Nella piccola anticamera c’era l’infermiera Graulitz che lo stava aspettando. Cedendo completamente alla sua volontà sperimentata, Barbee telefonò al­l’ufficio di Troy, al quale espresse la sua necessità di passare qualche giorno a Glennhaven per una visita di controllo al suo sistema nervoso.

«Ma certo, Barbee!» La voce aspra di Troy suonava calda e cordiale nel microfono. «Lei si è prodigato troppo in questi ultimi tempi... e so che il povero Chittum era suo amico. Penserà Grady a sostituirla al giornale. Io ho una grande fiducia in Archer Glenn. Se ci sono difficoltà di carattere econo­mico per le sue cure, non si preoccupi: dica a Glenn di telefonarmi; e non pensi al lavoro.»

Balbettando i suoi ringraziamenti, il giornalista pensò che Troy dopo tutto non era poi tanto cattivo. Forse, era stato un po’ troppo severo nel giudicarlo per la campagna Walraven e anche per le prove... «indirette» trovate nell’ap­partamento di April Bell.

Cedendo ancora alla volontà della formidabile signorina Graulitz, Barbee si convinse di non aver bisogno di tornare fino a Clarendon per il suo spazzoli­no da denti e un pigiama, e nemmeno di andare al funerale di Rex Chittum. Docilmente, seguì l’infermiera lungo un passaggio coperto dall’edificio cen­trale a una dipendenza dal tetto di mattoni rossi. La donna lo pilotò attraver­so la biblioteca, la sala di musica, la sala da gioco, la sala di soggiorno e la sala da pranzo. Lo presentò casualmente a parecchie persone, lasciandolo incerto su quali fossero i pazienti e quali facessero parte del personale della clinica. Barbee continuava a guardarsi intorno in cerca di Rowena Mondrick, e alla fine si decise a chiedere di lei.

«È nel reparto agitati», rispose il vocione dell’infermiera. «L’edificio atti­guo, attorno al quadrilatero. Ho sentito che oggi è peggiorata... qualcosa l’ha sconvolta mentre era fuori per la passeggiata. Non può ricevere visite, e lei dovrà fare a meno di vederla finché non sia migliorata.»

La virago lo lasciò finalmente in quella che doveva essere la sua camera, al primo piano della dipendenza, con l’ingiunzione di suonare per l’infermiera Etting, qualora avesse avuto bisogno di qualche cosa. La camera era piccola, ma comoda, con un piccolo bagno annesso. Non gli fu data chiave della por­ta.

Le finestre, notò il giornalista, erano di vetro rinforzato con filo di acciaio e munite di una specie di traliccio metallico, così che solo un serpente avrebbe potuto passarvi. Figurarsi! tanto non c’era argento!... si disse. E subito poi pensò: «Dunque, siamo già alla pazzia!».

Si lavò la faccia e le mani sudaticce nel minuscolo camerino da bagno, os­servando come tutto fosse studiato e costruito in modo da non avere né spigoli acuti né appigli per nodi scorsoi. Infine sedette stancamente sulla sponda del letto e si sciolse i lacci delle scarpe.

La pazzia? Eppure non gli sembrava di essere pazzo, rifletté; ma del resto, qual era il pazzo che sapeva di esserlo? Si sentiva solo, confuso e stordito per quella lunga lotta per dominare e comprendere situazioni superiori alle sue forze. Era bello potersi riposare per un po’.

Barbee aveva meditato più volte sulla follia, spesso con una specie di cupo terrore... perché suo padre, che ricordava appena, era morto in uno degli squallidi edifici di un manicomio statale. Aveva vagamente immaginato che la perdita della ragione dovesse essere qualcosa di strano ed emozionante, accompagnato da un ininterrotto contrasto di orribili depressioni e accessi di straordinaria euforia. Ma forse non era che qualcosa come quello che lui provava ora, un ritirarsi apatico, sbigottito da problemi divenuti troppo ar­dui.

