Il figlio della notte

1.

La ragazza si avvicinò a Will Barbee mentre lui, ritto davanti al terminal di vetro e cemento di Trojan Field, il nuovo aeroporto municipale di Clarendon, osservava il cielo di piombo cercando di scorgere gli aerei in arrivo. Non c’era alcun motivo perché Will dovesse sentirsi percorrere da un brivido tale da fargli battere i denti: ma forse era stata soltanto una folata dell’umido vento di levante.

Snella ed elegante nella bianca pelliccia, la ragazza gli trasmetteva un’o­scura sensazione di gelo. Tuttavia, aveva una incredibile massa di capelli ros­si; e bianca e flessuosa com’era, il volto serio e dolce, confermò la prima impressione ricevuta da Will: che fosse qualcosa di straordinariamente pre­zioso e bello. Lo fissò, e la bocca di lei parve incurvarsi in un accenno di sorriso.

Barbee, col fiato mozzo, esaminò più attentamente quegli occhi che lo guar­davano sorridendo gravi: erano proprio verdi, verdissimi. La scrutò, cercan­do di spiegarsi quel freddo brivido di allarme istintivo, e si rese conto di provare un’attrazione altrettanto istintiva. Gli parve illogico: la vita lo aveva reso cinico in fatto di donne, e si considerava ormai immune al loro fascino.

Il tailleur di gabardine verde che la ragazza portava sotto la pelliccia, sem­plice e severo, era di certo molto costoso, e la tinta si intonava al colore degli occhi. Contro le raffiche gelide di quel grigio pomeriggio d’ottobre, la ragaz­za era difesa da una specie di cappotto di pelo candido e folto, che a Will parve di lupo artico: albino, probabilmente.

Il gatto però era davvero strano.

Dall’apertura della borsa di coccodrillo che le pendeva dal braccio, e sem­brava che intorno a esso fosse avvolto un rettile vivo, un gattino spuntava fuori con aria soddisfatta; un piccolo micio nato da poco, tutto nero, con un bel nastro di seta rossa annodato intorno al collo.

Insieme, erano una perfetta immagine di serena innocenza. Ma quel micino che sbatteva gli occhi alle luci che si rincorrevano nel crepuscolo, portava una nota discorde. La ragazza non sembrava il tipo che gioisse della compa­gnia di una bestiola così tenera. E la sua apparenza di giovane e determinata donna d’affari non sembrava proprio conciliabile con l’inclusione di un gatti­no nero, sia pur piccolo e grazioso, fra gli accessori d’abbigliamento.

Barbee si chiese dove e quando l’avesse conosciuta. Clarendon non era cer­to una grande città, e un cronista come lui, che va dappertutto, dei capelli rossi come quelli li avrebbe visti e ricordati anche se fosse stato cieco. La guardò ancora, dubbioso che quegli occhi verdi si dedicassero proprio a lui.

La ragazza continuava a fissarlo.

«Barbee?», chiese con voce morbida e piena, una voce che rivelava una vitalità così intensa da possedere quasi una sfumatura gutturale.

«Will Barbee», rispose lui. «Cronista del Clarendon Star. »

Si era illuso che un così modesto particolare potesse sembrare interessante alla ragazza.

«Il direttore stasera vuole che prenda due piccioni con una sola fava», riprese, a corto di argomenti. «Il primo piccione sarebbe il colonnello Walraven, che ha piantato Washington e la burocrazia per tornarsene a Clarendon, dove spera di essere eletto senatore. Ma avrà ben poco da dire alla stampa, prima di aver parlato con Preston Troy.»

Il gattino sbadigliò mentre le luci si accendevano, e la piccola folla di paren­ti e amici in attesa si accalcò lungo la rete metallica che divideva il pubblico dal campo. Intanto, gli intensi occhi verdi della ragazza non s’erano staccati per un attimo dalla sua faccia, e la sua voce magica domandò dolcemente:

«E il secondo piccione?».

«Quello è il più grosso. Si tratta del professor Lamarck Mondrick. Anima e corpo dell’Istituto per le Ricerche Antropologiche, vicino all’università. È atteso per quest’oggi, su un aereo noleggiato sulla costa del Pacifico, insieme coi suoi compagni di spedizione. Sono stati nel deserto di Gobi, in Mongolia. Ma lei già saprà tutto di questi esploratori.»

«No», e qualcosa nella voce di lei gli accelerò le pulsazioni del sangue nelle vene. «Che cosa hanno fatto?»

«Sono archeologi, che la guerra ha sorpreso mentre facevano degli scavi in Mongolia, scavi che naturalmente furono interrotti. Nel 1945, quando i giap­ponesi si sono arresi, la spedizione è tornata subito là, malgrado gli impacci burocratici. Sam Quain, che è il braccio destro di Mondrick, durante la guer­ra aveva fatto parte d’una importante missione militare in Cina e perciò ha potuto ottenere i permessi necessari. Sembra che abbiano trovato qualcosa di eccezionale.»

La ragazza lo ascoltava con interesse, per cui Barbee riprese: «Sono tutti di Clarendon, e tornano in patria stasera dopo due anni di lotta e di pericoli con militari, banditi, tempeste di sabbia e scorpioni nel cuore della Mongolia più misteriosa. Sembra che portino con sé qualcosa che sconvolgerà il mondo archeologico.»

«E cioè?»

«È appunto quello che il mio direttore vorrebbe che io scoprissi stasera.» Barbee la osservò con due grigi occhi pazienti e perplessi. Il gattino nero ammiccò, più arzillo che mai. Niente, nell’aspetto della ragazza, giustificava il suo sfuggevole brivido di allarme. Il suo sguardo era ancora impersonale. Temette che se ne andasse.

Inghiottendo la saliva, il giornalista si decise: «Dove ci siamo conosciuti?», domandò.

«Sono una collega, o per meglio dire una rivale», disse la ragazza, in tono più aperto, non privo di cordialità. «April Bell, del Clarendon Call. »Gli mo­strò un taccuino nero: «Mi hanno detto di guardarmi da te, Will Barbee.»

«Oh», sorrise lui, e indicando con un cenno del capo il gruppetto di persone dietro le vetrate della stazione, in attesa dell’aereo: «Avrei creduto piuttosto che tu fossi qui di passaggio, tornando a Hollywood o a qualche teatro di Broadway... Ma non sei proprio della redazione del Call,vero?» E lasciò scorrere lo sguardo su quegli splendidi capelli di fiamma, scotendo la testa in muta ammirazione. «Perché ti avrei notata...»

«Sono nuova», disse la ragazza. «Mi sono diplomata in giornalismo questa estate. Ho cominciato a lavorare al Call lunedì scorso. Questo è il mio primo servizio.» E con tono infantilmente confidenziale: «Ho paura d’essere come un pesce fuor d’acqua, qui a Clarendon... Sai, sono nata qui, ma la mia fami­glia mi ha portata in California quand’ero ancora bambina.» I denti bianchis­simi lampeggiarono in un sorriso d’ingenua fiducia. «Sono del tutto forestie­ra a Clarendon, e nello stesso tempo ho tanto desiderio di farmi onore al Call »,confessò dolcemente. «Vorrei proprio fare un bel pezzo su questa spedizione di Mondrick. Pare che ci siano tante cose misteriose e affascinan­ti, nella spedizione! Ma ho paura di non avere studiato troppe materie scien­tifiche all’università. Non ti dispiace, Barbee, se ti faccio qualche domanda?»

Barbee non rispose perché era immerso nella contemplazione dei suoi den­ti. Denti regolari, forti, candidi. Quel tipo di denti con cui ragazze bellissime stritolano ossa nelle pubblicità dei dentifrici. Pensò che lo spettacolo di April Bell intenta a stritolare un osso sanguinolento sarebbe stato dei più eccitanti.

«Vedo che ti dispiacerebbe, vero?»

Barbee inghiottì di nuovo e con uno sforzo tornò alla realtà. Le sorrise, perché ora cominciava a capire. Era una novellina, ma furba come Lilith. Il gattino aveva indubbiamente il compito di dare il tocco finale al commovente quadretto d’una fanciulla sola e senza aiuto, annientando così le ultime resi­stenze maschili che i suoi occhi affascinanti e la chioma fiammeggiante non avessero ancora debellato.

«Noi siamo rivali, dolcezza», le ricordò, cercando di fare il severo. L’occhia­ta ferita di lei non andò perduta, ma il giovane mantenne il tono ruvido della sua voce. «E poi April Bell sembra un nome finto.»

«Mi chiamo Susan, in realtà», e i verdi occhi della ragazza divennero quasi neri tanto era intensa l’implorazione che vi si leggeva. «Ma April m’è parso molto più adatto al mio primo servizio firmato. Ti prego... dimmi qualcosa sulla spedizione... quel Mondrick dev’essere un pezzo grosso davvero, se tutti i giornali vogliono articoli su di lui...»

«È uno studioso veramente in gamba. La sua spedizione si compone soltan­to di quattro uomini, e non ho dubbi che devono avere visto cose incredibili in quelle regioni sconosciute, in mezzo al deserto, in tempi come questi. È già un mistero come abbiano fatto ad arrivare fin là e a tornare indietro. Ma Sam Quain ha amici cinesi, e questi devono averli molto aiutati.»

Con una minuscola stilografica, lei intanto prendeva appunti rapidissimi sul taccuino nero.

«Amici cinesi», mormorò la ragazza scrivendo. Poi alzò gli occhi imploranti: «Davvero non hai idea di che cosa portino di là?».

«Nemmeno la più pallida ombra di un’idea. Qualcuno della Fondazione ha telefonato oggi allo Star per informarci che sarebbero arrivati stasera in ae­reo. Ha anche detto che la spedizione aveva novità sensazionali da annuncia­re. Pare che si tratti di una grande scoperta scientifica. Ci ha consigliato di mandare fotografi e i nostri redattori scientifici, ma lo Star non è giornale che prenda troppo sul serio i problemi della scienza. Secondo il direttore basto io tanto per il servizio su Walraven quanto per quello sulla spedizio­ne.»

Intanto cercava di ricordarsi il nome di un certo personaggio mitologico, affascinante e desiderabile, senza dubbio, quanto lo era April Bell, ma dedita alla brutta abitudine di tramutare gli uomini invaghiti di lei in bestie ripu­gnanti. Come si chiamava... Circe?

Non aveva pronunciato quel nome a voce alta... ma l’improvviso incurvarsi ironico delle labbra, e un certo scintillìo malizioso negli occhi verdi, gli fece­ro pensare per un istante di averlo fatto. Ed era strano, perché non capiva che cosa l’avesse fatto pensare alla mitica maga.

Il disagio durò un istante, che impiegò per cercar di scoprire i motivi di quella strana associazione mentale. Aveva letto Menninger e Freud, cono­sceva il Ramo d’oro di Frazer. Sapeva che i simboli delle antiche leggende entrate nel folklore esprimevano le paure e le speranze dell’uomo primitivo: perciò, l’immagine lampeggiata nei suoi pensieri doveva riportare a qualcosa nel suo inconscio. E non voleva nemmeno sapere a che cosa.

Rise improvvisamente e disse:

«Va bene, ti dirò tutto quello che so, anche se rischierò il licenziamento in tronco quando Preston Troy leggerà il mio servizio anche sul Call. O preferi­sci che te lo scriva io?».

«Grazie, ma la mia stenografia è abbastanza buona.»

«Bene, Mondrick era già un antropologo di fama alla Clarendon University, prima di dimettersi una decina di anni fa per creare la sua Fondazione An­tropologica. Oggi è considerato, malgrado la sua straordinaria modestia, il più grande studioso, forse, in tutto il mondo, della specie umana. Biologo, psicologo, archeologo, sociologo, etnologo... Insomma, sembra che sappia tutto quello che val la pena di sapere sul suo argomento favorito: il genere umano. Ha diretto tre spedizioni nel deserto di Gobi, prima che la guerra lo costringesse a sospendere le ricerche; poi, appena ha potuto, vi si è precipita­to di nuovo. Gli scavi si trovano nella regione di Ala-shan, nel Gobi sud-occidentale, dove il deserto è più arido, ostile, torrido...»

«Avanti», lo spronò la ragazza, la punta della penna ferma sul taccuino. «Hai un’idea di che cosa cercasse la spedizione?»

«È il loro grande mistero. Ma è certo che, di qualunque cosa si tratti, Mon­drick se ne occupa da almeno vent’anni. Ha organizzato la Fondazione esclu­sivamente per trovare quello che cerca, lasciando la cattedra universitaria. È il lavoro di tutta la sua vita: e, dato l’uomo, non può che essere una cosa importante.»

La piccola folla di persone in attesa presso la barriera d’acciaio si agitò e un bimbo indicò eccitatissimo il cielo grigio. Il vento saturo di umidità vibrava al rombo di motori possenti. Barbee guardò l’orologio.

«Cinque e quaranta», disse alla ragazza. «L’aereo è atteso per le sei, di modo che se questo è l’apparecchio di Mondrick, evidentemente è in antici­po.»

«Di già?» Con gli occhi verdi pieni di luce, April pareva emozionata almeno quanto il bimbo che aveva indicato il cielo. «E gli altri? I collaboratori di Mondrick, intendo, li conosci?»

Un’onda di ricordi fece indugiare Barbee, che annuì, con un po’ di tristezza. Nella sua mente balenarono tre volti un tempo familiari, e il brusio della piccola folla in attesa si trasformò nell’eco remota di voci venute dal passato.

«Oh, certo che li conosco», disse.

«Allora, parlamene.»

La voce di April Bell interruppe la sua breve fantasticheria. La ragazza at­tendeva, la penna puntata sul taccuino. Will sapeva perfettamente che non si deve mai rivelare al collega di un giornale concorrente il materiale che fa da sfondo a un servizio speciale, ma quei capelli erano d’un rosso fiamma trop­po rabbioso e quegli occhi bizzarramente allungati così misteriosi, che la sua riluttanza si sciolse come neve al sole.

«I tre uomini che nel ’45 sono tornati in Mongolia con Mondrick sono Sam Quain, Nick Spivak e Rex Chittum. Sono i miei più vecchi amici. Eravamo tutti colleghi all’università, quando ancora Mondrick insegnava alla Claren­don University. Sam e io siamo stati due anni a pensione in casa di Mon­drick, e poi tutti e quattro ci siamo trasferiti in un appartamento per studenti dell’università. Seguivamo i corsi di Mondrick e... insomma... sai...»

Barbee cominciò a balbettare e infine tacque, timido e impacciato. Un anti­co dolore che non s’era mai spento si era ridestato di colpo, gli palpitava in gola, stringendola in un nodo.

«Continua», disse April Bell con voce sommessa. Il sorriso di affettuosa comprensione che gli rivolse lo spinse a riprendere:

«Mondrick stava già cercando i suoi collaboratori più fidati, capisci. Doveva avere già in mente di fondare il suo istituto di ricerche antropologiche, seb­bene non gli abbia dato vita che quando io m’ero già laureato. Credo che scegliesse gli uomini da addestrare per le sue ricerche nel Gobi».

Inghiottì a fatica.

«A ogni modo, tutti noi seguivamo le sue lezioni... su quelle che lui chiama­va “scienze dell’uomo”. Lo adoravamo. Lui ci aveva procurato delle borse di studio, ci dava tutto l’aiuto che poteva e ci conduceva con sé ai suoi campeg­gi scientifici, d’estate, in America Centrale e nel Perù.»

Gli occhi della ragazza erano penetranti fino a sconvolgere.

«E tu, Barbee?»

«Io alla fine sono stato escluso», confessò a disagio. «Non ho mai saputo bene perché... dato che avevo anch’io la loro passione, e i miei voti erano superiori a quelli dello stesso Sam, e i miei risultati migliori. Avrei dato il braccio destro per poter essere con loro, quando Mondrick avviò la Fonda­zione e li condusse con sé nella prima spedizione nel Gobi.»

«Che cosa accadde?»

«Non l’ho mai saputo, ma qualcosa mi voltò Mondrick contro, qualcosa che mi sfugge ancor oggi. Eravamo ormai tutti laureandi, e Mondrick ci stava vaccinando e prelevava campioni dei nostri gruppi sanguigni per un altro campeggio scientifico, quando mi chiamò nel suo laboratorio, un giorno, per dirmi che avrei fatto bene a non pensare più a viaggi del genere.»

«Ma perché?», mormorò la ragazza.

«Non volle dirmelo. Per quanto vedesse come soffrivo, non volle spiegarsi. Divenne ruvido, come se la cosa facesse male anche a lui, e mi promise d’aiu­tarmi a trovare qualunque altro posto mi fosse piaciuto. Fu allora che mi assunsero allo Star. »

«E i tuoi amici invece andarono in Mongolia?» Gli occhi verdi lo scrutavano penetranti.

«Quella stessa estate. Con la prima spedizione della Fondazione di ricerche antropologiche.»

«Ma almeno», disse, «voi quattro siete rimasti amici?»

Barbee annuì, perplesso.

«Sì, siamo amici. Serbavo un po’ di rancore a Mondrick che non aveva volu­to dirmi perché mi avesse tagliato fuori, ma non ho mai avuto il minimo screzio con Sam, o Nick, o Rex. Quando ci vediamo, ci trattiamo sempre con l’antica cordialità. I Quattro Mulattieri, ci chiamava Sam, quando partivamo per quelle spedizioni a dorso di mulo nel cuore del Messico, del Guatemala o del Perù. Se Mondrick ha detto loro perché non mi ha più voluto, loro non me ne hanno mai parlato.»

Barbee guardò con aria infelice sopra i capelli fiammeggianti della ragazza, nel freddo crepuscolo plumbeo, che ora palpitava tutto al rombo dell’aero­plano invisibile.

«Non sono mai cambiati», riprese. «Ma naturalmente la vita a poco a poco ci ha allontanati. Mondrick ne ha fatto un gruppo di specialisti nelle varie discipline delle sue “scienze dell’uomo”, addestrandoli alle ricerche di quel qualcosa nell’Ala-shan. Non avevano più troppo tempo da dedicarmi.»

Barbee s’interruppe di colpo.

«April Bell», le domandò bruscamente, come per metter fine a quei ricordi penosi d’una sconfitta, «come hai fatto ad avere il mio nome?»

Gli occhi di lei s’illuminarono d’una blanda ironia.

«E se fosse stata intuizione?»

Barbee fu scosso da un altro leggero brivido. Sapeva di possedere quello che si chiama “fiuto per le notizie”, una percezione intuitiva dei motivi uma­ni e degli eventi che ne derivano. Non era una facoltà che si potesse analizza­re o spiegare, ma sapeva che non era insolita. Molti giornalisti di successo la possedevano, anche se, in un’epoca scettica verso tutto quello che non fosse il più vieto materialismo meccanicistico, desideravano dar prova di buon sen­so rinnegandola. Il suo intuito, tuttavia, spesso gli si era rivelato utile: nei loro viaggi scientifici, prima che Mondrick lo mandasse a fare il giornalista, lo aveva guidato più d’una volta al rinvenimento di qualche interessante lo­calità preistorica, semplicemente perché sapeva, chissà come, dove una tor­ma di cacciatori selvaggi avrebbero preferito accamparsi, o scavare una tana, o preparare la tomba di un compagno.

Tuttavia quella facoltà incontrollabile era stata per lui più una maledizione che un vantaggio. Lo rendeva sempre troppo acutamente conscio di tutto ciò che la gente intorno pensava e faceva, lo teneva sempre troppo vigile e teso. Tranne quando beveva. Beveva troppo, e non ignorava che molti altri giorna­listi facevano altrettanto. Quella singolare sensibilità, ne era convinto, rappresentava buona parte del motivo.

Era stato forse quel vago intuito a farlo rabbrividire al suo primo scorgere April Bell, sebbene nulla in quei lunghi occhi caldi e quei capelli color di fiamma gli sembrasse ora temibile.

Le sorrise e cercò di vincere la sua istintiva apprensione. Indubbiamente il suo direttore le aveva fatto, nell’istruirla su come preparare il servizio, il suo nome. Con ogni probabilità, quella ragazza era solita infliggere le sofferenze di Tantalo agli uomini, con quel suo irresistibile miscuglio di candore e di malizia. Le incongruità più strane hanno sempre una spiegazione logica, quando si riesca a trovarla.

«E ora, Barbee, ti prego... dimmi, chi sono quelli?»

Indicò il gruppo di persone che stavano uscendo dal terminal. Un ometto fragile e minuto fece un gesto verso la cappa plumbea del cielo. Una bam­bina piccola gridò che voleva vedere meglio, e la madre la prese in braccio. Un’altra donna cieca veniva dietro tutti, guidata da un cane enorme, un fulvo pastore tedesco.

«Se hai un intuito così prodigioso,» fece Barbee, «perché mi fai delle do­mande?»

La ragazza gli sorrise di rimando.

«Andiamo, Barbee, è vero che sono tornata a Clarendon da poco, ma ho ancora molti amici qui, e poi il mio direttore mi ha detto che tu avevi lavora­to con Mondrick. Quel gruppo di gente laggiù deve essere venuta per acco­gliere gli esploratori. Sono sicura che tu li conosci. Perché non andiamo a intervistarne qualcuno?»

«Se ci tieni.» Barbee rinunciò a ogni idea di resistenza. «Andiamo.»

La ragazza infilò il braccio sotto il suo. Anche la pelliccia bianca, là dove gli sfiorava il polso, dava una strana sensazione elettrica. Quella ragazza eserci­tava uno strano fascino su di lui, che s’era creduto fino a quel giorno invulne­rabile alle donne. Ma la sua cordialità, insieme con quella strana sensazione di disagio che a tratti lo opprimeva, lo turbava più di quanto lui desiderasse dare a vedere.

La guidò entro il terminal, fermandosi a un tratto presso l’operatore della telescrivente per domandargli:

«È l’aereo di Mondrick?».

«Sta atterrando, Barbee.» L’operatore annuì, indicando un anemometro. «Con l’aiuto degli strumenti, praticamente un atterraggio alla cieca.»

Barbee non riuscì a vedere l’apparecchio, quando uscirono di nuovo e si spinsero fino all’estremità della pista di cemento; il rombo del motore sem­brava più fioco nella nebbia sempre più densa.

«Allora, Barbee», e la ragazza indicò col mento il gruppetto di persone in attesa, «chi sono?»

Barbee si chiese, rispondendole, perché mai la sua voce suonasse così incer­ta.

«Vedi quella signora alta col cane», cominciò, «quella che se ne sta un po’ appartata, con gli occhiali neri e il volto malinconico? È la moglie di Mondrick. Una cara, simpaticissima donna, e una pianista di valore, anche se cieca. Siamo sempre stati amici, fin da quando Sam Quain e io, per due anni, abbiamo alloggiato a casa sua, durante l’università. Vieni, ti presento.»

Ma la ragazza s’era fermata, fissando la donna.

«Così, quella è Rowena Mondrick?» La sua voce era scesa a un bisbiglio pieno d’intensità. «Che strani gioielli porta!»

Stupito, Barbee guardò meglio la cieca, che se ne stava eretta sulla persona, silenziosa e appartata da tutti. Come sempre, era vestita a lutto. Gli ci volle qualche istante per vedere i gioielli, semplicemente perché li conosceva trop­po bene. Sorrise:

«Quell’argento, dici?».

La ragazza annuì, osservando gli antichi pettini d’argento nei folti capelli bianchi di Rowena Mondrick, la broche d’argento sul collo dell’abito nero, i braccialetti d’argento massiccio e gli anelli, sempre d’argento, alle mani sotti­li, quasi da fanciulla, che trattenevano il cane. Perfino il collare dell’animale era irto di massicce borchie d’argento.

«Già, è strano», disse Barbee. «Non mi ero mai soffermato sulla passione di Rowena per l’argento. Diceva che le piace il tocco freddo di quel metallo... Sai, il tatto è importante per lei, nelle sue condizioni.» Guardò l’espressione ostile della ragazza. «Che c’è? sei arrabbiata?»

Lei scosse il capo:

«No», bisbigliò. «Solo che non posso soffrire l’argento.» Poi sorrise, come per farsi perdonare quel momento di malumore. «L’ho sentita nominare, ma non so niente di lei.»

«Credo che fosse infermiera psichiatrica a Glennhaven quando conobbe Mondrick. Parlo d’una trentina d’anni fa. Doveva essere molto bella allora. Mondrick la salvò da non so quale amore infelice e la interessò al suo lavo­ro.»

Con gli occhi sempre fissi sulla donna, la ragazza lo ascoltava con grande attenzione.

«Finì per diventare sua allieva», riprese Barbee, «e lo accompagnò in tutte le sue spedizioni, fino al giorno in cui perse la vista. Da allora, per vent’anni, è sempre vissuta tranquilla qui a Clarendon. Ha la sua musica e una cerchia molto ristretta di amici. Non credo che partecipi più alle ricerche del marito. Molti la considerano un po’ strana... Sai, dopo il modo in cui perse la vista...»

«Come successe?»

«Si trovavano nell’Africa occidentale», disse piano Barbee, pensando con rimpianto ai giorni lontani in cui anche lui aveva preso parte a spedizioni in terre remote, in cerca di frammenti del passato. «Credo che Mondrick stesse cercando le prove che l’uomo moderno ha cominciato a evolversi in Africa... Questo molti anni prima delle sue spedizioni in Mongolia. Con l’occasione Rowena cominciò a raccogliere dati etnologici sulle tribù della Nigeria di alligatori umani e uomini-leopardo.»

«Uomini-leopardo?» Gli occhi verdi di April parvero socchiudersi, farsi quasi neri. «Che cosa sono?»

«Membri d’un culto segreto, cannibalistico, che secondo le leggende sareb­bero capaci di trasformarsi in leopardi.» E Barbee sorrise all’attenzione con cui April lo ascoltava. «Rowena, capisci, voleva scrivere un libro sulla licantropia. La credenza, comune a molte tribù primitive, che certi individui pos­sano trasformarsi in lupi e altre belve.»

«Oh!»

«Gli animali sono di solito scelti tra i più feroci della regione dove domina questa superstizione: orsi nei paesi nordici, giaguari nel bacino del Rio delle Amazzoni, lupi in Europa... I contadini della Francia medievale, per esem­pio, vivevano nel terrore del loup garou,il Lupo Mannaro. Leopardi o tigri, invece, in Africa e in Asia. Non si comprende come questa credenza possa essersi diffusa in tutte le parti del mondo.»

«Molto interessante.» La ragazza sorrise obliquamente, come per una se­greta soddisfazione. «Ma come fu che Rowena Mondrick divenne cieca?»

«Erano accampati nell’interno della Nigeria in una regione che aveva visto pochissimi uomini bianchi, e Rowena aveva cercato di conquistare la fiducia degli indigeni, che tempestava di domande sui loro riti. Cercava di collegare gli uomini leopardo delle tribù cannibali con gli spiriti-leopardo degli strego­ni Lhota Naga dell’Assam e gli “spiriti dei boschi” di certe tribù amerinde. Troppe domande, a detta di Mondrick, perché i loro portatori cominciarono a mostrarsi impauriti e l’avvertirono di guardarsi dagli uomini-leopardo. Ma Rowena non diede loro ascolto, e le sue ricerche la spinsero fino a una valle che gli indigeni consideravano tabù. Vi trovarono manufatti che interessaro­no notevolmente Mondrick, e stavano trasferendo l’accampamento nella val­le, quando avvenne la tragedia. Percorrevano una pista nella foresta, di not­te, quando un leopardo nero balzò su Rowena da un albero... Era un leopar­do vero e proprio, naturalmente, non un indigeno vestito di una pelle di leopardo; ma la coincidenza apparve anche troppo significativa per la super­stizione dei portatori, che fuggirono da tutte le parti. La belva ebbe Rowena sotto le zanne prima che le fucilate di Mondrick riuscissero a farla scappare. Le ferite risultarono gravissime e naturalmente si infettarono; la poveretta, quando il marito finalmente poté raggiungere una specie di ospedale, era in fin di vita. Fu la loro ultima spedizione in Africa: lei era ormai cieca e non poteva più viaggiare, e lui doveva avere ormai abbandonato la teoria che l’ homo sapiens fosse originario dell’Africa. Dopo tutto, poveretta, non c’è da meravigliarsi che appaia un pochino strana, non ti sembra? L’aggressione di quel leopardo fu piuttosto ironica...»

Guardando il volto teso e bianco di April, fu colpito dall’espressione che vi colse: un’espressione come di crudele esultanza. O forse era soltanto un ef­fetto delle luci smorzate del crepuscolo? Lei sorrise, cogliendo la sorpresa nei suoi occhi.

«Sì, c’è una strana ironia in quel dramma», osservò con indifferenza. «La vita gioca tiri bizzarri a volte.» La sua voce si fece grave. «Dev’essere stato un colpo terribile.»

«Senza dubbio, ma Rowena è una donna straordinariamente forte. Nessuna autocommiserazione. Molto coraggio. Frequentandola, ci si dimentica che sia cieca.» Prese la ragazza per il braccio. «Vieni, sono sicuro che ti piacerà.»

Il gattino nero, sempre affacciato all’orlo della borsetta, ammiccò con gli enormi occhi azzurri. April Bell si ritrasse:

«No, Barbee!», bisbigliò. «Ti prego di non...»

Ma già Barbee aveva fatto qualche passo avanti e annunciava a gran voce:

«Rowena! Sono Will Barbee. Il giornale mi ha mandato qui per tuo marito. Permettimi di presentarti una collega, April Bell...».

La cieca aveva voltato bruscamente il capo al suono della sua voce. Pros­sima alla sessantina, la moglie di Mondrick conservava una snellezza giovani­le. Le dense onde dei suoi capelli, Barbee le aveva viste sempre bianche, ma il volto, colorito ora dall’eccitazione e dalla temperatura pungente, era roseo e liscio come quello di una giovanetta. Abituato a vederli, Barbee non badò agli occhiali dalle lenti d’un nero opaco.

«Oh, salve, Will!», disse la cieca con voce calda e musicale. «È sempre un piacere conoscere i tuoi amici.» Si passò il corto guinzaglio del cane nella mano sinistra, e porse la destra. «Molto lieta, signorina Bell. Come sta?»

«Bene». La voce di April era dolcemente remota, e lei non accennò mini­mamente a prendere la mano che la cieca le porgeva. «Grazie.»

Arrossendo, Barbee tirò con forza la manica della ragazza, che si ritrasse di scatto. Vide che le sue guance s’erano fatte livide, in forte contrasto con il rosso violento della bocca. Socchiusi, quasi neri, i suoi occhi fissavano ancora i pesanti braccialetti d’argento di Rowena. Confuso, Barbee cercò di salvare la situazione.

«Stai bene attenta a quello che dici», avvertì Rowena in un tentativo di far dello spirito, «perché April lavora per il Call e stenografa ogni parola che la colpisca.»

La cieca sorrise, con grande sollievo di Barbee, come se non si fosse accorta della scortesia di April Bell. Chinando il capo da una parte, per tendere l’orecchio verso il rombo che riempiva il cielo, domandò ansiosamente:

«Non sono ancora atterrati?».

«No», rispose Barbee. «Ma è questione di minuti.»

«Dio sia lodato», sospirò la donna. «Sono stata così in pensiero, questa volta, fin dal giorno che Marck è partito. Non sta bene, e continua a correre rischi sempre più gravi.»

Le sue mani sottili furono scosse da un tremito, notò Barbee, e strinsero il guinzaglio del cane con forza così convulsa che le nocche divennero livide.

«Ci sono cose sepolte che devono restare sepolte», sussurrò poi. «Ho fatto di tutto perché Marck non tornasse a quegli scavi di Ala-shan. Avevo paura di ciò che avrebbe potuto trovarvi.»

April Bell stava ascoltando attentamente, e Barbee la udì trattenere il fiato.

«Lei», mormorò, «aveva paura?» La sua penna, puntata sul minuscolo tac­cuino, ebbe un fremito. «Che cosa temeva che il suo famoso marito potesse trovare?»

«Niente!», si affrettò a rispondere la cieca, come spaventata. «Proprio nien­te!»

«Me lo dica», insistette la ragazza duramente. «Tanto vale che me lo dica perché credo di poter già indovinare...»

La sua voce sommessa si ruppe in un urlo soffocato, e lei indietreggiò bar­collando. Il guinzaglio del cane lupo era scivolato tra le dita della cieca, e silenziosamente l’enorme cane si spingeva verso la ragazza spaurita. Barbee cercò di tenerlo lontano con un calcio, ma il cane lo superò, digrignando ferocemente i denti.

Barbee si girò fulmineo e afferrò il guinzaglio. La ragazza aveva alzato le braccia istintivamente. La sua borsetta di coccodrillo, scagliata lungo una pa­rabola fortuita, le salvò la gola dalle fauci rabbiose. Sempre ferocemente silenzioso, l’animale tentò di balzare ancora, ma Barbee stringeva ormai sal­damente il guinzaglio.

«Turk!», chiamò Rowena. «Turk, a cuccia!»

Docilmente, sempre senza un ringhio o un brontolio, il grande cane da pa­store trotterellò verso la sua padrona. Barbee restituì il guinzaglio alla cieca, che lo cercava brancolando con la mano, e Rowena si trasse accanto la be­stia, che aveva il pelo irto.

«Grazie, Will», disse calma. «Spero che Turk non abbia fatto male alla tua signorina Bell. Ti prego di farle tutte le mie scuse.»

Ma non rimproverò l’animale, notò Barbee. Il bestione restò immobile ac­canto alla gonna nera della donna; digrignando silenziosamente i denti, e fissava April con i minacciosi occhi gialli. Pallida e tremante, la ragazza si stava ritraendo verso la sala d’aspetto.

«Quel dannato cagnaccio!» Una donna piccola e magra, dal profilo sottile, si staccò dal gruppo più avanti e si mise a dire con voce querula: «Ha visto, signora Mondrick, che avevo ragione a consigliarle di non portarlo? Sta di­ventando feroce. Finirà per ammazzare qualcuno!»

La cieca accarezzò con calma la testa del suo cane; poi, preso il collare nella mano, passò le dita sopra le grosse borchie d’argento. A Rowena, ricordò Barbee, era sempre piaciuto straordinariamente l’argento.

«No, signorina Ulford», rispose dolcemente; «Turk è stato addestrato a di­fendermi, e io lo voglio sempre con me. Non si avventa mai su nessuno, a meno che non si tenti di farmi del male.» Tese ancora l’orecchio al rombo lontano. «Non è ancora atterrato l’aereo?»

A Barbee non era parso che April avesse fatto alcun gesto minaccioso. Stupito, tornò al fianco della ragazza dai capelli rossi, che stava accarezzan­do il gattino nero e gli mormorava dolcemente:

«Buono, buono, piccolino, quel cagnaccio cattivo non ci vuol bene, è vero, ma noi non abbiamo paura...»

«Sono dolente dell’accaduto», le disse Barbee impacciato. «Non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa simile.»

«Colpa mia, collega», gli sorrise April. «Non avrei dovuto portare il povero Fifi così vicino a quella specie di belva.» Gli occhi verdi lampeggiarono. «E grazie per averla trattenuta per il guinzaglio.»

«Turk non si è mai comportato così», rispose il giornalista. «La signora Mondrick ti fa le sue scuse...»

«Sì?» April Bell osservò di traverso la cieca, con occhi privi di qualsiasi espressione. «Non parliamone più. L’aereo sta atterrando, e tu non mi hai ancora detto nulla degli altri.» E accennò col mento al gruppetto di persone, da cui la signora Mondrick stava un poco appartata quando le si erano avvi­cinati.

«Quella donnetta piccola e magra è la signorina Ulford, governante di Ro­wena; ma siccome sta sempre male, è Rowena che praticamente la assiste.»

«E gli altri?»

«Il vecchio che si sta accendendo la pipa è Ben Chittum, nonno di Rex e suo unico parente. Ha un’edicola-libreria in fondo a Center Street, proprio di fronte al palazzo dello Star. È lui che ha permesso a Rex di fare l’universi­tà, finché Mondrick non gli ha procurato una borsa di studio.»

«E gli altri?»

«L’uomo infagottato in quel cappotto che gli tocca i piedi è il padre di Nick Spivak, e la donna bruna dalle arie regali è la madre. Hanno una sartoria a Brooklyn, e Nick è il loro unico figlio. Sono stati molto in ansia, da quando Nick è partito per la spedizione. Mi hanno scritto decine di lettere chieden­domi se sapessi qualche cosa. Hanno preso l’aereo stamane; forse Nick li ha avvertiti con un telegramma. Gli altri sono amici, colleghi dell’Istituto, il professor Fisher della facoltà di antropologia dell’università, e il dottor Bennett, che ha sostituito Mondrick durante la sua assenza.»

«Chi è quella bionda procace?», domandò April improvvisamente. «Se non sbaglio ti sta sorridendo.»

«È Nora», rispose Barbee a bassa voce. «La moglie di Sam Quain.»

Aveva conosciuto Nora la stessa sera in cui l’aveva conosciuta Sam, a una festa di studenti a Clarendon. Quattordici anni non avevano offuscato la luce cordiale dei suoi occhi; sorridente, ora, la matura madre di famiglia in attesa del marito appariva altrettanto entusiasta quanto la matricola di allora, ecci­tata dal primo contatto con il mondo universitario.

Barbee andò verso di lei con April Bell, e Nora a sua volta venne loro incontro, tenendo per mano la sua piccola Patricia, una bimba di cinque anni.

«Nora, ti presento April Bell, della redazione del Call. Attenta a quel che dici, perché ogni tua parola potrebbe essere citata sul giornale contro di te.»

«Barbee, che fama!», protestò April con una risatina un po’ leziosa. Ma quando gli occhi delle due donne s’incontrarono, Barbee ebbe la sensazione che stesse scoppiando un incendio. Con un sorriso angelico si strinsero la mano.

«Oh, cara, sono così felice di conoscerla!»

Si odiano, pensò Barbee, si odiano con tutta l’anima.

«Mammina!», esclamò la piccola Pat con calore, «voglio carezzare il micio!»

«No, tesoro, sii brava...»

Nora tirò verso di sé in gran fretta la bimba, ma la manina rosea s’era già tesa verso il gatto. Che, soffiando e ammiccando, graffiò fulmineo. Soffocan­do coraggiosamente un singhiozzo, Pat si strinse alla gonna della madre.

«Oh, signora Quain», gemette April Bell, «quanto mi dispiace!»

«Tu non mi piaci», dichiarò Pat in tono di sfida.

«Guardate», esclamò il vecchio Ben Chittum, tutto eccitato, indicando con la pipa un punto nella nebbia, oltre le vetrate. «Sta’ atterrando in questo momento!»

Tutto il gruppo uscì in gran fretta, seguito a qualche passo di distanza da Rowena Mondrick, fiera, diritta e silenziosa. Sembrava del tutto sola, sebbe­ne avesse al fianco la piccola signorina Ulford, che la guidava tenendola per un braccio; all’altro lato le camminava il suo gigantesco cane biondo. Barbee le lanciò un’occhiata, ma il pallore estremo del suo volto, che sembrava com­battuto tra la speranza e un terrore senza nome, lo costrinse a volgere in gran fretta gli occhi altrove. Si accorse di essere rimasto solo con April Bell.

«Fifi, sei stato molto cattivo», diceva la ragazza, accarezzando la testa del gattino. «Hai rovinato la nostra intervista!» E a Barbee: «Scusami, sai, per Fifi...».

«Niente di male», disse lui; «ma perché te lo sei portato dietro?»

Il verde di quegli occhi indescrivibili s’incupì ancora una volta fino a farsi quasi nero, mentre la loro espressione diveniva intensa, come se una paura segreta ne dilatasse le pupille. In quegli occhi, Barbee lesse una disperazione mortale, come se quella ragazza stesse giocando una partita difficile e ri­schiosa.

Ma ecco che, l’istante dopo, il volto della ragazza sorrideva di nuovo, men­tre lei aggiustava il nastrino rosso del micio.

«Fifi non è mio, ma della zia Agatha», spiegò. «Io per ora abito da lei. Oggi siamo uscite insieme, e siccome la zia doveva fare delle spese mi ha lasciato il gattino. Ma abbiamo appuntamento nella sala d’aspetto, qui. Vado anzi a vedere se è venuta, così potrò liberarmi di questa belvetta.»

Scappò via, e Barbee ne seguì con lo sguardo la figura esile ed elegante allontanarsi con passo elastico, pieno di grazia. Anche il suo modo di cammi­nare lo affascinava. Sembrava l’incedere di un animale selvaggio.

Si avvicinò a Nora Quain e al gruppetto presso il termine della pista di cemento, dove la sagoma confusa del grosso apparecchio passeggeri era cala­ta e si avvicinava rallentando. Barbee si accorse di sentirsi stanco, snervato: probabilmente da qualche tempo lavorava troppo. Ecco perché una ragazza, sia pure insolita come April Bell, poteva averlo turbato tanto.

Nora Quain distrasse la sua attenzione dall’aereo in arrivo per chiedergli:

«È importante per te quella ragazza?».

«L’ho appena conosciuta.» Barbee esitò, perplesso. «Ma mi sembra un tipo... insolito.»

«Cerca di non farla diventare importante», disse Nora, con un tono di im­plorazione insistente nella voce. «Quella ragazza è una...»

S’interruppe, come esitando a pronunziare la parola adatta per definire April Bell. Non sorrideva più, ora, e istintivamente la sua mano si tese a trarre la piccola Pat al suo fianco. Ma non pronunziò la parola.

«Davvero, Will», bisbigliò. «Ti prego!»

Il rombo dei motori le coprì la voce.

2.

Due inservienti dell’aeroporto attendevano con una passerella a ruote per la discesa dei passeggeri. Ma il grosso apparecchio, nero e incombente nella luce dei riflettori, s’era fermato a un centinaio di metri almeno. I possenti motori tacquero, e nel silenzio, tutti parvero tenere il fiato sospeso.

«Marck!» In quell’improvviso silenzio, la voce della signora Mondrick echeggiò come un grido di terrore. «Nessuno riesce a vedere Marck?»

Il gruppetto dei suoi amici corse avanti, verso la massa lontana dell’appa­recchio immobile. Barbee si fece vicino alla cieca.

«L’aereo si è fermato a una certa distanza», le spiegò, «non so perché; ma tuo marito e gli altri saranno qui da un minuto all’altro.»

«Grazie, Will.» Lei gli sorrise riconoscente, ma la sua ansia non pareva averla abbandonata. «Ho tanta paura per Marck! Conosco le sue teorie e so quello che Sam Quain ha trovato, scavando sotto la sua direzione in quell’an­tichissimo sepolcreto dell’Ala-shan, durante l’altra spedizione. Ecco perché ho cercato in ogni modo di non lasciarlo ritornare in Mongolia.»

Si volse bruscamente, tendendo l’orecchio.

«Ma dove sono, Will?», sussurrò. «Perché non vengono?»

«Non riesco a capire», rispose Barbee, anche lui preoccupato. «L’aereo è fermo laggiù, in attesa. Hanno messo la passerella, e si è aperta la porta, ma non scende nessuno. Ora c’è il dottor Bennett, dell’Istituto, che sale a bor­do.»

Tenendosi il cane vicino il più possibile, la cieca si volse ancora verso l’edifi­cio della stazione, tendendo l’orecchio.

«Dov’è quella tua amica?», domandò, sempre con voce tesa dall’ansia. «Quella che Turk ha allontanato?»

«Dentro l’edificio. Mi spiace che possa essere accaduto qualche cosa di spiacevole, Rowena. April è una ragazza deliziosa, ed ero sicuro che ti sareb­be piaciuta. Davvero, non riesco a vedere una ragione...»

«Ma una ragione c’è di sicuro. Altrimenti, Turk non l’avrebbe attaccata a quel modo. Turk sa...»

«Andiamo, Rowena, non ti sembra di esagerare nella tua fiducia in Turk?»

Le lenti nere della cieca parvero fissarlo con ostilità.

«Marck ha addestrato Turk a proteggermi», insistette in tono solenne. «E se Turk ha attaccato quella donna, è perché l’ha sentita ostile.» Le dita della cieca accarezzarono ancora una volta le borchie d’argento del collare del cane. «Ricordatene, Will. Non dubito che quella ragazza possa essere af­fascinante... certo! Ma Turk non si lascia mai ingannare!»

Barbee fece un passo indietro, a disagio. Si chiese se gli artigli del leopardo nero, strappandole gli occhi, non le avessero anche parzialmente leso il cer­vello. Le ansie di Rowena andavano molto al di là d’ogni ragionevolezza.

«Ecco Bennett», le fece con un sospiro di sollievo. «Ora anche gli altri scen­deranno con lui.»

Rowena trattenne il fiato, e attesero in silenzio. Solo Barbee, tuttavia, pote­va vedere Bennett: e se la sua voce era tranquillizzante, il viso rabbuiato pareva smentirla, quando l’uomo li ebbe raggiunti.

«Stanno tutti bene, signora Mondrick», disse. «Si stanno preparando a scen­dere, ma credo che dovremo attendere ancora un po’.»

«Ma perché?»

«Suo marito, a quanto pare, ha scoperto cose di straordinaria importanza, e vuole fare una dichiarazione pubblica sui risultati della sua spedizione prima ancora di uscire dall’aeroporto.»

«Oh, no!», esclamò Rowena, al massimo dell’angoscia. «Non deve!», sin­ghiozzò. «Non glielo permetteranno.»

Bennett aggrottò la fronte lievemente stupito.

«Non vedo che cosa ci sia di preoccupante in una dichiarazione sui risultati d’una spedizione scientifica», disse. «Le assicuro, signora Mondrick, che non c’è il minimo pericolo. Il professore mi è parso forse un po’ troppo sollecito riguardo a non so quale intoppo, tanto che mi ha pregato di chiamare la polizia, per proteggere i membri della spedizione e i reperti fino a quando la dichiarazione non abbia avuto luogo.»

Rowena scosse la fiera testa candida, come dubitando della protezione di cui poteva essere capace la polizia.

«Cosa potrà mai fare la polizia!», disse con voce esasperata. «La prego, vada a dire a Marck...»

«Abbia pazienza, signora», la interruppe il signor Bennett, «ma debbo ese­guire immediatamente gli ordini di suo marito. Mi ha detto di far molto pre­sto... come se il minimo ritardo possa rappresentare un pericolo.»

«E ha ragione!» La cieca assentì cupamente. «Corra, allora.»

Barbee si mise a passeggiare lentamente nella sala d’aspetto, e a un tratto vide i capelli di fiamma di April Bell all’interno d’una cabina telefonica. Ma per quanto si guardasse intorno, non riuscì a scorgere alcuna vecchia signora che potesse ricordargli una zia Agatha qualunque. Bevve allora due tazze di caffè, senza riuscire a togliersi il freddo che aveva dentro, un gelo ben più molesto del vento tagliente. E quando udì il gracidio degli altoparlanti che annunciavano l’arrivo dell’aereo di linea, corse fuori per non lasciarsi sfuggi­re Walraven.

L’uomo politico si mise in posa come un imperatore romano davanti al fo­tografo dello Star,ma non volle fare dichiarazioni di sorta, quando Barbee cercò d’intervistarlo sul suo programma. In confidenza, e non per il giornale, disse a Barbee che intendeva studiare un programma di azione col suo vec­chio e grande amico Preston Troy. Invitò il giornalista a passare qualche volta nel suo studio d’avvocato a bere un bicchierino, ma per il momento non voleva fare dichiarazioni. Puntò ancora una volta in aria per il fotografo il mento appena abbozzato, e salì su un tassi.

Sarebbe stato Preston Troy a tracciare il piano d’azione, come Barbee sape­va benissimo, e a pagare il giornalista che avrebbe dovuto organizzare la campagna di stampa. La verità su Walraven, uomo di paglia nell’ambizioso programma politico di Preston Troy, sarebbe stata materia per una serie di articoli e rivelazioni sensazionali. Ma non per lo Star. Barbee tornò presso l’aereo di Mondrick.

Erano arrivate tre auto della polizia, e una mezza dozzina di uomini in uniforme stava scortando cronisti e fotografi verso il grosso velivolo. Due poliziotti si fermarono e si volsero per far indietreggiare la turba dei parenti e amici angosciati.

«Vi prego», stava quasi urlando Rowena Mondrick a un agente, «lasciatemi restare qui. Mondrick è mio marito ed è in pericolo. Devo restare qui, vicino a lui, per aiutarlo!»

«Mi dispiace, signora, ma è compito nostro proteggere suo marito, anche se non vedo quale pericolo possa minacciarlo. Tutti, meno la stampa, devono tornare davanti all’edificio della stazione.»

«Ma voi non potete sapere!», insistette la cieca in una specie di roco sussur­ro. «Voi non potete essergli di alcun aiuto...»

Senza ascoltarla, il poliziotto la condusse verso la stazione.

Pallida come una morta, Nora Quain riportò la sua piccola, che piangeva perché non le lasciavano vedere il papà, nella sala d’aspetto. Mamma Spivak emise un piccolo gemito e abbandonò la testa sulla spalla del piccolo marito. Il vecchio Ben Chittum sbatté la pipetta annerita quasi in faccia al poliziotto che lo andava sospingendo indietro:

«Mi stia a sentire, agente. Sono due anni che prego il Cielo che mio nipote torni vivo da quel maledetto deserto. E gli Spivak, qui, hanno speso più di quanto potessero permettersi per venire fin qua da New York in aeroplano. Per la miseria, sergente...».

Barbee gli strinse a mezz’aria il braccio tremante d’indignazione.

«Meglio aspettare con calma, Ben», gli disse. E il vecchietto zoppicò via dietro gli altri, brontolando e minacciando tra i denti.

Barbee mostrò alla polizia il tesserino di giornalista, si sottopose a una bre­ve perquisizione nell’eventualità che avesse armi nascoste e raggiunse gli altri cronisti radunati sotto l’immensa ala dell’apparecchio. Si trovò a un tratto April Bell accanto.

Il gattino nero doveva essere tornato dalla zia Agatha, dopo tutto, perché la borsetta di pelle era chiusa. La ragazza fissava l’apparecchio con un’intensità quasi morbosa, in attesa che la porta si aprisse. Parve sussultare, quanto sen­tì su di lei lo sguardo di Barbee, e volse di scatto verso di lui la massa fiam­meggiante dei capelli. Gli sorrise.

«Salve, cronista!», fece in tono allegro. «Qui sento l’odore di un servizio da prima pagina con titolo a sei colonne. Eccoli!»

Sam Quain precedette gli altri sulla passerella. Anche in quel primo istante d’intensa curiosità, Barbee si rese conto che era molto cambiato. Il volto deciso, dalla mascella quadrata, era riarso dal sole, i capelli biondi sembrava­no quasi bianchi, tanto erano stati calcinati. Doveva essersi rasato a bordo, ma l’abito kaki che indossava era logoro, spiegazzato, pieno di macchie. Sembrava stanchissimo, invecchiato molto più di due anni.

E c’era qualcos’altro.

C’era qualcos’altro, impresso sui tre uomini che lo seguivano scendendo la passerella. Barbee si chiese se non fossero tutti vittime di una malattia. Il volto pallido e massiccio di Mondrick, sotto il casco coloniale macchiato e pesto, era un ammasso di carne flaccida e tremolante. Forse la sua vecchia asma, o il cuore, lo avevano minato in quei due anni.

In un momento come quello, uomini della loro condizione, anche se malati, avrebbero dovuto sorridere; erano invece tutti terribilmente seri e accigliati, come rosi da una segreta angoscia.

Nick Spivack e Rex Chittum seguivano il vecchio Mondrick. Anche i loro abiti kaki erano logori e macchiati. Rex non poté non udire il saluto gridato­gli con voce tremante dal vecchio Ben Chittum in mezzo al gruppo di familia­ri, davanti all’edificio della stazione, ma non fece segno di risposta.

Lui e Nick portavano una cassa rettangolare, verniciata di verde, con attac­cate due maniglie di cuoio. Era rinforzata da molte fasce di metallo, e un grosso lucchetto la chiudeva. Sembrava pesantissima, tanto che i due uomini che la portavano parvero a un tratto perdere l’equilibrio.

«Attenti!», s’udì gridare la voce di Mondrick. «Ci mancherebbe altro che dovessimo perderlo proprio ora!»

L’antropologo corse accanto alla cassa e tese le braccia per aiutarli a rad­drizzarla. Non la lasciò fino a quando non fu portata sana e salva fino a terra; e, anche allora, non ne staccò la mano, mentre diceva ai suoi due colla­boratori di portarla verso il gruppetto dei giornalisti.

Quegli uomini avevano paura. Traspariva da ogni loro gesto. Non tornava­no come vincitori, ma come uomini condannati a fare qualcosa che li riempi­va di terrore.

«Sarei proprio curiosa di sapere che cosa hanno trovato», mormorò April, mentre i suoi occhi si socchiudevano, incupendosi.

«Non so; ma qualunque cosa abbiano trovata», rispose Barbee, «non sem­bra dar loro molta gioia. Un fanatico religioso potrebbe credere che i loro scavi li abbiano portati sull’orlo dell’inferno.»

«No», rispose la ragazza; «gli uomini non hanno tanta paura dell’inferno.»

Barbee s’accorse che Sam Quain lo stava fissando, e allora lo salutò con la mano. Senza sorridere, col duro volto abbronzato più ansioso che mai, Sam rispose con un lieve cenno del capo.

Mondrick si pose davanti ai fotografi, sotto l’ala dell’apparecchio. Partirono i lampi delle macchine fotografiche nel crepuscolo pieno di vento, mentre Mondrick attendeva che i suoi collaboratori lo raggiungessero. Se Nick, Sam e Rex avevano l’aria indurita e tesa fino alla ferocia, chiaramente Mondrick era un uomo distrutto. I suoi gesti stanchi e incerti, interrotti da scatti im­provvisi, rivelavano un sistema nervoso sulle soglie del collasso, e la sua fac­cia era come ossessionata.

«Signori», disse ai giornalisti, guardandosi intorno per accertarsi che i suoi tre collaboratori lo avessero raggiunto presso la cassa, «grazie per aver volu­to attendere. Vedrete che la vostra pazienza sarà ricompensata, perché», e qui parve a Barbee che la sua voce roca rivelasse una fretta esasperata, come se temesse di essere interrotto, «perché abbiamo qualcosa da rivelare al ge­nere umano.» S’udì il suo respiro ansimante. «Una terribile minaccia, signo­ri, che è stata nascosta, sepolta, soppressa per un fine perfidamente atroce.»

Fece un gesto col braccio, sussultante, che rivelava la disperata tensione che lo possedeva. «Il mondo deve essere avvertito», seguitò, «sempre che non sia troppo tardi. Per cui, fate bene attenzione a quanto sto per dirvi. Diffondete via radio le mie dichiarazioni, se vi è possibile. Fotografate i reperti e le prove che abbiamo portato dall’Asia.» Con lo stivale consunto, toccò la cas­sa. «Parlatene alla radio e sui giornali, stasera stessa, se potete.»

«Siamo qua per questo, professore», disse un cronista della radio, avvici­nandosi col microfono. «Facciamo una registrazione, e la manderemo in onda subito, se le sue dichiarazioni sono politicamente interessanti. Immagi­no che vorrà dirci il suo punto di vista sulla situazione cinese.»

«Abbiamo visto molte cose della guerra in Cina», rispose Mondrick solen­nemente, «ma non è di questo che voglio parlare. Quanto sto per dirvi è più importante di qualunque notizia di guerre; anzi, ci aiuterà a capire perché si combattono le guerre. Spiegherà molte cose che gli uomini non sono mai riusciti a capire, o di cui addirittura si è insegnato loro a negare l’esistenza.»

«Bene, professore.» Il radiocronista maneggiò ancora per qualche istante i suoi strumenti. «Parli pure.»

«Sto per dirvi...»

Lo studioso fu interrotto da un colpo di tosse, che lo lasciò col fiato mozzo per qualche istante. Si udì di nuovo il suo respiro faticoso, sibilante, e Barbee vide Sam Quain fissare il professore con espressione improvvisamente allar­mata. Gli offrì un fazzoletto, e Mondrick si asciugò la fronte, sudata malgra­do il soffio gelido del vento.

«Sto per dirvi cose che stenterete a credere, signori», riprese Mondrick, più rauco che mai. «Sto per dirvi d’un nemico occulto, segreto, di una tenebrosa congrega che trama e spia insospettata tra i veri uomini... un nemico na­scosto, infinitamente più insidioso delle cosiddette quinte colonne che si pro­pongono la rovina delle nazioni. Intendo parlarvi dell’avvento non inatteso del Messia Nero — il Figlio della Notte — la cui comparsa tra i veri uomini sarà il segnale di una spaventevole, mostruosa, incredibile rivolta!»

Mondrick, sfinito, ansimò ancora, rabbrividendo.

«Preparatevi a qualcosa di terribile, signori. Si tratta d’una cosa così terrifi­cante, che forse non riuscirete a credermi. Ma dovrete accettarla, come ho dovuto fare io, quando avrete visto anche voi gli oggetti che abbiamo portato da quei sepolcri preistorici trovati nel cuore del deserto di Gobi. Le nostre scoperte nell’Ala-shan risolvono molti enigmi. Noi», e i suoi occhi stanchi si volsero riconoscenti ai tre uomini intorno alla cassa cerchiata di ferro, «ab­biamo trovato la risposta a molti enigmi della scienza, la soluzione di misteri così ovvii, così impliciti nella nostra vita quotidiana, che la maggior parte di noi non è nemmeno consapevole della loro esistenza. Abbiamo trovato la risposta a una domanda che, forse, vi farà sorridere: perché, signori, nella nostra vita sembra che il Male predomini?»

La sua faccia plumbea s’era trasformata ora in una maschera di dolore.

«Non v’è parso a volte di scorgere una deliberata volontà malefica dietro le avversità? Non vi siete mai chiesti che cosa si nasconda sotto l’inguaribile discordia che divide il genere umano? Sotto le guerre, le lotte civili, l’oppres­sione? Leggendo le cronache dei giornali, non vi ha mai atterrito l’inesplica­bile, inutile mostruosità dell’uomo? Non vi siete mai soffermati a riflettere, talvolta, sulla tragica divisione entro voi stessi, scoprendo nel vostro subco­sciente abissi d’orrore?»

Seguì un altro violentissimo attacco di tosse. Come spezzato in due, Mondrick s’era fatto cianotico. Infine, si passò nuovamente il fazzoletto sulla fronte e riprese, con voce stridula, quasi squarciata.

«Non ho il tempo d’enumerare tutti i tenebrosi enigmi che caratterizzano la nostra vita, individuale e collettiva», ansimò, «ma una cosa ancora voglio dirvi!»

Scosso dalla sensazione di una mostruosa e velata tensione che s’andava acuendo, Barbee si guardò intorno con ansia. Un fotografo stava inserendo un nuovo rullino nella macchina. L’uomo della radio era tutto intento alla registrazione. Meccanicamente, gli sbalorditi cronisti stenografavano sui loro taccuini.

Al suo fianco, April Bell sembrava tramutata in una statua di ghiaccio. Pal­lidissima, stringeva con forza la cerniera della borsetta. I lunghi occhi fissava­no con le verdi pupille dilatate il volto tormentato di Mondrick. La loro in­tensità era impressionante. E in una frazione di secondo, Will Barbee capì con chiarezza una cosa che fino a quell’istante aveva più o meno inconscia­mente avvertito: April Bell gli faceva paura.

Dimentica di lui, la ragazza continuava a fissare Mondrick, movendo lenta­mente le labbra, stringendo la borsetta con una specie di convulsa ferocia, tanto che le dita sottili parevano artigli laceranti.

Mondrick pareva aver ritrovato abbastanza fiato da poter riprendere.

«Vi prego di credere, signori, che il mio non è un capriccio, un umore del momento. Ho cominciato a sospettare i fatti terribili che intendo portare a vostra conoscenza circa una trentina d’anni fa, quando una dolorosa espe­rienza mi fece pensare che tutta l’opera di Freud, con le sue rivelazioni sulla psicologia dell’inconscio, era soltanto una descrizione più o meno perfetta della mente e della condotta umane, più che una spiegazione del male che vediamo.

