della botte. Il Magnanino agguanta la coda forte con tutte e due le mani, appuntellando i piedi all'usciuolo della botte. Essendo un lupo di una grossezza straordinaria, fece tanta mai forza, che spuntellò la botte dal querciolo, dove era appuntellata, che era un posto scosceso. Spuntellata la botte, cominciò a ruzzolare la botte, il lupo, che il Magnanino teneva per la coda; avranno durato un'ora a ruzzolare. Il lupo rimase morto dalle percosse. Il Magnanino, dentro alla botte, quando fu a certo punto si sente nell'aria: pare, che questa rupe andasse a confinare in un fiume. Si sentì sospeso, e poi cià! cascar nell'acqua. Figuratevi il Magnanino! Comincia dal buco di fondo, e dal buco di sopra, ad entrare l'acqua... Il Magnanino si strappa la camicia e tappa il buco di fondo; quello di sopra, no. Se turo quello di sopra, muoio asfissiato! E lui la teneva sempre in equilibrio. Si fa giorno; si sentiva: Ecco una botte! ecco una botte! Venivano le barchette. Oh aiuto! Sentivano questa voce lugubre, e loro avevano paura, (allora c'era più superstizione di ora) dicevano che c'era il diavolo dentro la botte; insomma, i barchettaiuoli ritornavano addietro. In somma, da tutti i paesi, che passava, gli succedeva il medesimo. Questo fiume imboccava in un altro fiume più grande, che si chiamava l'Elsa, che poi conduceva a mare. Giunto alla bocca, che entra nel mare, che ci stà cannonieri e finanzieri, veduto questa botte, e sentendo urlar dentro, loro non ebbero pregiudizi, nè scrupoli, nè paura; tirano a terra questa botte, e ci trovano questo ragazzo. Lo portorono in quartiere, lo ristororono meglio, che potero, e gli raccontò tutta la storia. I soi genitori ne facevono ricerca per via de' tribunali ma 'un l'avevono potuto rintracciare. Cosa fanno i soldati? Lo menano a Grosseto a il tribunale, raccontando la solita storia al giudice. E lì ritornò insieme a' suoi genitori, e lì passò una vita felice e beata.

Se ne vissero e se ne godettero

E a me nulla mi dettero.

[a] Paolo Luigi Courier narra un'avventura simile affatto, nella quale egli sarebbe stato protagonista, in Calabria. Com'ognun vede, deve essere stata una bugia bella e buona o vogliamo dire una spiritosa invenzione. Ha attinto la storiella alle tradizioni popolari e se l'è applicata senz'altro.[b] Nel giornale l' Évènement del Giovedì, 31 Settembre MDCCCLXXVI, si legge la seguente corbelleria. «Un chasseur qui, selon la tradition de sa race, se ferait fouetter plutôt que d'altérer en rien la vérité, nous rapporte la curieuse aventure suivante qui a, d'ailleurs, tous les dehors de la vraisemblance. Il chassait hier dans Seine-et-Marne quand, au détour d'un bouquet de chênes, il aperçoit un beau lapin. Il épaule son arme. Mais le lapin l'a aperçu de son côté, et, en deux bonds, il se réfugie derrière une énorme citrouille qui se trouvait à proximité.— Ah! mon pauvre garçon, murmura alors le chasseur, tu te crois sauvé parce que tu te caches derrière une citrouille. Tu vas voir ça... Ça ne sera pas long. Et il tourne la position d'un pas lent et circonspect... Il tourne, il tourne encore... Plus de lapin! Tout à coup il voit la citrouille qui remue légèrement d'abord, puis qui se met à prendre la fuite en roulant sur elle-même avec une vitesse vertigineuse. Guidé par un instinct merveilleux, le lapin s'était introduit dans la citrouille et il la faisait rouler rapidement à l'aide de ses petites pattes. Ce serait à n'y pas croire, si nous ne connaissions à fond la véracité du conteur,—qui d'ailleurs en conte bien d'autres!»

Pagina 72.

Nell'opera intitolata: La Biblioteca | del | Museo Nazionale | nella Certosa di S. Martino in Napoli | ed i suoi manoscritti | esposti e catalogati | da | Carlo Padiglione || Napoli | Stabilimento Tipografico di F. Giannini | Via Museo Nazionale, 34 | 1876; trovo a pagina 582 la indicazione di un mss. intitolato: La 'ntera collezione de li termeni de li vennituri napulitani co' la loro spiegazione. —«È di carte diciotto in quarto. E la nomenclatura di voci e frasi napoletane, pertinenti ai venditori. Esse sono cinquecento, a canto a ciascuna delle quali vi è la spiega nella lingua Italiana».—

Pagina 117.