Doveva essersi addormentato nel bel mezzo di queste cupe riflessioni; si accorse vagamente di qualcuno che cercava di scuoterlo per la colazione del­l’una, ma fu solo dopo le quattro — al suo orologio — che si svegliò.

Qualcuno gli aveva tolto le scarpe e gettato addosso una coperta. L’aria gli sembrava viziata e gli doleva un poco il capo. Aveva un gran bisogno d’un sorso di qualcosa di forte. Forse, era possibile far entrare di contrabbando una bottiglia di liquore. Anche se era per colpa del whisky che si trovava là dentro, un sorso doveva berlo. Alla fine decise, pur senza troppe speranze, di tentare con l’infermiera Etting. Levatosi a sedere sul letto, premette il botto­ne che pendeva da un filo elettrico a capo del letto.

Muscolosa e abbronzata, l’infermiera Etting aveva una faccia da fumetti umoristici, con denti sporgenti e capelli color topo su cui erano evidenti le tracce di cure infinite e inutili. Sì, gli disse con voce nasale e precisa, gli erano consentiti un bicchierino prima di pranzo e non più di due dopo. Gli portò una dose generosa di eccellente bourbon e un bicchiere di soda.

«Grazie!» Stupito di aver ottenuto da bere, Barbee era ancora vagamente risentito della noncurante sicumera di Glenn e del suo corpo sanitario. «Alla salute dei serpenti!»

Bevve il liquore d’un fiato. Senza battere ciglio, l’infermiera se ne andò col bicchiere vuoto rotolando sulle gambe robuste. Barbee rimase disteso sul letto supino, le mani incrociate sotto la nuca, ripensando a tutto quello che Glenn gli aveva detto. Forse quell’irriducibile materialista aveva ragione. Forse il Lupo Mannaro e la tigre non erano state che allucinazioni...

Ma non poteva dimenticare la vivida realtà delle sensazioni provate nei suoi terribili sogni. Nonostante tutti gli argomenti convincentissimi di Glenn, non aveva mai provato nulla di così reale e tangibile nella vita come ciò che aveva sentito e fatto in sogno.

L’abbondante dose di whisky gli aveva di nuovo disteso i nervi, e si sentì riprendere dalla sonnolenza. Cominciò a pensare che sarebbe stato facilissimo per un serpente scivolare attraverso l’intelaiatura e la graticciata della finestra, appena la luce del giorno se ne fosse andata. Quando si fosse cori­cato, quella sera, si ripromise, avrebbe cercato di tramutarsi in un gigantesco, bonario serpente e si sarebbe recato ancora da April Bell. Se poi avesse tro­vato il Presidente con lei... bene, un boa constrictor lungo dieci metri poteva ben sistemare un ometto grasso come Preston.

Un rumore lo svegliò di soprassalto dal dormiveglia in cui stava scivolando, e d’un balzo si levò dal letto. Di quel genere di fantasticherie doveva farne a meno, e lui era a Glennhaven proprio per imparare a guarirne. Le tempie gli pulsavano ancora e la nuca era trafitta dalle solite punture, ma ormai fin dopo il pranzo non c’era più niente da bere. Si lavò la faccia con acqua molto fredda e decise di scendere a pianterreno.

Glennhaven non aveva nulla della cupa tetraggine e della sottintesa violen­za che normalmente si attribuiscono agli ospedali psichiatrici. Faceva pensa­re piuttosto a una tenue terra sognata, dove anime timide e stanche si ritira­vano sempre più dalla realtà del mondo esterno e anche da un’altra realtà di quello interiore.

Nella sala di musica, quando Barbee si mise ad ascoltare il giornale radio che parlava di un incidente automobilistico, una ragazza esile, graziosa, la­sciò cadere la calza che stava rammendando e corse via, scossa dai singhioz­zi. Barbee si mise a giocare a dama con un ometto dalla faccia rosea e la barba bianca, che riusciva a rovesciare con un soprassalto la scacchiera ogni volta che Barbee gli soffiava una pedina, e poi si profondeva in scuse.