Svolgevo allora la mia attività di psichiatra, a Glennhaven. Abbandonai la professione, perché la verità che cominciavo a sospettare si faceva beffe di tutto ciò che m’era stato insegnato e mi faceva dubitare di tutti i miei sforzi per aiutare le menti turbate. Sfortunatamente, ebbi una discussione molto vivace col vecchio dottor Glenn, padre del Glenn che oggi dirige Glennha­ven, a proposito della dolorosa esperienza accennatavi prima. Mi volsi allora ad altri campi, alla ricerca di qualcosa che dimostrasse la fallacia di quanto sospettavo. Non trovai nulla. Continuai i miei studi all’estero, e infine accet­tai una cattedra all’Università di Clarendon. Cercai di penetrare il più pro­fondamente possibile nei segreti dell’antropologia, dell’archeologia, dell’et­nologia, ogni ramo della scienza che studiasse la vera natura del genere umano. A poco a poco, le mie ricerche mi rivelarono fatti che mi hanno dato la conferma della cosa più orrenda che l’uomo abbia mai dovuto temere.»

Mondrick fece una nuova pausa, per riprender fiato.

«Per anni ho tentato di lavorare da solo. Capirete tra poco che cosa signifi­casse questo, e quanto mi fosse difficile trovare chi potesse aiutarmi. Ho accettato la collaborazione della mia carissima moglie, perché era già a parte del mio segreto. Ciò le è costato la vista, e il suo immenso sacrificio mi ha provato che tutti i nostri timori erano giustificati. Ma alla fine ho trovato uomini degni della mia fiducia.» Il volto terreo di Mondrick tentò di sorride­re, e i suoi occhi ancora una volta si volsero a guardare Sam Quain, Nick Spivak e Rex Chittum con espressione affettuosa. «E li ho allenati a poco a poco a dividere...»

Spezzato nuovamente in due dai colpi di tosse e dalla difficoltà di respira­zione, il vecchio scienziato dovette essere sorretto da Sam Quain, finché il parossismo non si fu calmato.

«Perdonatemi, signori, sono purtroppo soggetto a queste crisi... Ma tutti questi preliminari sono necessari alla piena comprensione da parte vostra di ciò che devo dirvi.»

Sam Quain gli mormorò qualche parola all’orecchio, e Mondrick annuì stancamente.

«Ormai la nostra teoria era formulata», riprese lo scienziato, cercando pale­semente di affrettarsi. «Ma avevamo bisogno di prove, per avvertire e prepa­rare alla difesa l’autentico genere umano. La prova che cercavamo poteva esistere solo tra le ceneri del più remoto passato. Dieci anni fa abbandonai la cattedra, per frugare nelle antiche culle delle razze umane e semi-umane e trovare così la prova irrefutabile.

Vi lascio immaginare le difficoltà e i pericoli che abbiamo dovuto affronta­re: il tempo non mi consente di descriverveli. I mongoli Torgod hanno assali­to e saccheggiato più volte il nostro accampamento. Siamo stati sul punto di morire di sete prima e congelati poi. Quindi la guerra ci ha costretti a parti­re, proprio quando avevamo appena trovato i primi insediamenti pre-umani. Si sarebbe detto che i cacciatori delle tenebre sapessero che noi li sospetta­vamo, e cercassero di annientarci prima che potessimo accusarli. Il Diparti­mento di Stato non voleva farci ritornare laggiù. Il Governo cinese ha fatto di tutto per tenerci lontani. I Russi ci credevano spie... insomma, gli uomini e la natura ci sono stati avversi. Ma noi siamo riusciti a trovare ciò che cerca­vamo. E a portarlo in America da quei remoti nascondigli preumani.» Toccò ancora con la punta del piede la cassa. «È tutto qui», disse.

Per un istante Barbee incontrò gli occhi di Mondrick, e vi lesse l’angoscia di una gran fretta e di una paura mortale. Aveva capito il motivo di quel lungo preambolo; sapeva che Mondrick ardeva dal desiderio di parlare, di esporre i suoi fatti terribili l’uno dopo l’altro, ma che il timore di non essere creduto lo costringeva alla prolissità.

«Perdonatemi se tutte queste precauzioni possono sembrarvi inutili. Capire­te quando avrete saputo. E ora che siete in certo qual modo preparati a udire il resto, dovrò parlare con brutale precipitazione, esporvi i fatti alla rinfusa prima che me lo si impedisca.»

Il suo volto si contorse, percorso da un tremito.

«Perché un terribile pericolo ci minaccia, signori. Ognuno di voi... chiunque ascolti in questo momento le mie parole... si trova sotto la minaccia di un pericolo mortale. Pure, devo pregarvi di ascoltare... perché io spero ancora... che, diffondendo la verità... così largamente che non riescano più a uccidere tanto da soffocarla... sia ancora possibile sconfiggere la spaventosa congiu­ra.»

Mondrick ansimò ancora, piegandosi, rabbrividendo.

«Fu centomila anni fa...»

Soffocava. Le sue mani si levarono tremanti verso la gola, come per aprire una via al respiro. Un gorgoglio cupo gli risuonò nella strozza. La faccia stravolta, le mani ripiegate ad artiglio si fecero d’un azzurro cianotico. Cadde in ginocchio, afferrandosi alle braccia di Sam Quain, farbugliando parole inintelligibili.

«Ma è impossibile!» Barbee udì l’atterrito bisbiglio di Sam Quain. «Non ci sono gatti, qui!»

Barbee lanciò un’occhiata perplessa ad April Bell. La ragazza fissava anco­ra l’esploratore ansimante, che anelava una boccata d’aria. Dilatati nella luce ambigua del crepuscolo, i suoi occhi sembravano del tutto neri. Bianca come la sua pelliccia, la sua faccia era completamente priva di espressione.

Gatti? La borsetta era chiusa e non poteva, così sigillata, contenere un gat­to, per piccino che fosse. Rabbrividendo al freddo vento dell’est, Barbee volse nuovamente lo sguardo su Mondrick. Sam Quain e Nick Spivak avevano disteso l’infelice scienziato supino, con la giacca ripiegata di Quain sotto il capo. Ma Rex Chittum era rimasto vicino alla cassa, gli occhi vigili, come se il suo contenuto fosse più importante dell’agonia del vecchio esploratore.

Perché Mondrick, era ormai chiaro, stava morendo. Le sue mani anna­sparono per l’ultima volta nell’aria, e ricaddero. La faccia livida si rilassò, immobile. Dopo un ultimo, disperato brivido, il corpo giacque per sempre. Strangolato, come dal cappio di un boia.

I lampi dei fotografi si fecero intensissimi, mentre la polizia tratteneva i giornalisti che si spingevano innanzi. Qualcuno urlò per chiamare l’ambulan­za, ma ormai Mondrick era morto.

«Marck!»

Barbee udì l’urlo acutissimo. Vide la moglie cieca di Mondrick staccarsi dal gruppo presso il terminal e correre verso di loro, l’enorme cane al fianco, veloce e dritta come se vedesse. Uno degli agenti cercò di fermarla, ma do­vette ritrarsi davanti alle zanne di Turk. La cieca giunse presso il corpo del marito e gli si inginocchiò accanto, sfiorandogli il volto devastato, le mani stanche con dita disperatamente indagatrici. La luce cadde sugli anelli e i braccialetti d’argento, rifulgendo nelle lacrime che scorrevano dalle vuote occhiaie martoriate dietro le lenti.

«Marck, povero caro! Perché non hai voluto che venissi con Turk a proteg­gerti? Non li hai visti stringersi attorno a te?»

3.

Sam Quain fissava senza vederlo il corpo dell’uomo disteso per terra. In maniche di camicia, sotto la sferza di quel gelido vento, rabbrividiva, anche se non sembrava accorgersene. Non parve nemmeno accorgersi del pesante cappotto che Barbee s’era tolto per gettarglielo sulle spalle.

«Grazie, Will», disse poi, sempre con la mente chi sa dove. «Deve far fred­do.»

Trattenne per un istante il respiro e poi si rivolse ai giornalisti.

«Un grosso titolo per voi, signori», disse calmo, con voce lenta, trasognata. «La morte del professor Lamarck Mondrick, famoso antropologo ed esplora­tore. Vi prego di fare attenzione alla grafia: il professore teneva in modo particolare alla c di Lamarck.»

Barbee gli strinse un braccio.

«Che cosa lo ha ucciso, Sam?»

«Morte dovuta a cause naturali, dirà il magistrato», rispose Quain con la stessa voce quasi indifferente, ma Barbee lo sentì irrigidirsi. «Soffriva d’asma da parecchi anni. Quando ci trovavamo ancora laggiù, in Mongolia, mi disse che sapeva di essere malato di cuore, di averlo sempre saputo. E la nostra spedizione non è stata davvero una passeggiata, soprattutto per un uomo della sua età, e per giunta malato di cuore.»

Barbee guardò il corpo immobile ai loro piedi e la donna vestita a lutto che singhiozzava silenziosamente.

«Dimmelo, Sam... che cosa voleva dire Mondrick quando ha avuto l’attac­co?»

Sam Quain inghiottì con uno sforzo. I suoi freddi occhi azzurri evitarono lo sguardo del giornalista, frugarono le ombre del crepuscolo, tornarono a fis­sare gli occhi dell’antico compagno d’università. Alzò le spalle, quasi cercas­se di scrollarsi di dosso l’orrore che gravava su di lui come una cappa.

«Niente», mormorò con voce rauca, «niente del tutto.»

«Niente?», ripeté la voce dura di un altro giornalista alle spalle di Barbee. «E tutte quelle precisazioni sui pericoli misteriosi? sul Figlio della Notte e il Messia Nero? Scherziamo, Quain?»

La faccia triste di Sam Quain tentò di sorridere.

«Il professor Mondrick amava le espressioni figurate e non trascurava mai di dare un certo tono drammatico alle sue dichiarazioni. Il suo Figlio della Notte è, con ogni probabilità, una figura retorica, una personificazione, for­se, dell’ignoranza umana.» Indicò col mento la cassa. «È là dentro che si trova materia per brillanti servizi giornalistici, signori, ammesso che le teorie sull’evoluzione umana rappresentino ancora notizie sensazionali per i quoti­diani. Il minimo particolare sulle origini del genere umano è del massimo interesse per scienziati come Mondrick, ma non per il profano, a meno che non lo si drammatizzi romanticamente.»

Un’ambulanza venne a prendersi il corpo di Mondrick, mentre la vedova dava al marito l’estremo addio e tutt’intorno s’accendevano i lampi dei foto­grafi.

«Quali sono ora i vostri progetti, signor Quain?», domandò un uomo vestito di nero e dal profilo d’avvoltoio, cronista scientifico di un’agenzia giornalisti­ca. «Quando ci darete il resto delle dichiarazioni interrotte così tragicamen­te?»

«Oh, ci vorrà del tempo», rispose Quain, battendo le palpebre alla luce vivida dei lampi. «Noi tutti suoi collaboratori, vedete, eravamo dell’opinione che le dichiarazioni del professore fossero premature. Gli oggetti che abbia­mo portato dall’Ala-shan dovranno essere studiati lungamente in laborato­rio, insieme con gli appunti e gli scritti di Mondrick, prima di renderli di pubblica ragione. A suo tempo, la Fondazione pubblicherà una monografia in merito. Ci vorrà un anno. Forse due.»

Un mormorio di delusione si levò dal gruppo di giornalisti in ascolto.

«Comunque, non si torna al giornale del tutto a mani vuote», fece un croni­sta. «Mi sembra già di vedere i titoli di domani: Maledizione preistorica uccide violatore di sepolcri. »

«Pubblicate quel che volete», disse Quain, guardandosi intorno con quella che a Barbee non sfuggì essere segreta apprensione. «Ma spero che tutti sarete generosi, scrivendo del professor Mondrick. Era un grande scienziato, anche se talvolta un po’ eccentrico. La sua opera, quando sarà pubblicata, lo porrà sicuramente tra i pochi eletti del pensiero scientifico, insieme con Freud e Darwin.» La mascella gli si indurì in un’espressione di testardaggine. «E questo è tutto quanto io... o i miei colleghi... abbiamo da dire.»

I fotografi accesero un ultimo flash in onore di quell’espressione testarda e cominciarono a riporre i loro aggeggi, il radiocronista fece riavvolgere il na­stro, dopo aver fatto sparire il microfono, e gli inviati dei giornali se ne tor­narono in redazione a scrivere un pezzo su un oscuro fatto inspiegabile.

In lontananza Barbee vide April Bell entrare nella sala d’aspetto. Evidentemente era filata via per telefonare il suo pezzo al Call. Ma Barbee aveva tempo fino a mezzanotte, quando si chiudeva la prima edizione del mattino, per cercar di risolvere il mistero della morte di Mondrick. Impulsivamente fece un passo avanti e afferrò Sam Quain per il braccio. L’esploratore si ritrasse con un sussulto e un grido soffocato da quel tocco improvviso, e poi riuscì con uno sforzo tormentoso ad abbozzare una specie di sorriso. Chi non sarebbe stato nervoso dopo prove così tragiche? Barbee lo trasse da parte, verso la coda dell’enorme aeroplano silenzioso.

«Che cosa c’è sotto questa tragedia, Sam? Agli altri hai potuto darla a bere, non a me. Mondrick parlava sul serio, non per simboli. E anche voi eravate terrorizzati. Di che cosa avete tanta paura?»

Gli occhi azzurri di Sam Quain lo fissarono, scrutandolo, come per scoprire, stanare non si sa che mostruoso nemico. Sam Quain rabbrividì, stringendosi intorno al corpo il cappotto non suo, ma fu con molta calma che la sua voce stanca e paziente rispose:

«Avevamo tutti paura che accadesse proprio quanto è avvenuto. Sapevamo quale fosse lo stato di salute di Mondrick. E poi, in aereo, siamo dovuti salire ad alta quota, date le condizioni meteorologiche infami, e quell’altezza deve avergli affaticato il cuore...».

Barbee scosse il capo.

«No, Sam, queste spiegazioni non reggono. Voi tutti avete paura di qualco­sa che non aveva nulla a che vedere col mal di cuore.» Strinse ancora l’esplo­ratore per il braccio. «Non ti fidi di me, Sam? Siamo sempre amici, no?»

«Che sciocchezze, Will!» Quain cominciava a spazientirsi. «Mondrick, a dire il vero, non sembrava fidarsi molto di te, e non ha mai voluto dirmene il motivo... del resto, erano ben poche le persone di cui si fidasse... Ma natural­mente noi siamo sempre amici, si capisce!»

Alzò ancora le spalle, a disagio, e i suoi occhi si posarono con espressione smarrita sulla cassa, presso la quale Spivak e Chittum continuavano a montar la guardia.

«Ora devo andare, Will. Ho troppe cose da fare, con quello che è succes­so...» Si tolse il cappotto, rabbrividendo. «Grazie, Will. Tu ne hai bisogno e io ho il mio a bordo. Scusami ora.»

Barbee si riprese il cappotto.

«Ma come!», fece sbalordito. «E tua moglie e la tua bambina? Avete tutti e tre le vostre famiglie a pochi passi di distanza, e non potete trovare un mo­mento per salutarle?»

Un’espressione di muto tormento passò negli occhi di Quain. «Abbraccere­mo i nostri cari appena potremo, Will.» Si mise a frugare tra un mucchio di bagagli e di casse ch’era stato appena scaricato dall’apparecchio, finché non ebbe trovato un vecchio giubbotto di pelle. «Gran Dio, Will», mormorò con voce sorda, «tu dirai forse che non siamo più nemmeno umani. Sono due anni che non vedo mia moglie e mia figlia... ma prima dobbiamo occuparci della cassa di Mondrick.»

«Un momento!», disse Barbee, trattenendolo per il braccio. «Un’ultima do­manda.» Abbassò la voce, per non farsi udire dagli uomini che stavano scari­cando l’aeroplano. «Che cosa c’entrano i gatti con la morte di Mondrick?»

«Eh?» Barbee sentì il braccio di Quain tremare. «Gatti?»

«Sì, gatti.»

Quain s’era fatto pallidissimo, ma rispose: «Ho sentito Mondrick mormora­re, quand’era già in agonia, qualcosa a proposito di un gatto, ma non ne ho visto nessuno».

«Ma perché», insistette Barbee, «doveva pensare a un gatto, proprio in quel momento?»

Gli occhi di Quain lo scrutarono ancora, sotto le palpebre socchiuse.

«L’asma di Mondrick era d’origine allergica», mormorò Quain. «Un’allergia al pelo di gatto. Non poteva entrare in una camera dove fosse stato un gatto senza avere una crisi. Will, hai visto per caso un gatto?»

«Sì, un gattino nero.»

Vide Quain irrigidirsi e, nello stesso istante, April che s’avvicinava, con un passo lungo, armonioso ed elastico, come uno splendido gatto selvatico. La giovane incontrò gli occhi ansiosi di Barbee e gli sorrise allegramente.

«Dove?», sussurrò con impazienza Quain. «Dove hai visto dei gatti?»

Barbee fissò i lunghi occhi di April Bell e qualcosa, dentro, gli disse di non rivelare a Sam Quain che era stata proprio quella ragazza dai capelli rossi a portare un gatto. In April c’era una forza che lo faceva rimescolare e lo trasformava in un modo che preferiva non analizzare. A voce bassa, in gran fretta, rispose di malavoglia:

«Laggiù, dietro il terminal, qualche minuto prima che arrivassero gli aerei. Non ho visto dove sia andato a finire».

Gli occhi di Quain s’erano fatti ostili e sospettosi. Aprì la bocca come per fare un’altra domanda, ma si frenò con una specie di singulto quando si vide April Bell accanto. A Barbee sembrò che si rannicchiasse su se stesso, come un lottatore davanti a un avversario temibile.

«Dunque, lei è il signor Quain!», cinguettò la ragazza dolcemente. «Vorrei chiederle solo una cosa, se non le dispiace... per il Clarendon Call. Che cosa contiene quella cassa verde?» E indicò con lo sguardo il cassone cerchiato di ferro, presso il quale i due uomini stanchi erano sempre di guardia. «Una palata di diamanti? I progetti completi di un nuovo tipo di bomba atomica?»

Saldamente in equilibrio come un pugile sulla punta dei piedi, Sam Quain rispose con voce calma: «Nulla di così interessante, purtroppo, o per lo meno nulla che possa interessare i lettori di un quotidiano. Roba che, se la trovaste per terra andando a spasso, non vi chinereste a raccogliere. Vecchie ossa. Frammenti di anticaglie buttate via come inservibili ancor prima che la storia dell’umanità avesse inizio».

Lei scoppiò a ridere, discreta:

«Abbia pazienza, signor Quain. Ma se la vostra cassa non contiene nulla di valore, allora perché...».

«Voglia scusarmi», la interruppe Quain bruscamente. April lo prese per il braccio, ma l’uomo si svincolò abilmente e si allontanò a passo rapido verso la cassa, dove i due uomini lo stavano aspettando.

«Forse in quella cassa non c’è nient’altro che quello che ha detto», sussurrò April Bell all’orecchio di Barbee, «ma sembrano tutti disposti a dare la vita, come ha fatto Mondrick, per difenderla. Non sarebbe buffo», aggiunse poi quasi in un sospiro, «se lo facessero?»

«Buffo, forse, ma non molto divertente», mormorò Barbee.

Ancora una volta fu attraversato da un brivido. Si allontanò di un passo o due dalla ragazza, perché a un tratto si accorse che non voleva essere toccato da quella pelliccia bianca. Continuava a pensare al gattino. C’era una pos­sibilità, tutt’altro che piacevole, che quella ragazza dai capelli rossi fosse un’assassina estremamente abile. Quasi automaticamente i suoi occhi cerca­rono la borsetta di pelle che aveva contenuto il gattino, e videro che non c’era più. La ragazza parve seguire il suo sguardo, e bruscamente si fece pallidissima:

«La mia borsetta!», gridò, allargando le belle mani vuote. «Devo averla la­sciata in qualche posto, nella fretta di telefonare il servizio. Me l’ha regalata la zia Agatha, e devo assolutamente ritrovarla... c’è un ricordo di famiglia, una spilla di giada bianca. Vuoi aiutarmi a cercarla, Barbee?»

Frugarono dappertutto, dal punto dove s’era fermata l’ambulanza alle cabi­ne telefoniche, senza trovare la borsetta: il che non lo stupì affatto. Si sareb­be stupito, invece, se l’avessero trovata. Alla fine April guardò un orologino incrostato di piccoli diamanti.

«Rinunciamo, Barbee», disse, senza troppo rammarico. «Grazie infinite, ma vedrai che non l’ho perduta, l’avrò lasciata alla zia Agatha, quando le ho ridato Fifi.»

Barbee cercò di non inarcare le sopracciglia, ma continuava a sospettare che la zia Agatha fosse del tutto immaginaria. Ricordava d’aver visto la bor­setta, che le mani della ragazza stringevano convulse mentre Mondrick ago­nizzava, ma non lo disse. Non capiva April Bell.

«Grazie ancora, Barbee», fece lei. «Ora devo telefonare in redazione. E perdonami, se il mio servizio oscurerà il tuo.»

«Se volete tutta la verità, leggete lo Star »,sorrise Barbee citando lo slogan del suo giornale. «Io ho ancora tempo fino a mezzanotte per scoprire il con­tenuto di quella cassa verde e perché Mondrick è morto quando è morto.» Si fece serio, e inghiottendo la saliva: «Quando... quando possiamo rivederci?»

Sentiva il bisogno prepotente di rivederla... forse perché temeva davvero che avesse ucciso Mondrick, o invece perché sperava con tutta l’anima che fosse innocente? Per un istante un’ombra di perplessità le corrugò la fronte. Barbee respirò ancora quando la vide sorridere.

«Quando vuoi, Barbee», rispose con estrema dolcezza, «se lo desideri.»

«Questa sera a cena, allora?», disse subito Barbee cercando di non mostra­re la sua emozione. «Va bene per le nove? Prima voglio scoprire che cosa Quain e compagni intendono fare col loro misterioso cassone, e poi devo scrivere il pezzo.»

«Le nove? Benissimo», rispose lei. «Adoro la notte. E poi, anch’io voglio tenere d’occhio quella cassa.»

Gli occhi della ragazza s’erano volti a guardare gli stanchi esploratori che cautamente caricavano la loro cassa sulla macchina del dottor Bennett. Il gruppetto dei familiari, un po’ in disparte, osservava la scena, stupito e rattri­stato. Barbee toccò la pelliccia immacolata di April e rabbrividì nel vento gelido. «Alle nove, dunque?», disse ancora. «Dove?»

April sorrise bruscamente, inarcando le sopracciglia con una punta d’ironia.

«Questa sera stessa, Barbee?», gorgheggiò. «Nora penserà che tu abbia per­duto la testa.»

«Forse l’ho perduta.» Toccò la pelliccia, e cercò di non rabbrividire. «Sono scombussolato anch’io: Rowena Mondrick mi è sempre amica, anche se suo marito non ha più voluto esserlo. Ma Sam Quain si prenderà cura di tutto. Spero che tu voglia cenare con me stasera, April.»

E spero, aggiunse a se stesso, che finirai per dirmi perché hai portato qui quel gattino nero e perché hai avuto il bisogno di inventare la zia Agatha e se avevi qualche motivo di desiderare la morte di Mondrick.

«Vedrò di venire», promise la ragazza. «Ora devo sbrigarmi... ho da telefo­nare in cronaca e poi bisognerà che avverta la zia Agatha.»

Scappò via con l’elasticità e la grazia d’una creatura dei boschi, mai domata. Will la vide entrare in una cabina telefonica sbalordito che una donna potes­se sconvolgerlo tanto. La carezza della sua liquida voce indugiava ancora entro di lui.

Il giovane trasse un profondo sospiro, abbassò il viso e strinse i pugni. Si pentì d’aver bevuto tanto whisky in quegli ultimi tempi e di non essersi preso abbastanza cura di sé. Intravvide il biancore della pelliccia di April, oltre il vetro della cabina, e rabbrividì ancora. Si allontanò. Che effetto ti farebbe,si disse, scoprire che quella rossa sirena è una volgare assassina?

Il dolore che si vedeva sulla faccia grinzosa e rinsecchita del vecchio Ben Chittum lo spinse a dire: «Vieni con me, Ben. Ho la macchina qui fuori, ti porto io in città».

«Grazie, Will, non preoccuparti.» Il vecchio riuscì a mettere insieme un sor­riso. «Rex tornerà a prendermi, quando avranno messo al sicuro quella cassa a casa di Sam.»

Il gruppetto dei familiari, abbandonato a se stesso dagli esploratori spariti con la cassa sulla macchina di Bennett, si aggirava malinconicamente nella sala d’aspetto. Barbee vide Nora che piangeva, e la piccola Pat cercava di consolarla.

Si volse a guardare se April fosse sempre nella cabina telefonica, poi seguì un’ispirazione improvvisa. Era lo stesso genere d’ispirazioni che lo avevano aiutato a scoprire cento nuovi indizi per rivelazioni sensazionali, quello che Preston Troy chiamava il requisito essenziale del vero reporter: aver «fiuto per le notizie». Una volta ne aveva parlato al dottor Glenn, e l’affabile psi­chiatra gli aveva risposto che quella facoltà non era che frutto di ragiona­menti logici, in atto sotto il livello della mente cosciente.

Si diresse rapidamente verso l’enorme cassone dei rifiuti, dietro l’edificio, e si mise a frugare tra giornali sporchi, cestini da viaggio vuoti e un cappello di paglia sfondato.

Sotto il cappello di paglia, Will Barbee trovò la borsetta di pelle di cocco­drillo.

I due capi di un nastro rosso pendevano fuori della cerniera, gualciti e con­torti come se fossero stati stretti, avvolti intorno a dita convulsamente tese. Barbee aprì la borsetta e trovò il corpicino senza vita del micio nero della zia Agatha. Il nastro rosso, legato a nodo scorsoio, era ancora stretto intorno al collo del gattino, e con tanta forza che la povera bestiola era stata quasi decapitata.

Una goccia di sangue, sulla fodera di seta bianca della borsetta, fece scopri­re a Barbee qualche altra cosa.

Nello spostare col dito il corpicino, il giornalista sentì sotto il polpastrello un oggetto duro e liscio, sepolto nel pelame della bestiola. Lo trasse fuori con cautela, ed emise un lieve sibilo quando lo esaminò alla luce che veniva dal terminal. Era il ricordo di famiglia che April aveva dato per perso, la spilla di giada bianca. La parte ornamentale era lavorata in modo da rappre­sentare un piccolo lupo in corsa, dai verdi occhi di malachite. Il lavoro era delicato e realistico: il minuscolo lupo appariva esile e pieno di grazia, come la stessa April.

Il fermaglio dietro la figura era aperto e il robusto spillone d’acciaio era stato piantato nel corpo del gattino. Una goccia di sangue nerastro lo seguì, quando Barbee lo trasse fuori. La punta, si disse il giornalista, doveva aver trafitto il cuore della povera bestiola.

4.

Barbee rammentava qualcosa di ciò che aveva imparato anni prima alle le­zioni di Mondrick sulle pratiche di magia in uso presso l’umanità primitiva, ma non era uno studioso di quelle che sono chiamate comunemente scienze occulte. Non c’era bisogno di essere esperti, tuttavia, per stabilire che il gatti­no nero e il vecchio esploratore erano morti nello stesso istante e nello stes­so modo.

Quasi certamente era stata April Bell a uccidere il gattino. Lei intendeva dunque — ignara di quanto la morte di Mondrick potesse dipendere da quella nuova magia biochimica, tanto di moda, chiamata allergia — procurare la morte di Mondrick?

Barbee ormai non ne dubitava.

Il suo primo impulso fu di portare la borsetta col suo spiacevole contenuto a casa di Sam Quain; ma abbandonò subito l’idea. La magia poteva essere un soggetto eccellente per monografie di studiosi eclettici e originali come Mondrick, ma Quain sarebbe scoppiato a ridere all’ipotesi di una strega molto giovane, molto bella, molto chic, con le labbra dipinte da un rossetto alla moda e le unghie laccate, che si dava a pratiche di magia nera in una moder­na città degli Stati Uniti. Senza contare che il tono brusco e distante di Sam lo aveva un po’ offeso.

E, poi, sentiva una certa riluttanza a coinvolgere April Bell. Dopo tutto, non aveva nessuna prova che fosse stata la ragazza a uccidere il gatto. C’era­no tanti monelli, all’aeroporto, all’arrivo di ogni apparecchio di linea! Forse, esisteva anche la zia Agatha. Quella sera, a cena, pensò Barbee, avrebbe cercato di sapere quanto più potesse di quella strana ragazza.

Ripulì lo spillo col lupo di giada e se lo mise in tasca, dopo aver gettato di nuovo la borsetta tra i rifiuti del bidone.

Uscendo dalla cabina telefonica, April Bell se lo trovò davanti, in attesa. La ragazza aveva il volto animato, gli occhi lucenti, forse per la soddisfazione di aver concluso il suo primo servizio importante. Certo, non aveva l’aria di un’assassina.

«Finito?», le disse Barbee, e indicando col mento il parcheggio, fuori, dove lo attendeva il suo vecchio macinino: «Posso accompagnarti in città?»

«Grazie, ma anch’io ho fuori la macchina.» Parve trattenere il fiato per un istante. «Zia Agatha aveva un bridge ed è tornata in città con l’autobus.»

«Oh.» Il giornalista cercò di nascondere il suo disappunto, nonché i suoi dubbi sull’esistenza della zia Agatha. «E questa sera, poi, ci si vede?»

«Ho telefonato alla zia, che ha detto di non avere nulla in contrario», ri­spose lei con un sorriso così gaio che gli riscaldò il cuore.

«Magnifico!», disse. «Dove abiti?»

«Al Trojan Arms, appartamento 2-C.»

«Oh!» non poté fare a meno d’esclamare Will Barbee. Il lussuoso residence era un’altra delle grosse imprese finanziarie di Preston Troy, e Barbee aveva dovuto parlarne più volte, elogiativamente, sul giornale. L’appartamento più economico, sapeva, non costava meno di 200 dollari al mese. April Bell gua­dagnava benino, a quanto pareva, per essere una cronista ai primi passi; a meno che, naturalmente, la zia Agatha fosse non solo reale, ma anche milionaria.

«Dove mi porterai?», domandò la rossa April.

«Al “Knob Hill”, ti va?», propose lui, sebbene quel ritrovo notturno subur­bano fosse davvero troppo costoso per cronisti sul ruolino stipendi dello Star.

«Delizioso!», cinguettò la ragazza.

L’accompagnò, nel vento notturno, verso la sua macchina, una lunga con­vertibile marrone, che non poteva costar meno, calcolò lui, a disagio, di 4000 dollari. Erano pochi i cronisti che potevano permettersi simili lussi. Ma forse anche quella macchina era della zia Agatha.

Le aprì lo sportello e lei salì rapida ed elegante, nella sua pelliccia immaco­lata, come la minuscola scultura di giada che Will aveva in tasca. April gli prese per un istante la mano e il tocco delle sue dita fredde e forti fu per lui sconvolgente come la sua voce. Will dovette lottare contro la tentazione di baciarla, timoroso di sciupare ogni cosa. Ansava un poco. Assassina o no, April Bell era una ragazza che faceva girare la testa.

«Ciao, Barbee», gli disse in un sussurro. «Alle nove!»

Il giornalista se ne tornò in città nel suo vecchio catorcio e, sedutosi al suo tavolo nella lunga sala di cronaca dello Star,batté il pezzo. Scrivendo, s’ac­corse di pensare con simpatia alla tersa, impersonale obiettività del giornali­smo moderno.

Poi, risalito in macchina, andò a casa.

Aveva un appartamento di due stanze, oltre alla cucina e alla stanza da bagno, in una vecchia casa a due piani di Bread Street. Il quartiere era un po’ troppo vicino alla zona industriale, ma l’affitto era tutt’altro che caro e la padrona di casa non sembrava badare a quanto lui bevesse.

Fece il bagno, si rase e s’accorse di fischiettare allegramente, mentre cerca­va una camicia pulita e un abito che non fosse troppo sciupato per il Knob Hill.

Improvvisamente, udì squillare il telefono e corse a rispondere, con la pau­ra che fosse April Bell che lo avvertiva all’ultimo momento di non poter venire.

«Will?» Era una voce di donna, pacata ma intensa. «Ho bisogno urgente di parlarti.»

Non era April Bell, e quella sua paura improvvisa si dissipò. Era la voce limpida e serena della cieca moglie di Mondrick, una voce che non rivelava lo strazio che la donna doveva provare.

«Non potresti saltare in macchina e correre da me, Will? Subito?»

Il giornalista lanciò un’occhiata all’orologio. Il Knob Hill si trovava a circa quaranta isolati in fondo a Central Street, oltre il fiume, praticamente fuori della città. La vecchia casa dei Mondrick era a quaranta isolati, esattamente nella direzione opposta. E l’orologio segnava quasi le nove.

«Ora non posso, Rowena», balbettò goffamente. «Sono a tua completa di­sposizione, naturalmente, per qualunque cosa possa occorrerti. Verrò do­mattina o anche stasera stessa, ma più tardi, forse. Ora ho un impegno che non posso rimandare.»

«Oh!» Era un’esclamazione di doloroso stupore. Poi Rowena Mondrick do­mandò con dolcezza: «Esci con quella... ragazza?».

«Con April Bell.»

«Will, chi è?»

«Una giovane cronista alle sue prime armi in un giornale della sera. L’ho conosciuta stasera, non l’avevo mai incontrata prima. Turk non ha avuto l’a­ria di trovarla di suo gradimento, ma a me pare molto in gamba.»

«Non è possibile!», protestò la cieca, e poi, implorante: «Annulla il tuo im­pegno, Will! O almeno rimandalo di qualche ora, dopo che ti avrò parlato. Te ne prego, Will!»

«Non puoi immaginare quanto mi dispiaccia», rispose lui, terribilmente a disagio, «ma davvero non posso, Rowena.» Una punta di irritazione gli ina­sprì la voce, contro la sua volontà. «Anche se a te e al tuo cane non piace, per me è una ragazza interessante.»

«Quella ragazza non mi piace, è vero», rispose Rowena con calma, «e per un’eccellente ragione, che conto dirti appena verrai a trovarmi. Perciò ti pre­go di farti vivo il più presto possibile.»

Non avrebbe saputo dirle, lui, per quali e quante ragioni si sentisse attratto da April Bell; non le sapeva precisamente nemmeno lui. Ma un’onda di pietà per quella povera donna cieca e nuovamente colpita dalla tragedia lo spinse a dirle pentito:

«Stai tranquilla, Rowena. Verrò al più presto. Sii certa della mia amicizia».

«Stai attento, Will!», lo ammonì di nuovo la vecchia signora. «Guardati da quella donna, stasera. Perché sono certa che trama qualcosa contro di te, trama per farti del male, un male immenso!»

«Male a me? E in che modo?»

«Vieni a trovarmi domani e te lo dirò.»

«Dimmelo subito, ti prego», insistette lui, ma udì riattaccare il ricevitore. Allora riattaccò a sua volta, e rimase per qualche istante accanto all’apparec­chio a ripensare alle parole di Rowena.

La moglie di Mondrick era sempre stata d’umore bizzarro, per non dire strambo, da quando la conosceva. Solitamente calma e serena, piena di viva­cità e d’allegria con gli ospiti, talvolta abbandonava senza spiegazioni il pia­noforte e la compagnia dei suoi migliori amici, per starsene sola col suo enorme cane, carezzando gli strani monili d’argento che amava portare.

Stranezze che la tragedia africana giustificava pienamente e che ora la mor­te del marito, si disse Barbee, non avrebbe potuto che accentuare.

Il bar del Knob Hill era una saletta semicircolare dalle pareti di vetro, illu­minata da una luce rossastra, diffusa, al neon. L’effetto complessivo era lie­vemente conturbante, forse per confondere maggiormente le idee e spingere la clientela a bere di più. Le poltrone, di cuoio verde e metallo cromato, un po’ troppo angolose, erano più comode all’aspetto che nella sostanza.

April Bell gli lanciò il lampo del suo sorriso scarlatto da un minuscolo tavo­lo nero sotto un arco di vetro percorso da onde di rossa luce vibrante. La pelliccia bianca era gettata con noncuranza sulla spalliera di un’altra poltron­cina, e la ragazza aveva un’espressione di completo benessere sulla sua ango­losa poltrona, come se quell’atmosfera volutamente snervante le si confaces­se in modo particolare. Si leggeva infatti sul suo volto una soddisfazione qua­si felina.

Il suo abito da sera piuttosto provocante era d’un verde cupo che faceva risaltare il verde dei suoi occhi lievemente obliqui. Barbee non aveva pensato a mettersi un abito scuro, e per un istante si sentì a disagio nel suo vecchio vestito grigio, entro il quale il suo corpo magro ballava come un manico di scopa. Ma April non parve badarvi e lui dimenticò il suo disagio contemplan­do tutto ciò che la pelliccia bianca gli aveva tenuto nascosto. La liscia e com­patta carne di lei era quanto di più desiderabile potesse esservi al mondo; pure, Barbee non poté fare a meno di ricordare, a un tratto, l’avvertimento della cieca.

«Potrei avere un dacquari?», chiese April.

Barbee ordinò due dacquari.

Era seduto davanti a lei, ma il minuscolo tavolo li teneva così vicini, che poteva aspirare il sano profumo che emanava. Come ubriaco prima ancora di bere, trovò difficile ricordare il suo piano d’azione, e il sospetto di trovarsi di fronte a un’assassina. L’unica cosa che ora gli premeva era di piacerle, e non gli importava più di scoprire i motivi per cui avrebbe potuto volere la morte di Mondrick. Contemporaneamente, s’accorse di pensare a chi potesse es­sere il «nemico segreto» di Mondrick, in attesa che si manifestasse l’avvento del «Figlio della Notte».

April faceva forse parte di qualche segreto complotto spionistico? In quel torbido dopoguerra, in cui nazioni, razze, ideologie opposte si combattevano per sopravvivere e gli scienziati ponevano a servizio dell’odio internazionale i più sbalorditivi segreti del Creato, non era poi tanto difficile crederlo.

Forse, in Asia Mondrick e i suoi amici avevano scoperto le prove di questa cospirazione, e le avevano custodite gelosamente nella loro cassa cerchiata di ferro. Poi, consapevoli di un pericolo mortale che sapevano inevitabile, ave­vano cercato di avvertire il mondo; ma Mondrick era caduto vittima di quel pericolo prima di poter parlare...

Ed era stata April Bell a ucciderlo. E il micino nero doveva essere stato l’arma, per assurdo che ciò potesse sembrare.

I due dacquari vennero serviti e i denti bianchi della ragazza lampeggiarono in un sorriso sull’orlo del bicchiere. Barbee, scuotendo impercettibilmente il capo, le sorrise a sua volta, e toccò col suo il bicchiere della ragazza.

Una fattucchiera? Una maga? Una strega?

E con questo? Che c’entrava lui con l’assurda ipotesi che lei avesse cercato di uccidere con arti occulte il povero Mondrick, strangolando il micino nero? Che razza di superstizioni medievali gli stavano passando per la testa da qualche tempo?

Il fatto era che ne aveva piene le tasche della vita che la sorte gli aveva finora riserbata. Ottanta ore alla settimana in quel giornalaccio di Preston Troy, con una paga che gli bastava appena per l’affitto, i pasti e il whisky. Da parecchio tempo ne beveva quasi una bottiglia al giorno, di quello più a buon mercato. April Bell, anche se si credeva una strega, poteva rivelarsi qualcosa di molto meglio, capitato in quella sua sporca vita.

Lei lo guardò, mentre i loro bicchieri si sfioravano con un lieve tintinnìo; i suoi occhi enigmatici lo guardarono con una specie di fredda sfida beffarda.

«Dunque... Barbee?»

Lui si sporse innanzi sul minuscolo tavolino ottagonale.

«Alla nostra... serata!» La vicinanza fisica della donna gli toglieva quasi il fiato. «Ascoltami, April, ti prego... voglio sapere tante cose di te... voglio sapere tutto. Tutto quello che sei stata, tutto quello che hai fatto. Voglio sapere della tua famiglia, dei tuoi amici. Di che cosa sogni e che cosa ti piace la mattina a colazione.»

Le labbra rosse si piegarono in un sorriso ironico.

«Mi stupisci, Barbee... il mistero di una donna è quasi tutto il suo fascino.»

Non poté fare a meno di notare ancora una volta la bianca forza ferina dei suoi denti perfetti. Gli facevano venire in mente uno dei racconti sopranna­turali di Poe, la storia di un uomo ossessionato dai denti della donna amata. Cercò di scacciare dalla mente quell’inquietante associazione d’idee e alzò di nuovo il bicchiere. Un brivido inspiegabile glielo fece traballare fra le dita, e il pallido liquido gli spruzzò la mano.

«D’accordo, ma troppo mistero è preoccupante.» Depose il bicchiere con attenzione. «Perché ho veramente paura di te.»

«Davvero?» Stava osservando attentamente il modo con cui si puliva col fazzoletto le dita appiccicose di liquore. «Strano, perché sei tu, Barbee, quel­lo veramente pericoloso.»

Barbee abbassò gli occhi e bevve ancora, a disagio. La sua certezza di essere refrattario ai pericoli rappresentati dalle donne lo stava ormai definitivamen­te abbandonando.

«Vedi, Barbee, ho cercato di ammantarmi in una specie di velo illusorio. E tu mi hai fatto veramente felice mostrando di accettarlo. Ora, perché lo vuoi lacerare?»

«Voglio lacerarlo», disse lui con semplicità. «Ti prego, April, accontenta­mi.»

Un lampo parve scorrere sui suoi capelli di fiamma, mentre lei annuiva.

«E sia, Barbee», rise. «Per accontentarti lascerò cadere il mio velo dipinto.»

Depose il bicchiere e si chinò verso di lui, le braccia incrociate sul tavolo. La sottile fragranza del suo corpo gli salì alle nari, una fragranza sana di bosco, di felci, di foglie umide.

«Sono figlia di agricoltori», disse. «Sono nata in queste campagne, nella contea di Clarendon. I miei genitori avevano una piccola fattoria presso il fiume, subito dopo il ponte della ferrovia. Dovevo fare tutte le mattine un bel tratto di strada a piedi, per andare a prendere l’autobus che mi portava a scuola.»

Le sue labbra si piegarono in un lieve sorriso beffardo.

«Soddisfatto?», domandò poi. «Il velo è caduto abbastanza?»

Barbee scosse il capo.

«Per nulla», disse. «Ti prego di continuare, perché siamo ancora al punto di prima.»

April parve turbata.

«Ti prego, Will», disse dolcemente. «Preferirei non dirti altro di me... alme­no per questa sera. Quel velo è la mia corazza. Sarei completamente inerme senza, e forse nemmeno troppo simpatica. Non farmelo lacerare. Forse, dopo non ti piacerei più.»

«Ti assicuro che non corri pericoli di questo genere», e nella voce di Barbee c’era una nota aspra. «Ho bisogno che tu continui, perché ho ancora paura di te.»

La ragazza sorseggiò il suo dacquari, e intanto scrutava il volto magro del giovane dagli occhi tristi che le sedeva davanti. Sembrava anche lei, ora, in preda a una segreta tristezza.

«Ti avverto... si tratta di qualcosa di basso e doloroso.»

«Voglio saperlo, per conoscerti e apprezzarti meglio.»

«Speriamo», sospirò lei. Un’ombra impercettibile di disgusto le passò sul volto pallido. «I miei genitori non andavano d’accordo; e questo è il nocciolo di tutto, direi. Mio padre... ma non è il caso di portare alla luce troppi parti­colari sgradevoli. Avevo nove anni, quando mia madre mi portò con sé in California. Gli altri bambini rimasero con mio padre. È per nascondere que­sto triste sfondo che ho voluto creare il mio velo d’illusione.»

Vuotò il bicchiere nervosamente.

«Vedi, mio padre non passò più un soldo alla mamma per il nostro mante­nimento.» La voce della ragazza era piena d’amarezza. «Mia madre riprese il suo nome da ragazza. E si mise a lavorare. Domestica, commessa di negozio, stenografa, comparsa cinematografica, infine qualche particina più che se­condaria. Ma era stata una vita terribile per lei, e volle addestrarmi perché io potessi affrontare l’esistenza meno ingenuamente di lei.

La mamma non aveva molta stima degli uomini, e a ragione, direi. Volle dunque che io imparassi a proteggermi. E fece di me... insomma, diciamo una lupa.» I bei denti lampeggiarono in un sorriso assolutamente privo di allegria. «Ed eccomi qui, Barbee caro. La mamma riuscì a farmi arrivare all’università e a pagare un’assicurazione, così alla sua morte ebbi qualche migliaio di dollari. Quando quel gruzzolo sarà finito, se io farò come lei volle insegnarmi...»

Fece una piccola smorfia e cercò di sorridere.

«E ora hai il quadro completo, Will. Io sono uno spietato animale da pre­da.» Spinse il bicchiere vuoto da parte, bruscamente, in un gesto che non si capiva se fosse d’impaccio o di sfida. «E adesso ti piaccio ancora?»

A disagio sotto la penetrante acutezza di quegli occhi lievemente obliqui, Barbee accolse l’arrivo del cameriere con un senso di sollievo; e ordinò altri due dacquari.

«La squallida realtà dietro il mio povero velo squarciato», riprese April Bell, di nuovo lievemente beffarda, «ti ha fatto passare la paura che t’ispira­vo?»

Barbee si mise a ridere, ma a fatica.

«Come animale da preda», disse, «sei splendidamente equipaggiata. Vorrei solo che i cronisti dello Star fossero una preda pagata un po’ meglio. Ma», e la sua voce si fece grave, «c’è un’altra cosa che mi fa paura.»

La fissò, perché aveva avuto l’impressione precisa che il suo bel corpo sotti­le si fosse impercettibilmente teso, come dinanzi a un pericolo. I suoi occhi, che lo fissavano socchiusi, erano diventati quasi neri. Sembrava davvero una fiera rannicchiata là, dietro quel piccolo tavolo, minacciosa e vigile.

«Dunque?», disse. «Di che cosa hai paura?»

Barbee bevve d’un fiato il suo dacquari.

«April...», cominciò. E s’interruppe, perché ora il delicato ovale del volto che gli stava davanti aveva assunto una espressione remota, fredda, quasi ostile, e i verdi occhi s’erano socchiusi di nuovo, come se April sapesse già quello che lui stava per dire. «April», riprese il giovane, costringendosi a parlare, «è di ciò che è accaduto all’aeroporto.» Si chinò sul tavolo, verso di lei, e un lungo brivido lo percorse dalla testa ai piedi. La sua voce si fece ad un tratto dura, accusatrice. «Sei stata tu a uccidere il gattino nero, ho trovato il corpo della bestiola. E lo hai fatto per provocare la morte di Mondrick.»

S’era aspettato un violento diniego, una sbalordita mancanza di compren­sione delle sue parole, come se veramente il gatto fosse stato ucciso da qual­che monello, comunque una reazione battagliera. Ma era completamente im­preparato alla scena che si verificò. Perché April, copertasi il volto con le mani, i gomiti sul tavolino, piangeva ora silenziosamente, scossa da muti e violenti singulti.

Si sentì smarrito, stupido e inerte davanti a quelle lacrime che aveva provo­cato. Le lacrime lo avevano sempre reso impotente e infelice.

«April, ti prego...», balbettò, «davvero, non intendevo...»

Tacque, nel vedere il cameriere che si avvicinava con due altri dacquari e se ne andava con i due dollari del conto e i bicchieri vuoti.

«April», pregò poi, «perdonami, cara, ti chiedo scusa con tutto il cuore...»

La ragazza sollevò il capo e lo guardò silenziosamente attraverso il velo di lacrime che le colmavano gli occhi dal taglio orientale, quegli occhi che appa­rivano ora enormi, neri, solenni; e la sua testa di fiamma assentì due o tre volte, lentamente, in una conferma di stanca sconfitta.

«Dunque, tu sai», disse, in tono amaramente conclusivo.

«Io non so niente», si affrettò a ribattere lui. «So soltanto che tutto questo sta diventando un incubo, e ci sono troppe cose che non riesco a credere o a capire. Non volevo certo offenderti, April, ti scongiuro di crederlo. Tu mi interessi e mi piaci... molto, moltissimo. Ma... insomma, hai visto anche tu come è morto il povero Mondrick.»

April aveva aperto la borsetta di pelle verde per trarne un fazzoletto col quale ora si stava asciugando gli occhi. Poi si incipriò il volto, che le lacrime avevano devastato, e bevve deliberatamente il resto del cocktail. Ma Barbee vide che il bicchiere le tremava fra le lunghe dita sottili. Infine April alzò gli occhi su di lui e lo fissò con espressione triste e solenne.

«Sì, Will», disse lentamente, «mi hai scoperto. Credo che sia inutile voler cercare d’ingannarti oltre. La verità è dura a confessarsi e so che ti sconvol­gerà.»

Fece un’altra pausa, e infine pronunziò poche incredibili parole:

«Perché, vedi: io sono una strega, Will».

Barbee si levò a mezzo, sedette di nuovo e nervosamente trangugiò il suo dacquari. Guardò, battendo le palpebre, il volto triste e serio di April e scos­se due o tre volte il capo, non sapendo se offendersi per uno scherzo di cattivo gusto, o crederla una povera allucinata. Alla fine domandò col fiato mozzo:

«Si può sapere che diavolo dici?».

«Non te l’ho detto?», rispose lei con una specie di accorata mestizia. «Poco fa ti ho taciuto il motivo per cui mio padre e la mamma si divisero. Non sapevo come dirtelo. Ma fu questa la causa. Io ero una strega bambina, e mio padre se n’era accorto. La mamma lo aveva sempre saputo, e mi difese. Mio padre mi avrebbe ucciso, se non ci fosse stata lei. E per questo ci cacciò di casa.»

5.

Davanti agli occhi di Barbee l’atmosfera rossastra del locale notturno co­minciò a roteare. Per un istante il giovane credette di essere stato ipnotizza­to. Seguitò a guardare sbalordito la ragazza, che a voce bassa, quasi roca, non aveva cessato di parlare.

«Perché, vedi, la mamma era la seconda moglie di mio padre. Ed era di tanto più giovane di lui da poter essergli comodamente figlia. So che non lo amò mai, e a dire la verità non ho mai capito perché lo avesse sposato. Era un uomo d’istinti brutali e povero in canna. È un fatto, poveretta, che lei non aveva mai messo in pratica le norme che volle poi insegnarmi.»

Barbee cercò una sigaretta, aveva bisogno di far qualcosa con le mani, tale era la tensione che lo dominava. Offrì il portasigarette aperto alla ragazza, che rifiutò scuotendo il capo.

«Mio padre era un uomo terribilmente severo», seguitò April, dopo che Barbee ebbe acceso la sigaretta. «Un puritano all’antica, era nato a Salem, figurati, da un’antica famiglia di scozzesi fanaticamente religiosi. Sebbene non avesse ricevuto gli ordini, perché non era d’accordo del tutto con nes­suna congregazione religiosa, aveva l’abitudine di predicare la sua dura fede agli angoli delle strade e sulla piazza nei giorni di mercato: ovunque, insom­ma, potesse trovare qualche fannullone disposto ad ascoltarlo. Si considera­va un uomo pio, virtuoso, che cercava di tenere il mondo lontano dal pecca­to. In realtà, sapeva essere mostruosamente crudele. Con me lo fu.»

Un’ombra di quello che doveva essere stato il suo antico dolore le oscurò il bel volto.

«Ero una bambina molto precoce. Mio padre aveva altri figli dal suo prece­dente matrimonio, i quali non erano affatto precoci. A tre anni io già sapevo un poco leggere. Capivo la gente. In un certo modo, sentivo ciò che la gente avrebbe fatto e le cose che stavano per accadere. Mio padre non era affatto contento che io fossi più svelta dei miei fratellastri e delle mie sorellastre.»

Sorrise debolmente.

«E dovevo essere anche piuttosto bellina, almeno mia madre non si stanca­va di dirlo. Questo doveva avermi alquanto viziata. Di fatto, ero sempre in lite coi miei fratellastri, e mia madre mi dava ragione. Erano molto più gran­di di me, ma anche allora credo che fossi molto più svelta di loro nel trovare il modo di ferirli.

Inoltre, mio padre, che era bruno come mia madre, odiava i miei capelli rossi. Gli bastava guardarli per essere colto da vere e proprie crisi di furore. Non avevo più di cinque anni, quando mi chiamò per la prima volta “piccola strega” e mi strappò dalle braccia di mia madre per staffilarmi.»

I suoi occhi verdi erano ora asciutti e cupi. A Barbee sembravano duri come smeraldi, prosciugati da un odio antico come il mondo. E la sua voce som­messa e recisa faceva pensare ai venti crudeli che dovevano soffiare, fantasti­cò Barbee, sulle desolate distese dell’Ala-shan.

«Mio padre mi ha sempre odiato, e i miei fratellastri ancora di più: perché mi sentivano differente da loro; perché ero più graziosa delle femmine e più intelligente dei maschi; perché sapevo fare cose di cui erano incapaci. Sì... perché ero già una strega!»

Barbee scosse ancora il capo, incredulo e impaziente.

«Tutti erano contro di me... tutti, meno mia madre. Dovevo continuamente difendermi e restituire i colpi tutte le volte che mi se ne offrisse il destro. Sapevo delle streghe dalla Bibbia: papà ne leggeva un brano all’ora dei pasti e poi salmodiava un interminabile ringraziamento, prima di lasciarci mangia­re. Io volli sapere che cosa facessero le streghe. Mia madre mi disse qualcosa, ma molto di più seppi dalla vecchia levatrice che frequentava la nostra casa quando una delle mie sorelle sposate ebbe un bambino... era una vec­chia stranissima! A sette anni, avevo già cominciato a mettere in pratica le cose che avevo imparato.»

Barbee continuava ad ascoltare, quasi offeso che lei potesse crederlo capa­ce di prestar fede a simili assurdità e mezzo affascinato.

«Il primo incidente serio ebbe luogo quando avevo nove anni. Harry, uno dei miei fratellastri, aveva un cane chiamato Tige, che, per motivi che ignoro, non mi poteva vedere. Ringhiava appena cercavo di accarezzarlo, minaccioso come quel terribile cane di oggi. Altro segno, diceva mio padre, che ero una strega, mandata a infliggere l’ira del Signore sulla sua casa.

Un giorno, Tige mi azzannò e Harry si mise a ridere, dandomi della strega e minacciando di scatenarmi ancora contro il cane. Forse scherzava, non so, ma io vinta dall’ira mi lasciai andare a dirgli che gli avrei dimostrato che cosa può fare una strega. Gli promisi che avrei gettato un incantesimo sul suo cane e lo avrei fatto morire. Feci del mio meglio per mantenere la promes­sa.»

Socchiuse gli occhi, al ricordo, e le sue narici palpitarono un poco.

«Ricordavo tutto quello che la vecchia levatrice mi aveva detto. Inventai una specie di nenia sulla morte del cane e mi misi a mormorarla all’ora dei pasti. Raccolsi alcuni peli dalla sua cuccia, vi sputai sopra e li bruciai nella stufa della cucina. E attesi la morte di Tige.»

Barbee sentì il bisogno di attenuare la terribile tensione che sentiva emana­re dalla ragazza:

«Eri ancora una bambina», disse. «Giocavi, in fondo.»

«Tige divenne idrofobo la settimana dopo», disse lei tranquillamente, «e mio padre dovette ammazzarlo con una fucilata.»

Barbee si mosse a disagio.

«Una coincidenza», disse.

«Può darsi.» E negli occhi di April passò un’espressione beffarda. «Ma io non lo credo.» Ancora l’ombra di un antico dolore oscurò il pallido volto enigmatico. «Io credevo nel mio potere. Harry vi credeva anche lui, ormai. E anche mio padre ci credette, quando Harry gli disse della minaccia che avevo fatto a proposito del cane. Corsi dalla mamma, che stava cucendo, ma mio padre mi trascinò fuori di casa e mi frustò ferocemente!»

Le sue dita lunghe e affusolate presero il bicchiere e lo alzarono, tremanti, per poi deporlo di nuovo sul tavolo, senza averlo avvicinato alle labbra.

«Mio padre mi martirizzò, quella volta, e fu terribilmente ingiusto. Ma men­tre mi staffilava con tutta la sua forza, gli urlai che mi sarei vendicata. Appe­na mi lasciò andare, corsi pesta e sanguinante direttamente nella stalla dove, strappati un ciuffo di peli alle tre vacche migliori e al toro che mio padre aveva appena comprato per la monta, vi sputai sopra, li bruciai con un fiam­mifero e sotterrai il mucchietto di cenere dietro la stalla. Poi feci un’altra cantilena.»

April fissava lo sguardo davanti a sé, attraverso il fumo rossastro della sala.

«Dopo una settimana il toro morì, e il veterinario disse che si era trattato di setticemia emorragica. Anche le tre vacche morirono, insieme con la miglior giovenca d’un anno e due giovani buoi. Mio padre ricordò le minacce che avevo gridato sotto la sferza e Harry disse di avermi visto scavare dietro la stalla. Allora mio padre mi frustò fino a quando dovetti confessare.»

Bruscamente, con la rapidità morbida ed elegante di un felino, April bevve il cocktail d’un fiato. Le sue pupille verdi si fissarono su Barbee, dure e vitree, come se non lo vedessero. Nervosamente, le dita sottili cominciarono a far girare il calice su se stesso, e a un tratto il fusto si spezzò e la coppa di cristallo andò a infrangersi sul pavimento. Lei parve non essersene accorta, perché riprese, cupa e sommessa:

«Fu una notte spaventosa, Will. Mio padre mandò tutti gli altri ragazzi a casa di quella nostra sorella sposata, per sfuggire all’orrore degli esorcismi, disse, ed evitare la maledizione dell’ira del Signore. Rimanemmo in casa sol­tanto la mamma e io, per pregare insieme, minacciò mio padre, e prepararmi a patire il giusto castigo per i miei peccati. Non dimenticherò mai quella notte. Mia madre che invocava pietà per me, dopo essersi inginocchiata da­vanti a mio padre, che andava e veniva come un dio furibondo sul pavimento di assi spezzate della cucina. Ma mio padre non l’ascoltava nemmeno. Urlava le sue domande e le sue accuse a mia madre e a me, fermandosi ogni tanto a leggere la Bibbia alla luce di una fumosa lampada a petrolio. Più volte rilesse la terribile frase: “Non tollererai che una strega viva”.».

Per evitare che la sua mano tremante si tagliasse sui frammenti aguzzi del bicchiere, Barbee le tolse dalle dita il mozzicone del calice. La ragazza non parve accorgersene.

«La tetra cerimonia durò quasi tutta la notte. Mio padre ci faceva inginocchiare e pregare. Poi riprendeva la sua marcia agitata per la cucina, urlando e maledicendo mia madre e me. La faceva risollevare a strattoni, quando la mamma gli si inginocchiava davanti, e poi a ceffoni la spingeva qua e là per la stanza, rimproverandola di avere concepito nel suo seno una figlia strega. Infine, strappatami dalle sue braccia, ricominciava a frustarmi, riducendomi ogni volta quasi priva di sensi; e dopo tornava a leggere la Bibbia: “Non tollererai che una strega viva”.»

Barbee si accorse d’essersi tagliato un dito, coi frammenti del calice. Con cura ripose tutti i pezzetti di vetro nel portacenere, si asciugò le goccioline di sangue col fazzoletto, e accese un’altra sigaretta.

«Avrebbe certamente finito con l’uccidermi», continuò April, «se mia ma­dre, all’ultimo, non avesse osato aggredirlo. Gli ruppe una sedia sulla testa, ma lui non parve nemmeno accorgersene. Mi lasciò andare, tuttavia, e si diresse verso il fucile, appoggiato al muro presso la porta. Capii che stava per ammazzarci tutt’e due, e allora mi misi a cantare una nenia magica per impe­dirglielo. Riuscii anche questa volta, perché cadde per terra nell’istante in cui tendeva il braccio per prendere il fucile. I medici dissero poi che si tratta­va di emorragia cerebrale. E gli consigliarono di non perdere tanto facilmen­te la calma, in avvenire. Non ebbe il modo di perderla, comunque, perché cadde morto il giorno stesso in cui uscì dall’ospedale, alla notizia che mia madre era scappata con me in California.»

Barbee rimase piuttosto stupito nel constatare che il cameriere aveva spaz­zato via i resti del bicchiere e servito altri due dacquari sul tavolino. April Bell portò il suo alle labbra avidamente. Barbee pescò altri due dollari nel portafogli sgonfio, e si chiese vagamente a che cosa sarebbe ammontato il conto quando avessero ordinato il pranzo. Si mise a sorseggiare il cocktail, stando bene attento a non interrompere.