Giulio Acciani, nato in Bagnoli in Principato Ultra, il XIX Ottobre MDCLI (Vedi pag. 117 del presente volume. La data è scritta sotto il ritratto di cui più giù, in Bagnoli) e morto probabilmente in Napoli nel MDCLXXXI. Nipote a Leonardo di Capua, fu dal padre mandato in Napoli a studiare Dritto. Al quale studio egli era negato, essendo sommamente trasportato allo studio delle lettere e della Poesia. Si laureò non pertanto in Medicina. Morì giovanissimo e poche notizie si sanno della sua vita. Trovasi scritto ne' Rapporti del Parnaso di Nicola Amenta, a suo riguardo, nel Rapporto primo:—«Ma desiderando già Sua Maestà, coi mentovati cibi ristorarsi, ed essendo altresì gran pezza della mattina passata, ordinò che si sonasse a raccolta. Ed essendo in poco tempo tutti accorsi, sul verde prato lunghesso un limpido rigagnolo fece molte tavole apparecchiare, ed assisosi in capo ad una di esse, che grandissima e alla regale era messa, si fece intorno sedere le serenissime Muse, dipresso a sessanta dei più scelti scienziati di sua corte. E, dato l'acqua alle mani, videro comparire Giulio Acciani, Carlo Buragna, e Pirro Schettini con tre grandi piattelli d'insalata di erbucce in mano; i quali (dopo una bella riverenza) le tre insalate a Sua Maestà presentarono. Ma appena ebbe Apollo dell'insalata dell'Acciani assaggiato un boccone senza trangugiarlo, sputollo tutto; e rivolto all'Acciani dissegli: che la sua insalata non poteasi neppure saggiare, così pungenti erano le erbe, che la componevano, e che queste atte giudicava anzi a ferire gli uomini, che ad alimentarli. Indi, fatto levar da mensa tal piatto, mandollo a Francesco Berni e Cesare Caporali, che poco lungi l'un dall'altro, s'eran già ad altre tavole assettati. Ma costoro lo stesso fecero, che sua Maestà fatto avea; e poi ne fecero dono a Messer Pietro Aretino; il quale, ancorchè solo tutta se l'ingollò».—E nello stesso Rapporto continua:—«esprimendole la gramezza pasciuta l'avessero di cose quanto piacevoli altrettanto facili a digerirsi. Cioè di quattro Capitoli del Berni, del Caporali e del Mauro, non riprovando quei che novellamente fatto aveva il mottegevole e faceto Antonio Muscettola ed alcuni dei meno frizzanti e più graziosi di Giulio Acciani.»—Nel Crescimbeni, Storia della volgare Poesia Vol. V. trovasi detto:—«Giulio Acciani Napoletano. Poeta di buon carattere, che fiorì nei principio del ritorno del buon gusto, e compose in serio ed in piacevole, ed a questa maniera fu talmente inclinato, che nemmeno potè astenersene nel punto della morte; nel quale stato compose un capitolo indirizzato agli amici in guisa di testamento, il quale è stato da noi veduto manoscritto».—

Nell'opera gli scrittori d'Italia del Mazzuchelli è scritto:—«Acciani (Giulio) di Bagnuolo, villa del Regno di Napoli in Principato Ultra, fiorì dopo la metà del secolo XVII e fu dei buoni poeti volgari, che principiarono ad abbandonare il corrotto gusto del secolo scorso. Le sue poesie vengono chiamate dal Crescimbeni di buon carattere e di ottimo gusto, ecc. Per altro egli era molto inclinato allo stile satirico; e perciò le sue satire, le quali per altro non sono state mai pubblicate, come troppo pungenti, veggonsi dall'Amenta con un Rapporto molto leggiadro tacciate, ecc.»—Qualche particolarità della sua vita può rintracciarsi nelle sue stesse Poesie.—A Bagnoli, sua Patria, conservasi il ritratto dipinto in uno stesso Quadro, insieme con Leonardo di Capua. Due manoscritti delle sue poesie trovasi nella Biblioteca Nazionale di Napoli. L'ultimo maschio della famiglia Acciani è da pochi anni morto in Bagnoli, ed era il celebre Ciccio Acciani, Capourbano amico a Ferdinando II perchè famoso nella reazione del MDCCCLIX.

( Nota somministrata da Michele Lenzi ).