A tavola, il dottor Dilthey e il dottor Dorn fecero un tentativo penoso e tutt’altro che fortunato di condurre una conversazione leggera e briosa. Bar­bee fu lieto di vedere le ombre del crepuscolo autunnale addensarsi fuori delle finestre. Tornò subito in camera sua, suonò per l’infermiera e ordinò i suoi due whisky in una volta sola.

La signorina Etting era fuori servizio e una brunetta zitella e penosamente vivace, di nome Jedwick, gli portò le sue due misure di bourbon e un volumi­noso romanzo storico d’aspetto vetusto che Barbee non aveva chiesto. La ragazza si diede poi un gran da fare per la stanza, preparando il pigiama sul letto, pantofole dalla suola di feltro sul tappetino, una vestaglia rossa sulla spalliera della sedia, spianando il letto e palesemente mostrandosi gaia e serena. Ma Barbee trasse un profondo sospiro di sollievo quando finalmente lo lasciò solo.

La doppia dose di liquore lo riempì di una profonda sonnolenza, sebbene il suo orologio segnasse soltanto le otto e lui avesse dormito quasi tutto il gior­no. Cominciò a spogliarsi e si interruppe per tendere l’occhio, in preda a un vago malessere. Lontanissimo, chi sa dove, aveva udito un ululato fievole, bizzarro.

I cani delle case coloniche intorno a Glennhaven cominciarono ad abbaiare furiosamente, ma Barbee sapeva che non era stato un cane a ululare. Corse alla finestra, tendendo ancora l’orecchio, e percepì un altro tremulo ululato soprannaturale.

Era la lupa bianca. Che lo attendeva, là, presso il fiume.

Barbee tornò presso il gran letto invitante, e una tremenda paura lo colse. Secondo la logica razionale, scientifica di Glenn, lui doveva accarezzare nel suo subcosciente un odio geloso per Quain e Spivak. Nella logica pazzesca dei suoi sogni, April Bell era ancora decisa a ucciderli, a causa dell’arma ignota ch’essi custodivano nella cassa verde.

Lo atterrì il pensiero di ciò che il terribile serpente avrebbe potuto commet­tere.

Indugiò il più a lungo possibile, prima di coricarsi. Si pulì i denti con uno spazzolino nuovo fino a farsi sanguinare le gengive. Fece la doccia e con gran cura si tagliò le unghie delle estremità, indossando alla fine un enorme pigia­ma bianco. Avvolto nella rossa vestaglia che portava ricamato sulla schiena Glennhaven,sedette in una poltrona per un’ora cercando di leggere il roman­zo storico.

E intanto la lupa ululava.

Lo stava chiamando, ma lui aveva paura di andare. Si mise a passeggiare nervosamente per la stanza, e un altro suono, ancora più debole dell’ululato, lo fermò di colpo. Era l’urlo di una donna, soffocato, ma non lontano, mono­tono e terrificante, l’urlo di una donna in preda al terrore e alla disperazio­ne: era la voce di Rowena Mondrick.

Richiuse in fretta la finestra e se ne andò a letto col libro, cercando di sprofondarsi nella lettura, di non udire più nulla, né la voce di Rowena, né il richiamo della lupa bianca, scacciando il sonno che gravava su di lui, sempre più torpido. Ma le parole si confondevano sotto i suoi occhi e il mondo fan­tasmagorico che lo attendeva lo attirava, con le sue immense possibilità, ri­spetto alla tetraggine e allo squallore di quello in cui viveva... A un tratto cedette: spense la luce, per abbandonarsi alla sua nuova realtà. Il libro gli cadde di mano...