«Non ho mai saputo esattamente che cosa credesse mia madre.» Ciò rispon­deva esattamente a quello che avrebbe voluto chiederle, ma non osava. «Mi amava moltissimo. Credo che mi avrebbe perdonato qualunque cosa. Ma mi fece promettere, quando fummo al sicuro, lontano dalla casa di mio padre, che non avrei mai più tentato di fare altri malefici. La mamma era molto buona, e tu le avresti voluto un gran bene, Will. Col passare degli anni, credo che abbia finito quasi col dimenticare tutto quello che avevamo passato a Clarendon. So che desiderava dimenticare con tutta l’anima. Non espresse mai il desiderio di tornare, nemmeno per rivedere i suoi vecchi amici di qui. So che l’avrebbe addolorata atrocemente sapere quello che ero... che sono realmente.»

Una strana, liquida dolcezza colmava ora gli occhi verdescuri di April.

«Mantenni la promessa di non fare più malefici», disse quasi teneramente. «Ma nulla avrebbe potuto impedirmi di sapere quali forze si andassero de­stando e sviluppando in me. Nulla poteva impedirmi di sentire ciò che gli altri pensavano, di prevedere cose che sarebbero avvenute.»

«Lo so», disse inaspettatamente Barbee. «È quello che nel nostro mondo chiamiamo aver naso, o fiuto, o il senso delle notizie.»

Lei scosse il capo, gravemente.

«È ben altro», disse; e poi, come se non volesse perdere tempo a spiegare a chi non poteva capire: «Non ricorsi più a fatture o incantesimi, ma molte cose continuavano ad accadere, senza che io le volessi direttamente».

Il giornalista l’ascoltava intento, e cercò di non farle vedere gli strani brividi che a tratti lo percorrevano.

«Avevo una compagna di università, per esempio, che non potevo soffrire: di quelle ragazze, sai, dotate di una specie di soave perfidia, che citano sem­pre la Bibbia, più o meno a sproposito, e s’impicciano della vita degli altri, esattamente come facevano le mie sorellastre. Vinse una borsa di studio per il corso di giornalismo, la stessa sulla quale avevo riposto tutte le mie speran­ze e che, sapevo, lei era riuscita a vincere solo attraverso inganni e sotterfugi. Non potei fare a meno di augurarle del male.»

«E», ansimò Barbee, «il tuo desiderio fu esaudito?»

«Precisamente», disse April con dolcezza. «Il giorno in cui quella ragazza avrebbe dovuto ricevere la borsa di studio, si svegliò in preda a uno strano malessere. Volle recarsi all’università lo stesso, ma svenne lungo la strada. Appendicite acuta, dissero i medici. Fu sul punto di morire... Un’altra coinci­denza, dirai tu. Era quello che volevo pensare anch’io, Barbee, a quell’epoca. Perché non odiavo davvero quella ragazza, ed ero disperata, finché i medici non dissero che si sarebbe salvata. Ma non fu questo il solo incidente. Altre cose accaddero, più o meno di questa portata. Alla fine, cominciai ad avere paura di me.»

La sua voce scese a un bisbiglio quasi impercettibile.

«Capisci, Barbee?» I suoi occhi lo imploravano di comprendere. «Indipen­dentemente dalla mia volontà, il potere entro di me continuava ad agire. È questo che ho bisogno che almeno tu capisca; io non ho mai desiderato es­sere una strega: sono nata così.»

Barbee si mise a tamburellare nervosamente con le dita sulla tavola. Veden­do arrivare il cameriere, lo allontanò con un gesto impaziente della mano. Inghiottì a fatica e disse:

«Scusami, April, mi permetti di farti qualche altra domanda?».

Le bianche spalle di lei si alzarono, in muta e disillusa stanchezza.

«Ormai», disse, «che importanza vuoi che abbia?»

«Ci sono cose che possono ancora avere molta importanza... per te, per me», rispose lui. La faccia della ragazza esprimeva soltanto una tristezza in­finita, ma questa volta April gli permise di prenderle una mano, mentre le chiedeva con appassionato fervore: «Hai mai parlato di queste cose a qualcu­no che potesse capire, non so, uno psichiatra, o uno scienziato come il pove­ro Mondrick?».

Lei assentì con apatia.

«Ho un amico che sa tutto di me... conosceva mia madre e credo che ci abbia molto aiutato, quando abbiamo passato momenti difficili. Un paio d’anni or sono mi convinse ad andare dal dottor Glenn, Archer Glenn, quel­lo giovane, sai, qui a Clarendon.»

Barbee cercò di soffocare l’istintivo bisogno geloso di chiedere maggiori informazioni su quell’amico, e le sue dita si strinsero sulla mano fredda e inerte di April, ma poi riuscì ad annuire con un’espressione di placida rifles­sività.

«Conosco Glenn», disse. «L’ho intervistato una volta, quando suo padre lavorava ancora con lui; dovevo preparare un servizio per lo Star su Glennhaven, che molti considerano la migliore clinica psichiatrica degli Stati Uni­ti... E che cosa ti disse Glenn?»

«Oh, Glenn non crede alle streghe», rispose lei con la sua aria beffarda. «Cercò di psicoanalizzarmi. Per quasi un anno sono andata ogni giorno a coricarmi per un’ora su un divano del suo studio, a Glennhaven, e a raccon­targli i fatti miei. Ho fatto del mio meglio per collaborare... a quaranta dolla­ri l’ora! Gli ho detto tutto quanto ho raccontato a te, ma lui continua a non credere alle streghe.»

Emise un piccolo riso soffocato.

«Glenn pensa che nell’universo tutto si possa spiegare in base al concetto che due e due fanno quattro. Mi ripeteva che, se si getta una specie di in­cantesimo su qualunque cosa e poi si ha la pazienza di aspettare, qualcosa prima o poi dovrà accadere. Insomma, voleva dire che io cercavo inconscia­mente d’ingannare me stessa. Era convinto che io sia un po’ squilibrata, una paranoica, per chiamare le cose col loro nome. Ma che fossi una strega, non voleva nemmeno lasciarmelo dire.»

Un sorriso malizioso le illuminò debolmente il bel viso.

«Neanche quando glielo dimostrai.»

«Glielo dimostrasti? E in che modo?»

«I cani di solito non hanno simpatia per me, e ogni volta che andavo a Glennhaven, che come sai è in aperta campagna, i cani delle fattorie mi veni­vano incontro sulla strada, pieni di odio, abbaiando frenetici, e mi persegui­tavano così dalla fermata dell’autobus fino alla clinica. Un giorno che ne avevo veramente abbastanza, decisi di dare una piccola dimostrazione a Glenn. Portai un po’ di creta umida e la mescolai alla polvere presa ai piedi d’una panchina all’angolo, dove i cani erano soliti sostare. Nell’ufficio di Glenn, modellai con la creta le figure di cinque di quei cani. Mormorai una delle mie filastrocche, sputai sopra i modellini e infine li spaccai gettandoli a terra. Quindi invitai Glenn a guardare dalla finestra.»

Una luce strana brillava ora negli occhi obliqui della ragazza.

«Aspettammo una decina di minuti. Io gli indicai i cani, che come al solito mi avevano inseguito fin sulla porta della clinica e ora stavano abbaiando alla nostra finestra. Improvvisamente si gettarono tutti all’inseguimento d’una ca­gnetta, una terrier,che doveva essere in calore. Si erano spinti in gruppo in mezzo alla strada, quando una macchina lanciata a grande velocità sbucò dalla curva. L’uomo al volante cercò di sterzare, ma non ne ebbe tempo. La macchina investì in pieno i cani, prima di rovesciarsi sul margine della strada. Tutti i cani rimasero uccisi, e con mio sollievo seppi che l’automobilista era rimasto miracolosamente illeso.»

«E Glenn, che disse?»

«Ne parve deliziato.» April Bell sorrise enigmaticamente. «Appresi poi che la cagnetta apparteneva a un chiroterapista con lo studio in fondo alla stra­da. Glenn non ama né i cani né i seguaci della chiroterapia, ma anche quella volta non si lasciò convincere all’esistenza delle streghe. Secondo lui, i cani erano morti perché la cagnetta s’era liberata del guinzaglio e non a causa di qualche mia “fattura”. Disse poi ch’era evidente come io non volessi rinun­ciare alla mia psicosi e che pertanto non avremmo fatto progressi fino a quando non avessi cambiato atteggiamento. Il mio presunto dono sopranna­turale, secondo Glenn non era che autoillusione di origine paranoica. Mi addebitò altri quaranta dollari per quell’ora supplementare e iniziammo la seduta di psicanalisi.»

Barbee esalò un getto di fumo azzurro nella nebbia rossastra della sala e si mosse a disagio nella sua poltroncina triangolare. Vide il cameriere spiarlo imperiosamente, ma non aveva più voglia di bere, e riportò lo sguardo su April Bell. La ragazza ora sembrava al colmo della stanchezza. Lentamente, trasse la mano fredda di sotto alle dita del giornalista.

«E tu sei convinto che avesse ragione lui, Barbee.»

«Santo Cielo», esclamò il giornalista, «non ci sarebbe troppo da stupirsi se tu rivelassi qualche tendenza alla follia, dopo tutto quello che hai passato!»

E si sentì sommergere da un’onda di compassione per tutte le sue sofferen­ze, per l’ignoranza e il fanatismo d’un padre crudele, che l’avevano spinta a credere a tali assurde fantasie. L’aria soffocante lo fece tossire. Cercò di nascondere sotto quella tosse i suoi sentimenti: temeva che una pietà troppo palese potesse offenderla.

Con molta calma April disse:

«So benissimo di non essere pazza».

Tutti i pazzi dicono così, pensò Barbee. E s’accorse di non avere più niente da dire. Aveva bisogno di tempo per riflettere, per analizzare quelle straordi­narie confessioni e verificarle alla luce della morte di Mondrick. Guardò l’o­rologio e accennò col capo alla sala da pranzo:

«Vogliamo mangiare?», propose.

Lei assentì con entusiasmo.

«Ho una fame da lupo», disse.

La frase frenò Barbee, ricordandogli la spilla di giada. La ragazza stava già allungando il braccio verso la pelliccia, ma Barbee ricadde pesantemente sul­la sua scomoda poltroncina.

«Beviamo un ultimo cocktail.» Chiamò il cameriere con un cenno e ordinò altri due dacquari, prima che April si volgesse a guardarlo con un’espressio­ne d’imbronciato stupore. «Lo so che è tardi», le disse in tono di scusa, «ma vorrei chiederti ancora una cosa.» Esitò, vide di nuovo quella pericolosa ten­sione immobilizzare il corpo della ragazza in un’attesa elettrica, e con rilut­tanza le chiese: «Sei stata tu, vero, ad ammazzare quel gattino?».

«Sì.»

«Per causare la morte del professor Mondrick?»

Nel fumo rossastro, April annuì, quasi distrattamente.

«E infatti è morto.»

C’era veramente da impazzire.

«Ma perché, April, desideravi la sua morte?»

La voce di lei, nel rispondere, era impersonale e lontana, come se venisse da una torre lontanissima:

«Perché avevo paura».

Barbee inarcò le sopracciglia.

«Paura? e di che? Mi hai detto che non lo conoscevi nemmeno. E che male avrebbe mai potuto farti? Io, magari, potevo aver dei motivi di rancore verso di lui, per avermi allontanato dalla sua cerchia, senza che gli avessi mai fatto nulla, ma era un uomo innocuo e generoso, uno scienziato amante solo della verità e della luce.»

«Sapevo ciò che voleva fare.» La voce della ragazza era dura e fredda, ma ancora lontanissima, proveniente come da una remota fortezza assediata. «Vedi, Will, io ho sempre voluto conoscere la mia vita interiore, la forza che avevo in me. Non ho studiato psicologia all’università, perché tutti i profes­sori sembravano stupidamente radicati nell’errore. Ma ho letto quasi tutto ciò che è stato pubblicato su casi insoliti e bizzarri come il mio. Tu forse non sai che Mondrick era un’autorità riconosciuta nel campo della stregoneria. Conosceva a fondo la storia delle persecuzioni delle streghe, e molte altre cose ancora. Aveva studiato le leggende di tutte le razze primitive, e quelle leggende erano per lui qualcosa di più che strane fiabe e miti fantasiosi. I miti dell’antica Grecia, per esempio, pieni di amori tra gli dèi e le fanciulle degli uomini. Quasi tutti gli eroi greci, Ercole, Perseo, ecc, avevano fama di possedere una parte illegittima di sangue immortale nelle vene. E avevano doni e poteri sovrumani. Bene, anni fa Mondrick scrisse una monografia che analizzava queste leggende, interpretandole come ricordi razziali del conflit­to e degli occasionali incroci fra due razze preistoriche: gli alti ed evoluti Cromagnon, forse, e gli scimmieschi Neanderthaliani. Del resto, tu hai studiato con lui, Barbee, e dovresti conoscere l’estensione delle sue ricerche. Cercava di individuare differenze in seno all’umanità odierna, faceva prove del sangue, misurava reazioni, analizzava sogni negli individui più disparati. Aveva la mente aperta a tutte quelle cose che gli scienziati rifiutano solo perché non corrispondono alle loro prevenzioni; era un’autorità in fatto di parapsicologia e telecinesi, e si può dire che non abbia lasciata intentata nes­suna via per giungere alla conoscenza che lo attirava.»

«Tutto vero», disse Barbee; «e con questo?»

«Mondrick era prudentissimo in tutto ciò che scriveva», riprese la fredda voce remota di April. «Velava il vero significato dei suoi scritti con innocui termini scientifici. Non voleva agitare troppa gente, prima di avere le prove di quanto asseriva. Finché, una dozzina d’anni fa, abbandonò del tutto la sua attività di scrittore e addirittura ricomprò e bruciò tutte le copie delle sue precedenti monografie. Ma aveva già scritto troppo. Io, per esempio, avevo ben compreso ciò che stava facendo.»

April attese che il cameriere desse a Barbee il resto del suo unico biglietto da venti dollari, sorseggiando lenta il quarto dacquari. Quella ragazza sapeva bere, non poté fare a meno di pensare Barbee.

«Mondrick credeva nelle streghe», dichiarò finalmente April.

«Sciocchezze!», protestò Barbee. «Mondrick era uno scienziato!»

«Eppure, o forse proprio per questo, ci credeva! È proprio di questo che avevo paura. Mondrick aveva impiegato quasi tutta la sua vita a cercar di dare basi scientifiche alla stregoneria. Si era recato nell’Ala-shan per trovare altre prove. E oggi, al suo arrivo, ho capito che aveva trovato ciò che cercava da anni.»

«Ma non certo le prove sulla stregoneria!»

«Tu non vuoi credere, Barbee», e ancora quell’impercettibile sorriso beffar­do aleggiò per un istante sul suo volto, «come non vuol credere la maggio­ranza delle persone. È la nostra migliore protezione... perché noi siamo il nemico. Comprenderai perché gli esseri umani ci odiano: perché siamo dif­ferenti. Perché abbiamo, innati, poteri maggiori di quelli concessi agli esseri umani... e tuttavia non così grandi come vorremmo!»

Una luce selvaggia di spietata ostilità s’era accesa nei suoi occhi verdi, per un istante; ma in quell’istante Barbee vi lesse una ferocia nuda, assoluta, che non avrebbe dimenticato mai più. Abbassò gli occhi, soggiogato, e delibera­tamente vuotò il calice.

«Mondrick voleva additarci e rivelarci all’umanità, perché ci annientasse. Per questo ho avuto paura», riprese April. «Forse aveva inventato un conge­gno, un mezzo scientifico per l’identificazione delle creature dotate di poteri metapsichici. Anni fa, rammento, scrisse una memoria scientifica sui gruppi sanguigni e l’introversione.... introverso è uno degli asettici termini scientifici che usa per indicare le streghe.»

Un breve silenzio, poi alzò le spalle, in un gesto d’impazienza.

«Non ne ha colpa nessuno, ma è così, e non ci si può far nulla.» Improvvisa­mente, i suoi occhi si riempirono di lacrime. «I guai cominciarono quando la prima strega fu inseguita, braccata e uccisa a colpi di pietra dal primo uomo delle caverne. E continuerà così fino a che l’ultima strega non sia morta. Sempre e dovunque, gli uomini obbediranno all’antica legge biblica: “Non tollererai che una strega viva”.»

Alzò ancora le spalle.

«Ecco, questa sono io, Will», sussurrò con amarezza. «Hai voluto lacerare il mio povero velo illusorio, non ti bastava il mio semplice aspetto umano di donna. Hai voluto vedere sotto l’illusione...» Stancamente, allungò di nuovo il braccio verso la pelliccia. «Ed eccomi qua, nemica del genere umano, brac­cata, perseguitata. Mondrick era lo spietato cacciatore umano, sempre alla ricerca d’ogni risorsa della scienza per scoprire e annientare me e i miei simi­li. Puoi condannarmi, se a mia volta sono ricorsa a un maleficio per salvar­mi? Puoi condannarmi se ho raggiunto il mio scopo?»

A Barbee pareva di avere le gambe di piombo. Si scosse, come per liberarsi da quella specie di sonnolenza ipnotica in cui il verde magnetismo degli occhi di April (ma forse erano i cocktails) sembrava averlo sprofondato.

«I tuoi simili?», ripeté. «Dunque, non sei sola.»

«Io sono del tutto sola», rispose lei con voce dura.

«Quando Mondrick ha parlato di un segreto nemico, alludeva alle streghe, secondo te?»

«Certo.»

«Tu ne conosci altre?»

La risposta, gli parve, giunse con un secondo di ritardo. Ma volto e occhi di April erano del tutto impassibili.

«No.» Bruscamente si mise a tremare, e Barbee capì che lottava per ricac­ciare le lacrime. Con un filo di voce, implorò: «Oh, Will, vuoi perseguitarmi anche tu?».

«Perdonami, April, ma ora che mi hai detto tanto, puoi dirmi anche il resto, no? Chi è quel Figlio della Notte, cui ha alluso Mondrick?»

«Oh, come potrei saperlo? C’è altro?»

«Una cosa sola: non sai, per caso, a quali proteine Mondrick fosse allergi­co?»

La ragazza lo fissò con uno stupore che gli parve sincero.

«Allergico? L’allergia è un disturbo che a che fare con il raffreddore da fieno e l’indigestione, vero? No, proprio, non lo so.» Si mise a ridere. «Non conoscevo Mondrick personalmente e non sapevo che soffrisse d’asma da fieno. L’ho visto per la prima volta in vita mia questa sera.»

«Dio sia lodato!», esclamò Barbee, alzandosi. Respirò a pieni polmoni l’aria corrotta della sala, e guardò dall’alto della sua allampanata figura la ragazza, ch’era rimasta seduta e lo guardava con uno stanco sorriso. «Lo so che ti ho sottoposta a un terzo grado semplicemente odioso», le disse. «Ma avrei potu­to fare diversamente? E ora vuoi concedermi il tuo perdono?»

«Concesso», rispose lei. «E possiamo anche fare a meno di mangiare: non ti trattengo, se preferisci andartene.»

«Andarmene?», protestò il giornalista. «Ma tu mi avevi promesso questa serata, cara. E poco fa hai confessato di avere una fame da lupo, e non biso­gna dimenticare che Knob Hill è famoso per le sue costate. Possiamo ballare un po’, dopo cena, o fare una corsa in macchina sotto la luna, a scelta. O sei tu che preferisci che me ne vada?»

Gli occhi di lei si raddolcirono, e a Barbee sembrò di scorgervi una luce di sincera gratitudine.

«È proprio vero, Will», bisbigliò, «che anche ora, dopo aver visto ciò che si nasconde dietro il velo, non desideri andartene?»

Ancora quell’ondata di pietà e di tenerezza sommerse Barbee; che tuttavia scoppiò in un’allegra risata.

«Se tu sei un’incantatrice», le disse, «sappi che sono già completamente incantato.»

April si alzò con un sorriso radioso.

«Grazie, Will», disse semplicemente. Prese la pelliccia e si avviarono verso la sala da pranzo. «Una preghiera, Will», sussurrò frettolosamente: «tenterai, per questa sera soltanto, d’aiutarmi a dimenticare che sono... quella che sono?».

Barbee assentì calorosamente.

«Farò il possibile, mia bella fata.»

6.

Rimasero nel locale fino alla chiusura. La cena era stata superiore a ogni aspettativa e l’orchestra suonava, si sarebbe detto, solo per loro due, mentre April Bell si muoveva tra le sue braccia con una grazia morbida e lieve da animale selvatico.

Barbee avrebbe voluto accompagnarla a casa, ma c’era la splendida conver­tibile della ragazza nel parcheggio del locale, e il giornalista dovette limitarsi ad accompagnarla solo all’automobile. Le aprì lo sportello, e mentre lei scivolava sul sedile verso il volante, la prese impulsivamente per il braccio.

«Sai, April», le disse, non sapendo bene nemmeno lui che cosa volesse dir­le; poi vedendo il cordiale sorriso di lei in attesa, continuò: «Provo per te qualcosa che non riesco a capire. Una strana sensazione... che non mi so spiegare».

Il volto pallido di lei era lievemente rovesciato sotto il suo, e lui fu domina­to da un divorante bisogno di baciarla.

«La sensazione, forse, di averti conosciuta sempre. La sensazione che tu sia parte di qualcosa... d’una cosa antica e importante... che appartiene solo a te e a me. Come se tu avessi ridestato qualche cosa che dormiva in me...»

Lei sorrise nell’ombra, e la sua voce morbida accennò dolcemente l’aria di una canzone che quella sera avevano ballato: Forse è amore.

Era l’amore, forse. Anni e anni erano passati dall’ultima volta in cui Will Barbee s’era creduto innamorato, ma a ripensarci bene il turbamento prova­to allora non era nemmeno paragonabile a quello attuale. Perché aveva an­cora paura, non di April, non più ora, ma delle vaghe, quasi travolgenti sen­sazioni che April ridestava in lui, delle correnti e delle forze e degli istintivi ricordi che suscitava nel suo intimo. Tutte cose ch’era impossibile esprimere; un altro brivido lo scosse, irresistibilmente.

«Questo vento è sempre più freddo!» Non cercò di baciarla. Bruscamente, quasi con durezza, la spinse entro la macchina e chiuse lo sportello di colpo. «Grazie per la serata meravigliosa.» Non voleva rivelare la confusione del suo stato d’animo. «Passerò a salutarti domani al Trojan Arms.»

April lo guardò dal suo posto davanti al volante. Il lento sorriso che le aleggiava sulle labbra sembrava rivelare che era consapevole di tanto turba­mento spirituale.

«Buona notte, Barbee», gli disse in tono carezzevole, chinando il capo in cerca del bottone della messa in moto.

Il giornalista rimase fermo a vederla scivolar via sulla grande macchina si­lenziosa come una nave. Giocherellava con lo spillo di giada che aveva in tasca. Si chiese in virtù di quale timore — o di quale abulia — non gliel’avesse restituito. Una nuova folata di vento gelido lo investì, e lo spinse verso il suo vecchio macinino.

Barbee scrisse il servizio sul funerale di Mondrick per lo Star. Le esequie erano state fissate alle due del pomeriggio, e il vento della vigilia soffiava ancora, più freddo e tagliente che mai.

Nick Spivak e Rex Chittum erano tra coloro che tenevano i cordoni, ma Sam Quain, stranamente, mancava. Barbee si pose al fianco di Nora, a qual­che passo di distanza da Rowena Mondrick, che procedeva più impettita che mai tra il suo gran cane fulvo e la governante.

«No, Sam sta benissimo», rispose Nora alla domanda sussurratale da Bar­bee. Nora era sempre rimasta gentile e affettuosa con lui, anche se Mondrick e Sam erano cambiati. Tanto che Barbee, s’era chiesto più volte quanto di­versa sarebbe stata la sua vita se Nora avesse sposato lui anziché Sam. «È rimasto a casa per tener d’occhio quella cassa che hanno portato dall’Asia. Hai un’idea di quello che possa contenere?»

Barbee scosse il capo, rispondendo che non ne aveva la più pallida idea. Rowena doveva avere udito le loro voci, perché si voltò di scatto, quasi con allarme. Aveva la faccia sconvolta, pallidissima.

«Will Barbee?», chiamò forte. «Sei tu?»

«Sì, Rowena», e si mise a balbettare qualche generica parola di condoglian­za; ma la cieca non attese.

«Ho sempre bisogno di vederti, sai, Will», disse Rowena, ansiosamente. «Spero che non sia ancora troppo tardi per aiutarti. Puoi venire da me oggi... diciamo, le quattro?»

Barbee fissò incerto quel viso sottile, pallidissimo, che un’angoscia indicibi­le sembrava sconvolgere più ancora del dolore per la perdita del marito, ri­cordò la telefonata della sera prima e si chiese ancora quanto la morte di Mondrick avesse potuto ledere le facoltà mentali della povera donna.

«Va bene, Rowena», promise; «alle quattro sarò a casa tua.»

Mancavano cinque minuti all’ora fissata, quando Barbee fermò la macchina davanti alla vecchia e malandata casa di mattoni rossi sull’University Avenue. Le imposte erano tarlate e traballanti, i muri scrostati e il prato del giardino incolto rivelava chiazze nude e spelacchiate. L’Istituto aveva eviden­temente prosciugato quasi tutti i fondi i Mondrick, oltre ai capitali che lo scienziato era riuscito a raccogliere da altri.

Rowena stessa venne ad aprire.

«Grazie d’essere venuto», gli disse con volce dolce e composta, sebbene sul volto le si vedessero le tracce di lacrime recenti. E introdusse Barbee nel salotto ch’egli conosceva fin da quando lui e Sam erano stati a pensione nella casa. La camera era lievemente soffusa del profumo che emanava da un gran vaso di rose sul pianoforte. Una stufetta a gas ardeva nella nera caverna del caminetto, davanti al quale Turk se ne stava accosciato in posa leonina, fis­sando i gialli occhi attenti sul nuovo venuto.

«Siedi», lo invitò Rowena. «Ho mandato fuori la signorina Ulford a fare delle spese, perché dobbiamo parlare da soli, Will.»

Impressionato dalla solennità del preambolo, il giovane sedette, mormoran­do confusamente qualche parola di condoglianza sulla fatale disgrazia che aveva colto Mondrick.

«Non è stata una disgrazia, Will», disse dolcemente la cieca. «Mio marito è stato assassinato... ero convinta che anche tu lo sospettassi.»

Barbee inghiottì penosamente. Non intendeva parlare di sospetti e perples­sità con nessuno, prima di decidere qualcosa in cuor suo a proposito di April Bell.

«Sì, l’ho sospettato», ammise; «ma erano sospetti campati in aria.»

«Sei stato con April Bell, ieri sera?»

«Siamo stati a cena insieme.» Osservò la cieca che veniva con la sua scon­certante sicurezza di movimenti a porsi davanti a lui, restando poi ritta così, nel sobrio vestito nero, una mano sottile appoggiata sul piano a coda. Un lievissimo moto di risentimento lo spinse a dire in tono difensivo: «So che Turk non ama April Bell, ma io sono convinto che si tratti di una ragazza eccezionale».

«Temevo infatti che tu la vedessi in questa luce», disse la cieca, con voce piena d’una grave tristezza. «Ho parlato a Nora Quain, e mi ha detto che non può soffrire quella ragazza. Turk non ha lasciato dubbi in proposito e quanto a me sai come la penso. C’è una ragione dietro tutto ciò, Will, che tu devi sapere.»

Barbee se ne stava seduto tutto impettito e piuttosto seccato, anche. Dopo tutto, scegliere le sue amiche non toccava né alla vedova di Mondrick né alla moglie di Sam Quain. Ma non disse nulla. Turk si stirò davanti al fuoco, tenendo sempre gli occhi fissi su Barbee.

«Quella donna è pericolosa», riprese la cieca, «e pericolosa soprattutto per te.» Si chinò su di lui, mentre strani riflessi rilucevano sui suoi antichi monili d’argento. «Devi promettermi, Will, che non la rivedrai mai più.»

«Ma, Rowena!», esclamò lui, cercando di assumere un tono scherzoso e, soprattutto, di non pensare alla confessione di April, la sera prima. «Non ti sembra che io sia maggiorenne già da molti anni?»

Ma la vecchia non sorrise.

«Io sono cieca, Will», e piegò un poco la testa canuta, come se vedesse dietro le lenti nere, «ma non a tutto. Ho partecipato all’attività di mio marito fin da quando ero ragazza. Ho avuto la mia piccola parte nella strana, solita­ria guerra terribile che lui ha combattuto per tanti anni. Ora è morto... assas­sinato, ho tutte le ragioni per crederlo.»

La cieca fece una pausa, e si eresse sulla persona.

«E quell’affascinante tua April Bell», soggiunse con voce ancor più som­messa, «deve essere il nemico segreto che lo ha ucciso!»

Barbee aprì la bocca per rispondere, ma s’accorse che non poteva dir nulla. L’impulso di difendere a ogni costo April Bell fu tuttavia più forte d’ogni altra considerazione.

«Non lo credo, possibile», riuscì a dire.

«Quella donna ha assassinato mio marito», disse Rowena con voce improv­visamente così aspra che Turk si alzò, inquieto, e venne a porsi alle sue spal­le. «E ora sei tu in pericolo.»

«Andiamo, Rowena!», disse lui, cercando ancora di ridere. «April è una ragazza simpaticissima, e io non soffro di allergie.»

«April Bell non cercherà di ucciderti, Will», riprese con voce più calma la cieca. «Il pericolo che ti minaccia è qualcosa di diverso dalla morte, qualcosa di più orribile. Perché lei cercherà di cambiarti... di destare in te qualcosa che non dovrebbe mai essere risvegliato.»

Col pelo improvvisamente irto, Turk venne a sfiorare col fianco la gonna nera della cieca.

«È una donna perfida, Will. Io posso vedere il male in lei, così come so che vuole acquisirti alla sua specie perversa. Sarebbe meglio per te morire, come il mio povero Marck, anziché seguirla sulla via in cui tenterà di portarti. Cre­dimi, Will!»

La donna gli aveva preso le mani, in un gesto di materna implorazione. Dolcemente, Barbee si liberò da quelle mani fredde e dolenti, e cercò di dominare il brivido che sentiva venire.

«No, Rowena», disse penosamente, «temo di non poterti credere. Ritengo che la morte di tuo marito sia dovuta a un eccesso di sforzi e di strapazzi, inevitabilmente fatali per un uomo di settant’anni e da troppo tempo sof­ferente.» Si alzò e fece qualche passo verso il pianoforte. «Non vuoi suonar­mi qualche cosa? Potrebbe farti bene, Rowena.»

«No, non ho tempo di pensare alla musica, ora», rispose la cieca, accarez­zando nervosamente la testa del cane. «Devo unirmi a Sam, e a Nick e Rex, nella lotta che il mio povero Marck ha dovuto abbandonare. Senti, Will, non vuoi proprio riflettere su quanto ti ho detto e stare lontano da April Bell?»

«Dammi retta, Rowena», rispose lui, cercando di assumere il tono più affet­tuoso possibile, «ho l’impressione che a forza di pensare e riflettere tu ti sia stancata più del necessario. Io non posso persuaderti del contrario, se pensi quello che pensi, ma sono convinto che dovresti dare un po’ di riposo alla tua mente affaticata. Vuoi che telefoni per te al dottor Glenn?»

La cieca si ritrasse da lui indignata, mentre il cane faceva sentire un cupo brontolio.

«No, Will, non sono pazza. E non ho bisogno delle cure di nessuno psichia­tra.» Addolcì il tono. «Tu, forse, ne avrai bisogno... prima che la tua amicizia con April Bell si concluda.»

«Scusami, Rowena», disse lui bruscamente. «Devo andare.»

«Will, no!» Il grido risuonò mentre lui era già in anticamera. «Non fidar­ti...»

Non udì altro, era già fuori.

Ritornò in città e si recò al giornale, ma gli fu difficile concentrarsi sul suo lavoro in cronaca. Aveva l’intenzione di andare a trovare April, ma chissà perché continuò a rimandare. Divorato dal desiderio di vederla, non aveva tuttavia trovato nella chiara luce del sole un solo pensiero capace di dissipare le sue incertezze e i suoi dubbi sulla misteriosa ragazza. E quando alla fine uscì dal giornale era troppo tardi per fare una visita, si disse con un senso di penoso sollievo.

Si fermò per bere un bicchierino al bar sotto il giornale; finì per berne tre o quattro, e anzi si prese anche una bottiglia da portarsi a casa, nel suo malin­conico appartamentino da scapolo in Bread Street. Una doccia calda, si dis­se, avrebbe aiutato l’alcool a distendergli i nervi. Si stava spogliando, quando si ritrovò in tasca la spilla di giada.

Rimase a lungo a fissare con aria assente il minuscolo oggetto, mentre lo faceva girare sulla palma umida...

Il piccolo occhio di malachite aveva lo stesso colore degli occhi di April, nei suoi momenti più ostili e combattivi. Ricordando la pelliccia bianca della ragazza, Barbee pensò improvvisamente che per lei quel piccolo lupo doveva essere un simbolo molto importante. Il dottor Glenn doveva averla trovata, dal punto di vista psicanalitico, un soggetto molto interessante. Barbee desi­derò poter andare a leggere nella sua cartella clinica, che Glenn indubbia­mente conservava.

Gli occhi gli bruciavano e s’accorse di avere un tal sonno che il lupo, sem­brava, gli strizzava il verdastro occhio di malachite. Quella dannata spilla quasi quasi lo stava ipnotizzando. Resistette al selvaggio impulso di scagliarla giù nello scarico della toilette, e la depose in una vecchia scatola da sigari, a far compagnia a un ditale, al suo vecchio orologio da tasca, a una penna stilografica rotta e a molte lamette arrugginite. Per l’ennesima volta, si disse che doveva bere meno, se non voleva diventare isterico e impressionabile come una vecchia zitella.

Pure, non gli era possibile sottrarsi alla considerazione, anche se estrema­mente improbabile, che April fosse — ed era riluttante ad accettare la parola — una strega.

Una creatura diversa dalle altre, preferiva pensare Barbee. Ricordò di ave­re letto a suo tempo qualcosa sugli esperimenti di Rhine sulla parapsicologia, alla Duke University. La scienza aveva potuto dimostrare in quel caso che vi sono individui i quali percepiscono il mondo esterno mediante qualcosa che è al di là della normale percezione dei sensi.

Alcuni sì, altri no. April Bell non poteva essere nata con quella stessa diffe­renza, spinta al massimo grado?

Il calcolo delle probabilità... Si ricordò d’una lezione che Mondrick aveva fatto sull’argomento quando ancora insegnava antropologia. La probabilità, aveva detto Mondrick, era il concetto chiave della fisica moderna. Le leggi di natura non erano assolute, aveva precisato, ma semplicemente stabilivano delle medie statistiche. Il fermacarte sul suo tavolo — una piccola lampada di terracotta, scavata tra le rovine dell’antica Roma, con la lupa che allatta i gemelli fondatori dell’Urbe — era tenuto insieme soltanto dalle collisioni ca­suali d’un certo numero di atomi in vibrazione. In qualsiasi momento c’era una probabilità, minima ma definita, che potesse disintegrarsi e cadere attra­verso l’apparente solidità del tavolo.

Senza contare che i fisici moderni, si disse Barbee, interpretavano l’intero universo in termini di probabilità. La stabilità degli atomi era una questione di probabilità, così come lo era l’instabilità, nel caso della bomba atomica. Il diretto controllo mentale della probabilità avrebbe certamente consentito possibilità terrificanti, e gli esperimenti di Rhine avevano a quanto pareva stabilito questo controllo.

April Bell era forse nata con quello straordinario e pericoloso potere men­tale di controllare il fenomeno della probabilità?

Molto difficile, si disse Barbee. D’altra parte, nulla, come aveva ripetutamente affermato Mondrick, era del tutto impossibile in siffatto universo statistico. La più remota impossibilità diveniva soltanto remotamente impro­babile.

Barbee, con un’alzata impaziente di spalle, si mise sotto la doccia. La nuova fisica, con il Principio di Indeterminazione e il rigetto dei vecchi, comodi concetti di materia, spazio e tempo, e le bombe atomiche, diveniva di colpo così sconvolgente come il nero enigma della morte di Mondrick.

Sotto la doccia, Barbee finì col chiedersi che cosa quella lampada di terra­cotta avesse significato realmente per Mondrick. Quale ricordo ancestrale della razza poteva essere simboleggiato in quel mito degli eroi fondatori del­l’Urbe, generati dalla lupa? Barbee, che non era Jung, non avrebbe saputo dirlo. Si asciugò stancamente, si versò un robusto whisky per dormire meglio e se ne andò sotto le coperte con una rivista.

Ma la sua mente si rifiutava di lasciarsi deviare da quel genere di pensieri. Perché Mondrick e i suoi amici, che erano evidentemente in preda al terrore, avevano preso precauzioni così complesse all’aeroporto, per poi mostrare di non averne prese a sufficienza? Questo evidentemente indicava la presenza di un pericolo ancora più grande di quanto i quattro uomini avessero imma­ginato.

Gli occhi brucianti di Barbee a poco a poco avevano finito per chiudersi, mentre lui s’immaginava l’avvento del misterioso Figlio della Notte, il demo­niaco profeta che avrebbe dato il via ai saturnali della rivolta. Vedeva un’alta figura imperiosa, ritta fra le rocce scheggiate di un fosco paesaggio alla Doré, terribile e cupo in una lunga tunica con cappuccio. Col fiato mozzo, Barbee si sporgeva a scrutare nell’ombra di quel cappuccio calato, nella speranza di riconoscere la faccia: e un candido teschio lo accoglieva col suo sogghigno.

Si destò di colpo; ma non era stata l’impressione di quel sogno ossessionan­te che lo aveva svegliato, bensì la fremente intensità di un nebuloso stimolo che non sapeva definire. Una trafittura ferma, sottile e tenace come uno spillone, lo tormentava alla nuca. Si versò un’altra dose di liquore per atte­nuarla. Aprì la radio, udì un untuoso comunicato commerciale e richiuse in fretta. Un sonno terribile lo colse...

E insieme la paura di dormire.

Non riusciva a capire quel vago terrore del letto. Una graduale, strisciante apprensione, come se sapesse che lo strano malessere che ora lo ossessiona­va lo avrebbe posseduto del tutto quando si fosse addormentato. Ma non era soltanto... paura. Frammisto a essa, c’era il desiderio rodente che lo aveva svegliato, l’ansiosa aspettazione d’una fuga oscura e trionfale da tutto ciò che odiava.

Né riusciva a capire bene ciò che provava per April Bell. Pensava che avreb­be dovuto sentire dell’orrore per lei. Dopo tutto, o era la strega che afferma­va di essere, o, più probabilmente, non era che una povera squilibrata. In un modo o nell’altro, aveva quasi certamente causato la morte di Mondrick. Ma ciò che gli faceva più paura era quel misterioso qualcosa che ridestava in lui.

Disperatamente, cercò di non pensare a lei. Ormai, era troppo tardi per telefonarle. E poi non era affatto sicuro di volerla vedere, sebbene quel vago desiderio interiore glielo facesse sospettare. Caricò la sveglia e se ne tornò a letto. Il sonno premeva su di lui con un’insistenza divenuta irresistibile.

April Bell lo chiamò.

La sua voce gli giungeva limpida, sopra il mormorio echeggiante del traf­fico. Era come uno squillo d’oro, più penetrante di un occasionale colpo di clacson o del lontano clamore di un tram. Giungeva dalle tenebre in onde di pura luce, verde come i suoi occhi di malachite. Poi gli parve di scorgerla, in distanza, come perduta nella città addormentata.

Soltanto, April non era più una donna. La sua voce insistente, vellutata, era umana. I suoi lunghi occhi erano gli stessi, con la loro obliquità orientale. Ma ora la pelliccia bianca faceva parte del suo corpo. Perché April era diventata una lupa bianca, agile, aggressiva, potente. E la sua limpida voce umana lo chiamava, distinta nelle tenebre.

«Vieni, Barbee, vieni, ho tanto bisogno di te!...»

Lui era consapevole di trovarsi nella sua povera camera, sentiva il ticchettìo della sveglia, la comoda durezza del materasso sotto il suo corpo, la puzza di zolfo che veniva dalle fabbriche vicine dalla sua finestra aperta. Era evidente che non dormiva del tutto, ma quella voce che lo chiamava era così reale che cercò di rispondere.

«Ciao, April», mormorò con voce dormiente, «domani, ti prometto che ven­go davvero a trovarti. Chi sa, forse possiamo anche andare a ballare.»

Bizzarramente, la lupa parve udire.

«È ora che ti voglio, Barbee. Perché abbiamo una cosa da fare insieme... una cosa che non si può assolutamente rimandare. Devi venire subito a rag­giungermi... Ti insegnerò come si fa a cambiare.»

«Ma io non voglio cambiare», mormorò lui a bocca chiusa.

«Lo vorrai anche tu. Tu hai la mia spilla di giada, vero? Ebbene, tienila stretta nella mano.»

Gli parve di alzarsi, sempre addormentato, a tentoni, e di andare verso il comò, a frugare nella scatola da sigari in cerca della spilla. Poi, tenendola stretta nella palma, tornò a buttarsi sul letto.

«Ora, Will», e la sua voce vibrante sembrava colmare il nero vuoto che li divideva, «ascoltami: tu devi cambiare, come sono cambiata io. Sarà facile per te, Will. Tu puoi correre come corre il lupo, seguire una preda come fa il lupo, uccidere come uccide il lupo!»

Sembrava essersi fatta più vicina, nella buia nebbia.

«Su, andiamo, ti aiuterò io, Will. Tu sei un lupo, e la tua guida è la spilla che hai nella mano. Abbandonati, lascia che il tuo corpo sfumi...»

Il suo cervello sembrava immerso in una foschia viscosa. Strinse la spilla, e cercò di obbedire. C’era come un lento, penoso fluire del suo corpo, come se si fosse attorto in posizioni mai assunte, tendesse muscoli mai usati. Un im­provviso dolore lancinante lo soffocò, sprofondandolo in un abisso di tene­bre.

«Resisti, Will.» La voce insistente di April sembrava trafiggere le tenebre opprimenti. «Abbandonare ora, che sei già in parte mutato, potrebbe ucciderti. Ma riuscirai. Io ti aiuto, fino a quando non sarai libero. Ecco, lasciati andare, lascia che il tuo corpo si trasformi, così... tu stai fluendo come una corrente...»

E a un tratto fu libero.

I ceppi che lo avevano oppresso per tutta la vita s’erano bruscamente spez­zati. Balzò leggero dal letto, e rimase per un istante a fiutare gli odori che appesantivano l’aria del suo appartamentino: il sentore forte di whisky che saliva dal bicchiere vuoto sul comò, l’umidità saponosa della camera da ba­gno e il putrido odore della sua bianchiera nella cesta dei panni sporchi. Era un’atmosfera irreparabile, aveva bisogno d’aria pura.

Trotterellò rapido verso la finestra aperta e grattò con impazienza il chiavistello della persiana. Cedette, alla fine, e lui si lasciò cadere sulla terra umida dell’aiuola della sua padrona di casa. Si scrollò, fiutando con voluttà l’odore pulito di quel pezzettino di terra smossa e si diresse sul marciapiedi, nel sen­tore nauseante di benzina bruciata e gomma surriscaldata che si levava dal­l’asfalto della strada. Tese ancora l’orecchio al richiamo della lupa bianca e infine con un balzo si lanciò come una freccia lungo la strada.

Libero...

Non era più imprigionato in quel lento, goffo e insensibile corpo bipede. La vecchia spoglia umana gli era completamente estranea ora, gli sembrava qua­si mostruosa. Quattro agili piedi erano senza dubbio meglio di due, e inoltre sembrava che una pesantissima cappa fosse stata tolta ai suoi sensi, che ne erano stati come ottenebrati.

Libero, forte, veloce!

«Sono qui, Barbee, vicino all’università», chiamava la lupa bianca, oltre la città addormentata. «Corri, ti prego!»

Si diresse per Commercial Street, verso lo scalo merci e l’aperta campagna, che si stendeva oltre il fascio di binari. A un tratto, si trovò davanti un poli­ziotto che faceva il suo turno di notte, ma con suo grande stupore l’uomo non lo vide, come se fosse stato trasparente.

Attraversò i binari, proprio davanti a una sbuffante locomotiva in manovra, e corse verso ovest, a lunghi salti, sulla strada maestra, per sfuggire al lezzo di caldo vapore, cenere e metallo ardente. Scese nel fossato accanto all’acre asfalto della strada, e la terra era fresca e umida sotto i cuscinetti delle sue zampe elastiche come molle.

In distanza, dietro un filare di alberi, un cane s’era messo ad abbaiare spaventato, ansimante. Annusò l’aria fredda e colse l’odore disgustoso del nemico atavico, vago per la distanza ma non per questo meno nauseante. Il vello che gli ricopriva il collo come una criniera si levò irto. Avrebbe insegna­to ai cani a non ululare contro di lui.

Ma il richiamo della lupa bianca lo raggiunse ancora, più pressante che mai.

«Non perdere tempo dietro un cane randagio, Barbee. Abbiamo nemici di gran lunga più feroci da affrontare questa notte. Vieni!»

Riluttante, si mosse verso la voce lontana, e il furioso abbaiare del cane si perse in lontananza. Qualche minuto più tardi, passava davanti a Trojan Hills, come Preston Troy aveva battezzato la sua lussuosa villa, a sud-ovest di Clarendon, sulla ondulazione collinosa dominante la valle che racchiudeva la città e gli stabilimenti industriali di Troy. Le luci erano spente nella villa maestosa, ma si vedeva una lanterna in movimento nelle scuderie, dove forse gli stallieri si affaccendavano intorno a un cavallo ammalato. Si soffermò per fiutare l’odore forte e gradevole dei corpi equini.

«Fa’ presto, Barbee!», pregò April Bell.

A malincuore riprese la sua corsa a lunghi balzi, finché non gli giunse alle nari l’odore della lupa, acuto e fragrante come quello dei pini. La sua rilut­tanza scomparve e lui balzò innanzi, cercandola ardentemente.

La lupa gli venne incontro sull’erba del prato, trotterellando, dopo essere sbucata fuori dalle siepi che circondavano l’università. I lunghi occhi verda­stri della creatura rilucevano a mo’ di benvenuto, quando gli toccò la punta del muso con un freddo bacio solleticante.

«Quanto tempo ci hai messo!», e balzò via da lui. «Gran parte della notte è già trascorsa e noi abbiamo i nostri nemici da incontrare. Andiamo!»

«Nemici?» Lontanissimo, dalla parte da cui era venuto, giunse loro il latrare disperato d’un cane. Emise un ringhio di odio. «Quello, intendi? I cani?»

Gli occhi verdi rifulsero d’una luce maligna.

«Chi può aver paura di quei botoli?» Le sue candide zanne lampeggiarono di scherno. «I nostri nemici sono esseri umani.»

7.

La lupa bianca si mise a correre e Barbee la seguì. Non si era reso conto di quanto fosse tardi, ma gran parte della notte era già trascorsa. Le strade erano deserte, meno qualche auto ritardataria, e quasi tutti i semafori agli incroci erano spenti. Ma Barbee volle sapere dove fossero diretti. La lupa volse la bella testa a guardare il suo compagno, che era indietro di qualche passo. La rossa lingua le penzolava da un lato delle fauci, mostrando la can­dida minaccia delle zanne affilate.

«Andiamo a trovare due tuoi amici.» E parve che sogghignasse maliziosa­mente. «Sam e Nora Quain.»

«Perché dovremmo fare loro del male?», protestò Barbee. «Non sono nemi­ci.»

«Sono nemici perché sono esseri umani. Mortali nemici a causa di ciò che si trova nella cassa che Quain e Mondrick hanno portato dall’Asia.»

«Ma sono miei amici», insistette Barbee, e sussurrò a disagio: «Che cosa c’è, in quella cassa?».

«Qualcosa di mortale per la nostra specie», fu la risposta; «per il momento è tutto quello che siamo riusciti a scoprire. Ma la cassa è sempre a casa di Quain, sebbene lui si prepari a trasportarla domani all’Istituto. Ha sgombra­to le stanze dell’ultimo piano, assunto guardiani, disposto ogni genere di difese contro di noi. Ecco perché dobbiamo agire ora. Daremo uno sguardo all’interno della cassa, questa notte, e cercheremo di distruggere qualsiasi arma abbiano portato da quei tumuli preumani per usarla contro di noi.»

Un brivido scosse Barbee in corsa.

«Che armi possono essere?», domandò. «Che cosa può esserci letale?»

«L’argento, per esempio. Lame d’argento, proiettili d’argento... ti dirò il perché, quando avremo tempo. Ma il contenuto di quella cassa può essere qualcosa di più mortale dell’argento... e la notte sta fuggendo via rapida.»

L’edificio della Fondazione per le Ricerche Antropologiche era costituito da una snella torre di cemento bianchissimo, alta nove piani. Le luci erano accese in vari piani, e si udiva un picchiar di martelli, il ringhiante gemito di una sega, voci di operai. La luce abbagliante di un riflettore fece fare un salto a Barbee. E si sentiva un odore di vernice fresca, al quale era mescolato un sentore bizzarro, sconosciuto, quasi intollerabile per le loro nari di lupi.

La lupa bianca gli si era posta accanto.

«Vedi? Quain si aspetta qualche iniziativa da parte nostra, e sta trasforman­do la torre di Mondrick in una vera e propria fortezza. Dobbiamo assoluta­mente arrivare alla cassa questa notte. Domani, non potremo più giungervi.»

Sottovento, il collie del professor Schnitzler cominciò a ululare.

«Ma perché fa così?», domandò Barbee apprensivamente. «Gli uomini, a quanto sembra, non ci vedono, ma i cani si spaventano sempre quando siamo vicini.»

April Bell emise un ringhio sommesso verso il cane ululante.

«La maggioranza degli uomini non ci può scorgere», rispose. «Nessun vero essere umano, credo. Ma i cani ci sentono in modo particolare, e nutrono un odio spietato nei nostri riguardi. L’uomo preistorico che addomesticò il pri­mo cane doveva essere già nemico implacabile della nostra specie.»

Giunsero alla casetta di Pine Street, vicinissima alla torre di Mondrick, una casetta che Quain aveva fatto costruire l’anno in cui si era sposato. Barbee, ricordava, aveva bevuto un po’ troppo alla festicciola che Quain aveva dato per inaugurarla, anzi, s’era praticamente ubriacato, per mascherare la delu­sione che gli aveva dato Nora...

La lupa lo guidò dietro la casa, verso il garage, tendendo l’orecchio, fiutan­do l’aria, come in preda a un vago malessere. Barbee udì il suono lieve d’un respiro regolare da una finestra aperta, e percepì l’odore della piccola Pat nel recinto sabbioso, in giardino, dove la bambina giocava parecchie ore al giorno. Balzò davanti alla lupa bianca, con un ringhio minaccioso che gli gorgogliava nella strozza.

«Non voglio che si faccia loro del male!», protestò. «Non comprendo bene che cosa tu voglia fare, ma queste persone sono amici miei, Sam e Nora e Pat!»

La lupa sembrava sogghignare, con la rossa lingua pendula da un lato.

«Non è di loro che dobbiamo occuparci stanotte», rispose. «È il contenuto della cassa che dobbiamo cercare di distruggere.»

Barbee cedette, sebbene a malincuore. A un tratto, l’acuto odore di un cane lo ferì alle nari, e nell’interno della casa risuonò un guaito tremulo e rabbio­so. La lupa bianca fece un balzo all’indietro, spaventata. Anche Barbee non poté dominare la profonda, cupa apprensione, che a quel guaito gli aveva fatto rizzare i peli sul collo.

«È il cagnolino di Pat», spiegò. «La bimba lo chiama Grillo.»

«Domani lo chiamerà in un altro modo», ringhiò la lupa.

«No, non il povero Grillo!», disse Barbee. «La piccola ne avrebbe un dolore immenso!»

Una porta a vetri si aprì e una specie di piumino da cipria si precipitò nel giardino abbaiando furiosamente. La lupa si ritrasse prontamente, e il cagno­lino balzò su Barbee. Questi cercò di respingerlo con una zampata, ma il cagnolino gli addentò la zampa. La trafittura di quei dentini acuti come spilli destò in lui un furore selvaggio, travolgente. Soffocando un ruggito, azzannò il morbido corpicino bianco e lo scrollò fino a quando non cessò di guaire. Poi lo gettò sul mucchio di sabbia, e si forbì con la lingua le zanne su cui erano rimasti alcuni fetidi peli canini.

La lupa bianca era scossa da un tremito: «Ignoravo l’esistenza di quel cane. Nora e la bambina erano fuori questa sera, quando sono venuta a vedere che cosa stesse facendo Sam, e probabilmente la bestiola era con loro. Non amo i cani... Aiutarono gli uomini a sconfiggerci, un tempo».

Balzò verso la porta sul retro della casa.

«Dobbiamo affrettarci ora, la notte sta finendo.»

Barbee cercò di non pensare che la piccola Pat si sarebbe disperata il giorno dopo.

«Perché, la luce del giorno è dannosa?»

«Me n’ero dimenticata: non dovrai mai cercare di trasformarti, alla luce del giorno, o lasciare che il giorno ti colga mutato. I raggi del sole sono mortali, nelle condizioni in cui siamo adesso. Ne parlai una volta a uno di noi, un fisico famoso. Ha una teoria in proposito che mi sembra molto convincente... ma non abbiamo tempo di parlarne ora. Dobbiamo cercare quella cassa.»

Con la zampa duttile e sottile dischiuse la porta, dalla quale aveva fatto irruzione poco prima il cagnolino, ed entrarono nell’atmosfera soffocante della casa. V’erano sentori di cibo, l’insopportabile odore di cane e l’acre pizzicore di un antisettico che Nora doveva avere sparso nella camera da bagno. E l’odore inconfondibile dei corpi umani.

S’udiva il ticchettio d’un orologio, dietro la porta semiaperta della cucina. Poi il motore del frigorifero si avviò all’improvviso, con uno scatto sonoro che li fece sobbalzare. Infine al loro udito finissimo si rese percettibile la respirazione pesante e regolare di Sam, quella più leggera di Nora, nella loro stanza. Pat si voltò nel suo lettino della nursery e mormorò nel sonno:

«Grillo, vieni qui subito!».

La lupa fece un balzo in avanti, e poi si volse verso il suo compagno, digri­gnando silenziosamente i denti in un sogghigno di soddisfazione.

«Quain dorme, dunque! Sfinito, immagino! Meno male che quel botolo rin­ghioso è stato ridotto al silenzio. Evidentemente, Quain contava su di lui, in caso di pericolo. Ora, la cassa! Deve essere nel suo studio.»

Barbee trotterellò verso la porta dello studio, attraverso la camera dove dormiva la bambina, che non si svegliò al silenzioso passaggio delle due om­bre ferine. Barbee si alzò sulle zampe posteriori, per tentare la maniglia della porta con le anteriori. La maniglia non cedette. Ricadde allora sulle quattro zampe e si volse a guardare incerto la lupa bianca.

«Vado a cercare le chiavi di Sam», propose. «Deve averle nella tasca dei...»

«Aspetta, sciocco!» Lui s’era già avviato verso la camera da letto e lei do­vette afferrarlo con le sue temibili zanne alla pelle del collo, per fermarlo. «Lo sveglieresti, o potresti camminare su qualche trappola. Le sue chiavi sono probabilmente protette da un anello d’argento, che ti avvelenerebbe al solo toccarlo. E poi chi sa quali altre armi Sam Quain può avere a portata di mano... relitti mortali dell’antichissima guerra che la nostra specie perdette contro l’uomo.»

«Ma come possiamo entrare senza chiavi?»

«Ora te lo mostrerò, ma prima devi sapere altre cose su questa nostra con­dizione di liberazione fisica, o finirai per ammazzarti senza accorgertene. Lo scienziato di cui ti ho parlato mi disse una volta che il legame fra mente e materia è la probabilità.»

Barbee ripensò alla lezione tenuta sull’argomento da Mondrick.

«Le creature vive», continuò, «sono più che semplice materia. La mente è un’entità autonoma, un campo di energia, creato dagli atomi e dagli elettroni del corpo in vibrazione, che domina le vibrazioni stesse attraverso il magneti­smo e la probabilità atomica. Questo campo di energia vivente è alimentato dal corpo, ed è parte del corpo, di solito. Quello scienziato tendeva a ritener­lo qualcosa di molto affine al concetto di anima. Ora, questo nodo di energia vitale è molto più vigoroso in noi che nella razza degli uomini autentici. Più fluido e meno subordinato al corpo materiale. Nello stato libero in cui ci troviamo in questo momento, noi semplicemente separiamo quel nucleo di energia vitale dal corpo e usiamo il circuito magnetico della probabilità per vincolarlo ad altri atomi, a piacere. Gli atomi dell’aria sono i più facili a controllarsi, perché l’ossigeno, l’azoto e il carbonio sono composti degli stes­si atomi che generano il campo magnetico dei nostri corpi. E ciò spieghereb­be i pericoli da cui dobbiamo guardarci.»

«L’argento? I raggi del sole? Non vedo colme...»

«Le vibrazioni della radiazione solare possono ledere il nucleo d’energia mentale, incidere sulle sue vibrazioni. La massa del corpo lo protegge, natu­ralmente, quando siamo nel nostro stato normale; ma la trasparenza dell’a­ria, quando siamo liberi, non può offrire il minimo riparo. Che la luce del sole non debba mai sorprenderti libero!»

«E l’argento?»

«Si tratta anche in questo caso di vibrazioni. Nessuna materia è per noi una vera barriera, quando siamo in queste condizioni libere. Ecco perché possia­mo fare a meno delle chiavi di Quain. Porte e pareti sembrano impenetrabili, lo so, ma il legno è composto principalmente di ossigeno e carbonio, e il campo magnetico della nostra mente può dominare gli atomi vibranti e pas­sarvi attraverso, come nell’aria. Possiamo utilizzare anche molte altre sostan­ze con un po’ più di sforzo. L’argento è l’eccezione mortale, come sanno bene i nostri nemici.»

«E come mai?»

«Ogni elemento ha frequenze differenti di vibrazioni elettroniche. E l’ar­gento ha il tipo di vibrazione che ci è deleterio, perché non ha circuito di probabilità. Le armi d’argento possono ucciderci, Will, non dimenticarlo!»

La lupa bianca stava ora completamente immobile, tendendo l’orecchio ai lievi rumori della casa, una zampa anteriore graziosamente alzata. Lui le si fece vicino.

«Non lo dimenticherò. Ma come si chiama lo scienziato tuo amico?»

«Geloso, Barbee?»

«No, ma voglio saperlo. E voglio anche sapere chi è questo Figlio della Notte.»

«Lo scoprirai da te, quando avrai superato le prove che ti attendono. E ora affrettiamoci, prima che Quain si svegli.»

Trotterellarono entrambi verso la porta chiusa dello studio. La lupa si volse a guardarlo: «Ora che sai molte cose, posso aiutarti a passare, attenuando le vibrazioni casuali degli elementi più pesanti che costituiscono il legno».

Gli occhi verdastri della lupa si fissarono sui pannelli inferiori della porta, e Barbee ricordò ancora una volta la lezione di Mondrick sulla probabilità. La materia non è che spazio vuoto: soltanto le collisioni casuali degli atomi vi­branti impedivano alla piccola lampada nera di cadere attraverso il piano apparentemente solido del tavolo. Nulla nell’universo è assoluto, solo le pro­babilità sono reali. E la mente è in grado di governare la probabilità.

Sotto il fuoco verde degli occhi della lupa, la metà inferiore della porta si dissolse in una nebbiosa irrealtà. Per un istante Barbee poté vedere i neri perni dei cardini e tutto il meccanismo della serratura come attraverso una radioscopia. Quindi anche il metallo si dissolse, e la sagoma snella della lupa scivolò silenziosamente attraverso la porta.

Barbee la seguì a disagio. Gli parve di sentire una lieve resistenza, là dove si trovavano — o si erano trovati — i pannelli di legno, come se qualcosa gli accarezzasse il vello grigio. Balzò da una parte, soffocando un ringhio. La lupa indietreggiò improvvisamente, urtando contro la spalla del compagno.

Perché qualcosa, nella stanza, era un pericolo... mortale!

Rimase immobile, fiutando il pericolo. L’aria chiusa della stanza era densa degli odori della carta, dell’inchiostro secco e dell’antica colla che venivano dai libri sugli scaffali, odori su cui dominava l’acuta fragranza della naftalina trapelante da un armadio e l’aroma del tabacco chiuso nella scrivania di Quain. Ma il tremendo sentore che lo aveva atterrito veniva dalla cassa pe­santemente cerchiata che si trovava sul pavimento accanto alla scrivania.

Era un sentore penetrante, stantio, come di qualcosa che fosse stato a muf­fire per lunghissimo tempo sotto terra. Lo riempiva di angoscia in modo ine­splicabile, e gli ricordava il vago sentore indefinibile che aleggiava ai piedi della torre di Mondrick. La bianca lupa s’era immobilizzata al suo fianco, vigile e tesa con le fauci ancora aperte in una specie di ringhio congelato e gli occhi pieni di odio e di terrore.

«È là, nella cassa», ammonì. «È la cosa che Mondrick ha scavato nelle tom­be della nostra razza nell’Ala-shan, l’arma che già una volta ha distrutto il nostro popolo e che Quain intende usare ancora. Dobbiamo impadronircene... in qualsiasi modo... questa notte stessa.»

Ma Barbee si andava ritirando, strisciando le zampe.

«Non posso», le disse. «Sto male, soffoco, quell’odore dev’essere velenoso. Torniamo all’aperto.»

La lupa parve fissarlo con estremo disprezzo, digrignando i denti come in un sogghigno. Poi, coi bianchi peli irti, raccolta su se stessa come una molla, s’avvicinò alla cassa, lentamente, quasi strisciando. Barbee, con un immenso sforzo di volontà, sconvolto dall’odore, si costrinse a seguirla. La puzza era tale che traballò sulle zampe, scosso inoltre da brividi penosi.

«Chiusa con un lucchetto! Sam deve avere previsto...»

Ma poi vide gli occhi della lupa fissarsi sul fianco lavorato della cassa verde e si ricordò che era in grado di controllare le probabilità delle collisioni ato­miche. Le tavole di legno si dissolsero in una nebbia opaca, rivelando tutte le viti di ferro che le connettevano. Le viti si dissolsero a loro volta, e poi i larghi cerchi metallici che fasciavano la cassa, e alla fine il lucchetto. A un tratto la lupa ringhiò, fremente d’una gelida ferocia.

«Argento!», latrò, rinculando di nuovo.

Perché all’interno delle pareti di legno dissolte si vedeva un rivestimento di bianco metallo battuto, che non si scioglieva in nebbia opaca. Gli atomi del­l’argento non rispondevano ai loro poteri mentali. E il contenuto fetido della cassa continuava a restare invisibile.

«I tuoi antichi amici sono scaltri, Barbee! Non avevo pensato alla possibilità d’una fodera d’argento. Ora dovremo proprio cercare le chiavi e tentare la serratura. E se anche così non riuscissimo, dovremo incendiare la casa.»

«Non con loro dentro!», scattò Barbee.

«La tua povera Nora!», lo beffò la lupa. «Perché hai lasciato che Sam te la portasse via? A ogni modo ricorreremo al fuoco solo in caso estremo perché le vibrazioni della materia in combustione sono molto nocive. Ora dobbiamo cercare le chiavi.»

Stavano scivolando verso la porta e la camera da letto di Quain e di sua moglie, quando il telefono si mise a squillare, frantumando il silenzio con fulminea violenza.

«Chi può essere l’idiota che telefona a quest’ora?», pensò Barbee.

S’udì nella camera da letto sospirare lamentosamente, poi la voce addor­mentata di Quain. Il prossimo squillo di telefono avrebbe definitivamente svegliato Quain, trasformando lo studio in una trappola mortale per le due creature sotto spoglie di lupo. Ma con un balzo impressionante, la lupa bian­ca era saltata sulla scrivania e, prima che il telefono squillasse di nuovo, con entrambe le zampe anteriori aveva alzato il microfono e ora lo teneva so­speso a mezz’aria. Barbee udì la sottile voce precisa nel microfono chiamare disperatamente:

«Sam? Sono Rowena Mondrick. Sam! Sam Quain, mi senti?».

Nella camera da letto si udì un altro sospiro gemente, e infine la pesante respirazione di Sam Quain riprendere il ritmo regolare, risprofondandolo in un sonno massiccio di sfinimento.

«Nora, sei tu?», insistette la voce sottile, che il terrore rendeva acuta. «Dov’è Sam? Pregalo di chiamarmi, ti prego, Nora. Devo avvertirlo di una cosa... digli che si tratta di Barbee.»

La lupa depose il ricevitore sul tavolo e vi si accucciò accanto, mettendo a nudo le zanne candide, come se volesse stritolarlo, e nei suoi occhi verdi splendeva il fuoco di un odio inestinguibile.

«Ma chi...» La voce nel microfono parve naufragare in un’onda di terrore. «Sam! Nora!... Ma perché non mi rispondete...»

Poi un urlo risuonò nel microfono, così penetrante che Barbee non dubitò che avrebbe svegliato Sam Quain. E infine s’udì nel ricevitore uno scatto, perché Rowena all’altro capo del filo, come in preda al terrore d’una improvvisa rivelazione, aveva riattaccato il microfono. Lasciando il ricevitore sul tavolo, la lupa balzò di nuovo accanto a Barbee con un altro ghigno:

«La vedova di Mondrick! Quella donna sa troppe cose di noi, ha visto trop­po, prima di perdere gli occhi. Ciò che sa potrebbe rendere il contenuto della cassa ancor più pericoloso per noi di quanto già non sia».

Le sue lunghe orecchie si appuntirono ancor di più, ed emise un altro rin­ghio.

«Dovremo occuparci di lei, prima che riesca a comunicare con Quain.»

«Ma non possiamo far del male a una povera cieca!», protestò Barbee. «E poi Rowena è mia amica, e mi vuol bene...»

«Ti vuol bene! Sei ancora troppo ingenuo, Will!...» Ansimava un poco, la lingua le pendeva stanca da un lato delle fauci. «Sei proprio tu, invece, quel­lo che lei vuol tradire.»

Barcollò, dovette accasciarsi sul logoro tappeto dello studio, dove giacque scossa da un lungo tremito.

«April!» E Barbee le sfiorò col muso l’umida punta del naso.

«Siamo in trappola.» La lupa bianca ansimava penosamente. «Ecco per­ché... Quain se n’è andato a letto... lasciando la porta di casa socchiusa. Quella cassa è l’esca... su cui contava. E il suo maledetto contenuto ci uccide lentamente.»

Barbee aveva finito per dimenticarlo. Levò il muso aguzzo per fiutar l’aria. L’odore immondo sembrava essersi attenuato, era quasi gradevole ora. Tor­pidamente, lo fiutò ancora.

«Non respirarlo!», disse la lupa bianca. «È veleno! Quain lo ha lasciato qui per ucciderci!» Si era abbandonata sul pavimento, e lunghi brividi di sof­ferenza passavano come onde sul bel corpo slanciato. «Dobbiamo fuggire subito di qua... e correre dalla tua... cara amica Rowena!»

Poi giacque immobile e muta.

«April!», ululò Barbee. «April!»

La lupa bianca non si mosse nemmeno.

8.

Si adagiò accanto alla lupa. Le esalazioni della cassa si facevano sempre più gradevoli e stupefacenti, quelle esalazioni, misteriose, antichissime, più anti­che della storia, d’una sostanza occulta, rimasta sepolta per millenni sotto le sabbie dell’Ala-shan, insieme con le ossa delle sue vittime.

Barbee aspirò ancora l’aria corrotta, profondamente. Un sonno immenso, meraviglioso, calava su di lui con le nere ali d’un vampiro grande come la notte. Chiuse gli occhi...

Mentre la lupa, in un estremo sforzo di consapevolezza, riapriva i suoi:

«Barbee, svegliati! Lasciami, Barbee, esci di qua... prima di morire!».

La potenza magnetica della sua volontà aveva ormai un tale dominio sulla psiche di Barbee, che il lupo grigio obbedì all’ingiunzione disperata. Si solle­vò sulle zampe malferme e, incapace di lasciarla, la prese per la morbida pelle del collo e lentamente, con uno sforzo gigantesco, la trascinò verso la porta, il più lontano possibile dalle emanazioni della cassa. Ma la porta si era di nuovo ricomposta in una solida barriera di materia compatta.

Debole, la volontà della lupa bianca gli trasmise un nuovo comando:

«Fissa la porta... Cerca di aprire la porta, dissolvendola... Io ti aiuterò con tutta la mia volontà...».

Barbee fissava ora i pannelli della porta, cercava a tentoni, ogni tanto, un passaggio attraverso la loro compatta sostanza. Soltanto le probabilità sono reali, si ripeteva. Ma la porta restava impenetrabile. Sentì a un tratto il tre­mito dello sforzo immane che tendeva tutte le energie della bianca lupa al suo fianco. Tentò di unire la sua volontà a quello sforzo titanico, e lentamen­te, in modo vago, ebbe coscienza d’una nuova forza, d’un senso bizzarro di dilatazione e di potenza. Un grumo nebbioso apparve nel pannello. Provò ad allargarlo. Il grumo si dilatò, a poco a poco divenne una cortina di vapori che alla fine si sciolse, lasciando un’apertura sufficiente al passaggio. Ripresa la lupa per la pelliccia, Barbee la trasse al di là della porta, dove l’effluvio letale non poteva più raggiungerli.

Giacquero entrambi sul pavimento, ansanti, ebbri di stanchezza. Appena percettibile, nello studio sbarrato dietro di loro, s’udì la voce impaziente d’un telefonista risuonare nel microfono abbandonato sulla scrivania. Poi nella casa echeggiò un singhiozzo di Nora, dominata dal terrore pur nel fati­coso dormiveglia in cui era immersa:

«Sam!... Sam!».

Il letto gemette, mentre Sam Quain si voltava agitato, ma senza svegliarsi del tutto. Barbee, soffocando, perché il terribile fetore aveva cominciato a trapelare dalla porta, riuscì a spingere a colpi di muso e di spalla la lupa bianca, attraverso la cucina di Nora, fino in giardino e poi sul prato.

Salvi! La luce zodiacale andava già levando la sua colonna di pallido argen­to a oriente. Nelle fattorie oltre la città s’udivano i galli cantare. Un cane ululava chi sa dove. Il pericolo dell’alba s’avvicinava e la lupa bianca era sempre come priva di vita.

Disperato, cominciò a lambirle la candida pelliccia. Il corpo sottile della lupa cominciò a palpitare, come sotto una respirazione che riprendesse il suo ritmo regolare. Debolmente, si rialzò. Ansimava, la rossa lingua penzolante. Gli occhi erano colmi di terrore.

«Oh, Will, sarei morta in quella trappola, se tu non mi avessi portata fuori!» Le si incupirono maggiormente gli occhi. «Ciò che quella cassa contiene è ancora più letale di quanto immaginassi. Non siamo in grado di distruggerlo. Possiamo solo colpire coloro che sperano di usarlo contro di noi... e poi sep­pellirlo di nuovo, finché non sia di nuovo dimenticato, come sotto quei tumu­li dell’Ala-shan.»

Barbee scosse la testa, riluttante:

«Colpire Sam? Nick? Rex?».

«Tu non hai più amici tra gli esseri umani, Will, perché tutti gli uomini ci ammazzerebbero, se sapessero. È nostro dovere distruggere tutti i nemici del Figlio della Notte, prima di morire. Ma Quain non è più il primo della lista, dopo la telefonata che sai. È alla vedova di Mondrick che dobbiamo pensare, prima che riesca a parlargli.»

«No, io non farò del male a quella povera donna! E tu dimentichi la sua cecità, perché è una creatura umana così reale...»

«Ma tu non lo sei, Will...» E ancora una volta il muso lungo e sottile della lupa parve tendersi in un sogghigno. «E non credo che lo sia del tutto nem­meno lei. Deve avere abbastanza del nostro sangue, per essere così pericolo­sa per la nostra specie. Ha imparato, poi, troppe cose dal marito e troppe altre deve averne viste in Africa. È un’avversaria temibile, ma noi dobbiamo tentare...»

«No, io non farò nulla contro Rowena!»

«Tu farai quello che devi fare, Will, perché sei quello che sei. Tu sei libero, questa notte, e tutte le tue inibizioni umane sono rimaste col tuo corpo ad­dormentato. E stai correndo con me questa notte, come la nostra razza spen­ta correva un tempo, e abbiamo una preda umana da inseguire. Vieni, Will, prima che sia giorno.»

Attraversarono veloci e lievi il gran prato, con la gradevole sensazione della brina che crepitava dolcemente sotto i loro cuscinetti, vigili a ogni suono e odore della città dormiente, e perfino i graveolenti sentori di un camion che passava — quello del lattaio — parevano fragranti, ora, dopo il fetore che li aveva quasi uccisi nello studio di Quain.

A ovest dell’università, in University Avenue, si fermarono presso la vecchia casa di mattoni, dal giardino incolto. Barbee rimase indietro, nel vedere il velo di crespo nero pendere dalla porta d’ingresso, ma la lupa sottile e veloce si volse a guardarlo invitante, e il suo odore di bosco finì per dissolvere le sue ultime perplessità. Perché il suo corpo, ormai, giaceva lontano, e i suoi ceppi umani erano spezzati. La cosa che per lui contava di più era quella lupa bianca, così viva e affascinante. Lui era con il suo branco, ora, in cui tutti seguivano il Figlio della Notte. Attese con lei, presso la porta, che i pannelli si dissolvessero.

La lupa bianca sussultò accanto a lui, e le nari di Barbee percepirono l’odo­re acuto e disgustoso di cane. A entrambi il pelo si rizzò ispido sul collo e la lupa bianca emise un ringhio sommesso e prolungato.

A poco a poco, Barbee vide la parte inferiore della porta sfumare nell’ir­realtà e poi, oltre la minuscola anticamera, la stanza così familiare, con la nera caverna del caminetto e la massa scura del gran piano a coda di Rowena. S’udirono anche dei passi frettolosi e si scorsero vaghe ombre muoversi nella casa buia. La serratura scattò e la porta fu spalancata di colpo.

La lupa si ritrasse con un balzo dietro il suo compagno, digrignando silen­ziosamente i denti. Un’ondata di odori li sommerse, irrompendo dalla porta spalancata: quello della stufetta a gas che ardeva nel camino, e la densa dol­cezza delle rose sul pianoforte; c’era anche il profumo di lavanda e di naftali­na delle vesti di Rowena Mondrick e l’acre e caldo odore spaurito del suo corpo. Ma su ogni altro sentore dominava quello di cane.

Quel lezzo lo colmò di un terrore più antico ancora del genere umano, destando in lui un odio di razza implacabile. Col pelo irto, le zanne a nudo, s’acquattò per affrontare un nemico da epoche immemorabili.

Rowena Mondrick comparve sulla soglia, con al fianco, al guinzaglio, l’e­norme cane che ringhiava sordamente. Avvolta in una vestaglia di seta nera, si fermò sulla soglia, alta e severamente eretta. La luce lontana di un lampio­ne trasse riflessi pallidi dalla collana d’argento che aveva sul seno e dai brac­ciali e anelli d’argento massiccio. Rifulse gelida sulla punta di uno stiletto argenteo che la donna impugnava.

«Aiutami», Barbee sentì che la lupa gli diceva, «aiutami ad abbatterla!»

Quella cieca alta e sottile, che stringeva un pugnale acuminato e aveva ac­canto a sé una belva minacciosa, era stata un tempo sua amica. Ma ora Bar­bee sentì di odiarla, di detestare l’essere umano che era. Strisciando sul ven­tre, i due lupi mossero verso la preda.

«Cercherò di afferrarla al braccio, mentre tu devi saltarle alla gola prima che possa servirsi di quella lama d’argento», fu l’ordine di April.

La faccia bianca e sottile di Rowena era stanca, oscurata da una tristezza senza nome. La cieca piegò il capo da una parte e Barbee rabbrividì per la sconcertante impressione che le buie lenti nere potessero vederlo.

«Will Barbee.» Ella pronunciò il nome a bassa voce, dolcemente, chinando il viso verso di lui, come se lo vedesse. E in quella voce il tono era solo di lieve rimprovero. «Sapevo il pericolo che correvi, e ti ho avvertito di guardar­ti da quella piccola strega perversa, ma non avrei mai creduto che tu rinne­gassi la tua umanità così presto.»

Barbee si volse a guardare la lupa bianca, già disposto a desistere, ma il feroce scherno delle sue zanne scoperte lo fermò.

«È un grande dolore per me, Will», riprese la cieca, «che sia tu, ma ora so che hai ceduto al sangue nero che scorre nelle tue vene... avevo sempre sperato che tu potessi dominarlo: non tutti coloro che hanno sangue nero appartengono alla razza delle streghe, Will, lo so molto bene. Ma con te mi sono sbagliata.» Fece una pausa, più rigida che mai nella sua severa vestaglia di lutto. «So che sei qui, Will Barbee.» Gli parve di vederla rabbrividire, mentre stringeva con mano più ferma lo stiletto di puro argento. «E so quel­lo che vuoi.» Il cane fissava gli occhi gialli sulla lupa bianca, seguendone ogni movimento e ringhiando con segreta ferocia. «Lo so, ma non sarà facile ucci­dermi.»

La lupa, sempre strisciando, volse il capo a guardare il suo compagno: «Tienti pronto», lo avvertì. «Quando le sarò sotto il gomito!»

Il lupo grigio raccolse le forze e misurò la distanza che lo divideva dalla gola della cieca, pronto a balzare. Sapeva di dover obbedire, la sua umanità per­duta non era più che un vago sogno, e la sola realtà per lui era il presente, ormai.

«Ora!», disse la lupa. «In nome del Figlio della Notte!»

Balzò silenziosa, mentre il suo corpo sottile formava una fulminea parabola bianca e le sue zanne afferravano il braccio della cieca. In attesa che questa lasciasse cadere il pugnale, Barbee sentì una cupa ferocia salire dal più pro­fondo del suo essere, una sete divorante per la dolcezza del sangue.

«Will!», singhiozzò Rowena. «Tu non puoi...»

Trattenne il fiato, pronto a balzarle alla gola. Ma Turk lanciò un latrato, mentre Rowena, liberatolo, indietreggiava pazzamente trinciando l’aria con lo stiletto d’argento.

Torcendosi a mezz’aria, la lupa riuscì a evitare la lama. Ma i pesanti brac­cialetti della cieca la colpirono con forza sulla testa lunga e sottile. Cadde, il bianco corpo fremente, e il cane le fu sopra e la azzannò alla gola. Divinco­landosi sotto le sue fauci, gemette acutamente, e infine giacque immobile.

Quel gemito liberò completamente Barbee delle sue ultime perplessità. Le sue zanne nel ferire la gola del cane andarono a urtare contro il massiccio collare d’argento. Il dolore atroce causato dal freddo metallo lo fece trabal­lare, ottenebrandolo.

«Non lasciarla, Turk!», gridò la cieca.

Ma il gran cane aveva già abbandonato la lupa bianca e si girava per affron­tare l’attacco di Barbee. La lupa riuscì a risollevarsi e si volse per fuggire:

«Andiamo, Barbee. La donna ha troppo del nostro sangue nero, ed è trop­po forte. Non possiamo aver ragione di lei, del cane e dell’argento!».

E fuggì per il prato, seguita dal lupo grigio.

La cieca li inseguì, muovendosi con una libertà di movimento ch’era terribi­le, ora. Il lampione lontano traeva nuovi riflessi dai monili ch’erano la sua vera armatura, e dalla lama sottile dello stiletto d’argento.

«Prendili, Turk!», gridò con forza al cane. «Ammazzali!»

A fianco a fianco, la lupa bianca e il lupo grigio correvano per la lunga via silenziosa e deserta verso il prato dell’università. Barbee si sentiva annebbia­to e indolenzito dal duro colpo contro il massiccio collare d’argento e sapeva che il gran cane fulvo lo avrebbe raggiunto in breve. Già il suo rabbioso abbaiare gli era alle terga, e allora, presso il prato, si voltò bruscamente, per opporre al nemico una disperata resistenza.

Ma la lupa gli passò innanzi e corse incontro al cane. Saltellando graziosa davanti a Turk, si gettò poi di lato, fuggendo tentatrice, e il cane la seguì. Pareva irridere al suo assordante abbaiare coi suoi teneri guaiti. E così liberò il lupo grigio dal gran cane fulvo, attirandolo sempre più lontano, verso l’au­tostrada deserta, al di là del prato.

«Prendili, Turk!», urlava la cieca, ormai prossima a Barbee, che si ritrasse da lei in preda a un cupo malessere. «Tienili, finché non ti ho raggiunto.»

Barbee si accorse che la cieca lo seguiva correndo; ma era rimasta indietro di un intero blocco di case. A un tratto, inciampò contro l’orlo di un marcia­piede e la povera donna cadde distesa sul cemento.

Barbee sentì ancora una trafittura di compassione. La caduta improvvisa doveva averle fatto molto male. Ma l’istante dopo, la cieca era di nuovo in piedi e riprendeva l’inseguimento zoppicando. Il lupo grigio riprese il suo trotto silenzioso e imboccò finalmente l’autostrada dove aleggiava ancora l’odore della lupa frammisto a quello del cane.

Quando si volse nuovamente a guardare, sotto il semaforo ammiccante, là dove Central Street attraversava l’autostrada, la cieca aveva perso molto ter­reno. Un’auto stava venendo verso di loro. Barbee si ritrasse dalla luce abba­gliante dei suoi fari, che lo aveva semiaccecato, e si rifugiò in una viuzza laterale, in attesa che passasse. Quando ritornò sulla strada, Rowena era scomparsa.

Il lontano abbaiare di Turk s’era definitivamente perduto, ma l’odore della lupa aleggiava ancora nell’aria, sebbene molto più tenue. Seguendo quell’o­dore, il lupo grigio si lanciò per un dedalo di viuzze trasversali, che lo porta­rono alla fine davanti all’ampia distesa dello scalo ferroviario. L’odore della lupa vi era quasi impercettibile, dominato da quello del grasso di macchina e del carbone bruciato che impregnavano le traversine, e dell’acido solforico nel fumo delle locomotive. Barbee tuttavia riuscì a non perdere la lieve trac­cia, fino a quando una locomotiva in manovra gli si parò dinanzi sbuffando, un frenatore ritto sul predellino con una lampada in mano.

Il lupo balzò da una parte come una molla, ma un getto caldo di vapore lo avvolse assordante, sommergendo ogni altro odore che non fosse quello cal­do e umido di olio e metallo. La traccia era perduta. Si mise a trotterellare stancamente, in cerchio, sull’ampio fascio di binari, ma non c’era nell’aria che quel sentore di carbone e di macchine unte e ribollenti.

Puntò le orecchie, ascoltando disperatamente: sibili di vapore, cozzi metalli­ci nel deposito locomotive, e il lontano macinar dei mulini presso il fiume. Da una grande distanza oltre il fiume gli giunse il fischio di un treno in arri­vo. Ma i fievoli latrati del cane fulvo erano scomparsi.

Una trafittura penosa gli colpì gli occhi, quando volse il muso a guardare a Est, verso il primo verdastro chiarore dell’alba. La lupa bianca era scompar­sa e la luce mortale del giorno lo minacciava; solo allora si accorse di non sapere come ritornare a casa e al suo corpo umano.

Aveva ripreso a trotterellare sulle fredde parallele dei binari, senza meta, quando gli giunse nuovamente l’abbaiare di Turk, latrati stanchi e delusi, verso i mulini. Riprese allora la corsa in quella direzione, fiancheggiando una lunga fila di carri merci, che lo riparava in parte dal tormento di quel primo, vago albeggiare.

Infine, vide la lupa bianca, che gli balzava incontro con una grazia molle e selvaggia insieme. Doveva avere abilmente condotto il cane lungo un ampio circolo, ma si vedeva che era stanca, ora, o indebolita dalla luce crescente, perché il cane stava guadagnando rapidamente terreno e i suoi latrati rico­minciavano ad avere una nota di rabbiosa esultanza. Nuovamente, la lupa e il lupo ripresero la corsa l’uno accanto all’altra allontanandosi dallo scalo, ma seguendo i binari in direzione del fiume.

Questo era ormai vicino: dall’ombra densa delle sue rive saliva l’umido lez­zo della fanghiglia e delle foglie imputridite. Ma oltre il fiume la bianca fiam­ma dell’alba cominciava ad ardere terribile nel cielo. Ancora lontano, il tre­no fischiò una seconda volta.

Raggiunsero il ponte strettissimo, lanciato arditamente sull’acqua nera, e la lupa vi proseguì la sua corsa, delicatamente passando da una traversina al­l’altra dell’unico binario. Barbee si fermò, pieno di un antico e vago terrore dell’acqua ribollente dei fiumi. Ma il cane coi suoi rabbiosi latrati gli era già addosso, e fu costretto a gettarsi sul ponte della ferrovia, scegliendo cauta­mente le traversine su cui camminare. Il cane lo seguì, impetuoso.

Barbee si trovava a metà circa del ponte quando i binari cominciarono a vibrare. Poi il treno fischiò per la terza volta e il fanale che la locomotiva portava in testa apparve fulgido a una curva, a poco più d’un chilometro di distanza. Di nuovo, si fermò, atterrito; ma il cane gli era ancora dietro mi­naccioso, e lui nuovamente balzò in avanti, nel disperato tentativo di rag­giungere il capo del ponte prima del treno.

L’apparente stanchezza della lupa bianca era sparita, ora. Correva lunga e sottile come una freccia molto innanzi, e Barbee la inseguì con uno sforzo mostruoso lungo il metallo sonante. Poi l’aria fu tutta sconvolta e l’intero ponte si mise a tremare. Barbee vide la lupa in cima al ponte, seduta presso i binari ad aspettarlo, irridendo al cane.

Con un ultimo balzo le fu accanto, insieme con la ventata calda e polverosa del treno rombante. Fievole, gli giunse l’ultimo ululato atterrito del cane e il tonfo del suo gran corpo fulvo nelle acque nere. La lupa si scosse la cenere fuligginosa dal mantello, e si alzò con eleganza.

«S’è fatto giorno, è tempo di ritornare a casa. Addio, Will.»

La vide allontanarsi trotterellando lungo il binario, e Barbee a un tratto si ritrovò solo. La fiamma che ardeva a oriente lo trafiggeva, e fu colto dal terrore di caderne vittima. Come ritornare? Disperatamente, si protese a tentoni verso il suo corpo.

Era solo vagamente consapevole del suo corpo, disteso, rigido e infreddoli­to, di traverso sul letto del suo appartamentino in Broad Street. Desiderò con tutto se stesso di possederlo, di muoverlo, come qualcuno che cerchi di svegliarsi da un sogno. Il primo sforzo fu debole e terribilmente doloroso, come se dipendesse da qualche facoltà mai usata prima d’ora. Ma il dolore stesso serviva da sprone. Ancora una volta sentì quello strano mutarsi, quel fluire della metamorfosi, e si levò a sedere tutto indolenzito sulla sponda del letto.

La piccola camera era divenuta gelida durante la notte e Barbee si sentiva tutto intirizzito. Una strana ottusità lo possedeva, come se tutti i suoi sensi si fossero attutiti. Fiutò l’aria in cerca di tutti gli odori e sentori così acuti per il lupo grigio, ma le sue nari d’uomo non raccolsero nulla. Perfino l’odore di whisky era sparito dal bicchiere vuoto sul comò. Dolorante di stanchezza, si avvicinò zoppicando alla finestra e sollevò la tapparella. La grigia luce del­l’alba faceva impallidire i lampioni per la via, e lei si ritrasse di scatto dal cielo pieno di luce, come se fosse la terrificante faccia della morte.

Che sogno!

Si asciugò la fronte del freddo sudore che ancora la ricopriva. Un dolore tenace gli pulsava nel canino destro: la zanna, si ricordò con profondo males­sere, che aveva battuto contro il collare di Turk. Se erano questi gli effetti di qualche dose troppo abbondante di liquore, si disse, era proprio meglio darsi all’astinenza.

Aveva la gola ruvida e secca. Si diresse zoppicando verso la stanza da bagno per bere un bicchier d’acqua e, allungando la sinistra verso il bicchiere, si accorse di tenere ancora stretta nella palma della mano destra la spilla di giada bianca. A bocca aperta, stette a guardarsi la mano intorpidita, e fu allora che si vide sul polso sottile un lungo graffio rossastro, là dove i dentini aguzzi di Grillo avevano morso, nel sogno, la zampa anteriore del lupo.

Nulla di troppo strano, in tutto questo, si disse, ricordando le dissertazioni di Mondrick, all’università, sulla psicologia dei sogni: certi fenomeni del sub­cosciente, diceva Mondrick, erano sempre meno straordinari e istantanei di quanto sembrassero al sognatore.

I suoi dubbi su April Bell, insieme con l’incredibile confessione della ragaz­za, lo avevano spinto durante il sonno ad alzarsi per andare a frugare nella vecchia scatola in cerca della spilla. Doveva essersi graffiato il polso con una di quelle lamette arrugginite, o forse con la spilla stessa. E tutto il resto non poteva essere che il suo sforzo inconscio di spiegare quel banale incidente, con l’abbondante materiale dei suoi desideri e dei suoi timori rimossi e se­polti nel subcosciente.

Così doveva essere! Con un sorriso di sollievo si sciacquò la bocca arida e poi allungò con bramosia la mano verso la bottiglia di whisky per versarsi un goccio che lo aiutasse a cominciare una nuova giornata di quella sua vita da cani... Fece una smorfia, ricordando il disgustoso odor di cane del sogno, e rimise con fermezza la bottiglia al suo posto.

9.

Provò a riaddormentarsi, ma i particolari del suo sogno lo ossessionavano talmente che dovette rinunciarvi e zoppicando tornò di nuovo alla finestra e l’aprì completamente alla cruda luce del giorno. Poi, disinfettata la misterio­sa graffiatura e rasosi con gran cura, prese un’aspirina per addormentare il dolore che gli faceva il dente. Infine, visto che i dubbi e le apprensioni che gli causava l’incubo della notte non si placavano ai suoi vari tentativi di una spiegazione razionale, decise di telefonare a Rowena per accertarsi che fosse al sicuro nella sua casa col fedele Turk accanto.

Formò il numero con un indice ancora intorpidito, e per un bel pezzo nes­suno rispose: forse, sperò, tutti erano ancora comodamente addormentati nel loro letto. Finalmente, la voce acuta della signora Rye, la direttrice di casa, gli domandò piuttosto di malagrazia che cosa volesse.

«Parlare alla signora Mondrick, se è già alzata.»

«La signora non c’è.»

«Eh!», sussultò Barbee, di colpo in preda al panico. «Datemi allora la signo­rina Ulford.»

«Non c’è nemmeno lei.»

«Ma... Ma dove...»

«È andata via anche lei con l’ambulanza, per assistere la povera signora Mondrick.»

Fu un miracolo se il microfono non gli cadde di mano.

«Ma che cosa è successo?»

«La signora, poverina, dev’essere quasi impazzita questa notte. Dopo il col­po terribile del marito, d’altra parte... E poi è sempre stata un po’ stramba, no? dopo che quella belva le tolse gli occhi, laggiù in Africa...»

Barbee inghiottì la saliva a fatica.

«Che cosa è successo, esattamente?»

«Si è alzata nel cuor della notte ed è uscita in strada con quell’enorme cane che si è incaponita a voler tenere. Secondo me, doveva essersi messa in testa di dar la caccia a qualcuno... a quello stesso leopardo, forse, che l’ha acceca­ta. Fatto sta che è uscita con un tagliacarte d’argento, affilatissimo, ma per fortuna il cane s’è messo ad abbaiare, svegliando la signorina Ulford, che si è alzata e l’ha inseguita.»

Muto e atterrito, Barbee ascoltava.

«Poi il cane dev’essersi messo a correre, abbandonandola, ma la signora, povera cieca, l’ha inseguito fin dove ha potuto. La signorina l’ha trovata a una ventina d’isolati di distanza: incredibile per una donna della sua età, e cieca per giunta!»

La donna sembrava trovare una soddisfazione morbosa nel suo racconto.

«La signorina Ulford, più morta che viva lei stessa, è riuscita finalmente a riportare a casa la signora in un tassi. Sanguinava tutta perché s’era sbuccia­ta, cadendo nel selciato, e sembrava che le avesse dato completamente di volta il cervello. Non voleva cedere quel pugnale affilato che aveva in mano, e hanno dovuto strapparglielo con la forza, mentre lei continuava a urlare non so che a proposito degli assassini che secondo lei il cane stava inseguen­do. La signorina Ulford ha dovuto chiamare un’ambulanza e farla ricoverare a Glennhaven. Son venuti a prenderla un’ora fa, bisognava vedere come si divincolava e lottava con gli infermieri, povera donna, c’era pericolo che si ammazzasse!»

«Perché non voleva andare a Glennhaven?»

«Perché s’era messa in testa di andare a casa di Sam Quain. Era così frene­tica, in proposito, che ho finito per telefonare al dottor Quain, ma la società telefonica mi ha detto che avevano dimenticato di riagganciare il microfono. Ora la signora è a Glennhaven e speriamo che si rimetta. Posso esserle utile in qualche modo?»

Barbee era impietrito, talmente impietrito, che non fu capace di rispondere.

«Pronto?», disse la donna. «Pronto?»

Lui non riuscì a trovare la voce e, impaziente, la signora Rye tolse la comu­nicazione. Barcollando, Barbee tornò nella stanza da bagno, si versò mezzo bicchiere di whisky, ma poi lo scaraventò, colto da un dubbio atroce, nel lavabo, senza assaggiarlo. Se il whisky lo aveva ridotto così, non doveva più berne una goccia.

La piccola signorina Ulford aveva fatto bene, si disse cocciuto, a far ricove­rare la povera cieca in manicomio. La tragedia dell’aeroporto era stata per lei il colpo di grazia, e i suoi stessi timori sulla sua sanità mentale dovevano avere contribuito alla formazione di quell’incubo grottesco. Con tetra capar­bietà decise di chiudere gli occhi alle troppo numerose coincidenze tra realtà e sogno, di non avventurarsi su quella strada che conduceva alla follia e su cui la stessa Rowena s’era spinta.

Cedendo a un impulso improvviso, telefonò ad April al Trojan Arms. Non intendeva parlarle del sogno, ma solo udire la sua voce e sapere dove si trovava. Si sarebbe scusato di non essere più andato a trovarla, il giorno prima, e le avrebbe chiesto un altro appuntamento. Fu con voce tremante, che chiese della signorina Bell.

«Mi dispiace», disse l’uomo al banco, «ma non possiamo disturbare la si­gnorina.»

«Sono un amico», insistette Barbee, «vedrete che non si seccherà.»

Ma l’uomo fu irremovibile e allora Barbee chiese del direttore. La pubblici­tà conta parecchio per un direttore d’albergo, e Gilkins infatti ci teneva, di regola, ad accontentare i giornalisti. Ma il caso di April Bell rappresentava, a quanto parve, l’eccezione a quella regola.

«Spiacente, signor Barbee», mormorò con mortificata correttezza, «ma dav­vero non possiamo disturbare la signorina. Abbia pazienza, vecchio mio, la signorina, vede, dorme sempre fino a mezzogiorno e ha dato ordini precisi di non essere svegliata per nessunissimo motivo, a meno che non si tratti di un incendio o di un assassinio.»

Barbee cercò di non rabbrividire alle ultime parole. La ragazza dai capelli di fiamma se la prendeva piuttosto comoda per essere una semplice pratican­te in un giornale della sera, quel genere di giornali che vogliono tutti presenti fin dall’alba. Pregò che l’avvertissero che lui aveva telefonato, e s’impose di non pensare più all’incubo della notte.

Si vestì in fretta e furia, si fermò a bere un caffè al bar dell’angolo e infine pilotò la sua vecchia baracca verso il centro. Aveva bisogno di sentirsi gente intorno. Esseri umani. Aveva nostalgia di voci familiari, di udire il ticchettìo delle macchine da scrivere e delle telescriventi, il fruscio martellante delle linotypes e il fracasso rombante delle rotative. Si fermò all’edicola di Ben Chittum davanti allo Star e chiese notizie di Rex.

«È sconvolto», disse il vecchio, che sembrava anche lui piuttosto depresso. «La morte di Mondrick deve averlo colpito terribilmente. Si è fermato ieri un momento a salutarmi, dopo il funerale, ma non sembrava che avesse mol­ta voglia di parlare. E poi doveva tornare subito all’Istituto.»

Fece una pausa per accomodare meglio un pacco di giornali e poi scrutò attentamente Barbee: «Ma perché i giornali non ne parlano più?», domandò. «C’eri tu, all’aeroporto, e quella ragazza del Call. Mi parrebbe importante, quando un uomo come Mondrick muore in quel modo, se fossi io il capocronista. E invece i giornali quasi non ne dicono niente.»

«Possibile?», rispose Barbee stupito. «Ero convinto che ne avrebbero fatto un servizio da prima pagina, con titolo enorme, che ho buttato giù un pezzo di almeno seicento parole. E poi ero abbastanza sconvolto anch’io e non mi sono curato di vedere che cosa possono aver tolto.»

«Guarda», disse il vecchietto. E gli mostrò una copia dello Star della vigilia. Non una sola parola del suo articolo era stata stampata. Su una delle pagine interne, c’era soltanto l’annuncio del funerale di Mondrick alle due del po­meriggio.

«Strano», disse, e con un’alzata di spalle si scrollò di dosso il piccolo enig­ma. Aveva ben altri misteri da risolvere, quando ne avesse avuto voglia. E attraversò la strada, lieto di ritrovarsi nell’ordinata confusione della sala cro­nisti.

Sul suo tavolo trovò un familiare foglietto blu da memorandum, che gli co­municava di presentarsi da Preston Troy. Lo Star non era la più importante delle imprese industriali di Troy, che comprendevano stabilimenti, mulini, il Trojan Trust, la stazione radio e il circolo di baseball. Ma il giornale era il suo giocattolo favorito, tanto che sbrigava quasi tutti i suoi affari nello spazioso studio d’angolo che si era riservato sopra la sala cronisti.

Barbee trovò l’editore che dettava una lettera a una sottile segretaria dai capelli d’un biondo tiziano (Troy era famoso per la raffinata bellezza delle sue segretarie). Era un uomo robusto e tarchiato, con un cerchio sottile di capelli rossicci attorno alla cupola rosea della testa. Fissò Barbee con due scaltri occhi azzurri e fece ruotare il grosso sigaro da un angolo all’altro della bocca larga e sensuale.

«Prenda la cartella Walraven», ordinò alla ragazza, poi i suoi occhi gelidi si posarono di nuovo su Barbee. «Il suo direttore mi dice che lei è un uomo in gamba, Barbee. Voglio offrirle la possibilità d’un servizio importante, firma­to, per montare la candidatura del colonnello Walraven al Senato.»

«Grazie, Presidente», disse Barbee, senza molto entusiasmo per il colonnel­lo Walraven. «Ho visto che Grady non ha passato il mio pezzo sulla morte di Mondrick, ieri.»

«Gli ho detto io di non pubblicarlo.»

«Potrebbe dirmi perché?» E Barbee piantò gli occhi bellicosamente sul ro­seo volto del proprietario. «A me sembrava che fosse roba da prima pagina. Profondo interesse umano e tutto un lato misterioso, molto giallo: Mondrick, capisce, è morto mentre stava dicendo che cosa aveva portato dall’Asia in quella cassa verde... Ed è ancora valido, come servizio, Presidente.» Barbee cercò di soffocare l’irritazione che lo stava dominando. «Il verdetto del coroner è stato di morte per cause naturali, ma gli amici dello scienziato si com­portano come se non credessero una sola parola del verdetto. Stanno na­scondendo ciò che si trova nella cassa e hanno più che mai paura di parlare.» Ancora Barbee cercò di dominarsi. «Affidi a me questo lavoro, Presidente. Con un fotografo, monterò un servizio che farà di Clarendon la città più famosa del mondo. Voglio scoprire perché Mondrick è andato nell’Ala-shan, e voglio scoprire di che cosa hanno paura quegli uomini, e che cosa nascon­dono in quella cassa.»

Gli occhi con cui Troy lo fissava erano duri e inespressivi.

«Troppo sensazionale per lo Star. »La voce del Presidente s’era fatta bru­scamente dittatoriale. «Non pensiamoci più, Barbee. Si metta a lavorare sul colonnello.»

«Troppo sensazionale, Presidente? Ma se ha sempre sostenuto che la cro­naca nera dev’essere la chiave di volta dello Star... »

«Ho già fissato quella che dev’essere la linea del nostro giornale!», urlò quasi l’editore. «Non si stamperà una sola parola sul caso Mondrick. E non se ne stamperà una parola, come constaterà lei stesso, su nessun altro gior­nale importante.»

Barbee cercò di non dare troppo a vedere il suo stupore.

«Ma io non riesco a non pensarci, Presidente», protestò. «Devo assoluta­mente scoprire che cosa nasconde Sam Quain in quella cassa. Ne sono osses­sionato. Lo sogno la notte.»

«Ci si dedicherà nelle ore libere... e a suo rischio e pericolo.» La voce di Troy era fredda e recisa. «Non certo per il giornale.» Osservò il suo dipen­dente con occhi penetranti, spostando ancora il grosso sigaro da un angolo all’altro della bocca. «Ah, un’altra cosa, Barbee: si metta in testa che il suo organismo non è una distilleria clandestina: meglio piantarla di bere.»

Aprì un cassetto della scrivania e la sua dura faccia di sciolse.

«Ecco un buon sigaro, Barbee.»

La sua voce s’era fatta di nuovo calda e cordiale. «Qui c’è tutta la pratica Walraven. Voglio una serie di articoli biografici. La giovinezza di duri stenti, laboriosa, l’eroismo degli anni di guerra, le opere di beneficenza segreta, la felice vita domestica, le sue prestazioni ispirate al più alto senso patriottico durante la sua attività a Washington. E tralasci tutto quanto possa dispiacere agli elettori.»

Che è parecchio, pensò Barbee. E ad alta voce:

«Benissimo, Presidente».

Ritornò al suo tavolo nella sala cronaca del giornale e cominciò a esamina­re i ritagli che gli aveva dato il Presidente. Ma sapeva troppe cose di quelle che i ritagli tacevano, delle obbligazioni emesse per l’impianto di fognature cittadine e dello scandalo dell’autostrada, e perché la sua prima moglie lo aveva lasciato. Era difficile concentrarsi sull’insipido compito di riverniciare a nuovo un uomo simile per il Senato, e si accorse di fissare al di sopra della macchina per scrivere l’immagine sottile di un lupo che, su un calendario, ululava alla luna, e di pensare con nostalgia alla meravigliosa libertà, al pote­re straordinario che aveva goduto in sogno.

Al diavolo anche Walraven.

Barbee capì che era assolutamente necessario per lui arrivare alla cono­scenza dei fatti che stavano sotto la morte di Mondrick, la follia di Rowena e l’assurda confessione di April Bell. Se poi lui non faceva altro che trarre pazzesche fantasie dal whisky e da una serie di coincidenze, tanto valeva saperlo. Diversamente... anche la pazzia, in fin dei conti, era preferibile al­l’insopportabile tran-tran d’un cronista dello Star.

Cacciò il materiale Walraven alla rinfusa in un cassetto, e tratta la sua auto dal parcheggio percorse tutta Center Street verso l’università. Non riusciva a capire perché il caso Mondrick non rientrasse nella «linea» del giornale: non c’era mai cosa, prima, che fosse abbastanza sensazionale per Preston Troy. A ogni modo, giornale o non giornale, lui doveva sapere che cosa ci fosse, in quella cassa. Fermò la macchina davanti alla villetta di Sam Quain: aveva esattamente lo stesso aspetto che aveva avuto nel sogno, c’era perfino il sec­chiello di latta arrugginito, con la paletta di Pat che aveva visto durante la notte sul mucchio di sabbia per i giochi. Picchiò, cercando di vincere il males­sere che lo dominava, e Nora venne ad aprire dalla cucina dove stava lavo­rando.

«Oh, Will... avanti!»

Una blanda sorpresa le dilatava gli occhi azzurri, un po’ sbattuti, parve al giornalista, e con le palpebre gonfie, come se non avesse dormito bene. Non poté fare a meno di fiutare l’aria, timoroso di percepire l’atroce fetore che doveva emanare dalla cassa chiusa dello studio. Ma nell’aria aleggiava sola­mente il caldo aroma dell’arrosto che Nora aveva messo nel forno.

«Sono venuto a cercare Sam per intervistarlo ancora sulla spedizione e su quello che hanno trovato nell’Ala-shan.»

La donna aggrottò la fronte.

«Meglio non pensarci più, Will», rispose a disagio. «Sam non vuole parlarne con nessuno, nemmeno con me. Io non so che cosa abbiano portato in quella misteriosa cassa e Sam non ti direbbe niente.»

«Dov’è Sam adesso?»

«È andato all’Istituto. Ha un gran da fare, là, perché, mi ha detto, stanno impiantando un nuòvo laboratorio. Ha telefonato all’Istituto, quando si è svegliato questa mattina tutto impensierito, e Nick e Rex sono venuti a pren­dere lui e la sua cassa con una giardinetta. Non ha fatto nemmeno colazio­ne.»

Nora guardò Barbee con occhi imploranti. «Mi ha detto di stare tranquilla», riprese, «ma io sto tanto in pensiero. Poco fa ha telefonato per avvertirmi che questa sera non verrà a casa. Immagino che si tratti di una grande scoperta, che li renderà tutti famosi quando sarà resa nota, ma non riesco a capire il loro modo di fare. Sembrano tutti così... spaventati!» Si scosse, e riprese in tono più allegro: «Speriamo almeno che Rex dirà...». E s’interrup­pe, come chi ha parlato troppo.

«Dirà che cosa?», insistette Barbee.

«Sam mi ha detto di non parlarne a nessuno...» Torse il grembiule con le mani arrossate dal bucato. «Mi fido di te, Will, ma davvero non avrei dovuto parlarne... Promettimi almeno che non lo pubblicherai.» Un’ombra di terrore le incupì gli occhi. «Oh, Will, sono così sconvolta... non so che cosa fare.»

Barbee le batté la mano sulla spalla grassoccia, tranquillizzante: «Non stam­però nulla di quello che mi dirai», promise.

«Sai, non è molto, a dir la verità», riprese lei in tono di gratitudine. «Sem­plicemente che Sam ha rimandato qui Rex, stamattina, a prendere la nostra macchina. Dovevo portarla al garage per farle stringere i freni. Sembra che Rex, mi ha detto Sam al telefono, debba andare con la nostra macchina a State College, stasera, a fare un discorso alla radio.»

«Su che cosa?»

«Non lo so... Sam mi ha solo detto che l’Istituto si è accordato con la radio per una trasmissione speciale, stasera. Mi ha pregato anzi di stare in ascolto al nostro apparecchio. Ma di non parlarne a nessuno. Io spero proprio che questa sera spiegheranno un poco tutti questi misteri. Tu non ne parlerai, vero, Will?»

«Stai tranquilla. Oh, buongiorno, Pat, come stai?»

La piccola Patricia uscì lentamente dalla nursery e s’attaccò alla mano della madre. I suoi occhi azzurri erano più arrossati di quelli di Nora e il suo visetto s’era composto come in una ferma espressione di non voler piangere più.

«Sto bene, signor Will, grazie.» La sua vocina rivelò lo sforzo di non spez­zarsi. «Lo sa? Il mio povero Grillo, lo hanno ammazzato questa notte.»

Barbee sentì un gelido vento soffiare dalle tenebre della sua mente. Tossì per nascondere un sussulto di terrore.

«Oh, ma è terribile!», disse. «E com’è stato?»

Gli azzurri occhioni umidi tremarono.

«Sono venuti due grossi cani, questa notte, uno bianco e uno grigio, per portare via la cassa del papà nello studio. Il povero Grillo è uscito per fer­marli e allora il grande cane grigio lo ha ucciso.»

Muto e sconvolto, Barbee si volse a gardare interrogativamente Nora.

«Questo è quanto va ripetendo la bambina», rispose, con voce stanca. «Cer­to, il suo cagnolino è morto. Lo abbiamo trovato sul mucchio di sabbia que­sta mattina, proprio dove Pat mi aveva detto di guardare, quando si è sveglia­ta piangendo.»

La spalla della donna si alzò in un gesto d’impotenza davanti all’inesplicabi­le.

«Io, a ogni modo», insistette risolutamente, «sono convinta che la povera bestiola sia stata travolta da un’automobile. Ci sono di quegli studenti che la notte guidano la macchina come forsennati. Probabilmente, Grillo si è tra­scinato fin sul mucchio di sabbia e Pat deve averlo udito gemere.»

«No, mammina, no!», protestò la piccola. «È stato quel grande cane grigio, che è venuto con un bel cane bianco, quando li ho sognati. Anche papà ha detto che era vero.»

Nora accarezzò il volto della figlia, e rivolgendosi a Barbee:

«Il fatto è che Sam è diventato pallido come un cencio, quando la bambina ha raccontato il suo sogno, ed è corso subito nello studio a vedere la cassa». Lo guardò preoccupata: «Sei pallido, Will... non ti senti bene?».

«Ho fatto anch’io un sogno piuttosto buffo», disse Barbee cercando di sorri­dere. «Dev’essere stato qualcosa che m’è rimasto sullo stomaco. Be’, ora farò un salto all’Istituto e cercherò di vedere Sam.» Pose una mano sulla schiena rotonda della piccola. «Mi dispiace proprio tanto per il povero Grillo, sai, cara?»

La bimba si ritrasse di scatto di sotto alla sua mano e andò a nascondere il visetto rattristato dietro la gonna della madre.

«Non credo che Sam sarà disposto a dirti qualcosa», stava dicendo Nora. «Ma se ti dicesse qualche cosa, Will... me lo farai sapere?» Lo accompagnò fin sulla soglia e, abbassando la voce per non farsi sentire dalla bimba: «Ti prego, Will, ho tanta paura, sapessi, e non so che cosa fare!».

10.

Un basso, inconsueto silenzio, quasi di cattivo augurio, dominava i corridoi semideserti dell’Istituto fondato da Mondrick. Invece della ragazza che si aspettava di vedere al banco delle informazioni, Barbee trovò un uomo mol­to robusto e un po’ troppo maturo per il maglione da studente che portava.

«Spiacente, signore», disse facendo il cipiglio al giornalista, «biblioteca e museo sono chiusi oggi.»

«D’accordo», rispose cortesemente Barbee, «ma io vorrei solo parlare al dottor Quain.»

«Il dottor Quain è occupatissimo.»

«Allora il dottor Spivak o il dottor Chittum.»

«Occupatissimi anche loro.» Il cipiglio dell’omone si accentuò. «Niente visi­te, oggi.»

Barbee stava ripassando mentalmente le sue strategie per la violazione di domicili particolarmente inviolabili, quando vide due uomini oziare nell’a­scensore automatico. Anche loro sembravano un po’ troppo maturi per i ma­glioni con l’emblema giallo e nero dell’università che avevano addosso, e si misero a guardarlo a loro volta un po’ troppo duramente. Il giornalista notò anche il gonfiore che avevano sotto la giacca, e ricordò che Quain aveva assunto alcune guardie per l’Istituto.

Scribacchiò allora su un biglietto di visita: «Sam, risparmierai guai a te e a me, se mi riceverai subito». Spinse il biglietto con un dollaro sul tavolo e sorrise allegramente al guardiano, che lo fissava con occhio gelido.

«Le dispiacerebbe far avere questo al dottor Quain?»

In silenzio, l’uomo respinse il dollaro e portò il biglietto da visita verso l’ascensore. Zoppicava come un poliziotto stanco, e Barbee notò l’enorme rigonfiamento della sua rivoltella sotto la giacca. Sam Quain evidentemente era deciso a proteggere la cassa.

Attese dieci infelici minuti sotto lo sguardo di pietra dell’omaccione, quan­do a un tratto Sam uscì a passo rapido dall’ascensore. Si sentì stringere il cuore all’aspetto sconvolto del giovane scienziato. Era senza giacca, con le maniche della camicia rimboccate e le sue grandi mani esalavano un odore di sostanze chimiche, come se fosse stato interrotto durante qualche esperi­mento di laboratorio. La faccia non rasata era pallida e tesa dalla stanchezza.

«Di qua, Will.»

Posò gli occhi su Barbee senza amicizia e invitò con un gesto il giornalista a seguirlo fino in fondo al corridoio in una sala, che per qualche istante lasciò Barbee perplesso. Le pareti erano ricoperte di grandi carte geografiche che riproducevano i cinque continenti e di altre che Barbee capì essere ricostru­zioni delle varie linee costiere e delle masse continentali scomparse nel pas­sato geologico. Una serie di computer occupava un’estremità della sala, da­vanti a grandi schedari d’acciaio.

Barbee si chiese fuggevolmente quali generi di dati e riferimenti Mondrick e i suoi collaboratori avessero raccolto e analizzassero in quella sala. Fiumi e montagne di quei continenti scomparsi, più antichi ancora delle leggendarie Lemuria e Atlantide, apparivano con particolareggiata evidenza: li attraver­savano linee di frontiera colorate.

Sam Quain si chiuse l’uscio alle spalle e andò a porsi accanto a un tavolo, volgendosi poi a guardare Barbee. C’erano alcune sedie, ma non ne offrì una a Barbee. Strinse un pugno, convulsamente, in un gesto inconscio di emozio­ne controllata.

«Meglio che la pianti, Will», disse con voce piena d’una contenuta veemen­za. «Nel tuo stesso interesse.»

«Dimmi perché», lo sfidò Barbee.

Uno spasimo d’angoscia contorse il volto emaciato di Quain. I suoi occhi dolenti si levarono per un attimo verso le carte geografiche di un remotissi­mo passato. Tossì, e la sua voce parve non potergli più uscire dalla gola.

«Will, ti prego di non chiedermi questo!»

Barbee sedette sull’angolo del tavolo.

«Siamo amici, Sam... o per lo meno lo eravamo un tempo. Per questo sono venuto qui. Tu puoi dirmi cose che devo sapere... per motivi straordinaria­mente urgenti.»

Il volto di Sam si chiuse.

«Io non posso dirti nulla.»

«Dammi retta, Sam!» Nella voce di Barbee vibrò una nota imperativa. «Che cosa cercava di dire il povero Mondrick quando morì? Che cosa avete trova­to nell’Ala-shan, e che cosa contiene la cassa verde?» Scrutò il viso torvo di Quain. «E chi è il Figlio della Notte?»

Tacque, in attesa, ma Quain deliberatamente non rispose.

«Potresti anche rispondermi, Sam», insistette Barbee con asprezza. «Lavoro per un giornale, ricordatelo, e so come si fa a scoprire quello che si vuol tenere nascosto. Io scoprirò quello che nascondi, con o senza il tuo aiuto!»

Sam Quain socchiuse gli occhi e il pomo d’Adamo gli salì e scese come a fatica sulla gola.

«Non sai in che pasticcio vuoi andare a cacciarti», disse a un tratto con voce bassa e dolente. «Possibile che tu non possa lasciarci tranquilli in questa fac­cenda... finché resta ancora un po’ della nostra amicizia? Cerca, per una vol­ta tanto, di scordarti il mestiere che fai!»

«Ma io non sono qui per lo Star »,spiegò Barbee. «Il giornale non s’interes­sa alla cosa. Ma accadono fatti che io non riesco a capire. Debbo risolvere alcuni enigmi, Sam, che rischiano di farmi perdere la ragione!»

Per un istante la voce gli venne a mancare.

«So che tu e gli altri avete paura di qualche cosa, Sam. Se no, non avreste preso tutte quelle precauzioni per proteggere Mondrick all’aeroporto. E non avresti trasformato questo edificio in una fortezza... Qual è il pericolo, Sam?»

Cocciuto, Quain scosse il capo.

«È meglio che non ci pensi più, Will. La risposta non ti farebbe più felice...»

Barbee si alzò tremando dal tavolo.

«Qualcosa la so già», disse roco. «Abbastanza per farmi diventare pazzo. Sento che stai scatenando una guerra terribile contro... qualcosa, e che ci sono dentro anch’io, Dio sa come. Ma io voglio stare dalla tua parte, Sam.»

Sam sedette pesantemente nella poltrona dietro il tavolo, e si mise a giocherellare distratto con un fermacarte: la piccola lampada romana di Mon­drick, vide Barbee, con i due gemelli figli di Marte e di una vergine protesi verso le mammelle di una lupa.

«Qualunque cosa tu sappia può essere fonte di sciagura... per entrambi, Will.» Respinse bruscamente la lampada di terracotta lontano, e rimase per un lungo tratto in silenzio, guardando Barbee con occhi tormentati. «Temo che tu soffra di allucinazioni», riprese poi, con dolcezza. «Nora mi ha detto che in questi ultimi mesi hai lavorato molto e bevuto troppo, Will, e credo che abbia ragione. Hai bisogno d’un periodo di riposo. Perché non te ne vai da Clarendon per qualche giorno, prima che ti colga un esaurimento nervoso di prima grandezza? Posso aiutarti in modo che tu non abbia da spendere un soldo... se mi prometti di prendere oggi nel pomeriggio l’aereo per Albuquerque.»

Barbee lo fissava muto e accigliato.

«Vedi», riprese Quain, «l’Istituto in questi giorni ha una piccola spedizione nel Nuovo Messico, dove si fanno scavi in antiche caverne d’abitazione alla ricerca di resti che possano illuminarci sul perché l’ homo sapiens era già estinto nell’emisfero occidentale quando vi giunsero gli amerindi. Ma tu non avrai bisogno d’annoiarti coi loro lavori.» Sorrise, incoraggiante. «Perché non ti prendi una settimana? Telefono io a Troy, per il permesso. Potresti anzi tirar fuori qualche corrispondenza per il giornale da questa gita nel Nuovo Messico. Ti prendi del bel sole, aria buona, fai del moto e ti dimenti­chi di Mondrick e tutto il resto. Eh?»

E allungò il braccio verso l’apparecchio telefonico che si trovava sul tavolo. Ma Barbee scosse il capo.

«Non mi lascio comperare, Sam.» Vide il rossore di rabbia di Quain. «Non so quello che vuoi nascondere, ma non mi farai tagliar la corda così facilmen­te. No, intendo restare e vedere come si mettono le cose.»

Quain si alzò, rigido e freddo.

«Mondrick non si fidava di te, Will... già molto tempo fa. Non ha mai voluto dirci perché. Può darsi che sbagliasse e può darsi che avesse ragione. Ma noi non possiamo correre rischi.» La sua faccia ora rivelava una decisa ostilità. «Mi dispiace che tu abbia deciso di essere irragionevole. Io non tentavo di corromperti, ma ora debbo veramente metterti sull’avviso: piantala, Will. Se non la smetti con le tue indagini in faccende che non ti riguardano... saremo costretti a fartele smettere noi. Abbi pazienza, Will, ma le cose stanno così, e la colpa non è mia.» Scosse la testa ossuta e abbronzata con sincero ramma­rico. «Pensaci, Will. Ora devo andare.»

Si diresse rapidamente verso la porta.

«Un momento, Sam!», gridò il giornalista. «Se almeno potessi darmi una sola ragione convincente...»

Ma Sam Quain chiuse l’uscio di quell’enigmatica sala alle loro spalle e si avviò per il corridoio come se non lo avesse udito. Barbee cercò di seguirlo, ma la porta dell’ascensore gli sbatté in faccia. Sentendosi addosso lo sguardo di granito dell’uomo dietro il banco delle informazioni, si ritirò da quella severa torre divenuta la cittadella dell’inesplicabile.

Profondamente turbato, salì in macchina e ritornò in città. Guardò l’orolo­gio, ma era ancora presto per andare a trovare April Bell. E, tutto sommato, il suo dovere sarebbe stato di lavorare per lo Star,dove la pratica Walraven lo attendeva in un cassetto del suo tavolo di redazione. Ma l’idea di fare di Walraven un uomo nuovo a beneficio dei suoi lettori lo nauseava, e improv­visamente capì che era Rowena Mondrick che doveva vedere al più presto.

Glennhaven occupava un centinaio di acri sulle colline sopra il fiume, a sei o sette chilometri da Clarendon. Alberi folti riparavano gli edifici della clinica con la ricca chioma che l’autunno aveva tinto d’un caldo color di rame.

Barbee entrò nella penombra discreta di un ampio vestibolo. Austero e opulento come il salone di una banca, sembrava un tempio dedicato al dio Freud, e la signorina snella seduta davanti a un centralino telefonico, al ripa­ro d’una enorme scrivania di mogano, ne era la vergine sacerdotessa.