Ma lui non aveva più mani. Scivolò via dalla forma penosa e vuota che giaceva abbandonata, respirando appena, sul gran letto bianco. Lasciò che il suo lunghissimo corpo fluisse sopra il tappeto, e sollevò la testa piatta e triangolare verso la finestra.

Cadde sul prato sottostante, in un viluppo di spire possenti, e corse stri­sciando e ondulando, rapidissimo, verso gli alberi che nereggiavano presso il fiume.

La lupa bianca gli venne incontro trotterellando fuori da un folto di salici, coi lunghi occhi obliqui fosforescenti d’una luce verde. Il rettile saettò la nera lingua sottile a sfiorarle il muso fresco e umido, e le scaglie lucenti del suo corpo compatto ondularono di voluttà all’estasi di quel bacio mostruoso.

«Era per i troppi dacquari, dunque», sibilò, «che mi facesti credere la tua favola sulla stregoneria?»

La lupa rise, con la rosea lingua penzolante da una parte delle fauci.

«Non tormentarmi più», pregò lui. «Sai che mi stai facendo lentamente im­pazzire?»

Lei gli lambì il muso piatto affettuosamente.

«Sei sbigottito, lo so... i primi risvegli sono sempre molto penosi, fino a quando non hai imparato bene.»

«Fuggiamo via di qua», propose lui, mentre un brivido passava ondulando sulle sue scaglie. «Rowena Mondrick sta urlando, là, nella sua stanza. Non posso sopportare quella voce. Voglio scappare via da lei e da tutta questa incertezza...»

«Stanotte abbiamo un altro lavoro da fare, Will. Tre dei nostri più pericolo­si nemici sono ancora in vita... Quain, Spivak e la cieca. La cieca l’abbiamo ridotta dove non può fare nulla di più pericoloso che urlare, ma Spivak e Quain sono ancora all’opera, e stanno imparando, si preparano a usare l’ar­ma nascosta nella cassa.»

Barbee avrebbe voluto protestare, ma cedette subito alla volontà di April. Nello splendido ridestarsi dall’incubo orrendo della sua vita quotidiana, tutti i valori si tramutavano, capovolgendosi. Avvolse nelle due ultime spire del suo corpo la forma sottile della lupa, fin quasi a soffocarla.

«Tu vuoi la morte di tutti i miei ex amici», sibilò. «Ma se un giorno un dinosauro ti sorprenderà tra le braccia di Prestron Troy, non venirmi a pian­gere poi la sua sorte.»

Allentò la stretta delle sue spire, e la lupa si scrollò il bianco mantello con disdegno.

«Non osare toccarmi, rettile!»

Si tese ancora verso di lei:

«Dimmi, che cosa rappresenta Preston per te?».

D’un balzo, lei si sottrasse alle terribili spire.

«Perché vuoi saperlo?» E le candide zanne della lupa si scoprirono come in un sogghigno. «Andiamo ora. Cose più importanti ci attendono.»

Le ondulazioni del suo lunghissimo corpo spinsero Barbee in avanti accanto a lei, in fremiti fluenti di forza. La frizione delle scaglie lucenti sulle foglie cadute sollevava dal suolo un sommesso brusio. Il serpente procedeva age­volmente al fianco della lupa, la testa triangolare sollevata all’altezza di quel­la di lei.

Il mondo notturno era stranamente diverso ora per lui. Il suo fiuto non era più così sottile come era stato quand’era lupo, né la sua vista così acuta come da tigre. Poteva udire il dolce mormorio del fiume, tuttavia, e il fruscio dei roditori nei campi e tutti gli impercettibili suoni degli animali e degli uomini addormentati nelle fattorie presso le quali passavano.

Clarendon, a misura che vi si avvicinavano, divenne una terrificante cacofo­nia di motori, di freni stridenti, di clacson, di radio a tutto volume, di abbaiar di cani e di voci umane.

La luce splendeva al nono piano della torre grigiastra dove Quain e Spivak combattevano la loro guerra segreta contro il Figlio della Notte; e un fetore indistinto ma percettibilissimo aleggiava nell’aria.