«Vorrei vedere la signora Rowena Mondrick», disse Barbee, dandole un biglietto da visita.

La ragazza si mise a sfogliare rapidamente un grosso registro di pelle nera, e gli rivolse un sorriso sognante.

«Mi dispiace, signore, ma non vedo ancora segnato il suo nome. Tutte le visite devono essere richieste in anticipo, attraverso il medico curante della clinica. Se desidera fare la domanda...»

«Ho bisogno di vedere la signora Mondrick immediatamente.»

«Temo che sia impossibile, signore.» Il sorriso della bella figliola era addi­rittura un paradiso artificiale e la sua voce una carezza nel dormiveglia. «Per oggi almeno. Se vorrà tornare...»

«Chi è il medico curante della signora?»

«Un istante, prego.» Le lunghissime dita d’avorio ripresero a scartabellare con grazia il nero registro. «La signora Rowena Mondrick è stata ricoverata stamane alle otto ed è in cura presso...» La voce della ragazza assunse una modulata intonazione di rispetto nel nominare non invano il dio del tempio: «Presso il dottor Glenn».

«Allora mi faccia parlare con lui.»

«Impossibile, signore», gorgheggiò la ragazza. «Il dottor Glenn riceve solo dietro appuntamento.»

Barbee fu lieto di ritrovarsi fuori, nella pura aria autunnale. Un altro tenta­tivo era fallito, ma c’era ancora April da vedere, e al pensiero il cuore gli diede un balzo nel petto. Le avrebbe reso la spilla e in qualche modo sarebbe riuscito a scoprire se anche April Bell aveva sognato...

La vista della signorina Ulford, seduta su una panchina presso la fermata dell’autobus, interruppe il corso dei suoi pensieri. Fermò la macchina presso il marciapiede e le offrì il ritorno in città. La vivace donnetta accettò di buon grado.

«Avrei dovuto farmi chiamare un tassì», disse scivolandogli accanto nella macchina, «ma sono così sconvolta per la povera Rowena che non so più quello che faccio.»

«Come sta?»

«Gravemente agitata, questo è quanto il dottor Glenn ha scritto sulla sua cartella clinica. È ancora in preda a una crisi di nervi e non voleva assoluta­mente che me ne andassi, ma Glenn ha detto che era necessario e che le avrebbe dato dei sedativi.»

«Ma in che cosa consiste il suo disturbo?»

«Paura ossessiva, l’ha chiamata Glenn.»

«Di che cosa?»

«Ricorda che aveva la mania di coprirsi d’argento? Bene, stamane le abbia­mo tolto i monili d’argento che porta sempre con sé, quando l’abbiamo me­dicata delle sbucciature che si era fatta cadendo. Non vi dico che cosa è successo, quando si è accorta di non averli più addosso. È stata colta da una tale crisi di terrore, che Glenn mi ha mandato a casa a prenderglieli. E come mi ringraziava, poverina, quando glieli ho portati! E poi», continuò la voce nasale della buona donnetta, «c’è l’ossessione per Sam Quain. Rowena dice che deve assolutamente vederlo, che deve dirgli qualcosa di molto importan­te, ma non vuole telefonargli, non vuole scrivergli, non si fida nemmeno di me per fargli sapere quello che le preme tanto. Mi ha pregato di andare da lui e convincerlo ad andarla a trovare al più presto, perché, dice, deve avvi­sarlo di qualche cosa. Ma naturalmente non può ricevere visite, finché si trova in quello stato.»

Era quasi mezzogiorno quando Barbee depositò la signorina Ulford davanti alla vecchia casa di University Avenue, e si affrettò a correre in redazione, dove si gingillò coi ritagli su Walraven fino al momento di telefonare al Trojan Arms.

Ma quando aveva già il microfono in mano, si accorse che tutto il suo entu­siasmo per rivedere la ragazza dai capelli rossi era scomparso, sostituito da un inspiegabile senso di panico. Bruscamente, riattaccò il ricevitore.

Era l’ora di colazione, ma non aveva fame. Si fermò in farmacia, per farsi dare una dose di bicarbonato, e poi al Mint Bar per un bicchierino di whisky del Kentucky. Questo lo rianimò, e allora pensò di andare a trovare Walra­ven nel suo studio d’avvocato, nella speranza di dimenticare un’incertezza e un’angoscia che stavano diventando per lui un’ossessione come quella della povera Rowena.

L’uomo politico gli offrì con grande cordialità un altro whisky e cominciò a raccontare storielle sporche sui suoi avversari politici. Ma il buon umore del colonnello Walraven si dissipò quando Barbee alluse discretamente alle obbligazioni delle fognature cittadine; ricordò improvvisamente un impegno urgentissimo, e Barbee se ne tornò al suo tavolo di redazione.

Non riuscì a lavorare. Aveva un bisogno tormentoso di sapere che cosa Ro­wena Mondrick dovesse dire a Sam Quain. E una lupa dagli occhi verdi se­guitava a fissarlo beffarda, nel mezzo del foglio bianco inserito nella sua macchina per scrivere. Era inutile continuare a temporeggiare così, si disse a un tratto. Si scosse di dosso quella irragionevole paura di April Bell, mentre riponeva ancora una volta nel cassetto la cartella di Walraven; e una nuova paura lo colse: d’avere atteso troppo a lungo.

Erano quasi le due: April doveva essere uscita da un pezzo, se lavorava veramente al Call. Salì in gran fretta sulla sua macchina, tornò a casa a pren­dervi la spilla e si lanciò a velocità pazzesca sulla North Main Street verso il Trojan Arms.

Non lo stupì la vista della grossa macchina di Preston Troy nel parcheggio dietro il residence. Una delle ex segretarie più lussureggianti di Troy, sapeva, occupava un appartamento all’ultimo piano. Barbee non si fermò al banco: non voleva avvertire April e darle così modo d’inventare altre storielle sulla zia Agatha. Non attese nemmeno l’ascensore e prese a salire le scale fino al secondo piano.

Neanche allora si stupì nel vedere la figura massiccia di Preston Troy prece­derlo nel corridoio: probabilmente, l’ex segretaria si era trasferita in un altro appartamento. Cominciò a guardare i numeri sulle porte degli appartamenti. Questo era il 2-A, e quello il 2-B; il prossimo doveva essere il 2-C...

E restò col fiato sospeso.

Perché Troy s’era fermato, davanti a lui, sulla soglia del 2-C. Barbee guar­dava a bocca aperta, immobile nel corridoio. L’uomo basso e tarchiato in doppio petto ben stirato e cravatta d’un rosso clamoroso non stette a perde­re tempo a suonare il campanello o a battere con le nocche delle dita. Aprì la porta con una chiave che aveva in tasca. Barbee sentì l’ossessionante asprez­za vellutata della voce intima, bassa di April Bell, e poi la porta si richiuse.

Tornò incespicando verso l’ascensore e premette il bottone della discesa con furia selvaggia. Si sentiva pieno di nausea, come se avesse ricevuto un gran pugno nello stomaco. Era vero, si disse, che non aveva diritti di sorta su April Bell. Lei gli aveva parlato di altri amici, oltre alla zia Agatha. Era chia­ro che non poteva vivere in un residence del genere con quello che guada­gnava al giornale.

Ma Barbee era nauseato lo stesso.

11.

Tornò in redazione: non c’era altro da fare. Aveva deciso di non pensare più ad April Bell, e di cercare sollievo a tutte le crudeli perplessità che uscivano dalle ombre della sua mente a tormentarlo coi suoi antichi rimedi: lavoro sodo e whisky puro.

Riprese la cartella Walraven e batté d’un fiato un articolo sulle durezze patite nell’infanzia dal «Primo Cittadino di Clarendon», bellamente girando intorno ai fatti sordidi che bisognava omettere. Uscì poi per assistere a un comizio di cittadini indignati al grido di «Fermiamo Walraven!» e assunse un tono di garbata e signorile ironia per descriverlo nel modo in cui Grady dice­va che Troy lo voleva scritto: come una riunione cioè di gentaglia prezzolata da inconfessabili interessi.

Aveva paura di tornare a casa.

Cercò di non pensare alle ragioni per cui aveva paura, ma indugiò in crona­ca fino alla chiusura della terza edizione, e infine si fermò a bere qualche bicchierino con alcuni colleghi nel bar di fronte al giornale.

In realtà, aveva paura di andare a letto. Mezzanotte era passata da un pez­zo e lui trasudava whisky e stanchezza quando attraversò in punta di piedi l’anticamera scricchiolante della tetra casetta di Bread Street e salì nel suo appartamentino. Sentì a un tratto di odiare con rinnovato vigore quella casa dall’odore stantio, le tappezzerie sbiadite, i mobili brutti e miseri; di odiare il suo posto allo Star e le ciniche menzogne del suo articolo su Walraven; di odiare Preston Troy, e April Bell, e se stesso.

Stanco, solo e amareggiato, lo colse una gran pietà nei propri confronti. Non se la sentiva di scrivere tutte quelle immonde banalità che Troy esigeva dalla sua capacità di giornalista, e insieme non aveva il coraggio di piantare baracca e burattini. Era stato Mondrick che aveva distrutto la sua fiducia in se stesso, il suo orgoglio e il suo entusiasmo, anni prima, quando il rude scienziato aveva bruscamente spezzato la sua carriera di antropologo, senza volergliene dire la ragione. O tutto questo non era che un inutile piagnisteo, e il suo fallimento doveva essere attribuito solo alla sua incapacità? A ogni modo, la sua vita era ormai rovinata, distrutta. Non vedeva nessun avvenire davanti a sé... e aveva paura di coricarsi. Girellò per la stanza da bagno, e bevve ancora dalla bottiglia una lunga sorsata di whisky. Con la vaga speran­za che potesse dargli una spiegazione plausibile del suo sogno, prese uno dei suoi vecchi libri di testo dallo scaffale e cercò di leggere il capitolo sulla licantropia.

Il libro elencava le credenze primitive, stranamente universali, sulla possibi­lità da parte degli esseri umani di tramutarsi in pericolosi animali carnivori.

Scorse rapidamente la lista dei Lupi Mannari, orsi e giaguari umani, tigri, alligatori, squali, gatti umani, leopardi umani, e iene umane. Le tigri mannare della Malesia, lesse, erano considerate invulnerabili nella loro metamorfo­si; ma il linguaggio prudente, obiettivo, dell’autorevole accademico che aveva scritto l’opera appariva arido e monotono a paragone della realtà del suo sogno. Gli occhi cominciarono a bruciargli dolorosamente. Mise il libro da parte e se ne andò riluttante a letto.

Una tigre mannara, pensò pigramente, sarebbe stata una trasformazione piena di vantaggi. Quasi con invidia ricordò le caratteristiche della tigre prei­storica, dalle terribili zanne a forma di sciabola. Sonnecchiando, ruminò sul terribile potere di quella belva ormai estinta, dagli artigli tremendi e le spaventevoli zanne. E tutta la sua paura di addormentarsi si trasformò in un’ardente sete di vitalità e di forza.

Questa volta fu più facile. Il flusso della metamorfosi fu quasi indolore. Balzò a terra, presso il letto, muovendosi poi in quello spazio angusto con molle eleganza felina. Curioso, si volse a guardare la forma addormentata sotto le coperte, il magro e lungo corpo mortalmente pallido e immobile.

I suoi nuovi occhi vedevano tutto nella stanzetta con straordinaria chiarez­za, anche alla debole luce che filtrava, sotto la tapparella abbassata, dal lam­pione sull’angolo della strada. E improvvisamente si ricordò l’arte che April Bell gli aveva insegnato.

Nulla era assoluto in nessun luogo: soltanto le probabilità erano reali. La sua mente libera era un complesso eterno di energia, che afferrava atomi ed elettroni mediante la catena della probabilità. Quella rete mentale poteva cavalcare il vento o passare attraverso il legno o il metallo: unica barriera insormontabile, il mortale argento.

Fece uno sforzo per ricordare. La porta si fece nebbiosa. Il metallo della serratura e dei cardini apparve e si dissolse di nuovo.

Scivolò attraverso l’apertura, passò silenzioso per l’anticamera ove giungeva la respirazione della signora Sadouski e degli altri suoi inquilini. Anche la porta d’ingresso si dissolse sotto la sua volontà, dopo di che si mise, invisibi­le, a trotterellare verso il Trojan Arms.

April Bell gli venne incontro presso il minuscolo lago, orlato di ghiaccio, nel parco sull’altro lato della strada. Questa volta non gli apparve come lupa, ma come donna. Ma lui seppe, fin da quando la vide materializzarsi davanti alla porta dell’albergo, che si era lasciata dietro, addormentato, il suo vero corpo. Era completamente nuda, e i lunghi capelli le scendevano in onde scarlatte sopra i seni.

«Devi essere forte, Will, per assumere questa forma!»

C’era dell’ammirazione nella sua voce vellutata e nei suoi luminosi occhi verdi. Gli si fece accanto e lo grattò tra gli orecchi.

«Sono contenta che tu sia così forte», gli disse, mentre lui ronfava dal piace­re. «Perché non mi sento ancora bene: il tuo amico Quain mi ha quasi uccisa, con la sua trappola, la notte passata. E io stavo per chiamarti, Will, perché abbiamo un’altra missione da compiere stanotte.»

Lo spaventoso felino si frustò i fianchi con la coda con apprensione.

«Ancora?» Rivide la cieca Rowena cadere miseramente sull’orlo del mar­ciapiede e rivolse un sordo mugolio alla donna dai capelli rossi, ritta presso i suoi fianchi possenti. «Non voglio più.»

«Nemmeno io.» E si mise a titillarlo sotto le orecchie. «Ma ho scoperto che Rex Chittum è partito da Clarendon un’ora fa, con la macchina di Sam Quain. So che si propone di parlare alla radio, domani, dalla stazione dello State College. Temo che voglia concludere le dichiarazioni scientifiche co­minciate da Mondrick all’aeroporto. Dobbiamo impedirglielo, Will.»

«Un altro mio amico! No, Rex è un mio caro, vecchio amico!...»

«Tutti i tuoi cari vecchi amici sono esseri umani, Will. E perciò sono nemici spietati, temibili, del Figlio della Notte. Ricorrono a ogni risorsa della scien­za per scovarci e distruggerci. Dobbiamo servirci delle poche e deboli armi che possediamo. Non ti pare, Will?»

Chinò la testa formidabile, dominato. Perché quella era la sua vera vita, con lei vicina e la sua mano morbida che gli accarezzava il mantello fulvo, traendone faville. Il mondo in cui Rex Chittum era stato suo amico non era più che un lontano incubo di penosi compromessi e di mortale avvilimento.

«Allora andiamo», disse lei, salendogli in groppa: era senza peso per la sua nuova forza illimitata. Percorsero così Main Street fino a Center Street e proseguirono verso la campagna. La luna tramontava e nel cielo limpido e freddo brillavano le costellazioni autunnali. Ma anche alla blanda luce delle stelle Barbee poteva vedere tutto distintamente: ogni roccia e ogni cespuglio sui margini della strada.

«Presto, Will», lo spronò April, premendo le ginocchia contro i suoi fianchi possenti. «Dobbiamo raggiungerli sul Sardis Hill.»

Accelerò il passo, godendo del suo immenso potere, esultando del limpido gelo dell’aria, dei buoni odori di terra e di vita che gli sfioravano le nari, della calda levità della donna sul suo corpo. Ora sì che la sua vita era piena! April Bell lo aveva ridestato, lo aveva salvato da una morte squallida e lenta, ogni giorno più vera.

«Più presto!», ansimò April.

La buia pianura e i piedi delle colline fuggivano ai loro lati come una nube volante. Ma quando la strada cominciò a snodarsi sui fianchi dei colli più elevati, tra nere chiazze boscose, anche il suo cuore possente cominciò a palpitargli dolorosamente. Riconosceva i luoghi. Il padre di Sam Quain ave­va un piccolo ranch da quelle parti, che poi era stato venduto dopo la sua morte. E Barbee e Sam andavano a caccia per quei boschi.

I suoi fianchi pulsavano con forza, all’unisono col suo fiato anelante.

«Mancheranno ancora una trentina di chilometri a Sardis Hill», protestò. «E la salita è ripida.»

«Lo è ancora di più per la macchina del tuo amico... E poi c’è un motivo perché lo si debba raggiungere sul Sardis Hill.»

«Quale?»

«Noi non siamo mai così forti come ci sembra, in questo stato di libertà fisica. Perché i nostri veri corpi sono stati abbandonati solo in parte e il no­stro complesso mentale può attingere solo alle energie causali che può strap­pare agli atomi dell’aria, o di altre sostanze, mediante il circuito delle proba­bilità. Tutto il nostro potere sta nel controllo delle probabilità e noi dobbia­mo colpire là dove quel controllo si rivela opportuno.»

Scosse l’immensa testa felina, intollerante di quelle complicazioni teoriche. I paradossi della fisica matematica lo avevano sempre sbalordito, e ora gli bastava la consapevolezza della sua attuale potenza vitale, senza aver la cu­riosità di conoscerne la causa atomica.

«Quali probabilità?», volle sapere.

«Rex Chittum è al sicuro da noi, finché guida l’automobile con prudenza su un rettifilo pianeggiante... Quain deve averlo istruito e messo in guardia, e la probabilità che noi gli si possa fare del male è troppo esigua perché si possa afferrarla. Ma se corri», e le mani della donna si afferrarono alla sua fulva pelliccia, «in modo da raggiungerlo sul Sardis Hill, le probabilità ch’egli muoia si accresceranno enormemente quando si avvierà giù per quella doppia curva... Sento queste cose, e lo so: Rex Chittum ha paura. Accelererà troppo, malgrado gli avvertimenti di Quain.»

April si distese sulla sua lunga groppa tigrata.

«Più presto!», urlò nel vento della corsa che le fischiava alle orecchie. «Più presto, e uccideremo Rex Chittum sul Sardis Hill!»

Rabbrividì sotto di lei, mentre si tendeva in uno sforzo gigantesco per rag­giungere il massimo della velocità. Ora si vedevano i primi pini, e Barbee ne aspirò la pura fragranza, mentre i suoi occhi potevano distinguere ogni ago, ogni frutto, nitidamente, nella fievole luce degli astri.

Infine, al di là della pineta, le rosse luci posteriori d’una macchina ammic­carono un paio di volte prima di scomparire.

«Laggiù!», esclamò la ragazza. «Raggiungiamolo, Will!»

Ancora uno sforzo, che tese i suoi lunghi muscoli fino a procuragli un dolo­re atroce e trasformò i suoi polmoni in due mantici lancinanti, e la strana coppia fu a pochi metri dai fanali rossi. L’auto arrancava lenta sul tratto più duro della salita che portava su, al passo di Sardis Hill. Era la piccola mac­china convertibile, vide, che Nora aveva comperato durante l’assenza di Sam. La cappotta era aperta, malgrado il freddo della notte: Barbee ricordava, infatti, che non funzionava bene. Chino sul volante, rinfagottato in un gran cappotto nero, Rex Chittum aveva palesemente freddo e paura.

«Bravo, Will», lodò April. «Ora seguiamolo così, da vicino, fino alla curva.»

Barbee rispose con un altro balzo, che lo riportò dietro la macchina. Il mo­tore ringhiava faticosamente su per la salita ripidissima, e l’aria dietro la vettura puzzava di gomma calda e di benzina combusta. Rex Chittum si vol­tò, a guardarsi alle spalle con apprensione. La bruna testa era senza cappel­lo: Barbee poteva distinguere quasi uno per uno i suoi capelli ricci, scompo­sti dal vento. Nonostante la stanchezza che gli rendeva il viso terreo e la paura che gli dilatava pazzamente le pupille, era ancora bello, come ai tempi lontani di loro, «Quattro Mulattieri»...

Barbee brontolò sordamente:

«Non voglio fargli del male... siamo andati a scuola insieme, e mi prestava sempre il suo ultimo dollaro, quando ne aveva più bisogno di me».

«Corri, Will», mormorò April, «non farti distanziare.»

Si voltò di scatto, levando le terribili zanne simili a due candide scimitarre lampeggianti. «Pensa a quel povero vecchio di Ben Chittum», si diceva. «Rex è tutto ciò che gli è rimasto al mondo. Si era ridotto a fare qualunque lavoro, a vestire stracci per mantenere Rex agli studi, quando erano venuti a stare a Clarendon. Perché spezzargli il cuore?»

«Corri, Barbee», insisteva la voce limpida, spietata di April. «Dobbiamo fare il nostro dovere, perché siamo quello che siamo, tu e io.» Si pose ad accarezzargli la groppa. «Per salvare la nostra specie e difendere il Figlio della Notte.»

Il corpo lungo e voluttuoso della donna aderiva, disteso, al suo fulvo man­tello, e i suoi calcagni nudi premevano contro i suoi fianchi pulsanti.

«Aspetta, sempre restando dietro la macchina, fino alla curva, quando Rex comincerà ad accelerare, quando il circuito delle probabilità sarà abbastanza forte... non lo senti crescere?...»

Barbee si sentì invadere da un desiderio irresistibile di obbedire alla volon­tà di quella creatura, che era più forte della sua vita, che era la vita stessa.

«Ecco!... Ora!»

Barbee si lanciò avanti in un balzo spaventoso, ma la piccola macchina si allontanava, accelerando giù per la discesa dopo il passo. Gli artigli formida­bili delle sue zampe anteriori si strinsero sull’asfalto, mentre le esalazioni che uscivano dal tubo di scappamento minacciavano di soffocarlo.

«Attaccalo, ora!», lo spronò ancora la donna. «Ora che il circuito è forte a sufficienza!»

Ancora un balzo spaventoso, e come un enorme gatto Barbee si trovò ag­grappato alla parte posteriore della macchina, con le zampe anteriori salda­mente infisse nella cappotta e quelle posteriori posate sul paraurti e un para­fango.

«Uccidi, ora! Prima che il circuito s’interrompa!»

Rex Chittum si volse ancora, a guardarsi alle spalle con occhi incupiti dal­l’ombra del terrore, e rabbrividì, nel suo pesante cappotto, sebbene non ve­desse le terribili zanne a scimitarra incombere sul suo capo. E un lieve sorri­so gli passò sul volto devastato dalla stanchezza e dalla tensione:

«Ce l’ho fatta!», mormorò. «Sam diceva che il pericolo era...»

«Ora!», sibilò per l’ultima volta April. «Mentre i suoi occhi non guardano la strada!» E Barbee non se la sentì più sulla groppa.

Fulminee, perché il poveretto non soffrisse troppo, le lunghe zanne calaro­no lampeggiando. Rex Chittum gli era stato amico fedele e affettuoso in quel mondo morto, indistinto, del suo passato... di un passato ormai terribilmente remoto. E le zanne squarciarono con feroce determinazione la gola calda dell’uomo.

Le mani si abbandonarono inerti sul volante. La macchina aveva tenuto una velocità troppo elevata, e questo, sentì Barbee, aveva intensificato il campo delle probabilità. I pneumatici fumarono sull’asfalto, sobbalzarono sulla ghiaia ai margini della strada, mentre l’automobile, sbandando, usciva dalla curva strettissima.

Barbee si staccò dalla macchina nell’istante che questa precipitava oltre il ciglio. Rimase ansante, sulle quattro zampe, a guardare giù, nel precipizio. April gli venne accanto, e stettero entrambi a guardare, mentre lei gli si at­taccava al mantello con mani fredde.

L’auto, con le ruote ancora giranti e il motore acceso, fece tre capriole nel vuoto ai loro piedi e infine cozzò contro il pendio roccioso trenta metri più in basso. Con un fragore stridulo, s’appiattì, si spaccò, continuò in varie parti a rotolare, finché andò a sbattere contro un macigno, e là rimase immobile.

«Ecco, Barbee. La polizia non si accorgerà mai che la gola di Rex non è stata squarciata dal parabrezza infranto. Il circuito delle probabilità ha crea­to anche questa combinazione.»

Si scosse i lunghi capelli di fiamma lungo le spalle nude e si chinò a palparsi una caviglia. Il suo volto bianchissimo si contorse in una smorfia di dolore, mentre i suoi lunghi occhi verdi si volgevano a guardare la pallida immagine della luce zodiacale, che cominciava a sorgere nella cava oscurità del passo alle loro spalle.

«Mi son fatta male», mormorò, «e la notte è quasi al termine. Will, dovrai portarmi a casa.»

Barbee s’accasciò presso un macigno, per aiutarla a salire in groppa e ripre­se la strada in senso inverso, fin sul passo e per la lunga discesa che li avreb­be riportati a Clarendon.

Si sentiva stanco, colmo d’una sazietà che lo riempiva di tristezza. Tutto il folle orgasmo di poco prima lo aveva abbandonato. Aveva soltanto paura, una paura profonda della luce livida a oriente. Odiava la prigione angusta e squallida del suo corpo addormentato, ma doveva ritornarvi.

Si scrollò, zoppicando stancamente verso le prime luci dell’aurora, ma April protestò duramente. Barbee non riusciva a dimenticare l’ombra d’orrore che aveva visto negli occhi di Rex, quando si era voltato a guardare attraverso di lui, prima che le zanne lo colpissero, e non riusciva nemmeno a non pensare al dolore del vecchio Ben.

12.

Si svegliò che era già tardi. L’abbagliante fulgore del sole nella sua camera gli ferì gli occhi dolenti, e se ne ritrasse di scatto, prima di ricordarsi che il mortale potere della luce esisteva solo nel suo sogno. Un profondo males­sere lo dominava. Una plumbea stanchezza gli dolorava per tutto il corpo e fitte lancinanti gli strinsero il cranio in una morsa di spasimo, quando si levò a sedere sul letto.

Traballando, si diresse verso la stanza da bagno, tenendosi la testa tra le mani. La doccia, quasi bollente prima e subito poi gelida, gli fece bene, atte­nuando in parte la feroce emicrania. Un cucchiaino di bicarbonato efferve­scente, rimescolato in un bicchier d’acqua, gli rimise anche lo stomaco a po­sto.

Ma la sua immagine allo specchio lo spaventò. Era d’un pallore cinereo, il suo volto, stiracchiato e dalla pelle cascante, mentre gli occhi affondavano nelle occhiaie livide e scintillavano come per febbre sotto le palpebre dagli orli arrossati. Cercò di sorridere, quasi a illuminare un poco la tetra stan­chezza di quel volto, e le labbra esangui si torsero sardonicamente. Era la faccia d’un pazzo, quella, non di Will Barbee. Per l’ennesima volta, in quegli ultimi tempi, si disse che avrebbe fatto bene a smettere di bere e ad arricchi­re la sua dieta di vitamine, per disintossicarsi. Anche una buona rasatura avrebbe potuto giovare al suo aspetto spettrale, se soltanto fosse riuscito a non tagliarsi.

Stava preparando il rasoio quando squillò il telefono.

«Will?... Parla Nora Quain.» La voce della donna era piena di strazio. «Sii forte, Will. Sam mi ha chiamato pochi minuti fa dall’Istituto... è rimasto là a lavorare tutta la notte... per dirmi di Rex... Il povero Rex era partito stanotte per lo State College, nella nostra macchina. Forse andava a una velocità ec­cessiva... o era nervoso per il discorso che doveva fare alla radio. A ogni modo, la macchina si è rovesciata, sul passo di Sardis Hill. E Rex è morto.»

Il telefono scivolò di mano a Barbee. S’inginocchiò senza più forza e cercò il microfono a tastoni con dita bizzarramente intorpidite.

«È morto sul colpo, ha detto a Sam la polizia», continuava la voce di Nora. «Il vetro del parabrezza gli ha quasi staccato la testa dal collo. È una cosa terribile, e mi sento in certo qual modo responsabile. I freni non funzionava­no troppo bene, e non ho pensato di avvertirlo...»

Barbee annuì nel microfono, silenziosamente. Lei stessa non poteva sapere quanto fosse terribile. Avrebbe voluto gridare, se la gola secca e dolente glie­lo avesse permesso. Chiuse gli occhi contro l’offensiva luce del giorno e gli parve di rivedere il volto bello e stanco di Rex, mentre si voltava a guardare attraverso la sua forma spettrale.

«...era tutto quello che aveva», continuava la voce piangente di Nora. «So che tu sei il suo migliore amico, Will. Per due anni ha atteso in quella sua edicola che Rex tornasse a casa. Non si rassegnerà troppo presto... Dovresti dirglielo tu, Will. Non credi?»

Barbee dovette inghiottire due volte, prima di rispondere in un roco bi­sbiglio:

«Sì, certo, glielo dirò io».

E, riattaccato il microfono, tornò barcollando nella stanza da bagno, dove prese la bottiglia e bevve tre lunghe sorsate di whisky. Il liquore lo rinfrancò e gli tolse, almeno per il momento, quel terribile tremito alle mani. Finì poi di radersi e, salito in macchina, si diresse verso il centro.

Il vecchio Ben Chittum aveva già aperto l’edicola, quando Barbee fermò la macchina presso il marciapiede, e stava appendendo alcune riviste sopra lo sportello. Nello scorgere Barbee gli sorrise cordialmente, mettendo in mo­stra le gengive sdentate.

«Ehi, Willy!», chiamò. «Che novità ci sono?»

Barbee scosse il capo, senza sorridere, muto.

«Sei impegnato, questa sera?» E, senza badare all’espressione addolorata del giornalista, lasciò le sue riviste e andò presso la macchina. «Te lo doman­do perché», ed estrasse la nera pipetta dal taschino rigonfio del camiciotto, «questa sera preparo un pranzetto speciale per Rex.»

Sempre muto, Barbee era sceso dall’automobile e ora, ritto sulle gambe che lo reggevano a stento, in preda a un malessere intollerabile, guardava il vec­chietto che accendeva golosamente la pipa.

«A Rex è sempre piaciuto molto il mio stracotto di manzo e la mia focaccia di biscotti al miele, fin da quando era bambino, e ricordo che venivi spesso anche tu a mangiarli. Ci farai un gran piacere, Will, se verrai anche stasera. Ora telefono a Rex...»

Barbee si schiarì la voce.

«Purtroppo ho cattive notizie per te, Ben.»

La vitalità del vecchietto parve inaridirsi di colpo. Ansimò, fissò il giornali­sta e cominciò a tremare. La pipa gli scivolò dalle dita nodose e il cannello si spezzò sul marciapiede.

«Rex?», sussurrò.

Barbee inghiottì e fece un cenno affermativo col capo.

«Una disgrazia?»

«Sì, una disgrazia. Questa notte viaggiava in macchina sulle colline per con­to dell’Istituto. E l’automobile è sbandata, su Sardis Hill. Rex è... morto. Ma non... non ha sofferto.»

Ben Chittum rimase a lungo con gli occhi fissi nel vuoto, che si andavano lentamente colmando di lacrime. Erano occhi neri come quelli di Rex, e quando si persero così nel vuoto sembrarono improvvisamente quelli di Rex mentre si voltava a guardare, in quel terribile sogno, sotto la minaccia delle zanne a forma di sciabola.

«Per questo avevo paura», disse il vecchio lentamente. «Nessuno di loro aveva la faccia giusta, quando sono tornati dalla spedizione. Ma Rex non ha mai voluto dirmi nulla. E ho ancora paura, Will...»

Il vecchio si chinò stentatamente, per raccogliere la pipa spezzata, e con dita tremanti cercò di riconnettere i due pezzi.

«Ho ancora paura», riprese, «perché penso che abbiano dissotterrato qual­cosa in quel deserto che doveva restare sotto terra. Vedi, Rex mi disse un giorno, prima che partissero per l’ultima volta, che Mondrick andava in cerca dell’autentico Giardino dell’Eden, da dove è venuta la razza umana. Ho pau­ra che l’abbiano trovato, Will... e che abbiano anche trovato cose che sarebbe stato meglio non trovare.»

Si ficcò i pezzi della pipa in tasca.

«Rex non sarà l’ultimo del gruppo a morire.»

I suoi neri occhi immobili tornarono lentamente a fissarsi su Barbee e solo allora parve accorgersi delle lacrime che li colmavano. Se li asciugò con un impaziente colpo di manica. Poi scosse il capo e se ne tornò zoppicando verso la sua fila di riviste ch’era rimasta mezza ciondolante sullo sportello dell’edicola. Barbee rimase ritto dove si trovava, troppo sconvolto per pensa­re ad aiutarlo.

«Rex andava pazzo per il mio stracotto di manzo», mormorò il vecchio. «E per la focaccia di biscotti al miele. Te ne ricordi, vero, Will? Fin da quando era piccolo.»

Come in sogno, chiuse l’edicola e Barbee lo portò all’obitorio. L’ambulanza non era ancora arrivata col cadavere, cosa che arrecò un certo sollievo a Barbee. Il giornalista lasciò il povero vecchio affidato alle cure affettuose di Parker, lo sceriffo di contea, e si diresse automaticamente verso il Mint Bar.

Due doppi whisky non sortirono l’effetto di attenuare la terribile emicrania che gli pulsava nel cervello. La giornata era troppo luminosa e quella nausea molliccia che da qualche tempo compariva improvvisamente era tornata a torcergli lo stomaco. Rivedeva continuamente gli occhi di Rex che si voltava sotto la minaccia spaventosa che incombeva su di lui, e un terrore freddo e senza fine s’impadroniva a poco a poco della sua anima.

Disperatamente, cercò di reagire. Cercò di muoversi, di ridere allegramente alla storiella di un altro cliente al banco del bar. L’uomo si trasferì a disagio su un altro seggiolino più lontano, e Barbee si accorse che il barista lo osser­vava con strana intensità.

Pagò, e uscì sulle gambe malferme nella gran luce della strada.

Aveva la febbre, era scosso da un brivido incessante e sapeva che non avrebbe potuto guidare. Lasciò la macchina e si fece portare da un tassi al Trojan Arms. La porta che nel sogno aveva visto sbarrata e attraverso la quale April s’era materializzata così facilmente era aperta, ora, e Barbee vi entrò rapido e barcollante e si buttò su per le scale prima che l’uomo dietro il banco riuscisse a fermarlo.

Un cartello era appeso sulla porta del 2-C con la scritta «Non disturbare», ma il giornalista picchiò vigorosamente. Se il Presidente si trova ancora qui dentro, pensò Barbee, farà bene a nascondersi sotto il letto.

April Bell era più affascinante e soave che mai in una vestaglia verde mare, più aperta e scollata di quanto fosse lecito. Aveva i lunghi capelli di fiamma sciolti sulle spalle e i suoi occhi verdi si accesero d’una luce brillante, quando riconobbero il giornalista. Le labbra non erano truccate.

«Oh, Will! accomodati!...»

Barbee sedette nella capace poltrona che lei gli indicava, accanto a una lampada da lettura. Il proprietario del giornale non sembrava essere nei pressi, ma la poltrona aveva tutta l’aria di essere quella riservata a Preston Troy... dato che ben difficilmente April Bell poteva trovare interessante la lettura dell’ultimo numero di Fortune,sul tavolinetto accanto, o apprezzare i sigari contenuti nell’astuccio d’oro massiccio che a lui sembrava di aver già visto in passato.

April si diresse con la morbida grazia felina del sogno verso il divano di fronte, per sedervisi, e Barbee ebbe l’impressione che zoppicasse lievissima­mente.

«Ti sei fatto vivo, finalmente!», gli disse con la sua strana voce roca e melo­diosa insieme. «Mi domandavo perché non avessi più telefonato.»

Barbee si premette le mani contro le gambe per dominare il tremito che le scuoteva. Aveva una gran voglia di chiederle un liquore, ma ne aveva già bevuti troppi e non sembrava che gli avessero dato il minimo sollievo. Si alzò bruscamente dalla poltrona che doveva essere di Preston Troy, inciampò nel­lo sgabello e raggiunse con passo duro e legnoso l’altro capo del divano. I lunghi occhi della ragazza lo seguirono, vividi di un interesse lievemente ma­lizioso.

«April», le disse con voce soffocata, «l’altra sera al Knob Hill mi hai detto di essere una strega.»

La ragazza gli sorrise beffarda.

«Poveri noi, Will, chiunque ti sentisse penserebbe che a uno di noi due abbia dato di volta il cervello. Non senti anche tu l’assurdità della cosa? Mi hai fatto bere troppi dacquari, l’altra sera, questa è la verità, e l’alcool accen­de la mia immaginazione...»

Barbee si strinse le mani con forza, per interrompere il tremito.

«Ho fatto un sogno, questa notte. Mi sembrava di essere una tigre...» Non era facile continuare, il sorriso di April rendeva le sue parole assurde e ridi­cole all’estremo. «E c’eri anche tu, con me. Abbiamo assassinato Rex Chittum sul passo di Sardis Hill.»

April inarcò impercettibilmente le sopracciglia.

«Chi è Rex Chittum?», domandò, mentre i suoi occhi verdi battevano con innocenza. «Ah, sì, me l’hai detto, è uno dei tuoi amici che hanno portato quella misteriosa cassa dall’Asia.»

Barbee s’irrigidì, accigliandosi all’indifferenza della ragazza.

«Ho sognato che l’ammazzavamo», gridò quasi, «e stamattina ho saputo che è morto!»

«È una cosa strana, ma non insolita», osservò lei con calma. «Ricordo di essermi sognata mio nonno, la notte che morì.»

La voce di April era carezzevole, piena di sfumature vellutate, ma lui conti­nuava a sentirvi una punta lievissima di beffa. Le scrutò gli occhi: erano lim­pidi come laghi montani.

«È un pezzo che dovrebbero migliorare la curva di Sardis Hill», aggiunse April con tono distratto, e subito dopo, cambiando argomento: «Mi hanno detto, qui, che hai telefonato ieri mattina». Con morbida grazia si scosse il fiume di capelli rossi sulle spalle. «Come mi dispiace che tu non mi abbia trovata alzata.»

Barbee si mosse a disagio. Avrebbe voluto affondare le dita in quelle spalle di seta e trarne fuori la verità a scossoni... Ma forse quel tono impercettibil­mente beffardo era frutto soltanto della sua immaginazione. Era livido di terrore... terrore di lei, o di qualche mostro annidatosi nelle profondità della sua anima? Si alzò bruscamente, cercando di nascondere il tremito che lo possedeva.

«Dovevo restituirti una cosa, April.» Lei lo guardò, incuriosita, e non parve notare il tremito della sua mano, mentre Barbee si frugava in tasca e ne traeva la spilla di giada, che le offerse poi sulla palma madida.

Lanciò un piccolo grido di delizia: «Oh, Will, la mia spilla perduta! La spilla di famiglia che mi aveva dato la zia Agatha! Non puoi immaginare quanto mi faccia piacere riaverla!».

Si mise a far girare la piccola lupa per le dita, e parve al giornalista che il minuscolo occhio di malachite lo guardasse ammiccando per un istante.

«Dove l’hai trovata?», gli chiese.

Barbee avvicinò il volto a quello della ragazza, guardandola nel bianco degli occhi:

«Nella tua borsa», rispose duro e reciso. «Infissa nel cuore di un gattino strangolato.»

Il corpo lungo e sottile di April rabbrividì nella vestaglia verde, come in finto orrore.

«Che cosa orribile! Sembri stranamente morboso, oggi, Will!» Lo scrutò con occhi limpidi. «Davvero, a guardarti meglio, si direbbe che non stai affat­to bene. Vorrei sbagliarmi, ma ho l’impressione che tu beva più di quanto il tuo organismo possa sopportare.»

Lui assentì con amarezza, pronto ad ammettere la sua disfatta nel gioco che stavano giocando; ammesso che la ragazza stesse giocando con lui una strana partita, e non fosse tutto immaginazione da parte sua.

«E la zia Agatha dov’è oggi?», domandò.

«È partita.» Alzò le belle spalle in un piccolo gesto di voluta indifferenza. «Dice che l’inverno qui a Clarendon la fa riammalare di sinusite ed è voluta tornare in California. L’ho accompagnata all’aereo ieri sera.»

Barbee, ritto davanti al divano, barcollò lievemente, e April gli si fece vici­na, piena di sollecitudine.

«Davvero, Barbee», gli disse, «non credi che faresti bene ad andare da un medico? Io conosco bene il dottor Glenn, e so che ha rimesso completamen­te in sesto una quantità di alc... di gente che beveva troppo.»

«Non ti fare scrupoli», ribatté Barbee con asprezza, «dammi pure dell’alco­lizzato, perché tanto è quello che sono.» Si avviò incerto verso la porta. «Forse hai ragione. È la semplice risposta a tutti i miei dubbi, la più semplice e convincente... Credo che andrò proprio a farmi visitare da Glenn.»

«Ma non andartene subito», pregò April, correndogli innanzi, per mettersi davanti alla porta... e ancora lui ebbe l’impressione che zoppicasse impercet­tibilmente, proprio con la stessa caviglia che le doleva nel sogno. «Non ti sei mica offeso, vero?», aggiunse con dolcezza. «Il mio voleva solo essere un consiglio, nello spirito più amichevole.»

Ma il senso della sua stanchezza, della sua inettitudine a ogni cosa, anche a risolvere l’enigma di April Bell, e il desiderio insopprimibile di lei, così remo­ta e beffarda, lo spinsero ad andarsene, a fuggire di là pieno di vergogna.

«Vieni un momento in cucina», gli stava dicendo. «Lascia che ti faccia una tazza di caffè e prepari un po’ di colazione per tutti e due, se hai voglia di mangiare qualche cosa. Ti prego, Will... un po’ di caffè ti farà bene.»

Ma lui scosse il capo quasi con rabbia, non voleva che lei si facesse beffe di un vinto, gongolasse sulla sua anima tormentata.

«No», disse. «Devo andare.»

Doveva avere notato l’espressione con cui Barbee aveva visto il numero di Fortune e l’astuccio dei sigari presso la poltrona che aveva pensato apparte­nesse a Troy.

«Almeno, accetta un sigaro», lo pregò con soavità. «Li tengo per gli amici.»

Si mosse con la sua grazia felina verso l’astuccio e questa volta Barbee fu certo che zoppicasse; e impulsivamente le domandò: «Ti sei fatta male alla caviglia?».

«Sì, ho inciampato per le scale, dopo avere accompagnato mia zia all’aero­porto.» Alzò le spalle, offrendogli l’astuccio dei sigari aperto. «Nulla di gra­ve, a ogni modo.»

Era grave, invece, e la mano magra di Barbee cominciò a tremare sulla scatola dei sigari con una tale violenza che April dovette prendere lei uno dei neri e forti Perfectos e spingerglielo fra le dita. Mormorando qualche pa­rola di ringraziamento, si avviò incespicando verso la porta.

Ma nonostante il suo turbamento era riuscito a leggere il monogramma in­ciso sull’astuccio d’oro: una P e una T intrecciate. E il sigaro era della stessa marca straniera che Troy gli aveva offerto ultimamente dopo averlo chiama­to nel suo ufficio.

Barbee aprì la porta a fatica, cercò di allontanare dal proprio volto l’espres­sione di amaro risentimento che sentiva e si voltò per salutare la ragazza. Lei lo stava guardando, ritta sulla soglia, col fiato sospeso. Forse la luce oscura dei suoi occhi era soltanto pietà, ma lui vi scorse uno scintillio segreto di sarcasmo. La vestaglia verde s’era dischiusa ancora un po’, rivelando la pelle candida, e la sua bellezza lo ferì come una lama che gli attraversasse le carni. Le pallide labbra di lei gli rivolsero un piccolo sorriso, mentre gli dicevano:

«Will, non te ne andare! Ti prego, Will...».

Ma lui se n’era andato. Non poteva sopportare la pietà che vedeva, o il sarcasmo che immaginava; quel grigio mondo di dubbio e di sconfitta e di sofferenze era diventato troppo forte per lui.

Per le scale, scaraventò il sigaro per terra e lo stritolò sotto il piede, e senza preoccuparsi dell’uomo dietro il banco, giù nel vestibolo, uscì dalla porta col suo passo barcollante. Sì, pensò ad alta voce, forse ha ragione, forse l’unica cosa da fare è andare dal dottor Glenn.

Non aveva nessuna simpatia per istituti psichiatrici e simili, ma Glenn godeva fama nazionale e il giovane dottor Archer Glenn, come già suo padre, era riconosciuto come un eminente pioniere della nuova psichiatria. Time,ricor­dò Barbee, aveva dedicato tre colonne alle sue ricerche nel campo della cor­relazione tra anomalie fisiche e anomalie psichiche e alle sue brillanti inno­vazioni, quando prestava servizio nella Marina durante la guerra, alla rivolu­zionaria tecnica psichiatrica della narcosintesi.

Come già il padre, Glenn, sapeva Barbee, era un convinto materialista. Il vecchio Glenn era stato grande amico del famoso Houdini, e fino alla morte la sua passione dominante era stata l’osservazione e lo smascheramento dei falsi medium, astrologi e veggenti d’ogni specie.

Il figlio continuava la campagna paterna: Barbee era stato a sentire varie sue conferenze per conto dello Star,conferenze in cui il giovane scienziato aveva attaccato ogni culto pseudoreligioso fondato su spiegazioni pseudo­scientifiche del soprannaturale.

La mente, secondo il motto di Glenn, non era che una funzione squisita­mente corporea. Quale migliore alleato?

13.

La clinica sorgeva a qualche distanza dalla strada, riparata da una gaia cor­tina di foglie giallo-rosse dell’autunno, mentre i suoi vari edifici apparivano bianchi e severi al di là del fogliame. Barbee, vedendoli, cercò di scacciare la sensazione di angoscia che sempre provava alla vista di qualunque edificio che potesse ricordargli un manicomio. Quelle austere fortezze, si disse, era­no cittadelle di sanità ed equilibrio contro gli ignoti terrori della mente.

Fermò la macchina nello spazio ricoperto di ghiaia dietro l’edificio princi­pale e si avviò a passo rapido lungo un lato dell’edificio verso l’ingresso. Guardando attraverso la siepe altissima che cingeva il prato che si stendeva dall’altra parte, Barbee scorse una paziente camminare eretta fra due infer­miere vestite di bianco. Rimase col fiato mozzo.

La paziente era Rowena Mondrick.

Vestita d’un pesante abito nero a protezione dai rigori dell’aria, portava guanti neri e una sciarpa nera sui capelli bianchissimi. Le sue lenti brune parvero fissarsi minacciosamente sul giornalista. Barbee ebbe l’impressione che sussultasse e si fermasse per un istante.

Ma già aveva ripreso la sua passeggiata dignitosa e fiera, tra le due infer­miere, come se fosse sola. Colto da una pietà devastante, Barbee sentì il bisogno invincibile di parlarle: la sua mente malata, si disse, poteva ancora contenere le risposte alle mostruose domande che lo tormentavano. La veri­tà, pensò, avrebbe potuto liberare entrambi.

La cieca e le due infermiere si stavano allontanando da lui ora, si dirigeva­no a passo lento verso il gruppo di alberi che formava una specie di boschet­to presso il fiume. Corse loro dietro, col cuore che gli martellava nel petto.

«...il mio cane?», stava dicendo Rowena, la voce colma di angoscia. «Non mi è permesso nemmeno chiamare il mio povero Turk?»

Una delle due infermiere, la più alta, le prese il braccio ossuto.

«Può chiamarlo, signora Mondrick, se lo desidera», le rispose pazientemen­te, «ma non servirà a nulla, mi creda. Le abbiamo già detto che il cane pur­troppo è morto, e che quindi sarà meglio per lei non pensarci più.»

«Non è vero!», rispose Rowena con voce querula, acuta. «Non ci credo, e ho bisogno d’avere il mio cane qui con me. Vi prego di chiamare al telefono la signorina Ulford e dirle a mio nome di mettere un avviso su tutti i giornali promettendo una ricompensa molto elevata.»

«Non servirà a nulla», ribatté sempre con molta dolcezza l’infermiera più alta, «perché un pescatore ha trovato il corpo del cane ieri mattina nel fiume, presso il ponte della ferrovia. Ha portato il collare d’argento alla polizia. Glielo abbiamo detto ieri sera, non ricorda?»

«Me lo ricordo, ma io ho bisogno lo stesso del mio povero Turk, che mi protegga quando verranno per assassinarmi durante la notte.»

«Oh, non ha più nulla da temere, ora», la rassicurò con voce allegra l’infer­miera. «Qui non verrà nessuno a farle del male.»

«Sono venuti una volta e verranno ancora!», ribatté Rowena con voce che l’esasperazione rendeva stridula. «Vogliono impedirmi di avvertire Sam Quain, e io devo farlo a ogni costo.»

Si fermò bruscamente, afferrandosi con le tenaci dita sottili al braccio del­l’infermiera. Barbee si fermò alle loro spalle, non per soprendere le sue pa­role, ma perché il colpo di quanto aveva sentito lo aveva raggelato: Turk era infatti morto, nel suo primo sogno.

«La prego, infermiera», stava ora implorando la cieca. «Telefoni subito al dottor Sam Quain, Istituto Ricerche Antropologiche, e gli dica di venire su­bito qui da me.»

«Sono desolata, signora Mondrick, lo sa bene», disse dolce e paziente l’in­fermiera, «ma è impossibile: il dottore dice che non può vedere nessuno, finché non starà meglio. Se solo volesse rilassare un poco i nervi, riposare e aiutarci a farla guarire al più presto, il dottor Glenn le permetterà di vedere chiunque...»

«Ma non abbiamo tempo! Ho paura che ritornino questa notte per uccider­mi, e io devo parlare a Sam!» Si volse torcendosi le mani all’infermiera. «Perché non mi accompagna all’Istituto, lei stessa, ora?»

«Conosce anche lei il regolamento, signora Mondrick: non possiamo...»

«Sam la ricompenserà largamente!», ansimò disperata Rowena. «E sarà lie­to di spiegare tutto ai dottori... perché il mio avvertimento gli avrà salvato la vita, e non solo la sua vita... Presto, chiami un tassi, noleggi una macchina, rubiamone una!»

«Possiamo mandare al dottor Quain un suo biglietto, signora...»

«No!», sibilò Rowena. «Un biglietto non servirebbe a nulla!»

Barbee fece un passo innanzi e aprì la bocca per parlare. Le due infermiere gli voltavano ancora le spalle, ma Rowena s’era voltata e lui poteva ora fis­sare le lenti nere e il volto contratto della povera cieca. Pieno di compassio­ne, Barbee si sentì gli occhi colmi di lacrime.

«Ma perché, signora Mondrick?», diceva l’infermiera. «Quale pericolo può minacciare il dottor Quain?»

«Un uomo di cui si fida», singhiozzò la cieca.

Queste parole arrestarono Barbee un’altra volta. Anche se avesse voluto parlare, la gola serrata spasmodicamente glielo avrebbe impedito. Cominciò a ritirarsi in silenzio sul prato umido, ascoltando senza volere.

«Un uomo che lui crede amico», ribadì Rowena.

L’infermiera che non aveva ancora parlato guardò l’orologio e fece un cen­no alla compagna, che annuì.

«Abbiamo camminato parecchio, signora Mondrick», disse l’infermiera alta, «e ora è tempo di rientrare. Lei sarà stanca e farà bene a schiacciare un pisolino. Se ha ancora intenzione di parlare al dottor Quain, il dottor Glenn le permetterà di telefonargli, oggi nel pomeriggio.»

«No», singhiozzò la cieca. «Non servirebbe a niente.»

«Ma perché? Non ha un telefono?»

«Sì, e anche tutti i nostri nemici lo hanno. Tutti quei mostri che fingono di essere uomini. Ascoltano tutto quello che dico e intercettano le mie lettere. Turk era stato abituato a riconoscerli al fiuto, ma ora Turk è scomparso. E il mio caro marito è morto. Non è rimasto nessun altro di cui possa fidarmi, tranne Sam Quain!»

«Di noi può fidarsi, signora Mondrick», disse l’infermiera in tono affettuo­so. «Ma ora dobbiamo proprio rientrare.»

«Va bene», disse Rowena, «andiamo.»

Si volse, come rassegnata, ma bruscamente si liberò con uno strattone delle due donne, colte di sorpresa, e si mise a correre via per il prato. «Signora Mondrick, che cosa fa! Via, non deve fare così!»

Le due ragazze si misero a inseguirla, ma la poveretta correva con un’agilità incredibile. Per qualche istante parve guadagnare terreno e Barbee pensò che potesse raggiungere il gruppo d’alberi presso il fiume. Aveva quasi di­menticato che Rowena era cieca, ma a un tratto la povera donna inciampò nel sostegno di un innaffiatoio automatico e cadde bocconi sul prato.

Le due infermiere accorsero e l’aiutarono a rialzarsi, e tenendola per le braccia con dolce fermezza si avviarono verso l’edificio centrale. Barbee fu preso da un desiderio imperioso di fuggir via, quando vide le tre donne veni­re verso di lui, perché la follia di Rowena risolveva anche troppo l’enigma dei suoi sogni; ed era stato colto dal terrore che gli ispirava la frenetica luci­dità intravista sotto l’apparente pazzia della cieca.

«Buongiorno, signore», gli disse l’infermiera alta, squadrandolo incuriosita e tenendo Rowena più saldamente che mai. «Desidera qualche cosa?»

«Ho lasciato ora la mia macchina nel parcheggio della clinica», disse Barbee indicando col mento lo spiazzo dietro l’edificio. «E vorrei vedere il dottor Glenn.»

«È al di là della siepe che dovete andare», sorrise l’infermiera al suo errore evidente, «dove c’è il viale che gira intorno alla palazzina. E dia il suo nome alla signorina alla porta.»

Barbee non la udì nemmeno, intento a osservare Rowena, che si era irrigi­dita al suono della sua voce e ora se ne stava muta e immobile fra le due infermiere, come gelata dal terrore.

Gli occhiali neri erano caduti, o si erano spezzati, quando aveva inciampa­to, e ora le sue occhiaie spente e straziate aggiungevano una nota di orrore alla sua pallida faccia terrificata.

«Sono Will Barbee.» Non voleva più parlarle, ora; aveva sentito anche trop­po per la sua curiosità, ma non poté fare a meno di chiederle con la sua voce strozzata: «Dimmi, Rowena, che cosa devi dire a Sam Quain?».

Ritta davanti a lui, gli spenti occhi colmi di un orrore immobile, la cieca fu scossa da un tale brivido, che le due infermiere credettero che volesse fuggi­re nuovamente, e le strinsero le braccia con maggior forza. La sua bocca livida si aprì come per un urlo, ma non ne uscì suono alcuno.

«Dimmi, Rowena, perché quel leopardo nero ti aggredì in Nigeria?» Questa domanda gli era uscita dalla bocca nel modo più inatteso, senza che se ne rendesse conto. «E che specie di leopardo era?»

La cieca strinse fermamente le labbra.

«Che cosa cercava realmente Mondrick nell’Ala-shan?» Barbee sapeva che lei non intendeva rispondere, ma continuò, come spinto da una forza sovru­mana: «Che cosa hanno riportato lui e Sam in quella cassa verde? Chi può aver voluto la loro morte?».

Lei si ritrasse di scatto, scuotendo la testa.

«Basta, signore», intervenne severamente l’infermiera, «non spaventi la si­gnora! Se vuole veramente parlare al dottor Glenn, l’ingresso è laggiù.»

Le due infermiere si avviarono, sostenendo la povera cieca.

«Ma chi sono questi nemici segreti?», insistette Barbee seguendole di qual­che passo. «Questi assassini nell’ombra? Chi vuole uccidere Sam?»

Lei si divincolò tra le forti braccia che la tenevano, voltandosi verso di lui.

«Non lo sai proprio, Will Barbee?» E la sua voce lacerata gli parve orrenda come la sua faccia. «Possibile che proprio tu non lo sappia?»

Poi con dolce violenza le due infermiere la portarono via per il prato.

Barbee, sconvolto e disperato, tornò verso l’apertura della siepe, cercando di non pensare alle parole di Rowena, sperando contro se stesso che Glenn potesse aiutarlo.

Nel tempio freudiano, la sacerdotessa sottile ed esotica lo accolse col suo sorriso fascinoso. Ma alla notizia che Barbee voleva vedere Glenn senza ap­puntamento, si mostrò contrariata e disse che il professore era anche questa volta terribilmente occupato.

Barbee scosse il capo e cercò di parlare con la voce più normale possibile.

«Senta», disse, «è urgente che io veda il dottor Glenn per una visita perso­nale. È una cosa... personale.»

Il sorriso della sacerdotessa era una carezza venuta dal lontano oriente.

«Ma c’è il dottor Bunzel, allora», tubò la vestale. «È il nostro diagnostico. E il dottor Dilthey, dirigente del servizio neuropatologico. Sia l’uno che l’al­tro...»

Barbee scosse il capo:

«No», disse. «Ascolti: dica al dottor Glenn che sono venuto per vederlo. Dica semplicemente che ho aiutato una lupa bianca ad ammazzare il cane della signora Mondrick. Sono certo che troverà il tempo di ricevermi.»

La sacerdotessa si dedicò al suo centralino telefonico e un minuto dopo i suoi occhi si volgevano luminosi su Barbee:

«Il professore sarà lieto di riceverla fra un minuto», annunciò con una voce di velluto liquido. «L’infermiera Graulitz l’accompagnerà.»

L’infermiera Graulitz era una bionda muscolosa, dalla faccia equina e gli occhi duri e limpidi come il cristallo. Il cenno del capo con cui salutò il gior­nalista era una fredda sfida, come se intendesse dargli una medicina molto cattiva e costringerlo a dire che era squisita. Barbee la seguì per un lungo corridoio silenzioso fino a un piccolo studio.

Con una voce roca che ricordava la sirena di un rimorchiatore nella nebbia, la donna gli rivolse una serie di domande: quali malattie aveva avuto, chi avrebbe pagato la sua nota ospedaliera, quanto beveva di solito. Scrisse le risposte su un cartoncino e gli fece firmare un modulo che lui non tentò nemmeno di leggere. Mentre Barbee firmava, la porta si aprì alle sue spalle.

La donna si alzò e disse col suo vocione ronfante e soffocato: «Il professore è pronto per riceverla».

Il celebre psichiatra era un bell’uomo, molto alto, con neri capelli ondulati e occhi nocciola lievemente fissi. Porse a Barbee una mano abbronzata dal sole e ben curata, sorridendo cordialmente. Guardandolo, Barbee ebbe l’im­pressione fuggevole di averlo conosciuto intimamente in passato e poi di averlo dimenticato. Impressione, pensò, che doveva dipendere dal fatto di essere venuto a sentire molte sue conferenze e di averne parlato sul giornale.

«Buongiorno, signor Barbee», disse Glenn con voce profonda, stranamente riposante. «Di qua, prego.»

Il suo studio era lussuosamente semplice, con due grandi poltrone di pelle, un divano con un foulard immacolato sul cuscino, orologio, portacenere e vaso di fiori su un tavolinetto, alti scaffali pieni di opere mediche e copie della Psychoanalytic Review. Dalle persiane socchiuse si godeva la vista del fiume e delle sue rive boscose e dell’autostrada, là dove si piegava a formare un’ansa.

Barbee sedette, muto e a disagio.

Glenn sedette a sua volta e si mise a battere una sigaretta, con noncuranza, sull’unghia del pollice. Emanava da lui un’aria di fiducia e di serenità, quanto mai rassicuranti.

«Fuma?», disse Glenn. «E quali sarebbero i suoi disturbi?»

Prendendo coraggio dalla calma dell’uomo, Barbee annunciò in tono dram­matico:

«Stregoneria!».

Glenn non parve né sorpreso né impressionato; aspettava il resto, semplice­mente.

«O sono stato stregato», riprese Barbee disperatamente, «oppure vuol dire che sto perdendo la ragione.»

Glenn esalò una nube di fumo leggero.

«Mi racconti le cose per benino, se crede.»

«La cosa è cominciata lunedì sera, all’aeroporto», iniziò Barbee, prima cau­tamente, poi con un senso crescente di benessere. «Quella ragazza dai capelli rossi ha attaccato discorso, mentre aspettavo l’arrivo dell’aereo della spedi­zione Mondrick...»

Raccontò della morte improvvisa di Mondrick, del gattino strangolato e dell’inesplicabile paura che i superstiti sembravano avere della cassa portata dalla spedizione. Descrisse il sogno in cui aveva corso la città sotto forma di lupo in compagnia di April Bell e in cui il cane Turk era morto... Spiando il volto di Glenn, Barbee poté scorgervi soltanto un interesse professionale di calma simpatia.

«E questa notte, dottore, ho fatto un altro sogno. Mi sembrava di essere una tigre dai denti a sciabola... tutto era straordinariamente reale. Quella ragazza era ancora con me, e mi dava istruzioni su quello che dovevo fare. Abbiamo seguito la macchina di Rex Chittum sulle colline, e io ho ucciso Rex sul passo di Sardis Hill.»