La porta sbarrata si dissolse davanti alla coppia mostruosa e in breve furo­no nel vestibolo fortemente — e, per loro, penosamente — illuminato. Il fetore era molto più intenso là dentro, ma Barbee sperò che il rettile potesse resi­stervi meglio di quanto non avesse fatto il lupo.

Due uomini dagli occhi duri e penetranti, troppo anziani per i maglioni universitari che indossavano, sedevano giocando a carte al banco delle infor­mazioni presso gli ascensori. Mentre la lupa e il gran rettile passavano silen­ziosi, uno dei due uomini di guardia sbatté nervosamente sul tavolo le carte spiegazzate che aveva in mano e si tastò la grossa pistola d’ordinanza che aveva sull’anca sotto la giubba.

«Abbi pazienza, Jug, ma non riesco a distinguere i fiori dalle picche, stase­ra...» La sua voce si abbassò, roca. «Di’ quello che vuoi, ma questo servizio all’Istituto mi sta rovinando il sistema nervoso. Sembrava buono, in princi­pio... venti dollari al giorno solo per non far entrare nessuno... ma non mi piace più come prima!»

L’altro raccolse il mazzo di carte.

«Perché, Charlie?»

«Ma non senti?» E l’omaccione tese l’orecchio. «Tutti i cani di Clarendon si sono messi a ululare, e io non posso fare a meno di chiedermi che diavolo stia succedendo. Questi professori dell’Istituto hanno paura di qualche cosa, ed è strano, a pensarci, il modo in cui se ne sono andati il vecchio Mondrick e Chittum. Quain e Spivak hanno l’aria di chi sa di essere il prossimo della lista. Non so che cosa abbiano in quella cassa misteriosa, ma non vorrei met­terci sopra gli occhi per quaranta milioni!»

Jug affondò lo sguardo nelle ombre lontane del corridoio, oltre la lupa e il serpente che scivolavano entro l’edificio, e lui pure, inconsciamente, si toccò la grossa pistola al fianco.

«Venti dollari al giorno son venti dollari al giorno, Charlie, e tu ti stai sug­gestionando... Ma vorrei saperne anch’io qualche cosa di più. Non che io creda alle stupidaggini, che dicono le donnette, di qualche maledizione dis­sotterrata in quelle vecchie tombe in Mongolia, no, ma qualcosa devono ave­re trovato!»

«Io non lo so e non lo voglio sapere!», disse Charlie. «Su, dai le carte. Meno ci pensiamo, a questa faccenda, e meglio è!»

Sebbene i due uomini volgessero spesso, senza volerlo, ma con strana insi­stenza, gli occhi verso le ombre in fondo al vestibolo, non videro la lupa e il serpente sostare davanti alla porta, chiusa a chiave, delle scale, fino a quan­do una parte di questa si dissolse per lasciarli passare; e continuarono, an­noiati e impazienti insieme, la loro partita.

Il serpente seguì la lupa per otto piani di scale immerse nelle tenebre. Il terribile sentore, dolciastro, ributtante e putrido, s’era fatto più denso a mano a mano che la coppia saliva, tanto che a un certo punto la lupa dovette fermarsi, come davanti a una barriera atroce.

L’immane rettile proseguì la sua rapida marcia ondulante. Un’altra porta, davanti a Barbee, divenne un denso rettangolo di nebbia, e la testa triangola­re del serpente si volse a chiamare la lupa, riluttante a seguirlo nel fetore delle camere del nono piano.

Una di quelle camere era stata attrezzata con banchi metallici, strumenti, provette e tutto l’occorrente per le più disparate analisi chimiche. Le esala­zioni brucianti dei reagenti erano sommerse dal fetore mortale che emanava da un pizzico di polvere grigia, messa ad asciugare su un filtro di carta. Quel­la stanza era silenziosa, a eccezione del gocciolio lento di un rubinetto, ma tanto la lupa quanto il serpente arretrarono davanti al tanfo.