Parlandone, quel sogno gli sembrava meno orribile. Un po’ della calma di Glenn sembrava essere passata nel suo stato d’animo.

Riprese, con un lieve tono di distacco: «Ora, Rex è morto esattamente come io ho sognato di ucciderlo». Disperatamente, scrutò il volto dello psi­chiatra. «Mi dica, dottore, come è possibile che sogno e realtà combacino così perfettamente? Crede proprio che io possa avere ucciso Rex Chittum questa notte sotto la suggestione di un maleficio occulto, o sono già impazzi­to del tutto e non me ne sono ancora reso conto?»

Con molta precisione, Archer Glenn congiunse insieme le punte delle dita.

«Ci vorrà tempo, signor Barbee.» E la sua testa bruna annuì gravemente. «Sì, parecchio tempo. Io le proporrei di fermarsi qui a riposare per qualche giorno. Ciò permetterà al nostro corpo sanitario di occuparsi di lei nelle mi­gliori condizioni possibili.»

Barbee si alzò atterrito dalla poltrona.

«Ma, che cosa mi dice dei miei sogni?», gracidò con voce strozzata. «Ho veramente commesso le cose che ho creduto di sognare? Oppure sono paz­zo?»

Glenn rimase immobile a guardarlo coi suoi placidi occhi sonnolenti, fino a quando il giornalista non ricadde a sedere nella sua poltrona.

«Le cose che avvengono, spesso non sono così importanti come l’interpretazione che il nostro cervello, più o meno inconsciamente, tende a darne.» La voce profonda di Glenn risuonava con indolente noncuranza. «C’è un punto tuttavia del suo racconto che mi sembra molto significativo: ogni incidente che ha menzionato, dal fatale attacco d’asma di Mondrick alla disgrazia di cui è rimasto vittima Chittum... la stessa morte del cane della signora Mon­drick... hanno una spiegazione naturale perfettamente logica.»

«È proprio questo che mi fa diventare matto», rispose Barbee, cercando di scoprire la minima reazione sotto la maschera di deliberata indifferenza del­lo psichiatra. «Tutto potrebbe essere pura coincidenza... ma lo è? Ma come posso avere saputo della morte di Chittum prima che qualcuno me lo dices­se?»

Glenn staccò le punte delle lunghe dita e cominciò a battere un’altra siga­retta sull’unghia del pollice.

«Spesso, signor Barbee, la mente ci inganna. Sotto stimoli di cui non siamo consapevoli, può accaderci di deformare i particolari delle cause e degli ef­fetti. Questi errori di ragionamento non sono necessariamente prova di fol­lia. Freud ha scritto tutto un libro sulla psicopatologia della vita quotidiana.» Indolente, accese la sigaretta con un accendino d’oro. «Vediamo di studiare con calma il suo caso, signor Barbee... senza tentare diagnosi estemporanee. Lei ha speso troppe energie, credo, in un lavoro per il quale non è esatta­mente tagliato. Ha ammesso di bere più di quanto possa assimilare. Deve essersi pur reso conto che una vita di questo genere doveva finire con un collasso, in un modo o nell’altro.»

Barbee s’irrigidì.

«Dunque, lei ritiene che io sia... pazzo?»

Glenn scosse la testa ben fatta.

«Non ritengo nulla di simile, e ho l’impressione che lei attribuisca un peso eccessivamente emotivo al problema della sua sanità mentale, signor Barbee. La mente non è una macchina e le condizioni mentali non sono tutte in bianco e nero. Un certo grado di anormalità mentale è completamente nor­male, infatti... e la vita sarebbe intollerabilmente monotona e piatta senza questa punta di anormalità.»

Barbee ebbe un guizzo di penosa incertezza.

«Per cui», continuò Glenn, imperturbabile, «evitiamo di arrivare a conclu­sioni troppo affrettate, prima di un attento esame fisico e psichiatrico.» Crol­lò il capo, gettando nel portacenere la sigaretta non accesa. «Potrei forse aggiungere, a ogni modo, che la signorina Bell la sconvolge evidentissima­mente... e che lo stesso Freud descrive l’amore come una normale insania.»

«E questo che cosa significherebbe?», domandò Barbee sogguardandolo con diffidenza.

Il medico ricongiunse le punte delle dita. «In tutti noi, signor Barbee», dis­se, «si nascondono sentimenti inconsci di paura e di colpa. Sorgono nell’in­fanzia e danno un’impronta a tutta la nostra vita. Esigono di esprimersi e riescono a farlo in modi che ben di rado potremmo immaginare. Anche l’in­dividuo più sano ed equilibrato cela in sé questi segreti e insospettati motivi. Nel suo caso, per esempio, non crede possibile che, in un periodo in cui i suoi freni coscienti sono indeboliti da una combinazione di estrema stan­chezza, violenta emozione ed eccesso di alcool, questi sentimenti sepolti ab­biano cominciato a trovare espressione attraverso sogni particolarmente vivi­di o addirittura allucinazioni allo stato di veglia?»

Barbee scosse il capo, più che mai a disagio. Un vago risentimento si anda­va impossessando di lui per il modo in cui Glenn aveva di sondarlo così fred­damente.

«Forse», continuò tranquilla la voce profonda dello psichiatra, «lei ha an­che cominciato a sentirsi colpevole, in qualche modo, del disturbo che ha colpito la signora Mondrick...»

«Non direi!», lo interruppe Barbee sgarbato. «Come potrei?»

«La stessa violenza della sua protesta dà valore alla mia supposizione for­tuita.» Il sorriso indolente di Glenn sembrava avere una sfumatura beffarda. «Ci vorrà un po’ di tempo, come le ho già detto, per rintracciare il meccani­smo dei suoi complessi principali. Ma il quadro generale mi sembra già piut­tosto evidente.»

«Cioè?»

«I suoi studi universitari nel campo dell’antropologia debbono averle fornito una vasta conoscenza delle credenze primitive nella magia, nella stregone­ria e nella licantropia. Sfondo clinico sufficiente a spiegare l’insolita direzio­ne assunta dalle manifestazioni della sua fantasia.»

«Può darsi», rifletté Barbee poco convinto. «Ma come può pensare che io possa sentirmi colpevole della malattia della signora Mondrick?»

I sonnolenti occhi nocciola di Glenn divennero a un tratto singolarmente penetranti.

«Mi dica... ha mai desiderato coscientemente di uccidere il dottor Mon­drick?»

«Che cosa?», s’indignò Barbee. «Ma no, mai!»

«Cerchi di ricordare bene», insistette dolcemente il medico. «Eh?»

«No!» s’incaponì Barbee con rabbia. «Perché avrei dovuto desiderare una cosa simile?»

«Mondrick l’ha mai offeso?»

Barbee si agitò un poco sulla poltrona prima di rispondere.

«Anni fa, quand’ero ancora all’università e stavo per laurearmi, Mondrick bruscamente mi divenne ostile. Non ho mai saputo il perché. Mi respinse, quando stava organizzando la sua Fondazione, prendendo invece Quain, Chittum e Spivak. Per parecchio tempo, capisce, gliene ho serbato rancore.»

Glenn assentì, con aria compiaciuta.

«Questo completa il quadro. Lei deve aver desiderato la morte di Mon­drick, inconsciamente, badi, per vendicare l’offesa patita. Ha desiderato di ucciderlo e alla fine quando è morto, lei, in virtù della logica elementare, senza tempo, del subcosciente, si sente colpevole del suo assassinio.»

«Ma non mi sembra», mormorò Barbee innervosito. «I motivi del mio ran­core risalgono a una dozzina d’anni fa, e poi tutto questo non ha niente a che vedere con la malattia della signora Mondrick.»

«Il subcosciente ignora il tempo», gli ricordò Glenn con dolcezza. «E poi io mi sono limitato a dire che forse lei si sente responsabile della malattia della vedova Mondrick. L’improvviso squilibrio della povera signora è ovviamente conseguenza della morte del marito. Se nel subcosciente si sente colpevole di questa, deve con ogni probabilità sentirsi colpevole anche di quanto è occor­so alla vedova.»

«No!» Barbee si alzò ancora una volta, tremando orribilmente. «Non posso sopportare che...»

La bruna testa ben fatta annuì piacevolmente.

«Esatto. Lei non può più sopportare tutto ciò, consciamente. Ed è per que­sto che il complesso di colpa è ricacciato nel subcosciente: dove, tra i suoi ricordi delle lezioni di antropologia impartite dallo stesso Mondrick, trova adattissimi mascheramenti con cui ossessionarla.»

Barbee, sempre ritto davanti al medico, tremando, inghiottì la saliva con uno sforzo.

«Dimenticare non significa sfuggire.» I sonnacchiosi occhi nocciola sembra­vano implacabili. «La mente esige una tassa per ogni adattamento che non riusciamo a fare. C’è una specie di giustizia naturale nei meccanismi del sub­cosciente — o, talvolta, una crudele parodia di giustizia — cieca e inevitabile.»

«Ma quale giustizia? Non vedo...»

«Appunto! Non vede, perché non può tollerar di guardare... ma questo non interrompe l’operazione dei suoi motivi inconsci. Lei si condanna per la fol­lia della signora Mondrick, apparentemente. Il suo senso di colpa rimosso esige una punizione adatta al delitto. Mi sembra che lei stia inconsciamente ordinando secondo certe linee sogni e allucinazioni solo per espiare l’im­provvisa follia di Rowena... anche a costo, in definitiva, del suo stesso equili­brio mentale.»

«No, non capisco», rispose Barbee, scuotendo il capo nervosamente. «E poi anche se capissi, la sua spiegazione non spiegherebbe tutto. C’è ancora il sogno della tigre dai denti di sciabola, con la morte di Rex Chittum. I miei pensieri relativamente alla signora Mondrick c’entrano ben poco con tutto questo, e Rex è sempre stato mio amico.»

«Ma anche suo nemico», ribatté Glenn dolcemente. «Con Quain e Spivak fu scelto per la Fondazione, lei mi ha detto, mentre lei fu respinto. E questo fu un colpo grave. È impossibile che non abbia patito un sentimento di invi­diosa gelosia...»

«Sì, ma non un sentimento omicida!»

«Inconsciamente, sì! L’inconscio non ha princìpi morali. È cieco ed egoista all’estremo. Il tempo non esiste e le contraddizioni non hanno valore, per l’inconscio. Lei ha desiderato il male per il suo amico Chittum, e alla sua morte ha cominciato a sopportare le conseguenze di quel desiderio colpevo­le.»

«Molto convincente!», urlò quasi Barbee. «Ma dimentica un piccolo parti­colare: che io ho fatto quel sogno prima di sapere che Rex era stato ucciso.»

«Lo so che lei lo pensa. Ma la mente ci gioca strani tiri, quando siamo in preda a certe emozioni, relativamente a cause ed effetti. Forse ha inventato il sogno dopo aver saputo della morte del suo amico, e invertito la sequenza dei fatti per trasformare le conseguenze in causa. O forse prevedeva che dovesse morire.»

«E in che modo?»

«Poteva sapere che doveva passare in macchina a Sardis Hill. Sapeva di certo che doveva essere stanchissimo e avere una gran fretta.» Gli occhi apa­tici si socchiusero. «E, mi dica... non sapeva proprio nulla dei freni difettosi di quella macchina?»

Barbee dischiuse appena la bocca, stupito.

«Nora mi aveva detto che avevano bisogno di una ripassata.»

«Non vede, dunque, anche lei? L’inconscio è attentissimo a ogni stimolo e coglie qualsiasi occasione, si serve di qualunque stratagemma per esprimersi. Lei sapeva, coricandosi, che Chittum aveva tutte le probabilità di rompersi l’osso del collo su Sardis Hill.»

«Probabilità», ripeté Barbee, con un brivido. «Forse lei ha ragione.»

I freddi occhi nocciola erano fissi sul giornalista.

«Sono un uomo razionale, signor Barbee, e respingo ogni teoria sopranna­turale come superstizione. Il mio razionalismo si fonda esclusivamente su dati scientifici dimostrati in via sperimentale. Ma credo nell’inferno.»

Il bruno psichiatra sorrise.

«Perché ogni essere umano si fabbrica il suo piccolo inferno privato e lo popola con demoni di sua invenzione, che lo tormentino per i suoi peccati segreti, immaginari o reali che siano. È affar mio esplorare questi inferni individuali e smascherarne i diavoli per quel che sono. Di solito si rivelano meno terrificanti di quanto non sembrassero. Il Lupo Mannaro e la tigre dai denti a sciabola dei suoi sogni sono i suoi demoni privati, signor Barbee. Spero che le appaiano già meno terribili, ora.»

Ma Barbee crollò il capo.

«Non so... ma quei sogni sono stati d’una realtà impressionante.» E quasi con furore soggiunse: «Dottore, lei è maledettamente abile, ma in questo caso non si tratta di semplici allucinazioni create dal subcosciente. Sam e Nick stanno montando la guardia a qualcosa che ignoro, chiuso in quella cassa. Stanno ancora combattendo una battaglia accanita contro... non so che cosa. Sono amici miei, dottore». Parve sul punto di scoppiare in pianto. «Voglio aiutarli, non essere lo strumento dei loro nemici.»

Glenn annuì, soddisfattissimo.

«La sua stessa veemenza tende a confermare l’attendibilità della mia interpretazione, sebbene debba pregarla di non dare troppo peso ai miei com­menti improvvisati in questa seduta, che è soltanto esplorativa.» Piegò il cor­po da una parte per lanciare un’occhiata all’orologio. «Questo è tutto il tem­po che possiamo concederci per oggi. Se desidera restare a Glennhaven, pos­siamo rivederci domani. Penso che farebbe bene a prendersi un paio di gior­ni di riposo, prima di cominciare in modo organico i nostri rapporti clinici.»

Fece per alzarsi e avviarsi verso la porta, ma Barbee non si mosse dalla sua poltrona.

«Resto, dottore». La sua voce tremava come d’impazienza. «Ma c’è un’altra domanda che devo farle subito.» Scrutò il volto sereno e abbronzato di Glenn. «April Bell mi ha detto di averla consultata una volta. È forse dotata di poteri... soprannaturali?»

L’alta figura del medico si alzò lentamente dalla poltrona.

«Il segreto professionale m’impedisce di parlare dei miei pazienti», disse. «Ma se una risposta di carattere generico può darle qualche sollievo, le dirò che aiutai mio padre ad analizzare migliaia di casi di cosiddetti fenomeni metapsichici di ogni genere, e devo ancora trovare un caso in cui le ordinarie leggi della natura vengano meno.»

Si volse fermamente verso la porta, ma Barbee rimase ancora seduto.

«Il solo contributo scientifico realmente valido ai fenomeni metapsichici e di criptestesia è stato dato dagli studi fatti alla Duke University», aggiunse Glenn. «Alcuni dei risultati pubblicati tendenti a dimostrare la realtà della metapsichica e il controllo mentale delle probabilità sono abbastanza convin­centi... ma temo che il desiderio di dimostrare l’esistenza di un mondo so­prannaturale abbia accecato i ricercatori, fino a far loro commettere qualche grave menda nei loro metodi sperimentali o statistici.» Scosse il capo, con enfasi rattenuta. «L’universo è per me rigorosamente meccanicistico. Ogni fenomeno che vi si verifica, dalla nascita delle stelle alla tendenza degli uo­mini a vivere nel timore di forze soprannaturali, era già implicito nel super-atomo primitivo dalla cui esplosiva energia cosmica l’universo trasse appunto origine. Gli sforzi che alcuni eminenti scienziati vanno facendo per trovare giustificazione a una libera volontà umana e a una funzione creativa sopran­naturale, che ovviino all’errore rappresentato, nella descrizione meccanicisti­ca, dal principio di indeterminazione di Heisenberg, questi futili sforzi sono così patetici per me come il tentativo pagliaccesco di uno stregone di far piovere, spruzzando il terreno con un po’ d’acqua. Tutto il cosiddetto so­prannaturale, signor Barbee, è pura illusione, basata su emozioni male inca­nalate, osservazioni poco precise e pensieri irrazionali.» La calma faccia ab­bronzata sorrise, rincuorante. «Questo la fa sentire meglio?»

«Sì, dottore.» Barbee gli prese la mano forte e nervosa, e provò ancora quello strano senso di agnizione, come se avesse ritrovato un forte vincolo dimenticato che li legasse l’uno all’altro. Glenn, pensò, sarebbe stato un al­leato potentissimo.

«Grazie», gli disse. «È esattamente quello che avevo bisogno di sentirmi dire!»

14.

Nella piccola anticamera c’era l’infermiera Graulitz che lo stava aspettando. Cedendo completamente alla sua volontà sperimentata, Barbee telefonò al­l’ufficio di Troy, al quale espresse la sua necessità di passare qualche giorno a Glennhaven per una visita di controllo al suo sistema nervoso.

«Ma certo, Barbee!» La voce aspra di Troy suonava calda e cordiale nel microfono. «Lei si è prodigato troppo in questi ultimi tempi... e so che il povero Chittum era suo amico. Penserà Grady a sostituirla al giornale. Io ho una grande fiducia in Archer Glenn. Se ci sono difficoltà di carattere econo­mico per le sue cure, non si preoccupi: dica a Glenn di telefonarmi; e non pensi al lavoro.»

Balbettando i suoi ringraziamenti, il giornalista pensò che Troy dopo tutto non era poi tanto cattivo. Forse, era stato un po’ troppo severo nel giudicarlo per la campagna Walraven e anche per le prove... «indirette» trovate nell’ap­partamento di April Bell.

Cedendo ancora alla volontà della formidabile signorina Graulitz, Barbee si convinse di non aver bisogno di tornare fino a Clarendon per il suo spazzoli­no da denti e un pigiama, e nemmeno di andare al funerale di Rex Chittum. Docilmente, seguì l’infermiera lungo un passaggio coperto dall’edificio cen­trale a una dipendenza dal tetto di mattoni rossi. La donna lo pilotò attraver­so la biblioteca, la sala di musica, la sala da gioco, la sala di soggiorno e la sala da pranzo. Lo presentò casualmente a parecchie persone, lasciandolo incerto su quali fossero i pazienti e quali facessero parte del personale della clinica. Barbee continuava a guardarsi intorno in cerca di Rowena Mondrick, e alla fine si decise a chiedere di lei.

«È nel reparto agitati», rispose il vocione dell’infermiera. «L’edificio atti­guo, attorno al quadrilatero. Ho sentito che oggi è peggiorata... qualcosa l’ha sconvolta mentre era fuori per la passeggiata. Non può ricevere visite, e lei dovrà fare a meno di vederla finché non sia migliorata.»

La virago lo lasciò finalmente in quella che doveva essere la sua camera, al primo piano della dipendenza, con l’ingiunzione di suonare per l’infermiera Etting, qualora avesse avuto bisogno di qualche cosa. La camera era piccola, ma comoda, con un piccolo bagno annesso. Non gli fu data chiave della por­ta.

Le finestre, notò il giornalista, erano di vetro rinforzato con filo di acciaio e munite di una specie di traliccio metallico, così che solo un serpente avrebbe potuto passarvi. Figurarsi! tanto non c’era argento!... si disse. E subito poi pensò: «Dunque, siamo già alla pazzia!».

Si lavò la faccia e le mani sudaticce nel minuscolo camerino da bagno, os­servando come tutto fosse studiato e costruito in modo da non avere né spigoli acuti né appigli per nodi scorsoi. Infine sedette stancamente sulla sponda del letto e si sciolse i lacci delle scarpe.

La pazzia? Eppure non gli sembrava di essere pazzo, rifletté; ma del resto, qual era il pazzo che sapeva di esserlo? Si sentiva solo, confuso e stordito per quella lunga lotta per dominare e comprendere situazioni superiori alle sue forze. Era bello potersi riposare per un po’.

Barbee aveva meditato più volte sulla follia, spesso con una specie di cupo terrore... perché suo padre, che ricordava appena, era morto in uno degli squallidi edifici di un manicomio statale. Aveva vagamente immaginato che la perdita della ragione dovesse essere qualcosa di strano ed emozionante, accompagnato da un ininterrotto contrasto di orribili depressioni e accessi di straordinaria euforia. Ma forse non era che qualcosa come quello che lui provava ora, un ritirarsi apatico, sbigottito da problemi divenuti troppo ar­dui.

Doveva essersi addormentato nel bel mezzo di queste cupe riflessioni; si accorse vagamente di qualcuno che cercava di scuoterlo per la colazione del­l’una, ma fu solo dopo le quattro — al suo orologio — che si svegliò.

Qualcuno gli aveva tolto le scarpe e gettato addosso una coperta. L’aria gli sembrava viziata e gli doleva un poco il capo. Aveva un gran bisogno d’un sorso di qualcosa di forte. Forse, era possibile far entrare di contrabbando una bottiglia di liquore. Anche se era per colpa del whisky che si trovava là dentro, un sorso doveva berlo. Alla fine decise, pur senza troppe speranze, di tentare con l’infermiera Etting. Levatosi a sedere sul letto, premette il botto­ne che pendeva da un filo elettrico a capo del letto.

Muscolosa e abbronzata, l’infermiera Etting aveva una faccia da fumetti umoristici, con denti sporgenti e capelli color topo su cui erano evidenti le tracce di cure infinite e inutili. Sì, gli disse con voce nasale e precisa, gli erano consentiti un bicchierino prima di pranzo e non più di due dopo. Gli portò una dose generosa di eccellente bourbon e un bicchiere di soda.

«Grazie!» Stupito di aver ottenuto da bere, Barbee era ancora vagamente risentito della noncurante sicumera di Glenn e del suo corpo sanitario. «Alla salute dei serpenti!»

Bevve il liquore d’un fiato. Senza battere ciglio, l’infermiera se ne andò col bicchiere vuoto rotolando sulle gambe robuste. Barbee rimase disteso sul letto supino, le mani incrociate sotto la nuca, ripensando a tutto quello che Glenn gli aveva detto. Forse quell’irriducibile materialista aveva ragione. Forse il Lupo Mannaro e la tigre non erano state che allucinazioni...

Ma non poteva dimenticare la vivida realtà delle sensazioni provate nei suoi terribili sogni. Nonostante tutti gli argomenti convincentissimi di Glenn, non aveva mai provato nulla di così reale e tangibile nella vita come ciò che aveva sentito e fatto in sogno.

L’abbondante dose di whisky gli aveva di nuovo disteso i nervi, e si sentì riprendere dalla sonnolenza. Cominciò a pensare che sarebbe stato facilissimo per un serpente scivolare attraverso l’intelaiatura e la graticciata della finestra, appena la luce del giorno se ne fosse andata. Quando si fosse cori­cato, quella sera, si ripromise, avrebbe cercato di tramutarsi in un gigantesco, bonario serpente e si sarebbe recato ancora da April Bell. Se poi avesse tro­vato il Presidente con lei... bene, un boa constrictor lungo dieci metri poteva ben sistemare un ometto grasso come Preston.

Un rumore lo svegliò di soprassalto dal dormiveglia in cui stava scivolando, e d’un balzo si levò dal letto. Di quel genere di fantasticherie doveva farne a meno, e lui era a Glennhaven proprio per imparare a guarirne. Le tempie gli pulsavano ancora e la nuca era trafitta dalle solite punture, ma ormai fin dopo il pranzo non c’era più niente da bere. Si lavò la faccia con acqua molto fredda e decise di scendere a pianterreno.

Glennhaven non aveva nulla della cupa tetraggine e della sottintesa violen­za che normalmente si attribuiscono agli ospedali psichiatrici. Faceva pensa­re piuttosto a una tenue terra sognata, dove anime timide e stanche si ritira­vano sempre più dalla realtà del mondo esterno e anche da un’altra realtà di quello interiore.

Nella sala di musica, quando Barbee si mise ad ascoltare il giornale radio che parlava di un incidente automobilistico, una ragazza esile, graziosa, la­sciò cadere la calza che stava rammendando e corse via, scossa dai singhioz­zi. Barbee si mise a giocare a dama con un ometto dalla faccia rosea e la barba bianca, che riusciva a rovesciare con un soprassalto la scacchiera ogni volta che Barbee gli soffiava una pedina, e poi si profondeva in scuse.

A tavola, il dottor Dilthey e il dottor Dorn fecero un tentativo penoso e tutt’altro che fortunato di condurre una conversazione leggera e briosa. Bar­bee fu lieto di vedere le ombre del crepuscolo autunnale addensarsi fuori delle finestre. Tornò subito in camera sua, suonò per l’infermiera e ordinò i suoi due whisky in una volta sola.

La signorina Etting era fuori servizio e una brunetta zitella e penosamente vivace, di nome Jedwick, gli portò le sue due misure di bourbon e un volumi­noso romanzo storico d’aspetto vetusto che Barbee non aveva chiesto. La ragazza si diede poi un gran da fare per la stanza, preparando il pigiama sul letto, pantofole dalla suola di feltro sul tappetino, una vestaglia rossa sulla spalliera della sedia, spianando il letto e palesemente mostrandosi gaia e serena. Ma Barbee trasse un profondo sospiro di sollievo quando finalmente lo lasciò solo.

La doppia dose di liquore lo riempì di una profonda sonnolenza, sebbene il suo orologio segnasse soltanto le otto e lui avesse dormito quasi tutto il gior­no. Cominciò a spogliarsi e si interruppe per tendere l’occhio, in preda a un vago malessere. Lontanissimo, chi sa dove, aveva udito un ululato fievole, bizzarro.

I cani delle case coloniche intorno a Glennhaven cominciarono ad abbaiare furiosamente, ma Barbee sapeva che non era stato un cane a ululare. Corse alla finestra, tendendo ancora l’orecchio, e percepì un altro tremulo ululato soprannaturale.

Era la lupa bianca. Che lo attendeva, là, presso il fiume.

Barbee tornò presso il gran letto invitante, e una tremenda paura lo colse. Secondo la logica razionale, scientifica di Glenn, lui doveva accarezzare nel suo subcosciente un odio geloso per Quain e Spivak. Nella logica pazzesca dei suoi sogni, April Bell era ancora decisa a ucciderli, a causa dell’arma ignota ch’essi custodivano nella cassa verde.

Lo atterrì il pensiero di ciò che il terribile serpente avrebbe potuto commet­tere.

Indugiò il più a lungo possibile, prima di coricarsi. Si pulì i denti con uno spazzolino nuovo fino a farsi sanguinare le gengive. Fece la doccia e con gran cura si tagliò le unghie delle estremità, indossando alla fine un enorme pigia­ma bianco. Avvolto nella rossa vestaglia che portava ricamato sulla schiena Glennhaven,sedette in una poltrona per un’ora cercando di leggere il roman­zo storico.

E intanto la lupa ululava.

Lo stava chiamando, ma lui aveva paura di andare. Si mise a passeggiare nervosamente per la stanza, e un altro suono, ancora più debole dell’ululato, lo fermò di colpo. Era l’urlo di una donna, soffocato, ma non lontano, mono­tono e terrificante, l’urlo di una donna in preda al terrore e alla disperazio­ne: era la voce di Rowena Mondrick.

Richiuse in fretta la finestra e se ne andò a letto col libro, cercando di sprofondarsi nella lettura, di non udire più nulla, né la voce di Rowena, né il richiamo della lupa bianca, scacciando il sonno che gravava su di lui, sempre più torpido. Ma le parole si confondevano sotto i suoi occhi e il mondo fan­tasmagorico che lo attendeva lo attirava, con le sue immense possibilità, ri­spetto alla tetraggine e allo squallore di quello in cui viveva... A un tratto cedette: spense la luce, per abbandonarsi alla sua nuova realtà. Il libro gli cadde di mano...

Ma lui non aveva più mani. Scivolò via dalla forma penosa e vuota che giaceva abbandonata, respirando appena, sul gran letto bianco. Lasciò che il suo lunghissimo corpo fluisse sopra il tappeto, e sollevò la testa piatta e triangolare verso la finestra.

Cadde sul prato sottostante, in un viluppo di spire possenti, e corse stri­sciando e ondulando, rapidissimo, verso gli alberi che nereggiavano presso il fiume.

La lupa bianca gli venne incontro trotterellando fuori da un folto di salici, coi lunghi occhi obliqui fosforescenti d’una luce verde. Il rettile saettò la nera lingua sottile a sfiorarle il muso fresco e umido, e le scaglie lucenti del suo corpo compatto ondularono di voluttà all’estasi di quel bacio mostruoso.

«Era per i troppi dacquari, dunque», sibilò, «che mi facesti credere la tua favola sulla stregoneria?»

La lupa rise, con la rosea lingua penzolante da una parte delle fauci.

«Non tormentarmi più», pregò lui. «Sai che mi stai facendo lentamente im­pazzire?»

Lei gli lambì il muso piatto affettuosamente.

«Sei sbigottito, lo so... i primi risvegli sono sempre molto penosi, fino a quando non hai imparato bene.»

«Fuggiamo via di qua», propose lui, mentre un brivido passava ondulando sulle sue scaglie. «Rowena Mondrick sta urlando, là, nella sua stanza. Non posso sopportare quella voce. Voglio scappare via da lei e da tutta questa incertezza...»

«Stanotte abbiamo un altro lavoro da fare, Will. Tre dei nostri più pericolo­si nemici sono ancora in vita... Quain, Spivak e la cieca. La cieca l’abbiamo ridotta dove non può fare nulla di più pericoloso che urlare, ma Spivak e Quain sono ancora all’opera, e stanno imparando, si preparano a usare l’ar­ma nascosta nella cassa.»

Barbee avrebbe voluto protestare, ma cedette subito alla volontà di April. Nello splendido ridestarsi dall’incubo orrendo della sua vita quotidiana, tutti i valori si tramutavano, capovolgendosi. Avvolse nelle due ultime spire del suo corpo la forma sottile della lupa, fin quasi a soffocarla.

«Tu vuoi la morte di tutti i miei ex amici», sibilò. «Ma se un giorno un dinosauro ti sorprenderà tra le braccia di Prestron Troy, non venirmi a pian­gere poi la sua sorte.»

Allentò la stretta delle sue spire, e la lupa si scrollò il bianco mantello con disdegno.

«Non osare toccarmi, rettile!»

Si tese ancora verso di lei:

«Dimmi, che cosa rappresenta Preston per te?».

D’un balzo, lei si sottrasse alle terribili spire.

«Perché vuoi saperlo?» E le candide zanne della lupa si scoprirono come in un sogghigno. «Andiamo ora. Cose più importanti ci attendono.»

Le ondulazioni del suo lunghissimo corpo spinsero Barbee in avanti accanto a lei, in fremiti fluenti di forza. La frizione delle scaglie lucenti sulle foglie cadute sollevava dal suolo un sommesso brusio. Il serpente procedeva age­volmente al fianco della lupa, la testa triangolare sollevata all’altezza di quel­la di lei.

Il mondo notturno era stranamente diverso ora per lui. Il suo fiuto non era più così sottile come era stato quand’era lupo, né la sua vista così acuta come da tigre. Poteva udire il dolce mormorio del fiume, tuttavia, e il fruscio dei roditori nei campi e tutti gli impercettibili suoni degli animali e degli uomini addormentati nelle fattorie presso le quali passavano.

Clarendon, a misura che vi si avvicinavano, divenne una terrificante cacofo­nia di motori, di freni stridenti, di clacson, di radio a tutto volume, di abbaiar di cani e di voci umane.

La luce splendeva al nono piano della torre grigiastra dove Quain e Spivak combattevano la loro guerra segreta contro il Figlio della Notte; e un fetore indistinto ma percettibilissimo aleggiava nell’aria.

La porta sbarrata si dissolse davanti alla coppia mostruosa e in breve furo­no nel vestibolo fortemente — e, per loro, penosamente — illuminato. Il fetore era molto più intenso là dentro, ma Barbee sperò che il rettile potesse resi­stervi meglio di quanto non avesse fatto il lupo.

Due uomini dagli occhi duri e penetranti, troppo anziani per i maglioni universitari che indossavano, sedevano giocando a carte al banco delle infor­mazioni presso gli ascensori. Mentre la lupa e il gran rettile passavano silen­ziosi, uno dei due uomini di guardia sbatté nervosamente sul tavolo le carte spiegazzate che aveva in mano e si tastò la grossa pistola d’ordinanza che aveva sull’anca sotto la giubba.

«Abbi pazienza, Jug, ma non riesco a distinguere i fiori dalle picche, stase­ra...» La sua voce si abbassò, roca. «Di’ quello che vuoi, ma questo servizio all’Istituto mi sta rovinando il sistema nervoso. Sembrava buono, in princi­pio... venti dollari al giorno solo per non far entrare nessuno... ma non mi piace più come prima!»

L’altro raccolse il mazzo di carte.

«Perché, Charlie?»

«Ma non senti?» E l’omaccione tese l’orecchio. «Tutti i cani di Clarendon si sono messi a ululare, e io non posso fare a meno di chiedermi che diavolo stia succedendo. Questi professori dell’Istituto hanno paura di qualche cosa, ed è strano, a pensarci, il modo in cui se ne sono andati il vecchio Mondrick e Chittum. Quain e Spivak hanno l’aria di chi sa di essere il prossimo della lista. Non so che cosa abbiano in quella cassa misteriosa, ma non vorrei met­terci sopra gli occhi per quaranta milioni!»

Jug affondò lo sguardo nelle ombre lontane del corridoio, oltre la lupa e il serpente che scivolavano entro l’edificio, e lui pure, inconsciamente, si toccò la grossa pistola al fianco.

«Venti dollari al giorno son venti dollari al giorno, Charlie, e tu ti stai sug­gestionando... Ma vorrei saperne anch’io qualche cosa di più. Non che io creda alle stupidaggini, che dicono le donnette, di qualche maledizione dis­sotterrata in quelle vecchie tombe in Mongolia, no, ma qualcosa devono ave­re trovato!»

«Io non lo so e non lo voglio sapere!», disse Charlie. «Su, dai le carte. Meno ci pensiamo, a questa faccenda, e meglio è!»

Sebbene i due uomini volgessero spesso, senza volerlo, ma con strana insi­stenza, gli occhi verso le ombre in fondo al vestibolo, non videro la lupa e il serpente sostare davanti alla porta, chiusa a chiave, delle scale, fino a quan­do una parte di questa si dissolse per lasciarli passare; e continuarono, an­noiati e impazienti insieme, la loro partita.

Il serpente seguì la lupa per otto piani di scale immerse nelle tenebre. Il terribile sentore, dolciastro, ributtante e putrido, s’era fatto più denso a mano a mano che la coppia saliva, tanto che a un certo punto la lupa dovette fermarsi, come davanti a una barriera atroce.

L’immane rettile proseguì la sua rapida marcia ondulante. Un’altra porta, davanti a Barbee, divenne un denso rettangolo di nebbia, e la testa triangola­re del serpente si volse a chiamare la lupa, riluttante a seguirlo nel fetore delle camere del nono piano.

Una di quelle camere era stata attrezzata con banchi metallici, strumenti, provette e tutto l’occorrente per le più disparate analisi chimiche. Le esala­zioni brucianti dei reagenti erano sommerse dal fetore mortale che emanava da un pizzico di polvere grigia, messa ad asciugare su un filtro di carta. Quel­la stanza era silenziosa, a eccezione del gocciolio lento di un rubinetto, ma tanto la lupa quanto il serpente arretrarono davanti al tanfo.

«Vedi?», Barbee sentì che April gli diceva, «i tuoi ex amici stanno tentando di analizzare quell’antico veleno nella speranza di annientarci.»

La camera attigua era un museo di scheletri articolati, appesi candidi a so­stegni metallici. Barbee si guardò intorno a disagio coi suoi neri occhi di rettile. Riconobbe le ossa abilmente riconnesse dell’uomo moderno e delle moderne scimmie antropomorfe e le bianche ricostruzioni di tipi scimmieschi di ominidi quali l’uomo chelleano, quello musteriano e il prechelleano. Altri reperti lo lasciarono perplesso; le ossa ricostituite erano troppo sottili, i den­ti nel sogghigno del teschio troppo aguzzi, i teschi stessi troppo lisci e allun­gati.

Evidentemente Quain e Spivak prendevano misure e calcolavano rapporti, alla ricerca di elementi che permettessero loro di colpire il nemico.

L’altra camera ancora era immersa nelle tenebre e nel silenzio. Grandi mappe a colori illustravano i continenti moderni e quelli del passato; i margini dei ghiacciai delle epoche glaciali erano tracciati come linee di un campo di battaglia. Entro vetrine di cristallo, si vedevano i quaderni di appunti e i diari di Mondrick.

La lupa a un tratto emise un lieve ringhio e Barbee si accorse che i suoi occhi verdastri fissavano un largo frammento di arazzo medievale, chiuso in una cornice di vetro e appeso sopra la scrivania, come se si trattasse di un tesoro speciale.

Il disegno sbiadito mostrava un gigantesco lupo grigio che spezzava tre cate­ne che lo imprigionavano, per balzare su di un vecchio barbuto con un solo occhio.

Studiando meglio l’antico tessuto, Barbee nel lupo riconobbe Fenris, demo­ne della mitologia scandinava. Il vecchio Mondrick aveva una volta analizza­to il mito antichissimo, paragonando la demonologia vichinga a quella greca. Generato dal malefico Loki e da una gigantessa, il lupo gigante Fenris aveva continuato a crescere fino a quanto gli dèi impauriti lo avevano incatenato. Fenris aveva spezzato due catene, ma la terza aveva magicamente resistito fino al terribile giorno di Ragnaròk, quand’era riuscito a liberarsi per aggre­dire Odino, signore degli dèi, rappresentato come un gran vecchio con un occhio solo.

La lupa bianca aveva digrignato i denti e si ritraeva ora dalla tappezzeria sfilacciata.

«Perché? Dov’è il pericolo che ci minaccia?», volle sapere Barbee.

«Là, in quel tessuto e nella storia che narra... e in tutti i miti delle guerre e delle alleanze fra dèi, uomini e giganti, che la maggior parte del genere uma­no crede siano soltanto fiabe e leggende. Mondrick aveva capito troppe cose e noi l’abbiamo lasciato vivere troppo.»

Fiutò ancora l’odore nauseabondo, d’una putredine dolciastra.

«Dobbiamo agire subito! Prima che questi due maledetti scoprano tutto quello che Mondrick e sua moglie sapevano, e trasformino questo luogo in un’altra trappola per noi!» Rizzò le lunghe orecchie ad ascoltare. «Vieni, Barbee... i tuoi ex amici sono dall’altra parte del corridoio.»

Attraversarono il corridoio immerso nelle tenebre, e il lungo serpente stri­sciò dinanzi a lei attraverso la parte inferiore di un uscio chiuso a chiave. Ma poi sussultò, levando la nera testa in allarme, alla vista di Sam Quain e Nick Spivak.

La lupa lo raggiunse, beffarda: «Siamo in tempo, credo. Questi sciocchi non devono avere scoperto l’identità del Figlio della Notte, e la cieca non deve essere riuscita a comunicare con loro, per avvertirli di circondarsi di argento. Ora potremo porre fine a questi mostri umani e salvare così il Figlio della Notte».

I due uomini chiusi nella cameretta non parvero molto mostruosi a Barbee. Nick Spivak scriveva, stancamente semisdraiato sulla scrivania. Alzò la testa quando Barbee lo guardò, con un soprassalto nervoso. Dietro le lenti spesse, i suoi occhi erano iniettati di sangue, febbrili, spiritati, e la faccia livida dalla stanchezza era coperta da una barba di qualche giorno.

Sam Quain dormiva su una branda lungo il muro. Era così sfinito che anche nel sonno la sua faccia era stirata e contratta per la stanchezza. Da sotto le coperte sporgeva il braccio robusto, a stringere una delle maniglie di cuoio della cassa, anche nel sonno.

La cassa era sempre chiusa col lucchetto. Barbee fece uno sforzo mentale, a tentoni, verso il suo contenuto, e sentì quel massiccio rivestimento d’argento all’interno del ferro e del legno della cassa: una barriera che gli fece scorrere un freddo brivido lungo le spire. Indietreggiò già in preda a un vago males­sere, annebbiato dal fetore immondo che emanava la cassa. La lupa gli si accucciò vicino, spaventata e in preda al malessere.

Sempre alla scrivania, Spivak fissava coi suoi poveri occhi arrossati Barbee, ma non parve vedere né il serpente né la lupa. Rabbrividendo un poco, come di freddo, riprese infine il suo lavoro.

Barbee gli fluì vicino, sollevando la lunga testa piatta per guardare di sopra la sua spalla magra e curva. Vide le dita tremanti di Spivak girare distratta­mente il frammento stranamente conformato di un osso ingiallito dal tempo. Vide poi l’uomo prendere un altro oggetto sulla scrivania, e uno sgradevole torpore irrigidì le sue spire.

Quell’oggetto era di gesso bianco. Sembrava il calco di una pietra a forma di cuore, profondamente incisa. Una parte dell’orlo ricurvo dell’originale do­veva essere stato appiattito dall’usura; doveva essersi spezzato, vide Barbee, e un pezzetto ne mancava. Il fetore dolciastro che ne emanava come una nube era così potente che dovette ritrarre la testa nera di scatto.

«Dev’essere un calco della Pietra», spiegò la lupa, barcollando sulle zampe. «E la Pietra stessa deve trovarsi in quella cassa... col segreto che annientò la nostra specie inciso su di essa e protetto da quell’intollerabile emanazione. Non possiamo arrivare alla Pietra stanotte... ma penso che potremo impedire al tuo amico di leggere l’iscrizione.»

Barbee si eresse come una nera colonna arabescata per vedere meglio sulla scrivania: Nick Spivak aveva ricopiato tutte le iscrizioni dal disco di gesso strofinando una matita su morbida carta gialla. Ora cercava di decifrarle, indubbiamente, perché i bizzarri caratteri eano sparsi in file e colonne su varie pagine, frammisti ad appunti e quadri sinottici in caratteri comuni.

«Sei fortissimo questa notte, Barbee», anelò la lupa. «Posso vedere una si­cura probabilità di morte per Spivak... un campo magnetico a cui tu puoi attingere...»

Digrignò improvvisamente le zanne. «Uccidilo! Uccidilo finché esiste il nes­so!»

Rigidamente, penosamente, Barbee si costrinse a immergersi di nuovo nella nuvola di fetore letale che aleggiava intorno al calco di gesso. Spinse poi le spire ricoperte di scaglie verso l’uomo sfinito intento a scrivere, perché quel­l’uomo era un nemico del Figlio della Notte e tutto era cambiato, ormai. Nessuna cosa più, della sua vita diurna, era importante.

Importava solo la sua nuova potenza, l’atteso arrivo del Figlio della Notte e l’amore della lupa dagli occhi verdi.

Nervosamente, Nick Spivak, messi da parte i suoi appunti, studiava ora at­traverso una lente il calco di gesso, come per cercare un errore fatto nel rilevare l’iscrizione. Crollò il capo, accese una sigaretta e la schiacciò subito nel portacenere. Infine si volse a guardare con la fronte aggrottata Sam Quain addormentato sulla branda.

«Gran Dio!», mormorò. «Sono isterico, questa notte!» Allontanò da sé il calco e si chinò nuovamente sulle carte. «Se potessi almeno identificare quel maledetto carattere!» Si mise a succhiare la matita, aggrottando la fronte. «I creatori del disco riuscirono ad annientare quei demoni, un tempo, e la loro scoperta può riuscirvi ancora!» Le sue spalle curve si eressero risolutamente. «Vediamo... se il carattere alfa rappresenta veramente l’unità...»

Fu tutto quello che disse. Perché il rettile aveva scagliato la testa sottile tra il volto dell’uomo e il piano della scrivania. Tre volte il lunghissimo corpo si avvolse attorno all’uomo, poi, stringendo le spire, si tese con tutta la sua forza verso il campo magnetico della probabilità favorevole.

Il volto affinato e smunto di Spivak si contrasse in un’espressione di orrore. Dietro le lenti, i suoi occhi sembravano prossimi a scoppiare. Aprì la bocca per urlare, ma un colpo secco infertogli dalla dura testa del rettile lo paralizzò alla gola. Il fiato gli usciva in un sibilo dal petto, che cedeva sotto la stretta terribile.

Con le mani ad artiglio cercò di puntellarsi al tavolo per alzarsi in piedi. Ma le spire si strinsero ancora di più e il torace dell’uomo s’incavò in modo impressionante. Le dita brancicanti, in un ultimo sforzo frenetico, afferraro­no il disco di gesso e lo scagliarono debolmente contro le costole di Barbee. Il freddo urto del suo tocco e l’odore intollerabile annebbiarono il serpente, le cui spire palpitanti si rilassarono un poco.

Ma ormai il povero Nick era già morto. Il disco gli cadde dalle dita inerti e si spezzò sul pavimento. La lupa corse verso la finestra:

«Presto! Quain si sta svegliando.»

Barbee le corse accanto e si accinse a dissolvere la materia della finestra; ma la lupa scosse la testa sottile.

«No. Dobbiamo riuscire ad aprire la maniglia. Non ci sono persiane e Spivak era sonnambulo, quando si trovava in condizioni di estrema stanchez­za. E questa notte sembrava sfinito. È questo il circuito magnetico delle pro­babilità che ho trovato per aiutarti a ucciderlo.»

Finalmente, dopo un lungo affaccendarsi con le zampe e le zanne, mentre il rettile cercava di aiutarla usando la dura testa come leva, la lupa riuscì a far girare la maniglia e ad aprire la finestra con uno schianto che fece sussultare Quain. Questi si mosse pesantemente sulla branda.

«Nick», mormorò confusamente, «che diavolo sta succedendo?»

Ma non si levò e la lupa avvertì:

«Non può svegliarsi ora... ciò spezzerebbe il circuito».

L’aria limpida e fredda che irrompeva dalla finestra dissolse in parte il feto­re che li stordiva con la forza di uno stupefacente. Il rettile fu in grado di trascinare il corpo stritolato di Spivak presso la finestra.

«Presto!» La lupa era imperiosa. «Gettalo giù! Dobbiamo andarcene di qua prima che Quain si svegli... e io devo fare ancora qualcosa di molto difficile, per le mie zampe.»

Balzò sulla scrivania, con la leggerezza di un essere alato, e cercò di stringe­re la matita che la mano di Spivak aveva abbandonato pochi minuti prima. Barbee avrebbe voluto sapere che cosa stava tentando di scrivere, ma un gemito di Quain nel sonno lo riscosse. Con uno sforzo indescrivibile, riuscì a far precipitare la massa di carne e ossa stritolate oltre il davanzale della fine­stra. Ma le sue spire dovettero scivolare su una goccia di sangue, perché il suo corpo perse la presa che lo manteneva sull’orlo della finestra, e cadde a sua volta. Udì dietro di sé l’ansiosa ingiunzione della lupa:

«Fuggi di qua, Will!... prima che Quain si svegli!».

Il suo lunghissimo corpo nero precipitò giù, nel vuoto, per nove piani d’al­tezza, ardentemente teso verso il rifugio — ora — di quell’altro suo misero corpo addormentato a Glennhaven.

Udì, in basso, il tonfo sordo e netto dei resti di Spivak che si abbattevano sul viale di cemento ai piedi della torre. E continuò a precipitare a sua volta, finché non si abbatté — e il mutamento fu questa volta repentino, indolore — presso il suo letto a Glennhaven, comunissimo bipede, istupidito dal sonno.

La testa gli doleva per il gran colpo dato per terra nel cadere dal letto. Si levò ritto, barcollando. Aveva un bisogno imperioso di bere qualcosa di for­te. Lo stomaco era sconvolto, sembrava svolazzare per la stanza, e tutto il corpo era in preda a un sordo indolenzimento. Glenn, si disse, gli avrebbe detto, senza dubbio, che lui era rotolato per terra scivolando dai cuscini su cui s’era sostenuto per leggere, e che tutto quello spaventevole sogno era nato poi dal suo tentativo, inconscio e probabilmente d’origine alcoolica, di spiegare in qualche modo la caduta.

15.

Intorpidito, tremante e pieno d’orrore per la certezza che quanto aveva so­gnato fosse vero, Will Barbee rimase qualche minuto in piedi accanto al let­to, nelle tenebre.

Finalmente, con un rauco sospiro d’infelicità si decise ad accendere la luce e a guardare l’orologio. Erano le due e un quarto. Tese la mano verso gli indumenti che aveva lasciato sulla seggiola, spogliandosi, ma l’infermiera aveva dovuto ritirarli mentre dormiva, perché trovò solo la vestaglia rossa e le pantofole dalla suola di feltro.

Sempre tremante, e ricoperto di sudore, si coprì alla meglio, e premette il bottone del campanello. Poi, impaziente, ciabattò fuori della camera per an­dare incontro all’infermiera del turno di notte, un’atletica e bonaria signori­na Hellar, piuttosto matura.

«Oh, signor Barbee, ma io credevo che fosse addormentato!»

«Devo vedere Glenn!», le disse, frenetico. «Subito!»

La larga faccia da lottatrice dell’infermiera si illuminò di un sorriso impieto­sito, mentre la sua voce mascolina cercava di farsi carezzevole:

«Ma certo, signor Barbee... Perché non se ne torna intanto a fare un po’ di nanna, mentre noi cerchiamo di tei...».

«Madama», la interruppe Barbee in tono di feroce sarcasmo, «non è questo il momento di farmi vedere la vostra tecnica di imbonimento dei pazzi furio­si. Forse sono pazzo e forse non lo sono, non lo so ancora, ma pazzo o sano, devo parlare subito a Glenn. Dove si trova?»

L’infermiera Hellar si rannicchiò su se stessa, come se si trovasse sul qua­drato, davanti a un temibile avversario.

«E cerchi di non fare la furba», le consigliò Barbee guardandola con occhi sfavillanti. «Può darsi che lei sappia trattare a meraviglia i pazzi comuni, ma il mio caso è specialissimo, capisce?»

Gli parve di vederla assentire di malavoglia, e non poté fare a meno di aggiungere: «Chi sa come si metterà a correre, quando mi trasformerò in un sorcio enorme, tutto nero!».

La donna cominciò a indietreggiare lentamente, un poco pallida, ora.

«Voglio solo parlare a Glenn per cinque minuti, ma subito!», aggiunse con un urlo improvviso. «E se Glenn troverà da ridire, me lo metta in conto.»

«Temo che verrà una nota piuttosto salata», osservò l’infermiera, «se sono questi i suoi sistemi!»

Barbee la guardò sorridendo, e improvvisamente si buttò a terra a quattro gambe.

«Buono, buono!», ammonì la donna, nervosamente. «Ora le mostro il suo alloggio.»

«Brava la mia ragazza!» E si rialzò sulle due gambe.

L’infermiera Hellar si fece prudentemente da parte, e volle che la precedes­se per il corridoio e giù per le scale... e Barbee ebbe la sgradevole sensazione che la donna credesse realmente alla possibilità che lui si trasformasse in un enorme topo nero. Dalla porta sul retro dell’edificio, l’infermiera gli indicò la palazzina di Glenn immersa nelle tenebre, e fu manifesto che la forte Hel­lar trasse un sospiro di sollievo, quando lui si avviò da solo verso la palazzi­na.

Delle luci si accesero al piano superiore ancor prima che Barbee giungesse davanti alla porta, segno che l’infermiera aveva telefonato prima. Il soave e altissimo psichiatra in persona venne ad aprire, avvolto in una lussuosa ve­staglia di gusto piuttosto barbarico.

«Dunque, signor Barbee?»

«È successo un’altra volta!», annunciò il giornalista in tono tragico. «Ho fatto un altro di quei sogni, e so che non si tratta semplicemente di un sogno. Questa volta ero un serpente. E ho ammazzato... Nick Spivak!» Tacque un istante per riprender fiato. «Deve chiamare la polizia. Lo troveranno morto sotto una finestra aperta al nono piano della torre dell’Istituto... e l’assassino sono io!»

Barbee si asciugò la fronte madida, scrutando ansiosamente il volto del me­dico per scoprirne le reazioni. Lo psichiatra batté due o tre volte le pesanti palpebre sui sonnolenti occhi nocciola e si strinse nelle spalle sotto la ve­staglia sontuosa. Sorrise appena, con simpatia, buttando indietro la bruna testa ricciuta, e in quel momento, ancora una volta, parve a Barbee di averlo già conosciuto, in epoche chi sa quanto remote.

«Come», fece Barbee, «non vuole? Non vuole telefonare alla polizia?»

Con molta calma, Glenn scosse il capo:

«No, non possiamo farlo».

«Ma Nick è morto, le dico! Era mio amico!»

«Non siamo precipitosi, signor Barbee!» E Glenn alzò le forti spalle mollemente. «Se non si trova nessun cadavere, avremo dato una seccatura alla polizia per niente. Se si dovesse trovare un cadavere, potremmo trovarci in difficoltà a spiegare come lo abbiamo saputo...» La sua faccia abbronzata s’illuminò d’un sorriso cordiale. «Io, vede, sono un materialista convinto... ma gli uomini della polizia sono materialisti brutali!»

Barbee batteva i denti:

«Crede che io... abbia assassinato realmente Nick Spivak?».

«No davvero», rispose la voce sedativa di Glenn. «La Hellar mi assicura che lei è stato profondamente addormentato fino a pochi minuti fa. E poi vedo un’altra possibilità molto interessante, che potrebbe spiegare il suo sogno.»

«Sì?» E Barbee trattenne il fiato. «Quale?»

Glenn batté ancora le palpebre insonnolite.

«Lei ha cercato recentemente di risolvere un mistero che circonda, nella vita reale, la condotta del suo vecchio amico Quain e dei suoi colleghi. Con­sciamente, non è riuscito a trovare una soluzione attendibile, ma l’inconscio, non dimentichiamolo, è spesso molto più astuto di quanto noi ordinariamen­te sospettiamo.»

Deliberatamente, congiunse le punte delle dita insieme.

«Inconsciamente, signor Barbee, può aver sospettato che Nick Spivak sa­rebbe stato gettato da una certa finestra questa notte. Se il suo sospetto do­vesse coincidere più o meno con la realtà, la polizia potrebbe avere trovato il suo corpo là dove lei ha sognato che sia caduto.»

«Assurdo!», lo interruppe Barbee rabbiosamente. «Ma se con lui c’era sol­tanto Sam!»

«Appunto! Appunto!» E la testa ben modellata dello psichiatra s’inclinò due o tre volte, come a dire: “ Non te l’avevo detto?”. «Il suo inconscio respin­ge l’idea che Sam Quain possa essere un assassino... e anche il suo modo di respingerla così veemente fa pensare che inconsciamente lei desideri che Sam Quain muoia per avere ucciso.»

Barbee levò un pugno nocchiuto e peloso.

«Basta con queste assurdità», gracidò più rauco che mai. «Tutto questo... tutto questo è diabolico!» Fece un passo innanzi, ansando, in cerca di un po’ di fiato. «È pazzesco. Le ho già detto, dottore, che Sam Quain e sua moglie sono due miei vecchi amici.»

Dolcemente, il medico domandò:

«Tutti e due?».

«Ma la pianti!», urlò Barbee, stringendo di nuovo i pugni. «Le proibisco... di dirmi simili cose!»

Glenn si ritrasse con una certa premura verso l’anticamera illuminata.

«Un consiglio, signor Barbee.» Sorrise ancora in modo disarmante, e annuì ancora. «La sua violenta reazione mi rivela che è stato toccato un punto molto sensibile, nascosto dentro di lei, ma non vedo la necessità di parlarne ulteriormente ora. E se dimenticassimo tutti i nostri problemi per questa not­te e ce ne tornassimo a letto?»

Barbee si calmò e ficcò i pugni nelle capaci tasche della vestaglia rossa.

«D’accordo, dottore», disse stancamente. «Mi scusi per averla disturbata a quest’ora.» Stava per andarsene, ma a un tratto si voltò, colto da un pensiero improvviso. E con voce bassa e rotta, soggiunse in tono disperato: «Ma lei sbaglia di grosso, dottor Glenn: la donna che amo è April Bell».

Con un lieve sorriso sardonico, Glenn chiuse la porta.

Lentamente, Barbee tornò nella notte verso la sua stanza, dove solo due o tre finestre erano vagamente illuminate. Gli sembrava strano camminare su due gambe soltanto, vedendo sagome informi con miopi occhi d’uomo, in­consapevole di tutti gli odori e i sentori dei suoi sogni.

Glenn, si disse, era un ciarlatano, se non peggio. Nessuno psichiatra serio poteva essere di lingua tanto disinvolta. Era vero, lo ammetteva, una volta era stato innamorato di Nora, prima che sposasse Sam. Forse era andato a trovarla più spesso di quanto fosse giusto nei lunghi periodi delle assenze di Sam, ma le rivoltanti conclusioni di Glenn erano assurde.

Quanto al telefonare alla polizia, doveva riconoscere che Glenn aveva ra­gione; e non poté fare a meno di rabbrividire alla sua diabolica insinuazione che Sam avrebbe potuto essere accusato del delitto. Doveva provvedere in qualche modo.

L’atletica Hellar gli permise con una certa apprensione di servirsi del tele­fono del suo ufficio, e lui chiamò Nora. Lei venne a rispondere subito, come se fosse stata in attesa di una telefonata, e la sua voce sembrava già piena di paura.

«Sam ha un apparecchio telefonico all’Istituto, vero?», le disse Barbee in risposta alla sua domanda angosciata. «Nora, ti prego, chiamalo immediata­mente. Sveglialo, se dorme: e digli di cercare subito Nick Spivak.»

«Perché, Will?», chiese lei con voce che sembrava sul punto di venir meno.

«Perché ho motivo di ritenere che possa essere accaduto qualcosa a Nick. E credo che ora anche Sam si trovi in grave pericolo.»

Per un lungo, lunghissimo istante, Nora non disse nulla. Barbee poteva udi­re il suo incerto respiro affannoso all’altro capo del filo e il ticchettio dell’o­rologio sulla scrivania, presso l’apparecchio telefonico. Alla fine, lei doman­dò con voce soffocata dall’emozione:

«Ma tu, Will, come lo sai?».

«Oh, fa parte del mio mestiere, Nora», le rispose a disagio. «Informazioni confidenziali, sai, tutti i cronisti sono organizzati in questo senso... Ma allora, già sapevi?»

«Sam aveva appena finito di telefonare, quanto tu hai chiamato. Era di­sperato, Will... sembrava che avesse quasi perduto la ragione.»

«Ma... ma che cosa è successo a Nick?»

«È caduto dalla finestra!» La voce della donna suonò come squarciata dal­l’orrore. «Dalla finestra del loro laboratorio privato, all’ultimo piano della torre. Sam dice che è morto sul colpo.»

L’orologio continuava a ticchettare calmo e regolare.

«Ma hai detto che potrebbe capitare qualche cosa anche a Sam. Che cosa, Will?»

«Lui e Nick erano soli nel laboratorio, no? E custodivano qualcosa che a quanto sembra ha grande valore in quella cassa che hanno portato dalla Mongolia. Due degli uomini che sapevano che cosa fosse sono già morti... e la loro scomparsa rischia di assumere una fisionomia poco chiara, ora che anche Nick è morto... capisci?»

«No, Will!», gridò Nora al telefono. «Non è possibile!»

«La polizia penserà che Sam abbia ucciso Nick per quello che è contenuto nella cassa. È continueranno a pensarlo fino a quando non sapranno che cosa c’è, in quella cassa... Ma vedrai che Sam non vorrà dirlo.»

«Ma non è stato Sam!», gridò spasmodicamente Nora. «Lo sai anche tu che Sam non potrebbe mai fare una cosa simile!»

Il ticchettìo dell’orologio sulla scrivania faceva pensare a onde lente sulla morta superficie del silenzio. Alla fine, la voce sfinita di Nora risuonò ancora nel microfono:

«Grazie, Will... Richiamerò subito Sam, per metterlo sull’avviso». E con rinnovata protesta che le saliva dall’anima: «Ma non è stato lui!».

Barbee ritornò stancamente nella sua camera, si tolse vestaglia e pantofole e si gettò spossato sul letto. Cercò di riaddormentarsi, ma era pervaso da una strana irrequietezza. Il ricordo del sogno lo ossessionava. Dovette suonare per l’infermiera e farsi dare un sonnifero, ma non si addormentò, ed era ancora sveglio, quando udì il sussurro della lupa bianca.

«Will!... Mi senti, Will Barbee?»

«Ti sento, April», mormorò lui, in preda al torpore. «Buona notte, amore.»

«No, Will!» La lupa aveva di nuovo il suo tono imperioso. «Devi tramutarti ancora questa notte, perché un altro compito ci attende.»

«No, basta!», protestò Barbee. «Non voglio più sognare, e poi so benissimo che non ti sento in realtà, che il tuo richiamo non esiste.»

«Oh, Barbee, non cercar d’ingannare te stesso... Lo sai bene che i tuoi non sono sogni. Ora ti prego di stare calmo e di ascoltarmi.»

«No, non ti ascolto e non sognerò più, non voglio più sognare.»

E agitava la testa sul cuscino, come per liberarla di lei e della sua ossessio­ne.

La voce della lupa squillò imperiosa nella sua mente come una frustata.

«Will! Devi ascoltarmi, tramutarti nuovamente e raggiungermi! Subito! E assumi la forma più spaventosa che puoi! Abbiamo un nemico molto più terribile di Spivak da combattere.»

«Quale nemico?»

«La cieca! Quella donna non è più nella clinica, dove nessuno bada alle sue farneticazioni. È scappata, Will, per andare ad avvertire Sam Quain!»

Barbee sentì un brivido gelido correre lungo la spina dorsale, come quando gli si rizzava il pelo sul collo sotto la forma di lupo. Ma era umano ora, sentiva la carezza delle lenzuola sulla sua pelle d’uomo, e i rumori della clini­ca, lontani, soffocati, col suo ottuso udito umano: i passi distanti dell’infer­miera Hellar, il russare d’un dormiente nella stanza accanto, un telefono che suonava con una certa impazienza, frequentemente:

«Ad avvertire Sam? E di che?», domandò, semiaddormentato.

Il sussurro della lupa sembrò a sua volta carico di terrore: «Rowena cono­sce il nome del Figlio della Notte!».

Con un sussulto, Barbee aprì gli occhi, e levando il capo un poco sul cuscino per guardarsi intorno vide una lama di luce gialla filtrare nella stanza sotto la porta dal corridoio, scorse il pallido rettangolo evanescente della finestra. Era ancora umano, del tutto umano, ed era sveglio.

Pure, il suo roco sussurro non poté fare a meno di chiedere: «Ma chi è questo misterioso cospiratore, che tanta paura faceva a Mondrick, questo tenebroso messia, il Figlio della Notte? Qual è il suo vero nome?».

«Will, non lo sai ancora?» E c’era l’antica sfumatura beffarda nella doman­da.

Un’ira improvvisa lo colse: «Lo so, chi è», disse con impazienza. «È il tuo buon amico Preston Troy!»

E rimase in attesa d’una risposta che non venne.

Era solo nella sua stanza, desto e immutato. Poteva udire il frettoloso tic­chettio del suo orologio e vederne il quadrante fosforescente, che segnava le quattro e quaranta. L’alba era lontana di due ore buone, ma lui non intende­va addormentarsi fino a che non avesse visto la luce del sole. Non osava...

«No, Barbee», il lieve sussurro lo fece sobbalzare ancora una volta, «il Fi­glio della Notte non è Preston Troy, ma tu devi meritarti la conoscenza del suo nome. E puoi farlo questa notte stessa, uccidendo Rowena Mondrick.»

Lui s’agitò rabbiosamente sul letto.

«Macché!», protestò. «È chiusa qui dentro, sotto chiave, con un esercito di infermiere che fa buona guardia. Ed è cieca, oltre tutto!»

«Eppure, la tua cieca è fuggita, e in questo momento sta dirigendosi verso Sam, per avvertirlo. Presto, Barbee. Assumi la forma più spaventosa, armati di artigli spietati, di zanne invincibili, perché dobbiamo ucciderla, prima che faccia giorno!»

«No!», urlò Barbee, e poi abbassò la voce per timore che l’infermiera potes­se udirlo. «Ho finito, April Bell! Finito d’essere lo strumento dei tuoi piani demoniaci... di assassinare i miei amici... ho finito anche con te!»

«Davvero, Barbee? Eppure...»

Rabbrividendo, riuscì a levarsi, e quel tenue sussurro si spense. Il suo furore e la sua apprensione avevano spezzato quella terribile trama di illusione, quel miraggio; né lui aveva la minima intenzione di fare del male alla povera Rowena, nel sonno o in stato di veglia.

Si pose a passeggiare per la camera sulle gambe malferme, sempre anelan­do per un po’ di fiato, madido di gelido sudore. Il mostruoso sussurro era veramente cessato. Si fermò presso la porta, tendendo l’orecchio per assicu­rarsene. Tutto quello che poté udire fu un lieve russare singhiozzante e som­messo, interrotto ogni tanto da un gorgoglio soffocato: era l’ometto barbuto, che la sera prima aveva rovesciato la scacchiera della dama, il quale dormiva i suoi sonni agitati dall’altra parte del corridoio.

Aprì cautamente la porta. Qualcuno urlava, in una parte lontana della di­pendenza. S’udivano anche voci di donna, stridule, eccitate. Un rumore di passi affrettati. Lo sportello di un’automobile che si chiudeva con uno schianto rabbioso. E poi il ronzio d’un motore che si accendeva, lo stridere dei freni, mentre la macchina, partita a tutta velocità, risaliva il viale in curva verso il cancello d’ingresso. Rowena Mondrick era veramente fuggita: la cer­tezza di questo lo colpì con la fredda precisione di un pugno in piena faccia.

Forse, come il soave Glenn gli avrebbe poi indubbiamente spiegato, il suo subcosciente turbato aveva semplicemente interpretato tutti i rumori sof­focati di allarme e di ricerca della fuggitiva come prolungato sussurro della lupa bianca.

Silenziosamente, Barbee calzò le pantofole e s’infilò la vestaglia, non di­menticando di cacciarsi nelle tasche il portafogli e le chiavi. Non distingueva più che cosa fosse realtà e illusione. Non avrebbe saputo chiarire a Rowena quale pericolo la minacciasse: non osava prestare fede a quel sussurro. Ma questa volta intendeva prendere parte attiva a qualunque cosa dovesse suc­cedere: e non come sicario del Figlio della Notte.

Il corridoio era deserto, e lui corse silenziosamente fino alle scale, dove si fermò al suono rabbioso della voce del dottor Bunzel: «Farà bene a trovar­la», diceva a un’infermiera. «Era affidata alla sua sorveglianza, specialissima sorveglianza. E lei sapeva che aveva già tentato di scappare.» Un’intonazione di scherno parve raddolcirgli la voce. «Non sarà passata attraverso il muro, vero?»

«È proprio quello che si penserebbe, dottore», rispose la voce tremula e smarrita di una ragazza. S’udì una specie di ruggito da parte del dottor Bunzel. «Voglio dire, dottore, che non riesco a capire da dove sia uscita.»

«Perché?»

«Povera signora!» La ragazza sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Era in grande agitazione fin dalla passeggiata di ieri mattina. E non voleva dormire, pregava e ripregava che la lasciassi andare dal dottor Quain. Poi, verso mezzanotte, i cani dei dintorni si sono messi a ululare e la povera si­gnora Mondrick ha cominciato a lanciare urla terribili. Sembrava che non volesse più cessare. Il dottor Glenn aveva ordinato di farle un’iniezione, se ce ne fosse stato bisogno, e io pensai che non era più il caso di attendere. Sono andata a prepararla e quando sono tornata, un minuto dopo, era scom­parsa.»

«Perché non ha dato l’allarme prima?»

«Ho voluto assicurarmi che non si fosse nascosta nella corsia comune.»

«Bisogna organizzare ricerche sistematiche. La signora è gravemente scon­volta e ho paura di quello che può commettere, abbandonata a se stessa.»

Le voci si erano allontanate a poco a poco verso l’altro lato dell’edificio e, Barbee non udì la risposta dell’infermiera. Silenziosamente scese le scale e assicuratosi che nessuno lo vedeva, uscì dalla porta posteriore della dipen­denza.

Sapeva di essere perfettamente desto e nella sua forma umana, e conosceva il pericolo che minacciava Rowena: lo aveva saputo dagli stessi nemici spietati della povera cieca, e contava di servirsene per aiutarla, questa volta.

Ma non conosceva tutte le regole di quello strano gioco, né quale ne fosse la posta, né chi fossero esattamente i giocatori. Era un sicario ribelle, e ora intendeva chiuderla, quella partita, per quel che riguardava lui, dalla parte degli uomini.

16.

Intirizzito, gelato nella sua vestaglia di cotone rosso, Barbee trovò nelle tenebre la sua macchina dove l’aveva lasciata, nel parcheggio dietro l’edificio principale. Tratto il mazzo di chiavi di tasca, cercò di avviare il motore facen­do il meno rumore possibile. Un faro si accese improvviso, mentre lui faceva marcia indietro per imboccare il viale, e un omaccione vestito di bianco uscì dall’edificio, urlandogli qualche cosa. Ma Barbee non si fermò, lanciò la mac­china a tutta velocità, evitò per miracolo alla fine del viale il custode che agitava pazzamente le braccia e imboccò l’autostrada buia.

Guardando con ansia nello specchietto, vide che nessuno lo inseguiva, e allora rallentò, per dirigersi verso Clarendon lungo la nuova strada che fian­cheggiava il fiume, scrutando intanto le tenebre per scoprire la cieca fuggia­sca. Vedeva ogni tanto il lampeggiare dei fari delle rare automobili che, in lontananza, passavano sull’autostrada, ma sulla via lungo il fiume il traffico era nullo.

La speranza di trovare Rowena cominciò ad affievolirsi quando giunse in vista del ponte, perché quel ponte era a oltre tre chilometri da Glennhaven e la cieca non poteva essere giunta da sola fin là, senza guida.

E proprio in quell’istante la scorse, figura alta e solitaria, angolosa, che camminava con un passo lungo e legato, frettoloso, proprio davanti alla sua macchina. Era vestita di nero e, nelle tenebre, gli si era materializzata im­provvisamente a breve distanza, tanto che Barbee si buttò con tutto il corpo sul freno, certo d’investirla.

Ma non l’aveva toccata. Barbee trasse un profondo sospiro di sollievo e lentamente fermò la macchina. Era arrivato in tempo per salvarla dal mostruoso pericolo che incombeva sul suo capo e gettare all’aria almeno uno dei piani del misterioso Figlio della Notte.

Si era appena fermato, quando vide i fari di un’altra macchina alle sue spal­le. Non c’era altro da fare, si disse, che prendere la cieca in macchina e portarla da Sam Quain. Un gesto tanto leale avrebbe restituito a Rowena l’antica sua fiducia in lui e sopito gli irragionevoli sospetti di Sam. Ma la cieca aveva udito lo stridere dei freni della sua macchina, perché ora correva via pazzamente nel cono di luce bianca gettato dai fari dell’auto. Poi la pove­retta inciampò nel rialzo di cemento ai margini della strada, cadde carponi e si rialzò traballando, mentre lui, sceso di macchina, le gridava:

«Rowena, aspettami!... Voglio aiutarti!». La donna parve sobbalzare, nel volgersi ad ascoltare. «Lascia che ti aiuti a salire sulla mia macchina, e ti porto da Sam Quain!»

Ma la cieca riconobbe la sua voce, aprì la bocca in un urlo di terrore infinito e si rimise a correre, finché non andò a urtare contro il parapetto di cemen­to; allora, tenendovi sopra la mano come su una guida, lo seguì e si allontanò sopra il ponte.

Come istupidito, Barbee rimase fermo un istante; i fari della macchina inseguitrice si stavano avvicinando. Aveva pochissimo tempo per prendere Ro­wena a bordo, se voleva che arrivasse sana e salva da Sam. Ingranò la marcia, spinse l’acceleratore... e l’antica ombra di sgomento scese su di lui come una cappa tenebrosa.

In quel momento aveva visto la lupa bianca.

Sapeva che non avrebbe potuto vederla, perché in quel momento non so­gnava, e le mani ossute e pelose che stringevano tremanti il volante erano mani umane.

La lupa balzò con languida eleganza dalle ombre oltre il margine della stra­da e venne a sedersi nel mezzo della pista di cemento. La luce dei fari traeva serici riflessi dal suo bianco mantello e rendeva fosforescenti gli straordinari occhi verdi. La luce doveva darle una gran noia, ma lui la vide sogghignare, la rosea lingua pendula da un lato.

Ancora una volta Barbee schiacciò freneticamente il pedale del freno, ma non fece a tempo a fermare la macchina appena avviata. Nemmeno il tempo di chiedersi se la lupa fosse reale o soltanto la folle immaginazione di un accesso di delirium tremens. S’era venuta a sedere troppo vicino alla mac­china, e lui, automaticamente, sterzò per non schiacciarla.

Il parafango sinistro cozzò contro la barriera di cemento. Il volante parve affondarglisi nel petto, mentre la sua testa entrava in durissimo contatto col parabrezza. L’urlo dei freni, il fragore del metallo e dei cristalli che si spezza­vano, tutto si dissolse in una muta tenebra.

Il colpo alla testa doveva averlo stordito, ma solo per pochi istanti, perché lui si riadagiò a un tratto contro lo schienale del sedile, le mani sul volante, mentre cercava di riempirsi d’aria i polmoni e si accorgeva che il suo mal di capo era tornato più violento che mai.

Tremando al freddo della notte, si strinse attorno al corpo rinsecchito la sottile vestaglia di cotone. La macchina s’era fermata diagonalmente attra­verso il ponte. Il motore era spento, ma il fanale destro ardeva ancora.

Barbee fiutò nell’aria l’odore della benzina combusta e della gomma roven­te.

«Ottimo lavoro, Will!», guai allegramente la lupa bianca. «Sebbene non mi aspettassi che questa fosse la tua forma più spaventosa!» E la vide puntargli addosso il fuoco verde dei suoi occhi da dietro una massa oscura, immobile, nel bianco fascio di luce del fanale rimasto. Non riuscì a distinguere la massa informe ai piedi della lupa, ma nulla si muoveva sul ponte e non si udivano più i passi atterriti della cieca. Un dubbio atroce gli attanagliò il cuore.

«Lavoro preciso!», sogghignò ancora la lupa. «Ho potuto sentire il circuito quando ti ho chiamato poco fa: una cieca in fuga sull’autostrada, vestita di nero nel buio della notte e troppo impaurita per sentire l’arrivo improvviso di un’automobile, rappresenta una quasi certa probabilità di morte. Noi l’ab­biamo afferrata molto abilmente. E credo, in fondo, che la tua forma fosse per lei la più spaventosa che si possa immaginare. La sua collana si è spezza­ta e tutte le perline d’argento si sono perdute, quando l’hai urtata. Sarà ben difficile, ora, che possa dire a Sam Quain il nome del Figlio della Notte.»

La lupa bianca girò bruscamente il capo, rizzando le orecchie aguzze.

«Stanno arrivando, quegli sciocchi di Glennhaven... Corri, Barbee, lascia la morta dove si trova!»

«La morta!», ansimò Barbee. «Che cosa... che cosa mi hai fatto fare?»

«Il tuo dovere nella nostra lotta contro il genere umano! E contro i bastardi traditori, come questa vedova, che cercano di rivolgere i poteri del nostro sangue contro di noi! Tu hai dato prova di te stesso, Barbee... Ora so che sei completamente con noi... Ma corri! Non farti trovare qui!» E con un balzo lunghissimo si allontanò nelle tenebre.

Barbee rimase inerte, nella luce dell’automobile che si avvicinava. Poi scese e si avvicinò alla forma vestita di nero che giaceva immobile davanti all’oc­chio solitario della sua macchina. Singhiozzando di disperazione e di pietà raccolse il povero corpo tra le braccia: ma era troppo pesante per le sue forze esauste. E allora lo riadagiò per terra. Non c’era altro da fare.

«Scappa, Will!» La voce della lupa gli giunse dalle tenebre. «O ti accuseran­no di averla uccisa. Raggiungimi a casa mia, al Trojan Arms; e insieme ci recheremo dal Figlio della Notte!»

Improvvisamente, il panico s’impadronì di lui. Semiaccecato dalle luci della macchina vicinissima, ormai, ritornò con un salto dietro il volante e premette il bottone della messa in moto. Il motore rombò obbediente, e allora lui cercò di fare marcia indietro, per staccarsi dal parapetto. Ma il volante non voleva girare. Si precipitò nuovamente fuori, nel bagliore bianchissimo del faro, e vide che il parafango s’era ripiegato contro la ruota.

Cercò con le deboli mani tremanti, di raddrizzare quel maledetto parafan­go; ma le mani gli scivolavano, il metallo era duro e tagliente. Alla fine, cedette.

L’altra macchina venne a fermarsi immediatamente contro la sua.

«Ma, signor Barbee!» La voce seccata che proveniva da dietro il fulgore accecante dell’altra macchina era quello del dottor Bunzel. «Vedo che ha avuto un piccolo incidente!»

Barbee, frugando disperatamente sotto il parafango, constatò finalmente che il pneumatico non lo toccava più. Senza rispondere, tornò in gran fretta sulla macchina, tremando di terrore e di emozione.

«Un momento, signor Barbee!» Udì un rumore di passi frettolosi sull’asfal­to. «Lei ha diritto a essere trattato con la massima cortesia possibile finché rimane nostro ospite a Glennhaven, ma non dovrebbe ignorare che non può condursi come in un albergo, salvo permesso speciale del dottor Glenn. Temo che saremo costretti a...»

Barbee non si curò di ascoltare oltre. Tra un fracasso di ferraglia e di vetri triturati ingranò la marcia indietro, cozzò violentemente contro l’altra auto, sterzò, ripartì a tutto acceleratore, spinto da una paura mostruosa, frenetica. Udì per un istante la voce di prima che urlava:

«Barbee!... si fermi...».

I fari dell’altra macchina erano scomparsi, e lui, scansando per miracolo il corpo per terra e slittando per un istante su qualcosa di viscido, rombava ora a tutta velocità sul ponte.

L’altra macchina non poteva più inseguirlo. Calcolò che, costretto a tornare a piedi a Glennhaven, Bunzel non avrebbe potuto telefonare alla polizia pri­ma di mezz’ora. Ma all’alba tutta la polizia di Clarendon si sarebbe lanciata alla ricerca di un pazzo furioso, che, affetto da mania omicida, correva le campagne in vestaglia rossa su una vecchia macchina chiusa macchiata di sangue.

La disperata solitudine di chi precipita negli abissi del cosmo s’impadronì di lui mentre guidava la sua traballante automobile nella notte. Solitudine, di­sperazione, orrore. Qual era la realtà? Quale la sua allucinazione? L’univer­so intorno a lui era divenuto improvvisamente incomprensibile. E nessuno a cui rivolgersi, a cui chiedere aiuto!

Quando fu nei pressi dell’università, fermò la macchina in una viuzza secon­daria, dietro un vasto deposito di legnami, e si avviò zoppicando verso la casa di Sam Quain. Albeggiava.

Dominò l’impulso frenetico di mettersi a correre e di nascondersi in un’al­tra viuzza, nel vedere un ragazzino con un pacco di giornali venirgli incontro in bicicletta, gettando un giornale ripiegato davanti a ogni porta. Cercando di darsi l’aria di un abitante del rione, appena alzato e uscito sulla soglia a dare un’occhiata al tempo, si fermò sull’orlo del marciapiede, frugandosi nel­le tasche della vestaglia in cerca di spiccioli per il giornale.

«Lo Star,signore?»

Barbee annuì:

«Tieni il resto».

Il ragazzino gli porse una copia e ne gettò un’altra verso la porta alle sue spalle, poi si allontanò pedalando; ma non senza avere lanciato, prima, un’occhiata penetrante alla vestaglia rossa.

In gran fretta, Barbee aprì il giornale e i neri caratteri del titolo lo colpiro­no come una mazzata:

UNA MALEDIZIONE PREISTORICA O UN ASSASSINO IN CARNE E OSSA FA LA SUA TERZA VITTIMA

Nicholas Spivak, 31 anni, antropologo dell’Istituto di Ricerche, è stato trovato cadavere stama­ne ai piedi della torre dell’Istituto, mentre una finestra era aperta al nono piano della torre. Il cadavere è stato trovato da due guardie speciali, assunte dall’Istituto dopo che la morte aveva colpito due altri scienziati della Fondazione nel corso della settimana.

Una maledizione preistorica perseguita forse i membri della spedizione tornati recentemente a Clarendon dai tumuli della Mongolia? I membri superstiti della spedizione smentiscono qualsiasi voce relativa a cose particolarmente misteriose che avrebbero dissotterrato dai presunti luoghi d’origine del genere umano, in quello che è oggi il deserto dell’Ala-shan, ma la morte di Spivak porta ora a tre il numero delle vittime tra coloro che parteciparono alla spedizione.

Si cerca il dottor Samuel Quain, altro membro dell’Istituto, per informazioni in merito alla morte di Spivak, a quanto dichiarano il capo della polizia Oscar Shay e lo sceriffo T.E. Parker, secondo i quali la sua testimonianza dovrebbe gettare nuova luce sulle bizzarre coincidenze dei precedenti decessi.

Ridendo della teoria relativa alla maledizione, Shay e Parker hanno lasciato intendere che una cassa dipinta di verde, portata dagli esploratori dall’Asia, potrebbe contenere una spiegazione meno misteriosa, ma più sinistra, dei tre decessi. Si ritiene che Quain fosse solo con Spivak nella stanza della torre, da cui le autorità di polizia dichiarano che cadde o fu gettato, schiacciandosi al suolo.

Il giornale sfuggì tra le dita intirizzite di Barbee. Pure, Quain non poteva essere l’assassino. Era impensabile.

Un assassino, tuttavia, doveva pur esserci. Con la morte di Rowena, ormai le vittime salivano a quattro. Un cervello spietato sembrava essere all’opera, spietato e fornito di poteri soprannaturali: il cervello, ovviamente, del Figlio della Notte. Ammesso che questo nome celasse veramente un’entità pensan­te.

Incerto ormai su tutto e su tutti, Barbee si affrettò per le quiete viuzze verso la casa di Sam, cercando di aver l’aria di chi ritiene che una passeggiata mattutina in una svolazzante vestaglia rossa sia la cosa più naturale di questo mondo.

Eppure il mondo esterno, nel suo risvegliarsi al primo mattino autunnale, aveva un’aria quanto mai normale e credibile. Come il sorriso allegro che gli rivolse l’uomo in tuta, in attesa col pacchetto della colazione presso la ferma­ta dell’autobus, un muratore, probabilmente, si disse Barbee.

Ma, ragionò Barbee allontanandosi a passo sempre più rapido, incalzato dai suoi fantasmi, la città, così tranquilla e normale e reale, in verità si nasconde­va sotto l’illusoria parvenza di un velo dipinto. La sua atmosfera lievemente assonnata celava orrori misteriosi, troppo terrificanti perché una mente sana potesse considerarli. Anche il muratore che gli aveva sorriso, col suo pac­chetto della colazione sotto il braccio, quello stesso muratore poteva essere il Figlio della Notte.

Nora venne ad aprirgli, con gli occhi rossi per la veglia e le lacrime. Era mortalmente pallida, e la sua tonda faccia lievemente lentigginosa esprimeva lo sconvolgimento in cui si trovava.

«Oh, Will!», esclamò affettuosamente. «Come mi fa piacere che tu sia venu­to! Dio, che notte è stata mai questa!» Ma nel vederlo a sua volta così scon­volto e disperato in quella strana acconciatura, gli fece un pallido sorriso di conforto. «Anche tu hai l’aria stanca, Will! Vieni in cucina, ti verso una tazza di caffè...»

La seguì in cucina col cuore gonfio di gratitudine. Batteva i denti dal fred­do.

«Sam è in casa?», domandò ansioso. «Ho assoluto bisogno di parlargli.»

Lei lo guardò con occhi dolenti.

«No, non c’è», rispose laconicamente.

«Strano, ho visto davanti alla porta la giardinetta della Fondazione», osser­vò. «Credevo che Sam fosse in casa.»

Le labbra esangui di Nora si strinsero in un deciso riserbo. Camminarono in punta di piedi, passando davanti alla porta della nursery,e Barbee vide che le labbra di Nora tremavano, come se stesse per piangere.

«Pat è ancora addormentata», sussurrò. «Credevo che si sarebbe svegliata, quando è venuta la polizia. Sono rimasti qui ore e ore, cercando di farmi dire dove fosse andato Sam...» Dovette vedere il sussulto di Barbee, perché si affrettò ad aggiungere con dolcezza: «Non preoccuparti, Will, non ho detto loro che mi avevi telefonato di avvertire Sam».

«Grazie, Nora», e Barbee si strinse nelle spalle, sotto la sua vestaglia rossa. «Non che la cosa possa avere grande importanza, ma la polizia mi sta cercan­do per qualcosa di più grave ancora.»

Nora non fece domande. Ma gli versò una tazza di caffè dalla caffettiera sul fornello elettrico, e glielo servì con un piattino di crema e la zuccheriera.

«Grazie, Nora», ripeté lui. Sorseggiò la bevanda bollente, gli occhi pieni di lacrime di riconoscenza e di dolore. La sua solitaria disperazione si disciolse dal duro nodo in cui s’era raggrumata nel suo cuore, e improvvisamente an­nunciò proprio la cosa che non avrebbe voluto dire:

«Rowena Mondrick è morta!».

Nora lo guardò muta, gli stanchi occhi sbarrati.

«È scappata da Glennhaven.» Una stolida perplessità gli rendeva la voce lenta e incerta. «È stata trovata morta sul ponte del Deer Creeck. La polizia crede che io l’abbia investita. Ma non è vero!» La sua voce si ruppe in una nota troppo alta e stridula. «Non sono stato io!»

Nora sedette davanti a lui, dall’altra parte del tavolo di cucina. Scrutò il suo volto emaciato, e alla fine assentì, con un lieve sorriso di comprensione inte­nerita.

«Parli e ti comporti esattamente come Sam», disse poi. «Era così stravolto, non riusciva a capire, e non sapeva che cosa gli convenisse fare.» Ancora una pausa, durante la quale il suo sguardo indugiò sulla faccia contratta di Barbee. «Will, c’è qualcosa di spaventevole sotto questa tragedia. Sono convinta che ne sei vittima innocente, proprio come Sam. Tu credi... credi veramente di poterlo aiutare?»

«Credo che possiamo aiutarci a vicenda.»

La donna rimase in silenzio un istante, mentre lui rimescolava il caffè.

«Allora ti dirò di Sam», decise alla fine, inghiottendo la saliva come se stes­se soffocando. «Perché Sam... ha bisogno di aiuto, terribilmente bisogno!»

«Farò tutto quello che posso. Dove si trova ora?»

«Non lo so... davvero!» Scosse la testa bionda, esasperata. «Non s’è fidato nemmeno di me... è questa la cosa terribile.» Inghiottì ancora, prima di dire: «Ho paura di non vederlo... più!».

«Puoi dirmi esattamente che cosa è successo?»

Lei cercò di vincere i singhiozzi. «L’ho chiamato subito dopo la tua telefo­nata. Gli ho detto che secondo te la polizia sarebbe venuta a cercarlo per interrogarlo sulla morte di Nick.» Guardò Barbee con aria perplessa. «Aveva una strana voce, quando gli ho detto questo. Mi ha chiesto come facessi tu a saperlo.» La sua voce si fece più recisa. «Come lo hai saputo, Will?»

Barbee non riuscì a guardarla negli occhi. «Sai, i miei soliti informatori.» Si mosse a disagio, ripetendo la bugia inconsistente. «Non posso compromette­re chi mi aiuta nel mio mestiere.» Fu per rovesciare il caffè, e mormorò: «Insomma, che altro ha fatto Sam?».

«M’ha detto che doveva assolutamente scappare, ma non poteva dirmi dove. L’ho pregato di venire prima a casa, ma ha detto che non ne aveva il tempo. Perché non poteva dare spiegazioni alla polizia? ho chiesto. Perché non lo avrebbero creduto, m’ha risposto. Ha detto che i suoi nemici lo aveva­no messo nei guai con molta abilità... Ma chi sono i suoi nemici, Will?»

Barbee scosse il capo come un automa.

«È tutto un complotto, Will!», riprese, con voce che il terrore soffocava. «La polizia mi ha mostrato alcune cose che ha trovato... per farmi parlare. Mi ha detto quello che pensa. Non... non ci posso credere!»

«Che cosa ti hanno fatto vedere?»

«C’è un biglietto», rispose Nora debolmente, «scritto su un pezzo di carta gialla con la calligrafia di Sam... o un’imitazione della sua scrittura. Dice come abbiano bisticciato, tornando dalla spedizione, per il tesoro che aveva­no nella cassa. Sam lo voleva per sé, e ha cercato di convincere Nick ad aiutarlo... questo dice il biglietto.»

Nora scosse il capo in una frenetica protesta. «Il biglietto dice anche che Sam avrebbe dato a Mondrick una dose eccessiva della sua medicina per il cuore, per ucciderlo all’aeroporto e impedirgli così di riporre il tesoro nel museo dell’Istituto. Sam poi avrebbe indebolito i freni e lo sterzo della no­stra macchina, così che Rex sbandasse su Sardis Hill... è strano che Sam do­vesse imprestargli la nostra vecchia macchina, quando all’Istituto ci sono macchine molto migliori. E infine il biglietto dice che Nick aveva paura che Sam volesse ucciderlo, per mantenere il segreto sugli altri assassini e avere il tesoro tutto per sé.»

Nora fu scossa da un singulto e la sua voce si fece più acuta. «La polizia crede al biglietto, capisci. Crede che sia stato Nick a scrivere in realtà il bi­glietto. Dicono che Sam e lui erano soli nella stanza. Hanno trovato una sedia spezzata, e una striscia di sangue fino alla finestra. Sono persuasi che Sam abbia ucciso Nick e poi lo abbia gettato dalla finestra... ma tu sai che Nick pativa di sonnambulismo... Ricordi, vero?»

Barbee annuì, e vide la disperata speranza della donna.

«Ricordo», disse, «e non credo che sia stato Nick a scrivere quel biglietto.»

Era stata la lupa, pensò, quand’era balzata sul tavolo di Nick e aveva preso la sua matita nella zampa... ma questo faceva parte della sua pazzia, non poteva parlarne a nessuno, nemmeno a Nora.

Barbee guardò la macchina dell’Istituto dalla finestra della cucina e indi­candola col mento domandò:

«Sam dunque è venuto qui?».

«Oh!... Sam me l’ha mandata con un uomo dal garage della Fondazione perché la usassi al posto della nostra... quella in cui Rex si è ammazzato. Sam mi aveva detto al telefono che il nemico non avrebbe riconosciuto la nostra automobile, e invece...»

Barbee abbassò ancora gli occhi sul resto del suo caffè. «E non sai nulla di Sam?»

«So solo che se n’è andato.» Si asciugò le lacrime che continuavano a col­marle gli occhi. «Ma non so dove. Mi ha detto che la morte dei suoi tre amici gli imponeva un dovere importantissimo, che deve adempiere da solo. Non mi ha detto di che si tratta. Gli ho consigliato di prendere questa macchina, ma mi ha risposto che non aveva tempo di venire a casa. Contava di prende­re un furgone dell’Istituto.»

Si soffiò il naso in un tovagliolo di carta. «Will», mormorò, «che cosa pos­siamo fare per aiutarlo?»

«Dobbiamo innanzi tutto trovarlo», disse Barbee, alzando la tazza con mano tremante, per inghiottire l’ultimo sorso di caffè. «Ma io credo di sape­re... di sapere dove posso trovarlo. Perché lui sa che tutti gli agenti di polizia di quattro Stati saranno sguinzagliati alla ricerca di quel furgone entro mez­zogiorno. Credo di sapere dove Sam andrebbe in un caso del genere.»

Nora si chinò su di lui con espressione implorante sul volto.

«Dove, Will? Ti prego, dimmi, dove credi di poterlo trovare?»

«È solo una supposizione», e Barbee si agitò inquieto nella sua vestaglia rossa, «forse mi sbaglio, ma non credo. Se non mi sbaglio, anche questa volta è meglio che tu non sappia. Immagino che la polizia sarà presto di nuovo qui... alla ricerca di me come di Sam.»

Lei si portò le mani alla gola. «La polizia!», ripeté. «Will, non l’avvertirai, vero, del nascondiglio di Sam?», domandò con improvvisa diffidenza. «E non ti farai scoprire?»

«Ma no, mia povera Nora!», non poté fare a meno di sorridere. «Saprò essere prudente, non sono meno in pericolo di Sam, sai. E ora, se tu mi dessi un po’ di roba da portargli? Abiti pesanti, stivali, sacco a pelo, fiammiferi, una padella, un po’ di scatolame, una carabina... immagino che tu abbia qui almeno una parte del suo equipaggiamento leggero della spedizione.»

Lei assentì col capo, pronta a muoversi.

«E avrò bisogno di quella macchina», aggiunse Barbee, «per raggiungerlo.»

«Prendila pure. Prendi tutto quello che ti occorre... e lascia che io gli scriva un biglietto.»

«Sì, ma facciamo presto, Nora. Dobbiamo aiutare Sam per qualcosa ancora più importante della sua sicurezza personale. Lui è l’ultima speranza... con­tro qualcosa peggiore di quanto la maggior parte degli uomini abbia mai te­muto.»

«Lo so, Will. Sam non ha mai voluto dirmi nulla, ma io l’ho sentito, questo, fin dall’istante in cui atterrarono al’aeroporto. È come se qualcosa si anni­dasse nell’ombra, invisibile, sogghignante, orrendo, troppo orrendo per avere un nome.»

Ma l’aveva un nome, pensò Barbee. E questo nome era: il Figlio della Not­te.

17.

Con l’orecchio teso alle eventuali sirene di auto lanciate alla sua ricerca, Barbee si recò nel bagno per cambiare le pantofole e la vestaglia della clinica con un paio di scarpe e un costume kaki di Sam, infilandosi due paia di calze, perché le scarpe erano troppo larghe. Frattanto Nora aveva messo insieme provviste, coperte, indumenti, altre cose di prima necessità. Poi, mentre la donna scriveva il biglietto per il marito, Barbee fece un gran pacco di tutte le robe.

«Non dire ai poliziotti che mi hai visto», ricordò a Nora con un roco sussur­ro. «Non dir nulla... per quello che ne so, la stessa polizia potrebbe operare d’accordo coi nemici di Sam.»

Poi, cogliendo un istante in cui la tranquilla viuzza era deserta, saltò in macchina e si avviò, sorridendo a Nora sulla porta con una speranza che non sentiva.

Percorreva Pine Street alla velocità regolamentare di quaranta chilometri all’ora, quando udì una sirena alle sue spalle; si costrinse a mantenere la velocità legale, e dopo qualche istante respirò di nuovo. Una decina di chilo­metri più innanzi, piegò a nord e imboccò una strada secondaria, piena di fosse, verso le colline.

Mentre guidava, analizzò l’intuizione che aveva avuto sul nascondiglio di Sam. Quain era cresciuto fra quelle colline. Non c’era dubbio che fosse scap­pato dall’Istituto con la cassa, e Barbee era certo di conoscere dove Sam avrebbe cercato di nasconderla.

Durante le vacanze natalizie, tanti anni prima, lui aveva fatto una corsa a cavallo con Sam e Rex su per un viottolo che serpeggiava tra le colline fino a una vecchia segheria abbandonata. A un tratto, Sam aveva tirato le redini del suo cavallino scozzese per indicare agli altri una striscia fumosa sul dirupo roccioso, ossidato, che strapiombava sul Laurei Canyon. Quella striscia, disse Sam, indicava la presenza in quei paraggi d’una grotta indiana.

Barbee sapeva che Sam doveva avere scelto quella grotta. Lontanissima dal­le strade comunemente usate, era tuttavia accessibile a un guidatore come Sam. C’era abbastanza vegetazione per nascondere la macchina, anche a un ricognitore aereo.

Con l’acqua vicina del Laurei Creek, legna a volontà per scaldarsi e un rico­vero abbastanza capace e comodo per chiunque non andasse troppo per il sottile, quella grotta era una fortezza naturale, come lo era stata per migliaia di anni.

Per due volte, Barbee fermò la macchina là dove la vegetazione la nascon­deva a qualunque occhio indiscreto, e si arrampicò su un’altura a guardare la strada percorsa. Era deserta, segno che nessuno lo seguiva, ma le tracce fre­sche di pneumatici sul terreno gli indicarono che Sam doveva essere passato di là.

Erano le dodici e mezzo quando il giornalista raggiunse il Bear Canyon. La giornata s’era fatta calda, ma pesanti nuvoloni nascondevano il sole, e aveva cominciato a soffiare dal sud un vento caldo che prometteva la pioggia.

Sotto il poggio rossastro che dominava il Laurei Canyon, scoprì la giardinet­ta di Sam, abilmente nascosta tra la vegetazione, là dove la strada di monta­gna serpeggiava fra un enorme masso di granito e una pianta che vi si piega­va sopra. Barbee lasciò la sua macchina accanto alla giardinetta, e iniziò la marcia, curvo sotto l’enorme fagotto delle provviste per Sam.

Si teneva bene in vista, salendo, perché conosceva Sam Quain, e cercar di seguirlo furtivamente equivaleva a un suicidio. E aveva la sensazione precisa che Sam tenesse la sua vita in sospeso.

«Sam!», chiamò con voce resa tremante dall’apprensione. «Sono Barbee, con le provviste!»

Ansimò di sorpresa e di sollievo quando vide la testa del fuggitivo apparire dietro il tronco di un’enorme quercia. La testa abbronzata di Sam era nuda, la camicia lacera e sporca di terra. Il corpo ossuto dell’esploratore sembrava piegato in due dalla spossatezza, ma la rivoltella che stringeva in mano era minacciosa come la dura voce che chiedeva:

«Barbee... che diavolo stai facendo qui?».

Barbee rispose informandolo succintamente della situazione e annuncian­dogli un biglietto di Nora. Ma la faccia minacciosa di Sam non si addolcì.

«Dovrei ammazzarti, Barbee.» La sua voce era cambiata, suonava atona e dura. «Avrei dovuto ammazzarti molto tempo fa... io o Mondrick avremmo dovuto farlo. Ma ritengo che tu non sia del tutto perduto... il tuo avvertimen­to a Nora mi ha salvato dalla polizia, questa notte, e io ho un gran bisogno di quanto mi hai portato.»

Barbee poté farsi avanti, curvo sotto il sacco, le mani alzate, fino a quando la rivoltella di Sam non gli fece segno di fermarsi.

«Sam, puoi fidarti di me ora?» La voce di Barbee aveva un’intonazione di tremula preghiera. «Io voglio aiutarti, se tu volessi soltanto dirmi che cosa diavolo sta succedendo. Ieri sono andato a Glennhaven, dubitavo della mia ragione, forse è così, ma sento che si tratta di ben altro!...»

Gli occhi arrossati di Quain si socchiusero per osservarlo meglio. «C’è ben altro è vero, molto di più», ribatté la voce aspra di Quain.

Si udì un tuono rotolare brontolando in lontananza e le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere, mentre il vento s’era fatto bruscamente fred­do e umido.

«Su, prendi il sacco delle provviste», disse Barbee, «leggi il biglietto di Nora e lascia che ti aiuti come posso.»

Alla fine, con un gesto della rivoltella sempre stretta nella destra, Sam lo invitò a farsi innanzi.

«Togliti da sotto la pioggia», mormorò. «Non ho idea di quale e quanta possa essere stata la tua parte, conscia o inconscia che sia, in tutto questo complotto demoniaco. Non so fino a che punto posso fidarmi di te. Ma im­magino che non peggiorerà certo la situazione dirti quello che so.»

La caverna era invisibile dal basso, anche se quella sottile striscia di fumo la tradiva. Facendosi precedere da Barbee barcollante sotto il sacco su per la salita, Quain, sempre con la rivoltella in pugno, prese ad arrampicarsi su gradini rocciosi in quello ch’era stato il letto d’un ruscello, dove un solo uomo armato avrebbe potuto tenere a bada un centinaio d’inseguitori.

Simile a una fessura orizzontale alla fine di quell’angusta scaletta naturale, la grotta era stata scavata dallo scalpello del tempo fra due strati di durissima arenaria. Il soffitto era annerito dal fumo di fuochi antichissimi. Na­scosta nell’angolo più tenebroso, là dove il tetto si abbassava fino a toccare il soffitto, Barbee vide la cassa venuta dall’Asia. Lasciò cadere l’enorme fagot­to, guardando la cassa con aria significativa.

«Non ancora», disse Sam, con rabbia. «Prima devo mangiare!»

Barbee disfece la sacca e si mise a preparare il caffè; su un piccolo fornello, fece arrostire la pancetta, e aprì una scatola di fagioli.

Servendosi d’una pietra piatta come di tavola, Quain mangiò e bevve avida­mente. S’era posto tra Barbee e la cassa, e mangiava con la rivoltella a porta­ta di mano. I suoi occhi iniettati di sangue, gonfi di stanchezza, andavano senza posa da Barbee a una curva della strada, visibile ai piedi della parete rocciosa.

Il temporale si andava addensando sempre più minaccioso. I tuoni si face­vano ancora più fragorosi e frequenti, e raffiche di vento rabbiose portavano fin dentro la caverna gelide gocce di pioggia. Fra poco una pioggia dirotta, si disse Barbee, avrebbe sommerso le piste chiudendoli in trappola in quella caverna. Finalmente Quain ripulì il suo piatto di stagno e Barbee disse ansio­so:

«Bene, Sam... dimmi, dunque».

«Lo vuoi proprio sapere?» I febbrili occhi di Quain continuavano a scrutar­lo. «Quando avrai saputo, ne sarai ossessionato, Barbee. Il mondo si trasfor­merà anche per te in un coacervo di orrori. Finirai per nutrire innominabili sospetti per ogni amico che hai... se sei innocente come sostieni di essere. Sapere quello di cui sei curioso potrà forse ucciderti.»

«Voglio sapere», disse Barbee.

«Sarà il tuo funerale.» Quain aveva ripreso la rivoltella. «Ricordi che cosa disse Mondrick lunedì sera all’aeroporto, quando fu assassinato?»

«Dunque, Mondrick fu assassinato?», osservò Barbee dolcemente. «Me­diante un gattino nero... strangolato, vero?»

La faccia non rasata di Quain divenne ancora più livida. I suoi occhi si dilatarono in un’espressione di orrore, fissando Barbee, e la sua mano puntò la grossa rivoltella verso il giornalista, mentre con voce rauca Sam chiedeva:

«Come l’hai saputo?».

«Ho visto il gattino. Molte cose orribili sono accadute, che non riesco a capire... ecco perché ho dubitato di avere perduto la ragione.» Guardò la cassa alle spalle di Quain, forse perché il lucchetto scintillava nell’ombra come se fosse d’argento. «Ricordo le ultime parole di Mondrick: “Fu centomila anni fa...”.»

Un’altra raffica di vento e pioggia penetrò nella grotta, facendo rabbrividere Barbee nel vecchio maglione di Sam che Nora gli aveva dato. E quando il tuono si fu calmato, Quain disse: «Ci fu un tempo in cui gli uomini vivevano tutti in caverne come questa. Un tempo in cui gli uomini erano dominati da un terrore così ossessionante da riflettersi ancor oggi nei miti e nelle super­stizioni di ogni terra e nei sogni segreti di ogni uomo. Perché quei nostri lontanissimi antenati erano perseguitati e ossessionati da un’altra e più anti­ca razza semi-umana, che Mondrick volle chiamare Homo lycanthropus ».

«Uomo-lupo mannaro?»

«Sì, o uomo lupo. Mondrick volle chiamarli così, per certe particolari carat­teristiche delle ossa, del cranio, dei denti... caratteristiche che si possono no­tare ogni giorno.»

Barbee ripensò agli strani scheletri che il serpente e la lupa avevano visto in quella strana camera della torre. Ma si guardò bene dal farne cenno: sapeva che Sam Quain lo avrebbe ucciso.

L’acqua entrava ora nella caverna, e Sam trascinò la sua preziosa cassa in un angolo più riparato.

«Ma quella razza rivale non aveva nulla di scimmiesco», riprese. «Il sentiero dell’evoluzione non procede sempre salendo: i Cromagnon, per esempio, erano esemplari umani migliori di quelli che si possono trovare oggi. L’albe­ro della famiglia umana ha sviluppato bizzarre diramazioni... e quella razza di stregoni», Barbee non poté fare a meno di sussultare, «devono essere stati i nostri più strani cugini.»

La pioggia ora cadeva con un’intensità diluviale con una specie di rombo ininterrotto.

«Per risalire alle vere origini di quella tragedia razziale, bisogna andare an­cora più lontano nel tempo, ad almeno mezzo milione di anni fa e anche più... alla prima delle due più importanti ere glaciali del Pleistocene. La pri­ma era glaciale con i suoi intermezzi di clima meno rigido durò quasi centomila anni, e creò il popolo degli stregoni.»

«E avete trovato le prove di ciò nell’Ala-shan?», mormorò Barbee.

«Parzialmente. Sebbene l’altopiano del Gobi non fosse mai stato completa­mente invaso dai ghiacci... le sue zone desertiche divennero umide e fertili durante le epoche glaciali ed è là che i nostri antenati neolitici ebbero la loro rapida evoluzione. La razza degli stregoni discendeva da un tipo affine di ominidi rimasti prigionieri dei ghiacci nelle regioni più elevate a sud-ovest, verso il Tibet. Mondrick ne trovò resti in una caverna, che aveva scavato prima della guerra, oltre la catena dei Nan-shan. Quello che noi trovammo sotto quei tumuli funebri del deserto, durante l’ultima spedizione, completa la storia, costituendone inoltre un capitolo piuttosto impressionante.»

Barbee fissava come distratto i pesanti fili della pioggia.

«Quelle tribù rimaste prigioniere dei ghiacci seppero affrontare la sfida del ghiacciaio. Ogni secondo i ghiacciai si facevano più alti e minacciosi e la selvaggina era sempre meno numerosa e gli inverni divenivano sempre più duri. O adattarsi alle mutate condizioni o morire. Le tribù seppero sviluppa­re, col lento passar dei millenni, nuovi poteri mentali.»

Barbee ripensò al Principio di Indeterminazione di Heisenberg, e al circuito che collegava la mente alla materia attraverso il controllo delle probabilità.

«Davvero?», disse. «Quali poteri?»

«Non è facile precisare. Cervelli morti non lasciano fossili nel terreno, capi­sci. Ma Mondrick era convinto che avessero lasciato tracce nei miti, nel lin­guaggio e nelle superstizioni. Studiò per molti anni questi ricordi razziali e ha potuto ottenere maggiori prove dopo che ebbero inizio gli esperimenti della Duke University in parapsicologia e metapsichica.»

Barbee si sbalordì talmente che rimase a guardare Quain a bocca aperta.

«Quei nomadi intrappolati dai ghiacci sopravvissero», continuò Quain, «avendo sviluppato poteri che permisero loro di predare i loro più fortunati cugini della zona del Gobi. Telepatia, chiaroveggenza, virtù profetiche... tutti questi poteri certamente. Mondrick tuttavia era convinto che essi possedes­sero un dono più sinistro.»

Barbee si accorse di respirare a stento.

«Le prove in questo senso sono quasi universali. Quasi ogni popolo primiti­vo è ancora ossessionato dalla paura del loup garou,in un aspetto o nell’al­tro: di una creatura, cioè, apparentemente umana che può assumere la forma della belva più feroce della località, per assalire e predare l’uomo. Questi stregoni, secondo Mondrick, appresero a lasciare i loro corpi ibernanti nelle caverne elette a domicilio, correndo le distese ricoperte di ghiacci, come lupi, orsi o tigri... per andare a caccia di selvaggina umana.»

Barbee fu lieto di non avergli parlato dei suoi sogni.

«E così, in questo loro modo diabolico, quegli ominidi circondati dal gelo risposero alla sfida della natura e conquistarono il ghiacciaio. Verso la fine della glaciazione di Mindel — 400.000 anni fa, come tutto tende a provare — avevano praticamente conquistato il mondo. In qualche migliaio di anni i loro terribili poteri avevano sopraffatto ogni altra specie del genere Homo. Tuttavia l’ Homo lycanthropus non sterminò le razze conquistate, meno che nelle Americhe. Solitamente lasciavano vivere i superstiti, come loro schiavi e loro cibo. Avevano imparato ad amare il gusto del sangue umano, senza il quale non potevano più vivere.»

Barbee ricordò la gioia con cui la tigre aveva affondato le zanne terribili nella gola di Rex Chittum e l’orrore che lo colse fu tale che temette di non poterlo nascondere a Quain.

«Per centinaia di migliaia di anni», continuò Quain, «per tutto il principale periodo interglaciale, la razza degli stregoni fu la nemica e la crudele padro­na del genere umano. Furono gli scaltri sacerdoti e le divinità malefiche. Furono gli spietati genitori d’ogni orco, demone, mostro divoratore di uomi­ni delle leggende popolari di tutti i continenti. Fu una incredibile, degradante oppressione cannibalistica. Se ti sei mai domandato perché la nascita di ogni vera civiltà umana abbia richiesto tanto tempo, ora hai la risposta. Il loro mostruoso potere durò fino al ritorno del freddo durante le glaciazioni di Riss e di Wurm della seconda età glaciale. Ma non erano mai stati molto numerosi; i predatori, infatti, non possono mai essere così numerosi come gli animali di cui si nutrono. Forse il tempo aveva finito per minare il loro vigo­re razziale.

«A ogni modo, quasi centomila anni fa, i tipi atavici dell’ Homo sapiens si rivoltarono. Il cane era stato addomesticato, probabilmente da tribù che ave­vano seguito la ritirata dei ghiacciai per sottrarsi al dominio degli stregoni. Il cane si rivelò un alleato sicuro. Abbiamo trovato le prove di quella strana guerra sotto i tumuli sepolcrali dell’Ala-shan. I veri uomini sembrano avere imparato a portare amuleti di argento alluvionale contro i poteri degli stre­goni e poi veri e propri gioielli di quel metallo. Mondrick riteneva che doves­se esserci una base scientifica all’opinione che solo un’arma d’argento potes­se uccidere un Lupo Mannaro, ma non riuscì mai stabilirlo. Noi abbiamo letto la storia di quella rivolta e riportato oggetti sufficienti a dimostrarla.» Quain indicò con la testa la cassa alle sue spalle. «Perline d’argento, lame e punte di freccia di argento puro. Ma lo stesso argento non era sufficiente: streghe e stregoni erano scaltri e forti. Gli uomini dell’Ala-shan inventarono allora un’altra arma, più potente ed efficace, che trovammo sepolta sotto quegli antichissimi tumuli con le ossa delle streghe morte... senza dubbio per­ché restassero morte. Gli uomini vinsero», concluse Quain con voce stanca, «non subito e tutt’altro che facilmente. Il popolo delle streghe era forte e restava tenacemente attaccato al suo antico dominio. La terribile guerra durò per tutto il periodo achelleano e quello musteriano. Gli uomini di Neanderthal e di Cromagnon morirono... vittime delle streghe, secondo Mondrick. Ma i progenitori dell’ Homo sapiens sopravvissero, e portarono avanti la guerra. L’uso dei cani si diffuse, insieme con la conoscenza dell’ar­gento e il potere di quell’altra arma. Prima che sorgesse l’alba della storia scritta, la specie delle streghe era stata quasi sterminata.»

«Quasi?», disse Barbee.

«Fu una razza durissima a morire. Uno dei loro ultimi clan dovette essere quello dei primi sacerdoti e dominatori dell’antico Egitto: la prova sembre­rebbe abbastanza evidente nelle divinità animali e semianimali che gli Egizi adoravano, e i generi di demoni e di magia nera che temevano. Ho visto eccellenti riproduzioni di tipi di Homo lycanthropus,dal caratteristico cranio allungato, sulle pareti di tombe egizie. Ma anche quel clan fu finalmente conquistato — o assorbito — durante il periodo di Imhotep.»

Un gran lampo illuminò la sinistra tensione dei lineamenti di Quain. «Per­ché il sangue dei conquistatori non era più puro.» I suoi duri occhi guardaro­no scintillando Barbee. «Fu questa la terribile scoperta di Mondrick. Noi siamo degli ibridi. »

Barbee attese, col fiato sospeso.

«La cosa non è facile a capirsi. Le due specie sono sempre state profonda­mente nemiche, pure l’incrocio ha avuto luogo. Secondo Mondrick, messe nere e sabba di streghe sono residui di bestiali cerimonie a cui le figlie degli uomini furono costrette a partecipare. Ci sono altri indizi, forse, nella super­stizione degli incubi e in tutti i miti sulle unioni di divinità e di donne uma­ne... quella razza di stregoni doveva essere stranamente passionale! A ogni modo, il connubio è avvenuto!»

Nel rombo dei tuoni che echeggiavano nella cupa caverna, la stanca voce di Quain aveva assunto un lento e roco tono cantilenante.

«Dalle profondità di un passato spaventoso, la nera fiumana di quel sangue mostruoso scorre nelle vene dell’ Homo sapiens. Noi non siamo del tutto umani... e quell’eredità straniera ossessiona il nostro subcosciente coi cupi conflitti e gli intollerabili stimoli che Freud ha scoperto e cercato di spiegare. E ora quel sangue perverso è in rivolta. Mondrick ha scoperto che l’ Homo lycanthropus sta per vincere questa antichissima, feroce guerra delle specie, dopo tutto!»

18.

Irrigidito sulla pietra bagnata che gli serviva da sedile Barbee ascoltava. Fuori, la pioggia s’infittì ancora di più, tra un crescente fragore di tuoni, precipitando da un cielo completamente nero.

«Lo so che non è facile credere tutto ciò», riprese la voce rauca di Sam, «ma puoi vedere prove innumerevoli intorno a te... perfino la Bibbia, ricordati, ordina la distruzione delle streghe.»

Barbee ricordò ciò che gli aveva raccontato April Bell a proposito di suo padre e di sua madre.

«Infatti la storia biblica del Giardino dell’Eden», continuò Sam con voce sempre più stanca, «non appare che come una condensazione simbolica della storia di quella tragica guerra di specie. Il serpente sta per uno stregone, ovviamente. La maledizione che la sua scaltrezza ha fatto ricadere su Eva e il suo seme è chiaramente l’eredità del licantropismo che noi tutti ancora por­tiamo. I serpenti del nostro tempo si sono stancati di mordere la polvere, a ogni modo; vogliono sorgere ancora! Il popolo delle streghe ha lasciato un ampio strascico di prove lungo tutte le età. C’è un disegno paleolitico in una caverna di Ariege, nella Francia meridionale, che data dall’epoca in cui il popolo degli stregoni dominava e che mostra la trasformazione di uno stre­gone in un cervo dalle corna ramificate: queste forme innocue devono essere state assunte per influire sui docili adoratori umani senza terrorizzarli trop­po. Il popolo delle streghe tramava ancora, per riconquistare l’antica supre­mazia; in Egitto, durante il regno di Ramsete III, alcuni ufficiali e varie donne del suo harem furono processati, come si legge in un annale superstite, per avere fatto immagini di cera del Faraone, con incantesimi e riti magici, per nuocergli. I loro geni, tuttavia, dovevano essere già molto dispersi e le loro antiche arti dovevano essere quasi dimenticate, se sentivano la necessità di ricorrere a espedienti così infantili per concentrare i loro poteri distruttivi.

La mitologia greca, come scoprì Mondrick, è in realtà una sola grande remi­niscenza di un altro clan di licantropi. Il dio Giove, che rapisce le figlie degli uomini le quali divengono così le madri di semidei e di eroi, è chiaramente uno stregone che non ha perduto né i suoi poteri né le sue passioni. Proteo, lo strano vecchio marino che poteva cambiare la sua forma a volontà, era un altro licantropo. La stessa terribile storia si è ripetuta in Scandinavia, come nelle leggende popolari di ogni altro popolo. Il lupo gigante Fenris era nato da un’altra unione innaturale e divenne il demone dei Vichinghi. Sigmund il Volsungo fu un altro mago di sangue misto che doveva ricoprirsi d’una pelle di lupo per poter diventare lupo.»

Barbee rabbrividì ancora, e non disse nulla della pelliccia bianca di April Bell.

«Le streghe del medioevo, costrette finalmente a uscire dall’ombra dalla giusta ira dell’Inquisizione, non erano che le poche superstiti di un clan di streghe bastarde, che si sforzavano di mantenere in vita le arti e le cerimonie di quell’antica stirpe pagana. I diavoli che le megere si radunavano ad adorare solitamente assumevano forme animali: non erano che stregoni trasforma­ti. Il celebre Gilles de Rais, processato per la sua eresia nel quindicesimo secolo, era probabilmente licantropo per un quarto, troppo debole e igno­rante per sfuggire al boia, al quale era stato consegnato per i suoi immondi delitti. Giovanna d’Arco, che fu bruciata per stregoneria, era in realtà una meticcia in cui il lato umano nella sua più elevata ascesi mistica aveva final­mente preso il sopravvento. E in tempi più recenti i cacciatori di stregoni tra gli Zulu hanno continuato a loro insaputa l’opera necessaria dell’Inquisizio­ne. Perfino in Europa, il mostruoso antichissimo culto pagano non è mai stato sradicato del tutto: la vecchia religione è una patetica sopravvivenza, in certi paesi latini, che ancora ha dei seguaci fra gli strati meno evoluti delle popolazioni agricole.»

Sam Quain scosse enfaticamente la testa. «No, Barbee, non si può negare l’evidenza. Mondrick la trovò in ogni ramo dello scibile. Gli ospiti di tutte le nostre prigioni e dei nostri manicomi sono le vittime di quella antica tara ereditaria, spinti dagli impulsi criminali della loro ascendenza di licantropi, o resi folli dal conflitto psicologico che li tormenta tra lo stregone e l’uomo, quella che cioè è una vera e propria schizofrenia!

Gruppi sanguigni e indici cefalici forniscono altre prove: quasi ogni uomo che si esamini rivela alcuni caratteri fisici ereditati dai licantropi. L’esplora­zione freudiana dell’inconscio ha rivelato un’altra fonte di prove impressio­nanti: che Freud tuttavia non seppe identificare.

Ci sono poi tutti questi recenti esperimenti universitari nel campo della pa­rapsicologia, sebbene la maggior parte degli sperimentatori non immagini ancora le cose sgradevoli che si avviano a scoprire; e naturalmente gli odierni licantropi cerchino di minimizzare o screditare le loro straordinarie scoper­te.»

Barbee ritrovò finalmente la voce.

«Non capisco», disse. «Se l’ Homo Lycanthropus è stato veramente stermina­to...»

«Non ricordi le leggi sull’ereditarietà di Mendel? Le unità della cellula ger­minale che controlla i caratteri ereditari sono dette geni, e si trovano nell’uo­mo in numero di molte migliaia; ognuna causa o contribuisce a causare la comparsa di certe caratteristiche in un individuo. Ogni nato eredita una du­plice serie di geni dai genitori: il rapporto sessuale è in realtà uno stratagem­ma per rimescolare i geni, e le leggi della probabilità garantiscono l’unicità di ogni persona.»

Le probabilità e il circuito della mente, pensò Barbee...

«I geni, come ricorderai, possono essere soltanto o dominanti o recessivi. Noi riceviamo i nostri geni a coppie, uno da ognuno dei genitori, e il gene dominante può nascondere la presenza di un gene recessivo: un gene domi­nante per gli occhi neri può nascondere il gene recessivo che produce occhi azzurri. Questo è innocuo, ma ve ne sono di sinistri. Uno di questi geni re­cessivi è quello che produce i sordomuti. Normali sordomuti ibridi — cioè una persona con un gene recessivo per la sordità e uno dominante per l’udito — non può essere distinto dalle persone normali mediante un esame normale. Ma è portatore del sordomutismo. Se due portatori di questa tara si sposano, le probabilità derivanti della mescolanza dei geni daranno un figlio su quat­tro completamente normale, due ibridi normali e un quarto sordomuto.»

«Ma che cosa ha a che fare tutto questo con le streghe?», domando Barbee.

«Ha a che fare moltissimo. Il sangue umano, o germoplasma, per usare una parola più precisa, porta ancora le tracce dell’ Homo lycanthropus. La razza degli stregoni non è scomparsa realmente, perché i loro geni continuano a vivere, trasmessi insieme con quelli dell’ Homo sapiens. Il caso è un po’ più complicato di quello del sordomutismo e molto più sinistro. Perché com­prende varie centinaia di geni recessivi, secondo i risultati di Mondrick, inve­ce di uno solo. Lui trovò che ci vuole la combinazione di varie paia di geni licantropici per riprodurre completamente il dono della percezione ultrasen­sibile, e gran parte dei geni licantropici sono recessivi.»

Barbee scosse violentemente il capo, come per protestare, e poi si immobi­lizzò di nuovo, temendo che quella muta protesta lo avesse tradito.

«Ci sono stati ritorni di caratteri ereditari. Non molto spesso, fino a quando si lascia in pace la natura. È tutta una faccenda di probabilità, e tu puoi prevederne l’esito. Ma ogni uomo vivente è portatore dei geni, e molti dei nati con caratteri ereditari recessivi, lo sono solo in parte. Letteralmente mi­lioni di mutazioni sono possibili tra l’ Homo sapiens puro e il puro licantropo. Le recessioni parziali, coloro cioè che ereditano un sedicesimo, forse, del gene della stregoneria, posseggono quei poteri che alla Duke University sono stati definiti ESP, o extrasensorial perceptions. Sono veggenti, dotati di poteri telepatici. Malinconici, ipertesi, infelici, il più delle volte, a causa dell’incon­scio contrasto dei loro caratteri ereditari. Li si trova tra i fanatici religiosi, tra i medium, tra gli schizofrenici e i criminali patologici. Unica fortunata ecce­zione, un genio: tu sai quale possa essere il vigore degli ibridi. Quelli che nascono con caratteri ereditari più pronunciati sono di solito abbastanza consapevoli dei loro insoliti doni e molto solleciti nel nasconderli. Nel me­dioevo, finché l’Inquisizione tenne vivo l’antico vigore nel dar la caccia a negromanti e streghe, questi tipi venivano di solito scovati e bruciati. Oggi la loro vita è più facile. Sono in grado di sfruttare fino in fondo le loro qualità metapsichiche e tramano per riconquistare la loro antica supremazia. Pas­sano molto tempo a coltivare il moderno scetticismo scientifico nei riguardi di ogni fenomeno soprannaturale: parola questa, diceva Mondrick, che è stata coniata dalla loro astuta propaganda e che sta in realtà per quella, mol­to più corrispondente, di superumano.»

Barbee pensava ad April Bell, si diceva che evidentemente lei rappresenta­va un ritorno di caratteri ereditari, che era veramente una strega e lui era caduto vittima delle sue malie.

«Alcuni individui, in numero molto scarso, devono ereditare ogni genera­zione circa un quarto di geni dei licantropi. Ci sono streghe e stregoni che hanno sangue di licantropo per un quarto, ma non sempre sanno ciò che sono. Hanno percezioni notevolmente superiori, sanno usare in modo quasi inconsapevole alcuni dei loro strani poteri ancestrali e posseggono buona parte del sorprendente vigore degli ibridi. La chiave della loro vita è il con­flitto di due razze. Il male si mescola al bene, in loro, combatte il bene, si nasconde sotto una maschera di bene... le loro vite contorte prendono strane direzioni.»

La verità — finalmente! — si faceva strada in Barbee, e lo stringeva in una morsa più gelida ancora del vento spruzzato di pioggia che irrompeva ogni tanto nella semi-oscurità della caverna.

«Mondrick passò molto tempo a cercare una prova definitiva del gene licantropico», riprese Quain, «ma senza molto successo. Non è difficile identifica­re tratti fisici come la forma di un cranio o i gruppi sanguigni, ma sfortunata­mente queste particolarità non sono collegate molto intimamente con le ca­ratteristiche mentali più pericolose. Nessuna delle sue prove fu conclusiva, anche se molte si rivelarono indicative.»

Barbee fissò Quain e trattenne per un attimo il respiro:

«È stato per questo...», cominciò e non poté finire.

«Non devi prendertela, Will», rispose Sam, e nella penombra il suo volto rivelò per la prima volta un’espressione d’affetto. «Le prove rivelarono che tu porti una pronunciata tara licantropica, e Mondrick fu costretto a rinun­ciare a te... non poteva, capisci, correre rischi, data la natura delle sue ricer­che. Ma come ti dicevo i risultati non sono conclusivi. E anche se lo fossero, molti parziali licantropi sono ottimi cittadini, utili spesso alla società: Mon­drick mi confessò una volta che le sue prove avevano rivelato una forte tara licantropica nella sua stessa moglie.»

Ecco perché... si disse Barbee. Doveva essere stato il suo sangue e le sue qualità chiaroveggenti che avevano reso la cieca così pericolosa per le altre streghe. Era stata la sua nera ereditarietà che l’aveva mandata prima a Glennhaven e poi alla morte. Ma Barbee non voleva parlare di Rowena.

«E streghe e stregoni di sangue puro?», domandò, sempre in preda al suo malessere. «Chi sono?»

«Non dovrebbero esisterne più. Anche di chi ha sangue puro per tre quarti non ne dovrebbe nascere più d’uno per generazione, in base alle leggi di probabilità dei geni, e del resto se ve ne sono devono essere troppo scaltri per farsi scoprire, soprattutto in un paese come l’America. No, non devono esserci più licantropi puri ormai, sebbene io dubiti che uno debba esserci. Mondrick scoprì gravi indizi relativi all’esistenza di un capo segreto della razza di streghe, nato con una vastissima eredità dei loro poteri. Un satana occulto, che si muove insospettato fra gli uomini, tramando per il ritorno del loro immondo dominio sulla nostra specie.»

Quain lo fissava con una tale intensità, che Barbee ebbe un guizzo di disa­gio sulla sua pietra.

«Il Figlio della Notte?», mormorò. «Ricordo la frase del povero Mondrick. Ma come possono sperare streghe e negromanti di riavere l’antico dominio sull’uomo, quando il ritorno dei caratteri ereditari ha luogo solo attraverso il gioco delle probabilità?»

«Non è più così!», rispose Quain con uno scoppio rabbioso di voce. «È questa l’ultima e più preoccupante scoperta di Mondrick, quella che voleva annunciare al mondo, quando la razza malefica lo assassinò. I recessivi han­no ripreso a congregarsi in clan segreti. Accoppiandosi tra loro hanno capo­volto le probabilità sfavorevoli, accrescendo enormemente quelle di recessio­ne.»

Barbee annuì. Il controllo mentale delle probabilità poteva avere un ruolo molto preoccupante in quel rimescolare i geni per giungere alla nascita di un licantropo puro...

«Il complotto deve avere avuto inizio parecchie generazioni fa», riprese Sam Quain. «Secondo Mondrick, qualche clan segreto deve avere sempre tramandato il ricordo dell’antica supremazia e la decisione di riconquistarla. Lavorano sott’acqua, cauti e spietati. Disponendo dei loro segreti poteri, è facile per loro fare quello che le prove di Mondrick non poterono: scoprire la tara nascosta in uomini che possono non sapere di averla. Trovati i veicoli di questa tara, ricorrendo alla moderna scienza della selezione biologica, fil­trano i geni ed eliminando quelli dominanti dell’ Homo sapiens per giungere alla nascita del capo potentissimo che attendono, del mostruoso messia che chiamano il Figlio della Notte.»

Sempre sotto lo strano sguardo fisso di Sam, Barbee dette un altro guizzo e abbassò gli occhi, volgendoli verso la cassa.

«Posso vedere quello che c’è dentro?», domandò.

La mano di Quain fu pronta ad afferrare la rivoltella.

«No, Barbee.» Dai suoi occhi era scomparsa ora ogni traccia di amicizia. «Può darsi benissimo che tu non sia pericoloso, ma non posso correre il ri­schio di fidarmi ora, proprio come non lo poté Mondrick quando vide i risul­tati della sua analisi. Quanto ti ho detto non pregiudica nulla, perché sono stato attento a non rivelarti nulla che i capi dei clan malefici già non sappiano delle nostre scoperte. Ma non puoi assolutamente guardare entro quella cassa.» Sul volto di Barbee dovette apparire un’ombra di quella che era la sua intima mortificazione, perché la voce di Quain si raddolcì. «Abbi pazien­za, Will. Posso dirti, comunque, una parte di ciò che essa contiene. Si tratta di armi d’argento, che gli uomini usarono nella loro lunga guerra contro le streghe. Ci sono poi ossa calcinate, spaccate... di uomini che persero le loro battaglie. E lo scheletro completo di un Homo lycanthropus,trovato in uno di quei tumuli... con l’arma lasciatagli accanto, affinché non si muovesse di là.»

La sua voce si fece di nuovo piena di un odio selvaggio.

«Quella stessa arma sconfisse le streghe una volta e le sconfiggerà ancora... quando gli uomini impareranno a servirsene. Questo è tutto quello che posso dirti, Barbee.»

«Ma chi è il Figlio della Notte?», domandò il giornalista. «Lo sai?»

«Potresti anche essere tu. Intendo dire che può essere chiunque. Noi cono­sciamo l’aspetto fisico dell’ Homo lycantrophys,le ossa delicate, le orecchie aguzze e lunghe, i crani rotondi e allungati, i denti aguzzi, particolarissimi. Ma le caratteristiche fisiche e mentali non sono molto collegate nei caratteri ereditari, come ha scoperto Mondrick, e perfino il Figlio della Notte potreb­be non essere di sangue totalmente puro.»

Un’espressione di orrore si diffuse lentamente sulla faccia di Sam.

«Ecco perché sono venuto a rifugiarmi qui, Barbee, invece di difendermi in tribunale. Non posso fidarmi di nessuno. Non posso stare a contatto della gente. In maggioranza sono prevalentemente umani, ma non dispongo di un modo sicuro per distinguere i mostri dagli uomini. Non ho mai potuto essere del tutto certo che Nick o Rex non fossero spie delle streghe. Sembrerà odio­so, ma mi sono perfino chiesto se Nora...»

La voce di Quain si spense, portata via da una raffica di vento.

Barbee aveva bisogno di sapere molte cose. Ma sapeva che Sam lo avrebbe ucciso se gli avesse domandato tutte le cose che aveva in mente. Scosse il capo, e disse: «Mi lascerai almeno aiutarti, Sam? Ne ho bisogno, sai. Devo farlo... per non impazzire del tutto, dopo quello che mi hai detto».

Scrutò con disperata tenacia la faccia cupa di Sam: «Non possiamo in qual­che modo identificare il Figlio della Notte e denunciare al mondo la razza delle streghe?».

«Era anche l’idea di Mondrick.» Sam scosse il capo. «Avrebbe potuto giova­re quattro secoli fa, prima che i clan riuscissero a screditare gli ultimi nemici che loro restavano con l’Inquisizione. Oggi i licantropi nelle università e nei laboratori possono dimostrare che non esiste il popolo dei licantropi. I lican­tropi che hanno giornali possono ridere e far ridere di chiunque affermi l’esi­stenza di creature così assurde come le streghe; e altrettanto si dica dei lican­tropi che siedono nei governi del mondo.»

Barbee vide che il crepuscolo s’addensava sul cielo già oscuro per il tempo­rale. Tra poco sarebbero scese le tenebre e le radiazioni mentali sarebbero state libere di tessere la loro ragnatela. Barbee sapeva che April avrebbe chiamato, e lui avrebbe avuto un’altra trasformazione; sapeva soprattutto che il prossimo a morire sarebbe stato Sam Quain.

«Sam!» E la sua voce aveva una disperazione spasmodica. «Che cosa possia­mo fare?»

Sam Quain alzò lievemente la rivoltella, come in un gesto inconscio, e il suo volto era contratto da una profonda riflessività. Gli stanchi occhi incassati dell’esploratore scrutarono Barbee e alla fine Quain annuì.

«Non posso dimenticare l’analisi che Mondrick condusse nei tuoi riguardi», disse. «Non mi piace l’espressione della tua faccia, Barbee, e nemmeno mi piace che tu sia venuto qui. Scusami, se le mie parole possono sembrarti offensive, ma devo proteggermi. Ho bisogno di aiuto, tuttavia, e tu puoi vedere quanto disperatamente.» I suoi occhi si volsero a guardare di scorcio la cassa alle sue spalle. «E perciò ti darò il modo di aiutarmi.»

«Grazie, Sam!», sussurrò Barbee con fervore. «Dimmi quello che devo fare.»

«Innanzi tutto, c’è una condizione che tu devi capire.» Barbee attese, gli occhi sulla rivoltella puntata. «Al primo sintomo di tradimento da parte tua, dovrò ucciderti.»

«Capisco», mormorò Barbee, inghiottendo convulsamente. «Ma tu credi... credi proprio che io possa essere un... ibrido?» E gli mancò il fiato, quando vide Quain annuire.

«Probabilmente lo sei, Barbee. Sebbene i geni umani predominino nella mi­sura di mille a uno, quasi ogni essere umano porta una lieve traccia del licantropo... sufficiente a provocare qualche inconscio conflitto tra i normali istin­ti umani e quell’eredità straniera. È questo che gli psichiatri hanno trascura­to in tutte le loro teorie di psicopatologia.»

Barbee attese, respirando un po’ meglio.

«L’analisi di Mondrick rivelò che tu porti più geni di licantropo della mag­gioranza degli esseri umani», continuò Quain. «Io posso vedere benissimo i segni del conflitto entro di te... ma non mi sembra che la parte umana si sia già arresa.»

«Grazie, Sam!» Un nodo di calda dolcezza strinse la gola di Barbee. «Farò qualunque cosa per te.»

Sam Quain rifletté. Il temporale era cessato e s’udiva solo il lento gocciare dell’acqua nel silenzio della caverna. Battendo quasi i denti dal freddo, Bar­bee attendeva. Una luce spietata aveva finalmente disperso le tenebrose in­certezze della sua vita da sveglio e spiegato gli orrori ossessionanti dei suoi sogni. Riteneva ora di comprendere il feroce conflitto che lo dilaniava, la guerra fra l’umano e il diabolico. L’umano doveva vincere! Strinse i pugni e trattenne il respiro per sentire meglio.

«Mondrick aveva un piano», disse Sam a bassa voce. «Voleva cogliere il clan dei licantropi di sorpresa, con una dichiarazione alla radio, provvedendo poi a istituire un equivalente scientifico dell’Inquisizione per paralizzare il Figlio della Notte. Ma è stato assassinato, con Nick e Rex... e noi ora dobbia­mo tentare qualcosa di diverso. È una campagna in sordina quella che dob­biamo iniziare. Intendo raccogliere un piccolo gruppo, segreto, un solo uomo alla volta. Questo non esige che io debba identificare gli ibridi, perché dovrò soltanto trovare poche persone che non facciano parte di quel clan tenebro­so. Ogni licantropo che sa della nostra conoscenza dovrà essere eliminato.»

Barbee assentì energicamente.

«Ora tu dovrai tornare a Clarendon. Desidero che tu stabilisca i primi con­tatti in mia vece con quelli che noi sceglieremo per la nostra legione segreta. Io devo restare qui.»

E lanciò un’altra occhiata alla sua preziosa cassa mentre Barbee diceva:

«Per esempio, chi penseresti che valga la pena di cominciare a saggiare? Che ne diresti del dottor Archer Glenn, per esempio? È uno scienziato di valore, un razionalista...».

Sam Quain scosse il capo, cocciutamente. «È proprio il tipo di cui dobbia­mo diffidare. Il tipo che si ride delle streghe come d’una sciocca superstizio­ne, forse è proprio lui il figlio di una strega. No, Glenn ci chiuderebbe nel suo reparto agitati, insieme con la povera signora Mondrick.»

Barbee fu lieto di constatare che Sam non aveva saputo della morte della povera cieca.

«Dobbiamo scegliere un tipo d’uomo diverso», stava dicendo Quain. «Il pri­mo uomo della lista è per me il tuo principale.»

«Preston Troy?», ribatté Barbee, ammiccando dallo stupore. «È un uomo influente, certo, e ha un sacco di milioni, ma non è precisamente un idealista. È stato lui a ideare quasi tutte le ruberie di Walraven e a trarne il maggior profitto. Quando ha divorziato, la moglie gli aveva chiuso in faccia la porta della sua camera da dieci anni. Mantiene quasi tutte le belle ragazze di Clarendon...»

«Compresa una certa tale?» E Sam sorrise brevemente. «A ogni modo, non importa. Secondo Mondrick, la maggior parte dei santi doveva avere almeno un ottavo di sangue licantropico. La loro santità è una specie di compensa­zione mistica della tara inumana. Può anche darsi che un tipo come Troy sia un umano quasi puro. Te la senti di iniziare gli approcci stasera?»

Barbee stava per scuotere il capo. La rete della polizia a cui era riuscito a sfuggire la mattina doveva essere tesa un po’ da per tutto, ora. Lo stesso Preston non avrebbe esitato a trattenerlo, per poi far pubblicare dal giornale un titolo enorme:

LO STAR CATTURA UN CRIMINALE DEL VOLANTE

«Non sei convinto?», disse Sam.

«No, no, convintissimo», s’affrettò a rispondere Barbee. Non era più il mo­mento di confessare che la polizia lo cercava per avere investito Rowena Mondrick. E con la macchina dell’Istituto, lui poteva sempre raggiungere in­disturbato Preston Troy. Era forse possibile conquistare quel capitano d’in­dustria brutalmente realistico alla strana causa di Quain. Cercò di nasconde­re la sua apprensione con un sorriso. Chinandosi sotto il basso tetto della caverna, già pronto ad andarsene, tese la mano a Sam.

«Siamo in due», sussurrò, «contro il Figlio della Notte.»

«Ne troveremo altri... dobbiamo trovarli.» Quain si alzò a sua volta, stanca­mente. «Perché tutte le leggende che parlano di un’umanità degradata e tor­mentata da creature malefiche, non sono che ricordi ancestrali del dominio spaventevole delle streghe.» Quain vide poi la mano che Barbee gli porgeva, e la allontanò gestendo con la pistola.

«Scusami, Barbee, ma dovrò prima vederti alla prova. Meglio che tu ti af­fretti, ora!»

19.

Una nebbia gelida aveva preso il posto della pioggia, ma torrenti di acqua giallastra precipitavano lungo i fianchi del dirupo, e quando Barbee arrivò tutto fradicio all’automobile dell’Istituto, il crepuscolo e la nebbia bagnata s’erano alleati a immergere il mondo circostante nelle tenebre.

Barbee fu costretto ad accendere i fari, ma nessuna lupa bianca balzò in mezzo alla strada per fermarlo, né la sirena della polizia fece sentire il suo lungo ululato. Erano le otto, quando Barbee fermò l’auto sul viale della gran villa del milionario, a Trojan Hills.

Il giornalista conosceva bene la casa per esservi stato altre volte, in occasio­ne di altri servizi speciali voluti dal Presidente. E lo sollevò notevolmente il notare che la sala da pranzo era al buio. Salì le scale, fino al primo piano, dove Troy aveva lo studio, e picchiò alla porta. La voce aggressiva del milio­nario chiese chi diavolo d’un accidente fosse.

«Presidente, sono Barbee», mormorò il giornalista in tono angosciato. «Ho bisogno di vederla subito... perché non sono stato io a investire la signora Mondrick.»

«No, eh?» Dal tono non si sarebbe detto che Troy gli credesse molto. E dopo una breve pausa: «Avanti».

Lo studio era in realtà un enorme salone, con un gran bar luccicante a un’estremità e le pareti decorate da trofei di caccia e nudi dipinti a olio. L’aria sapeva di sigaro e di cuoio, vi si respirava importanza e denaro, e Preston diceva spesso infatti che s’era fatta più storia in quella stanza che nello stesso palazzo del Governatore.

La prima cosa che Barbee vide fu un cappotto di pelo bianco gettato sulla spalliera d’una sedia, dal quale un minuscolo occhio di giada sembrava guar­darlo maliziosamente sopra una spilla. Barbee ne fu colpito come da una mazzata.

«Dunque, Barbee?» In maniche di camicia, con un sigaro nuovissimo in bocca, Troy stava ritto presso un’enorme scrivania di mogano ingombra di carte, portacenere e bicchieri. Sul volto massiccio, roseo del milionario si vedeva un’espressione di cauta aspettazione. «Non è stata allora la sua mac­china a investire la signora Mondrick?»

«No. Presidente.» Barbee riuscì a distogliere lo sguardo dalla pelliccia di April Bell. «Hanno cercato di invischiarmi in un pasticcio... esattamente come hanno fatto con Sam Quain!»

«Hanno cercato... chi sono questi signori?»

«È tutta una storia tremenda, Presidente... Se lei avesse la pazienza di ascoltarmi...»

Gli occhi di Troy erano pallidi e freddi.

«Lo sceriffo la troverebbe indubbiamente interessante», disse il milionario. «E anche i medici di Glennhaven.»

«Ma io non sono... pazzo!» Barbee stava quasi per singhiozzare. «La prego, Presidente, mi ascolti, prima.»

«E va bene», disse l’altro, la faccia impassibile. «Un momento.» Si diresse con passo deciso al bar, preparò due whisky con soda e li portò sulla scriva­nia. «Sentiamo.»

«Vede, io credevo di stare impazzendo», cominciò Barbee, «fino a quando non ho parlato con Sam Quain. Ora so di essere stato stregato...»

Cercò disperatamente di essere convincente, e intanto cercava di capire che cosa passasse per la testa dell’uomo. Vide, mentre raccontava tutto quello che Sam gli aveva detto, il grosso sigaro spegnersi e il bicchiere col liquore attendere dimenticato sulla scrivania. Ma gli occhi socchiusi di Troy erano impenetrabili.

«E così Mondrick e gli altri scienziati della sua Fondazione sarebbero stati assassinati da queste streghe o stregoni che siano?», disse Troy, succhiando il sigaro con aria riflessiva. «E ora lei vorrebbe che io l’aiutassi a combattere questo Figlio della Notte?»

Barbee, inghiottendo, annuì disperatamente.

Troy lo osservò per un lungo istante con quei suoi occhi neutri e duri.

«No, non credo che lei sia pazzo!» Una specie d’interesse velato si diffuse sul duro tessuto della sua faccia, e Barbee cominciò a sperare. «Forse queste streghe stanno veramente tramando per mettere nei guai lei e Quain... per­ché questa teoria di Mondrick spiega molte cose. Anche il motivo per cui uno sente improvvisamente simpatia per qualcuno e non si fida per niente di un altro... perché ci senti il sangue nero in quelle vene!»

«Mi crede, dunque?», ansimò Barbee. «Ci aiuterà?...»

Il testone di Troy assentì con decisione.

«Voglio assicurarmi di molte cose coi miei propri occhi», disse. «Torneremo insieme in quella grotta stasera, sentirò Quain e forse riuscirò a dare un’oc­chiata alla sua cassa misteriosa. Se Quain saprà essere convincente come lo è stato lei, potrete contare su di me, Barbee... fino al mio ultimo centesimo e al mio ultimo respiro.»

«Grazie, Presidente!», sussurrò Barbee più roco che mai. «Col suo aiuto, possiamo avre molte probabilità dalla nostra!»

«Si capisce!», tuonò aggressivamente la voce di Troy. «Lei è venuto dall’uomo giusto, Barbee. Solo mezz’ora per prepararmi. Dirò a Rhodora che devo uscire per motivi politici e che può anche andare da sola alla festa di Walraven. Il bagno è laggiù, se vuole lavarsi e rinfrescarsi.»

Barbee rimase realmente impressionato dalla faccia che lo specchio del ba­gno gli rimandò: una faccia non solo stanca, barbuta e stravolta come quella di Sam Quain, ma con qualcosa che non aveva ancora visto, qualcosa che gli ricordava gli scheletri sogghignanti dell’ Homo lycanthropus che il serpente aveva veduto.

Uno sgradevole sospetto gli attraversò a un tratto la mente: tornò in gran fretta nello studio e con molta cautela staccò il ricevitore. Fece in tempo a sentire la voce di Troy.

«Parker? Ho un uomo per te. È quel Barbee che è scappato dal manicomio e ha investito la Mondrick. Era un mio dipendente, sai, e ora me lo son visto capitare in casa. Non c’è dubbio che questo disgraziato deve tornare subito in manicomio... Non hai idea delle assurdità che mi ha raccontato. Puoi veni­re qui subito?»

«Certo, signor Troy», disse lo sceriffo. «Venti minuti.»

«Stai attento, a ogni modo. Ho l’impressione che sia pericoloso. Cercherò di tenerlo a bada al primo piano, nel mio studio.»

«Bene, signor Troy.»

«Un’altra cosa, Parker. Barbee dice di aver visto Sam Quain... l’uomo che cercate per gli omicidi della Fondazione. Dice che Quain è nascosto in una grotta del Laurei Canyon, sopra Bear Creek. Sapete, Barbee e Quain erano vecchi amici, e potrebbero anche essere d’accordo. Con un po’ di persuasio­ne, Barbee potrebbe anche condurvi alla grotta.»

«Grazie, signor Troy!»

«Parker, figurati, sai bene che lo Star è per la legge e l’ordine. Tutto quello che voglio in cambio è poter dare un’occhiata all’interno di quella cassa. Ma sbrigati: non mi piace la faccia di Barbee.»

Senza far rumóre, Barbee riappese il microfono. Poi restò un attimo vacil­lante, mentre le pareti della stanza gli giravano pazzamente intorno.

Sapeva di aver tradito Sam Quain, di averlo consegnato, forse, al Figlio della Notte.

Perché quel passo terribilmente falso era tutto colpa sua. Sì, certo, era stato Quain a volerlo mandare da Troy: ma perché lui non aveva osato dirgli che April Bell era una strega e Preston Troy il suo più intimo amico? Troppe cose aveva avuto paura di dirgli, e ormai era troppo tardi.

Ma era veramente troppo tardi?

Un nuovo, difficile proposito gli si offrì alla mente. Tendendo l’orecchio, si levò silenziosamente le scarpe e uscì in punta di piedi dallo studio. La porta della camera da letto di Troy era dischiusa, e Barbee poté dare un’occhiata all’interno e vedere la figura tozza dell’affarista voltarsi da un cassetto che aveva aperto: nel pugno grassoccio stringeva una rivoltella.

Il ritratto d’una ragazza stava sul comò, e Barbee vi riconobbe le fattezze di April Bell. Selvaggiamente, per un istante, si augurò d’essere di nuovo il ser­pente gigantesco. Ma no, la sola idea gli dava i brividi. Non voleva tramutarsi più.

Corse silenzioso come un’ombra giù per le scale, fino alla vettura dell’Istitu­to tutta chiazzata di fango, ferma sul viale. Accese il motore il meno rumoro­samente possibile e si diresse verso la strada maestra senza accendere i fari.

Quando fu di nuovo sulla strada, piegò a ovest e premette l’acceleratore fino in fondo. Forse era ancora in tempo per riparare al suo madornale erro­re. Se fosse riuscito a tornare alla grotta prima di Parker, forse Quain gli avrebbe dato retta e insieme avrebbero potuto trasportare via la cassa, cari­carla sull’automobile e scappare insieme da Clarendon.

Perché ormai era chiaro che Preston Troy era il Figlio della Notte.

Non lampeggiava più, ma il vento soffiava sempre violentissimo, portando spruzzi di pioggia gelida. Il tergicristallo rallentò il suo movimento a semicer­chio a mano a mano che la macchina accelerava. Perché Barbee sapeva che April Bell, la strega al servizio di Troy, il Figlio della Notte, lo stava inse­guendo. Lo stava inseguendo per andare con lui a uccidere Sam Quain.

Il Figlio della Notte aveva vinto.

Il gelo della disperazione ancora una volta s’impossessò di Barbee, che or­mai era scosso da un brivido quasi continuo. E quella disperazione era fatta di panico.

Lanciò la macchina verso le colline, spinto da una forza irresistibile. Il con­tachilometri sfiorava i centodieci. Il tergicristallo si fermò quando la mac­china cominciò a salire, e in breve la pioggia appannò completamente il pa­rabrezza. Un autocarro a fari spenti sbucò all’improvviso dalla nebbia, e la macchina lo evitò per miracolo.

L’ago del contachilometri era ora sui centoventi.

Ma la lupa bianca, lunga e sottile, era dietro di lui; Barbee lo sapeva, e i suoi occhi andavano continuamente allo specchietto, per vederla. Ma la neb­bia era da per tutto.

La salita si faceva sempre più ripida e le curve erano sempre più strette ma Barbee non rallentava mai. Era su questa stessa strada che la gran tigre dalle zanne a sciabola aveva dato la caccia a Rex Chittum. Barbee rivide le colline perdute nella notte come gli occhi della tigre le avevano viste, e i suoi incubi ripresero a ossessionarlo.

Ancora una volta fu il grigio Lupo Mannaro, che spezzava la spina dorsale del cagnolino, il serpente gigantesco, che scivolava in cima alla torre a strito­lare Nick Spivak, la tigre, con la strega nuda in groppa, che correva su quelle strade a sgozzare Rex Chittum.

Sempre con l’acceleratore premuto fino in fondo, continuò a tenere la mac­china saettante sulla strada tortuosa, preoccupato solo di fuggire. Alzava gli occhi allo specchietto, e fuggiva.

Perché una morbosa tentazione cominciava ora a tormentarlo: su un angolo dello specchietto c’era un piccolo fermaglio la cui sagoma ricordava uno pte­rosauro, il mostruoso rettile alato di remote età geologiche, e l’immagine di quel serpente alato cominciò a ossessionare Barbee. D’altra parte, glielo ave­va detto Sam Quain: sapere dell’ Homo lycanthropus era orrore e follia. E ormai lui non avrebbe potuto riposare mai più, trovare mai più un porto di pace. Sarebbe stato perseguitato per sempre, braccato dai cacciatori del mi­stero, perché conosceva il loro segreto.

L’auto sobbalzò, giungendo sul passo, e rombò poi lanciandosi giù per la discesa. Da un cartello stradale che i suoi fari avevano bruscamente illumina­to, Barbee seppe di essere a Sardis Hill. Sapeva che lo aspettava la terribile curva, dove la tigre s’era servita del circuito di probabilità per sgozzare Rex Chittum. Già sentiva i pneumatici bagnati slittare sull’asfalto; non gli occor­reva nessuna percezione speciale per vedere quanto la sua morte fosse pro­babile ora; ma non cercò nemmeno di rallentare la macchina, lanciata ormai come un sasso da una fionda.

«Maledetta!», sibilò all’indirizzo della lupa, che sapeva d’avere vicinissima, proprio dietro la macchina. «È ben difficile che tu riesca a prendermi, ora!»

Scoppiò a ridere, trionfante; rise del sogghigno di lei che non gli faceva più paura, degli uomini di Parker e delle camicie di forza del manicomio di Stato. Guardò ancora lo specchietto appannato e lanciò un sorriso di sfida al Figlio della Notte. No, i cacciatori misteriosi non lo avrebbero braccato più! Premette ancora sull’acceleratore e vide la curva apparire tra la pioggia.

«Che tu sia maledetta, April!» Sentì le ruote slittare, e non cercò di fermar­le. «Non potrai più tramutarmi, ora!»

Slittando lateralmente, la macchina abbandonò l’asfalto bagnato. Il volante gli girò violentemente tra le mani, e lui lo lasciò girare. L’automobile cozzò con un sobbalzo contro un macigno sul ciglio della strada e infine precipitò per il dirupo. Barbee s’abbandonò contento, in attesa del crollo finale.

«Addio!», sospirò alla lupa bianca.

20.

Non provò dolore, come aveva temuto. Per un istante, dopo che la mac­china si fu abbattuta sul davanzale di roccia con un orrendo stridore di me­tallo straziato, la tortura fu intollerabile, ma Barbee quasi non avvertì l’urto finale.

Dopo pochi istanti di tenebra assoluta, fu cosciente ancora una volta. Una delle ruote anteriori girava ancora, lentamente, sul suo capo. Un liquido gli gocciolava rapido accanto; sentì l’odore di benzina e prima che il carburante s’infiammasse riuscì a trascinarsi via da sotto il cumulo di rottami che lo schiacciava.

Fu con uno stupore non privo di sollievo che s’accorse che il suo corpo, sebbene ammaccato e dolente, non sanguinava nemmeno. Rotto e intirizzito dai morsi rabbiosi del gelido vento gravido di pioggia, stava dirigendosi bar­collando su per l’erta verso la strada, quando la lupa bianca ululò sul ciglio.

Cercò di fuggire alla tremula nota di trionfo di quell’ululato, ma uno sfini­mento indescrivibile lo possedeva. Inciampò, e allora si lasciò cadere sulla petraia bagnata, appoggiandosi con le spalle a un macigno viscido di pioggia, e se ne stette così a guardare la figura sottile della lupa sopra di lui, sul ciglio della strada, esattamente nel punto dove la macchina era precipitata.

Udì la voce di April Bell:

«Ma dunque, Will!». E il tono era lievemente sardonico. «Hai proprio cer­cato di scappare?»

Afferrò una manata di terriccio e sassi e gliela scagliò contro con un gesto fiacco e pesante.

«Maledetta!», singhiozzò. «Non vuoi neanche lasciarmi morire?»

La lupa venne graziosamente giù per l’erta e, mentre lui tentava inutilmente di alzarsi per fuggire, gli leccò la faccia.

«Vattene via!» S’era levato faticosamente a sedere e cercava di respingerla con un braccio debolissimo. «Che diavolo vuoi ancora da me?»

«Solo aiutarti, quando hai bisogno di me.» Sedette davanti a lui, le bianche zanne ridenti. «Ti ho seguito per stabilire un circuito di probabilità che ti aiutasse a liberarti. So che deve essere doloroso e sconvolgente, ma tra poco ti sentirai molto meglio.»

Ma lui si ritrasse dalla lupa, che tentava di sfiorargli ancora la faccia col suo muso umido e fresco.

«Vattene al diavolo!», inveì roco. «Non puoi neanche lasciarmi morire?»

«No, Barbee. Ora non morirai mai più.»

Lui rabbrividì.

«Eh?», fece. «E perché?»

«Perché, Barbee...» La lupa rizzò bruscamente le lunghe orecchie e volse la testa ad ascoltare, in un’immobilità totale. «Te lo dirò in un altro momento... Ora ho la percezione di un altro circuito che dobbiamo prepararci a sfrutta­re... Riguarda Sam Quain. Ma il tuo amico non può nuocerti, almeno per il momento, e mi vedrai tornare presto.»

Il suo freddo bacio lo stupì, e poi corse via fulminea, lasciandolo là, semidisteso sui sassi. Rimase così per un tempo lunghissimo, sotto la pioggia sottile che lo penetrava fino alle ossa. La lupa bianca non tornava.

Dopo molto tempo, sentendosi tornare un poco le forze, riuscì ad alzarsi e ad arrampicarsi penosamente su per il dirupo, mentre il motore di un auto­carro gemeva potente lungo la salita in curva di Sardis Hill.

Traballando, Barbee si pose in mezzo alla strada, nella luce dell’autocarro, agitando pazzamente le braccia; ma l’autista, accigliato, non gli badò. Barbee agitò il pugno, urlando.

La gran ruota dell’autotreno lo sfiorò, e il veicolo proseguì la corsa, rallen­tando tuttavia nell’iniziare l’ultimo tratto, il più ripido, della salita.

Barbee poté vedere che il camion era vuoto, e il tendone posteriore di chiu­sura sbatacchiava al vento. Senza pensare corse dietro al veicolo, che ora procedeva a passo d’uomo, mentre l’autista cambiava la marcia. Con uno sforzo sovrumano si arrampicò sul camion e penetrò nella tenebra sotto il tendone. Non c’erano che vecchie coperte militari, che puzzavano di muffa e dovevano essere servite a coprire dei mobili. Barbee si avvolse in una di quelle coperte e stette disteso sulle altre, gli occhi stancamente fissi sulla strada che sembrava dipanarsi nera sotto i suoi piedi.

Era sconfitto, e non aveva più dove rifugiarsi. Perfino la morte gli aveva chiuso la porta in faccia. Non gli restava ora che un bisogno animalesco di sottrarsi alla gelida pioggia e l’apprensione di veder tornare la lupa bianca.

A un tratto si accorse che il camion prendeva la direzione di Glennhaven, e bruscamente Barbee ebbe ancora uno scopo.

Sarebbe tornato da Glenn.

Sentiva il bisogno del consolante scetticismo materialista dello psichiatra. Attese che il camion rallentasse sulla curva presso Glennhaven, e si lasciò cadere sull’asfalto bagnato.

Intorpidito e dolente com’era, cadde lungo disteso per terra. E vi rimase per un po’, la faccia sull’asfalto, così sfinito e annebbiato da non sentire nem­meno il freddo tocco della pioggia. Il latrato acuto di un cane, in una fattoria vicina, lo scosse dal suo torpore, e lui si alzò faticosamente e si avviò barcol­lando come un ubriaco.

Altri cani si posero a ululare, quando arrivò ai due pilastri quadrati che segnavano l’ingresso di Glennhaven. Prima di entrare, si voltò a guardarsi paurosamente alle spalle, ma non vide gli occhi verdi d’una lupa seguirlo.

Quando l’alta figura dello psichiatra venuto ad aprire si disegnò sulla soglia della sua abitazione privata, Barbee vide che sul suo volto abbronzato non c’era nessuna sorpresa.

«Salve, Barbee. Sapevo che lei sarebbe tornato.»

Barbee rimase là sulla soglia, vacillando, passandosi la lingua sulle labbra stranamente torpide, insensibili.

«La polizia?», domandò in un sussurrò. «È qui?»

Glenn lo gratificò del suo cordiale sorriso lievemente ironico.

«Oh, non preoccupiamoci della legge in questo momento», ammonì. «Lei è conciato veramente male.» I suoi occhi si posarono sull’impermeabile infan­gato e lacero, sulla faccia barbuta e spettrale. «Perché non si riposa un po’ e lascia che il nostro corpo sanitario risolva i suoi problemi? Telefoniamo allo sceriffo che lei è qui, sano e salvo, e rimanderemo le seccature con la polizia fino a domani. Va bene?»

«Sì», disse Barbee, un po’ incerto. «Ma c’è una cosa che voglio che lei sap­pia. Io non ho investito la signora Mondrick!»

Glenn batté le palpebre, sonnacchioso.

«Lo so che c’è il suo sangue sul parafango della mia macchina», riprese Barbee al colmo dell’agitazione. «Ma è stata una lupa bianca ad ammazzar­la.»

Glenn annuì con aria placida. «Potremo parlarne con molto più comodo domattina, signor Barbee. Ma comunque siano andate le cose — nella realtà o nella sua immaginazione — voglio che lei sia certo che m’interesso molto al suo caso. Mi sembra profondamente sconvolto, ma intendo usare ogni risor­sa della psichiatria per aiutarla.»

«Grazie», mormorò Barbee. «Ma lei continua a credere che l’abbia uccisa io.»

«L’evidenza dei fatti è quella che è.» Sempre sorridendo, Glenn cominciò a indietreggiare cautamente. «Non deve più cercare di scappare, Barbee, o bi­sognerà che io la trasferisca a un altro reparto, domattina.»

«Reparto agitati», osservò Barbee con amarezza. «Scommetto che ancora non sapete come Rowena Mondrick sia riuscita a scappare di là!»

Glenn alzò le spalle con una certa indifferenza. «Il dottor Bunzel è ancora sbalordito per questa faccenda», ammise con la sua solita flemma. «Ma non dobbiamo preoccuparci di nulla questa sera. Ora lei dovrebbe tornare nella sua stanza, fare un bel bagno caldo e dormire un po’...»

«Dormire!», ripeté Barbee, rauco fino all’afonia. «Dottore, se mi addor­mento, tornerà la solita lupa a tramutarmi in qualche spaventevole fiera, per spingermi a uccidere Sam Quain. Non la si vede... nemmeno io riesco a vederla in questo momento... ma non ci sono muraglie che le impediscano di passare.»

Glenn sorrise ancora, assentendo svagato.

«Sta venendo!», gridò Barbee. «Sente i cani?»

S’udivano i cani atterriti ululare in tutte le case coloniche dei dintorni. Bar­bee si mise a tremare violentemente. Glenn attese sulla soglia, il volto più placido che mai.

«La lupa bianca è April Bell», sussurrò Barbee. «È stata lei che ha assas­sinato Mondrick e che mi ha spinto a uccidere Rex e Nick. E l’ho vista, sul corpo di Rowena, leccarsi le zanne.» Si mise a battere i denti. «Verrà appena mi sarò addormentato, per farmi tramutare ancora e poi uccidere Sam!»

Glenn alzò le spalle.

«Lei è stanco», disse in tono professionale. «E quindi molto eccitato. Lasci che le dia qualcosa per farla dormire...»

«Non voglio niente.» Barbee cercò di impedire alla sua voce squarciata di levarsi in un urlo. «Si tratta di qualcosa di molto peggiore della follia... Devo riuscire a farle capire! Senta quello che stasera mi ha detto Sam Quain...»

E precipitosamente, confusamente, riprese a parlare di Homo lycanthropus e di streghe e di età glaciali e di ibridi.

«Dunque, dottore», domandò quand’ebbe finito, «che ne dice ora?»

Deliberatamente, col suo vecchio gesto meditativo, Glenn congiunse le pun­te delle dita.

«Lei è malato, signor Barbee», disse con voce dolce e profonda. «Lo ram­menti. Troppo malato per vedere la realtà se non nello specchio deformante delle sue stesse paure. La sua storia dell’ Homo lycanthropus,direi, non è che un parallelo isterico e deforme della verità. È vero che alcuni studiosi di metapsichica hanno interpretato certi loro risultati, alla Duke University, come una prova scientifica dell’esistenza di uno spirito distinto dal corpo, che può influire in qualche modo sulla probabilità degli eventi nel mondo materiale e può anche sopravvivere alla morte fisica.»

Qui Glenn approvò con un cenno del capo, come soddisfatto delle sue stes­se parole.

«Ed è vero», riprese, «che l’uomo discende anatomicamente da animali più o meno selvaggi. Noi tutti abbiamo ereditato caratteristiche che non ci servo­no più nella società civile. La mente inconscia sembra talvolta una tenebrosa caverna di orrori e gli stessi fatti spiacevoli sono spesso espressi attraverso il simbolismo della leggenda e del mito. Ed è anche vero che assistiamo con una certa frequenza al ritorno di caratteri ereditari recessivi, veri e propri ritorni atavici molto interessanti.»

Barbee scosse il capo con una specie di contenuto furore. «Ma tutto questo non spiega minimamente il problema delle streghe!», disse esasperato. «Non spiega il circuito di probabilità col quale cercano di assassinare Sam! Io non voglio addormentarmi per poi uccidere Sam Quain, capisce?»

«La prego, signor Barbee», la voce del medico era piena di calda amicizia, «non vuole proprio cercar di capire? La sua paura di dormire non è che la paura dei suoi desideri inconsci, che il sonno libera. La strega dei suoi sogni non può rivelarsi se non per il simbolo del suo amore, di cui si sente colpevo­le, verso la signora Quain, e i suoi pensieri omicidi non sono forse che la naturale conseguenza di un odio inconscio e geloso per il marito.»

Barbee strinse i pugni, squassato da un furore muto.

«Lei ora non può che negare queste idee», riprese Glenn. «Deve imparare ad accettarle, ad affrontarle e a usarle su di una base realistica. Sarà questo il fine della nostra terapia. Non c’è nulla di speciale in tali paure. Tutti i vivi le esprimono...»

«Tutti i vivi», lo interruppe Barbee, «sono tarati dal sangue di strega.»

Glenn assentì affabilmente.

«È l’espressione fantasiosa di una fondamentale verità scientifica. Tutti pa­tiscono gli stessi conflitti interiori...»

Barbee udì dei passi sul viale alle sue spalle e si voltò con un singulto sof­focato di terrore. Non era la sottile lupa bianca, ma soltanto l’equina infer­miera Graulitz e l’atletica Hellar. Guardò con aria accusatrice lo psichiatra.

«Farà bene ad andarsene tranquillamente con loro, signor Barbee. La met­teranno a letto e l’aiuteranno a fare un bel sonno riparatore...»

«Le ho detto che non voglio dormire, che ho paura...», singhiozzò Barbee.

Trattenne il fiato e fece per correre via. Ma le due amazzoni vestite di bian­co lo presero per le braccia e lui cedette subito, tanto era spossato e infred­dolito. Lo portarono nella sua stanza; una doccia calda gli stroncò quel terri­bile batter di denti e il letto fresco di bucato era insidiosamente riposante.

«Resto di guardia qui, nel corridoio», gli disse la Hellar. «Le farò una inie­zione se non si addormenta da bravo subito.»

Ma non fu necessaria nessuna iniezione. Il sonno lo avvolse in una rete ondeggiante e maliosa, irresistibile.

Cercò di lottare contro di essa... fino a quando qualcosa lo costrinse a guar­dare la porta chiusa. I pannelli inferiori si andavano lentamente dissolvendo. La lupa si materializzò nell’apertura e venne avanti trotterellando. Sedette in mezzo alla stanza, fissandolo con occhi divertiti, pieni di attesa. La lingua le penzolava rosea tra le zanne bianchissime.

«Puoi aspettare fino a che si faccia giorno», le disse lui stancamente. «Ma non puoi farmi tramutare, perché tanto non dormirò.»

«Non c’è più nessun bisogno che tu dorma», ed era la voce bassa e vellutata di April. «Ho detto or ora al tuo fratellastro che cosa è successo questa notte a Sardis Hill, e lui ne è rimasto molto contento. Dice che devi essere potentissimo, perché nemmeno le infermiere si sono accorte di nulla. Ha detto anche che ormai potrai trasformarti quando vorrai, senza l’aiuto del sonno, perché non hai più resistenze umane da sopraffare.»

«Che cosa stai dicendo?» E Barbee si levò prontamente a sedere sulla spon­da del letto, aggrottando la fronte. «Che cosa le infermiere non hanno vi­sto?»

«Non lo sai proprio, Will?»

«Ma che cosa? E chi è il mio fratellastro?»

«Possibile che Archer non ti abbia detto nulla? Dev’essere così.» La lupa scosse significativamente la bella testa. «Probabilmente intendeva impiegare tutto un anno per ridestare i tuoi poteri ancestrali, come fece con me... a quaranta dollari l’ora. Ma il clan non può attendere. Ti ho liberato bru­scamente, stanotte, perché dobbiamo pensare a Sam Quain, e la tua parte umana ti rendeva troppo riluttante.»

Barbee batté le palpebre senza capire. «Non ti capisco», disse, «e non credo affatto di avere un fratellastro. Che io non abbia mai conosciuto i miei geni­tori non vuol dire. Mia madre morì nel mettermi al mondo e mio padre fu rinchiuso poco dopo in manicomio. Sono stato allevato in un istituto fino all’università, quando sono andato in pensione dalla signora Mondrick.»

«Ma questa è tutta una fiaba!» La lupa rise silenziosamente. «Naturalmente è esistito un Luther Barbee... ma lui e la moglie erano stati pagati per adot­tarti. Accadde loro di scoprire quale mostricino inumano tu fossi. Ecco per­ché la donna dovette essere uccisa e l’uomo posto in condizione di non nuo­cere... prima che parlassero troppo.»

Barbee scosse la testa in una tempesta di dubbi. «Insomma», disse di mala­voglia, «che cosa sarei secondo te?»

«Tu e io siamo creature eccezionali, Barbee. Siamo nati in seno al genere umano, con metodi e fini particolarissimi, ma siamo solo in minima parte umani.»

Barbee si afferrò alle sbarre del letto. «Chi era mio padre?»

«Il vecchio dottor Glenn. Ecco perché Archer Glenn è tuo fratellastro. È di qualche anno soltanto più vecchio di te e rappresenta un esperimento geneti­co riuscito in modo meno perfetto.»

Barbee ricordò quella sensazione di vecchia familiarità dimenticata che ave­va provato in presenza di Glenn. «E mia madre?»

«Tu la conoscevi molto bene. Era una donna che tuo padre aveva scelto per i suoi geni... la portò a Glennhaven come infermiera. Era molto dotata dei nostri poteri ancestrali, ma non riuscì mai a superare le resistenze opposte dalla sua parte umana. Fu abbastanza sciocca da credere che tuo padre la amasse e non lo perdonò mai quando venne a sapere la verità. Si unì ai nostri nemici umani.... ma tu eri già nato.»

Barbee si sentì venire la pelle d’oca.

«Non era per caso...», e inghiottì convulsamente, «Rowena Mondrick?»

«Rowena Stalcup, allora. Era ignara dei suoi poteri, finché tuo padre non cominciò a ridestarli. La inorridì l’idea di averti generato dal suo matrimo­nio, anche quando credeva che tu saresti stato umano.»

«E io l’ho uccisa! Mia madre!», mormorò Barbee inorridito.

«Era la nostra nemica più accanita! Finse di unirsi al clan di tuo padre e poi usò le arti che aveva appreso per scappare e consegnare i segreti del clan a Mondrick. Fu lei che mise Mondrick per la prima volta sulle nostre tracce. E continuò a lavorare con lui fino a quando uno di noi l’accecò, in Nigeria, mentre lei stava per scoprire una di quelle Pietre, quelle armi discoidali, più micidiali dell’argento, che i nostri nemici della preistoria seppellivano coi nostri antenati uccisi per tenerli nelle loro tombe.»

Prendendosi la testa fra le mani, Barbee mormorò:

«Oh, se l’avessi saputo!». E poi, evitando di guardare la lupa: «Che cosa voleva dire a Sam?».

«Il nome del Figlio della Notte. Ma noi abbiamo agito molto bene, tu so­prattutto, Will, quando hai finto di essergli amico... Perché tu sei uno dei nostri, Will, e il più potente che abbiamo generato, così potente che dovrai essere il nostro capo. Tu sei colui che noi chiamiamo il Figlio della Notte.»

21.

Si aprì la porta e l’infermiera fece capolino nella stanza buia scuotendo il capo in mite rimprovero: «Ah, signor Barbee», lo ammonì dolcemente. «Prenderà una polmonite se rimarrà là seduto a chiacchierare tra sé tutta la notte. Se ora, quando torno con l’iniezione, non la trovo a letto...»

«Non ti troverà», disse la lupa, quando l’infermiera se ne fu andata. «E ora è tempo di muoverci. Sam Quain sta sfuggendo agli uomini dello sceriffo, lungo una pista che loro non conoscono. E sta trasportando la cassa. Possie­de la sola arma che possa veramente nuocerti, Barbee, e dobbiamo fermarlo, prima che impari a servirsene. Su, andiamo!»

Barbee si attaccò alle sbarre del letto.

«Non credo di essere il Figlio della Notte», disse, «e non intendo fare del male a Sam.»

La lupa gli sfiorò, implorante, col muso il ginocchio e Barbee fu completa­mente soggiogato da quel muto richiamo. Le sue mani abbandonarono le sbarre del letto. Rivide l’alato pterosauro dello specchietto e fu posseduto dal desiderio cocente di avere la sua potenza. Subito una volontà spietata, tesa verso una vitalità mostruosa scese nel suo corpo, che gli parve si dilatas­se, si gonfiasse e accrescesse fino a chiudere in sé l’intero universo. E una forza gigantesca fluiva in lui tepida e inebriante.

E anche la lupa si trasformava.

Si era rizzata sulle zampe posteriori, e diveniva sempre più alta. Le curve sottili del suo corpo si colmarono, la bianca pelliccia scomparve. Con un gesto pieno di grazia, April scosse i lunghi capelli rossi dietro le spalle nude. Con febbrile eccitazione, Barbee avvolse fra le sue ali robuste la donna nuda, e baciò le sue labbra fresche con la lunga lingua di rettile. Ridendo, lui acca­rezzò la sua testa ricoperta di scaglie.

«Abbiamo prima un’altra cosa da fare», disse scivolando via dall’abbraccio. «Ci aspetta un appuntamento con la probabilità, e con il tuo vecchio amico Quain.»

April gli saltò sulla groppa elastica e ricoperta di piastre come una sella, e la parete si dissolse davanti alle due figure l’una aggrappata all’altra. Con un senso di sorpresa, vide che il letto d’ospedale era vuoto. Ma quel piccolo enigma non lo turbò: era meraviglioso sentirsi di nuovo libero, e il morbido peso della ragazza nuda sul suo dorso lo eccitava.

Ed ecco, navigavano alti nella notte nuvolosa, tra le ultime raffiche spruzza­te di pioggia. Sotto di loro si stendeva la strada delle colline. Poi, a un cenno di April, il rettile volante scese lentamente, planando, sulla curva di Sardis Hill, dove tre automobili erano ferme, insieme a un’autombulanza. Due uo­mini vestiti di bianco stavano portando una forma scura su di una barella.

«Quello è il tuo corpo», gli disse April. «I tuoi poteri sono cresciuti, e tu non ne hai più bisogno. Sei libero.»

«Sono libero? Morto, intendi...?»

«No, perché ora non morirai più, soprattutto se impediremo a Quain di usare l’arma terribile che ha contro di te. Tu sei il primo della nostra razza il quale, nei tempi moderni, sia in grado di sopravvivere materialmente, nono­stante la morte del corpo. Te ne sei separato, come una larva dalla crisalide.»

Continuò a volare rigido, con un gran freddo dentro.

«Mi dispiace, tesoro.» Sentì il tremito di un’improvvisa tenerezza incrinare la voce di April. «Lo so, è una sensazione terribile, sapere di avere perduto il proprio corpo, anche se non ne hai più bisogno. Ma dovresti essere felice.»

«Felice?», replicò, amaramente. «Di essere morto?»

«No... felice di essere libero!» Una sommessa eccitazione tremava nella voce di April. «Presto ti sentirai diverso, Will. Perché ora tutti i tuoi immensi poteri ancestrali si desteranno rapidamente, con la scomparsa delle barriere umane. Tu possiedi tutta l’eredità e i preziosi segreti dei nostri clan, quell’e­redità che la nostra gente, dispersa nel mondo, ha conservato e tramandato attraverso le lunghe epoche oscure nelle quali gli uomini credevano di avere vinto la loro lunga battaglia.»

Le grandi ali nere tremarono nell’aria.

«Tesoro... non devi avere paura!» Dolcemente, le dita di April accarezzaro­no le grandi piastre del sauriano. «Lo so... ti senti strano e solo... come mi sentivo io, quando mi rivelarono la verità per la prima volta. Ma non resterai solo per molto tempo.» Una quieta esultanza riempì la sua voce. «Vedi, Ar­cher Glenn dice che anch’io sono abbastanza forte per sopravvivere alla mor­te del corpo.»

Navigava lento nel cielo nuvoloso, e le grandi ali parevano pesanti e torpi­de.

«Certo, dovrò aspettare che il nostro erede sia nato... un figlio il cui sangue sia così puro da poter essere un nuovo padre per la nostra razza. E dovrò darlo alla luce nella mia forma umana, perché anche lui dovrà celarsi tra gli uomini.» Sentì che il corpo di April s’irrigidiva, teso da quell’indomabile pro­posito. «Ma poi anch’io potrò essere separata dal corpo», aggiunse, dolce­mente. «E sarò con te per sempre!»

«E come?», disse lui, aspramente. «Per essere entrambi dei fantasmi?»

«Non provare compassione per la tua sorte, Will Barbee!» Rise, in quel momento, scuotendo i capelli di fiamma sulla schiena nuda, e affondando i talloni nudi nel corpo squamoso del rettile volante. «Perché ora tu sei quello che nella leggenda gli uomini hanno chiamato un vampiro, e dovresti esserne felice. Il tuo vecchio amico Quain, e tutti gli uomini, hanno bisogno di com­passione... non tu!»

«No!», ansimò lui, ancora incredulo. «Non ti credo.»

Si abbassò di nuovo, planando con le ali stanche, descrivendo un circolo lento sui due uomini che portavano la sua parte umana via dai rottami del­l’auto, verso l’ambulanza in attesa. Uno di loro scivolò sulla roccia umida, e per poco la barella non cadde con il suo terribile carico. Ma sapeva che or­mai questo non aveva importanza. Era quello lo strano funerale di tutto il suo passato umano.

«Quando Archer cominciò a insegnarmi le antiche arti, provavo quasi una sensazione di orrore, e di angoscia», stava mormorando felice April Bell. «Il pensiero di nascondersi nelle tenebre, forse anche nella propria tomba, e uscire di notte a nutrirsi del sangue degli uomini! Mi parevano storie così orrende, così raccapriccianti, ma ora la penso diversamente. Ora so che è questa la nostra vera vita!»

Silenziosamente, rabbrividendo nell’aria, Barbee osservò i due uomini in­filare il loro carico nell’ambulanza. E si chiese quali potessero essere i prodi­gi realizzabili dalle particelle di energia della mente, dal disegno di energia che formava il pensiero; e si rammentò che Sam Quain non gli avesse detto qualcosa di più su ciò che la spedizione Mondrick aveva trovato sotto quegli antichi tumuli funerari del remoto Ala-shan.

«Era così che il nostro popolo viveva, un tempo», stava dicendo la strega bianca, in tono lieto. «Prima che gli uomini imparassero a combatterci. Ed è questo il nostro modo naturale di vivere, perché le libere trame mentali pos­siedono dei poteri meravigliosi. Le nostre menti possono sopravvivere quasi per sempre, a meno che non vengano distrutte dalla luce, o dall’argento, o da quelle orribili pietre che gli uomini seppellivano con noi.»

April a un tratto tese la testa verso il Nord, come in ascolto.

«Ora dobbiamo trovare Quain», disse. «Sento che il circuito si forma.»

Il nero pterosauro volò lento e maestoso verso il Nord-est, oltre il Laurei Canyon.

E a un tratto lo scorsero.

Faticosamente inerpicandosi su per i gradini smussati che gli stessi Indiani dovevano avere scavato nella roccia, Sam Quain, spingendo la pesante cassa avanti a sé, saliva lentamente verso la vetta di una collina. Infine, dopo un’ul­tima spinta alla cassa, vi montò sopra e giunto sulla vetta, ansante, con un altro gigantesco sforzo trascinò la cassa oltre il ciglio roccioso e se la caricò sulle spalle. Si soffermò solo un istante a guardare, in basso, oltre il torrente, lontanissimi, gli uomini dello sceriffo, incerti sulla via da seguire. E poi ripre­se la sua faticosissima marcia.

«Ora!», ingiunse April.

Chiudendo le nere ali, Barbee calò verticalmente come un masso.

Sam Quain parve improvvisamente conscio del pericolo. Cercò di allonta­narsi il più rapidamente possibile dal precipizio da cui era venuto, e barcollò, male in equilibrio sotto il peso della cassa. Alzò la faccia devastata dalla stanchezza e un orrore indicibile vi si dipinse. Doveva avere imparato da Mondrick a liberare le cariche magnetiche della mente, perché la sua bocca si aprì e a Barbee parve di udire il suo nome, gridato in tono d’estrema angoscia:

«Oh, sei dunque tu... Will Barbee!».

Gli artigli dello pterosauro afferrarono la cassa. Ne emanava l’orrendo feto­re e il solo tocco di essa raggelò il gran corpo del rettile. Con le ali quasi paralizzate, il mostro tuttavia non abbandonava la cassa.

Strappata dalle mani di Quain, la cassa rimbalzò sull’orlo roccioso del pre­cipizio. Barbee riuscì a staccarne gli artigli, e la vide precipitare, cozzando contro le sporgenze rocciose, finché non si spaccò su un ripiano pietroso, ove il suo contenuto si sparse.

Barbee poté vedere armi d’argento annerite dai millenni, frammenti d’ossa e un oggetto a forma di disco, che splendeva d’una terribile luce violetta, agli occhi del sauriano, radiazione ancor più mortale di quella solare.

Era forse uranio radioattivo quel metallo più mortale dell’argento? Infine, rotolando lento sul pendio roccioso, il contenuto della cassa precipitò di nuovo nell’abisso sottostante e Barbee vide il tremendo disco violetto sparire nelle acque profonde del torrente.

Sam Quain frattanto era scomparso.

«Ora che l’arma micidiale è distrutta», disse Barbee, «Sam Quain non rappresenta più un pericolo mortale. E del resto, che può fare, braccato com’è dalla polizia?»

April Bell era scesa dalla groppa del rettile alato. Per un attimo parve di malumore. Poi Barbee la vide scuotere la fiammante capigliatura e restrin­gersi, abbassarsi, tramutarsi, finché non fu di nuovo la snella ed elegante lupa bianca. Mettendo in mostra le zanne in un sogghigno malizioso, prese a correre verso le pendici fittamente boscose, dove le immense ali nere non avrebbero potuto inseguirla.

«Aspettami, April!»

La metamorfosi gli era facile ormai, e il rettile alato si tramutò rapidamente nel robusto lupo grigio.

Fiutando nell’aria l’odore inebriante della lupa, la seguì rapido e silenzioso, là dove le tenebre erano più dense, dove lo avrebbero trattenuto per sempre.