«Vedi?», Barbee sentì che April gli diceva, «i tuoi ex amici stanno tentando di analizzare quell’antico veleno nella speranza di annientarci.»

La camera attigua era un museo di scheletri articolati, appesi candidi a so­stegni metallici. Barbee si guardò intorno a disagio coi suoi neri occhi di rettile. Riconobbe le ossa abilmente riconnesse dell’uomo moderno e delle moderne scimmie antropomorfe e le bianche ricostruzioni di tipi scimmieschi di ominidi quali l’uomo chelleano, quello musteriano e il prechelleano. Altri reperti lo lasciarono perplesso; le ossa ricostituite erano troppo sottili, i den­ti nel sogghigno del teschio troppo aguzzi, i teschi stessi troppo lisci e allun­gati.

Evidentemente Quain e Spivak prendevano misure e calcolavano rapporti, alla ricerca di elementi che permettessero loro di colpire il nemico.

L’altra camera ancora era immersa nelle tenebre e nel silenzio. Grandi mappe a colori illustravano i continenti moderni e quelli del passato; i margini dei ghiacciai delle epoche glaciali erano tracciati come linee di un campo di battaglia. Entro vetrine di cristallo, si vedevano i quaderni di appunti e i diari di Mondrick.

La lupa a un tratto emise un lieve ringhio e Barbee si accorse che i suoi occhi verdastri fissavano un largo frammento di arazzo medievale, chiuso in una cornice di vetro e appeso sopra la scrivania, come se si trattasse di un tesoro speciale.

Il disegno sbiadito mostrava un gigantesco lupo grigio che spezzava tre cate­ne che lo imprigionavano, per balzare su di un vecchio barbuto con un solo occhio.

Studiando meglio l’antico tessuto, Barbee nel lupo riconobbe Fenris, demo­ne della mitologia scandinava. Il vecchio Mondrick aveva una volta analizza­to il mito antichissimo, paragonando la demonologia vichinga a quella greca. Generato dal malefico Loki e da una gigantessa, il lupo gigante Fenris aveva continuato a crescere fino a quanto gli dèi impauriti lo avevano incatenato. Fenris aveva spezzato due catene, ma la terza aveva magicamente resistito fino al terribile giorno di Ragnaròk, quand’era riuscito a liberarsi per aggre­dire Odino, signore degli dèi, rappresentato come un gran vecchio con un occhio solo.

La lupa bianca aveva digrignato i denti e si ritraeva ora dalla tappezzeria sfilacciata.

«Perché? Dov’è il pericolo che ci minaccia?», volle sapere Barbee.

«Là, in quel tessuto e nella storia che narra... e in tutti i miti delle guerre e delle alleanze fra dèi, uomini e giganti, che la maggior parte del genere uma­no crede siano soltanto fiabe e leggende. Mondrick aveva capito troppe cose e noi l’abbiamo lasciato vivere troppo.»

Fiutò ancora l’odore nauseabondo, d’una putredine dolciastra.

«Dobbiamo agire subito! Prima che questi due maledetti scoprano tutto quello che Mondrick e sua moglie sapevano, e trasformino questo luogo in un’altra trappola per noi!» Rizzò le lunghe orecchie ad ascoltare. «Vieni, Barbee... i tuoi ex amici sono dall’altra parte del corridoio.»

Attraversarono il corridoio immerso nelle tenebre, e il lungo serpente stri­sciò dinanzi a lei attraverso la parte inferiore di un uscio chiuso a chiave. Ma poi sussultò, levando la nera testa in allarme, alla vista di Sam Quain e Nick Spivak.

La lupa lo raggiunse, beffarda: «Siamo in tempo, credo. Questi sciocchi non devono avere scoperto l’identità del Figlio della Notte, e la cieca non deve essere riuscita a comunicare con loro, per avvertirli di circondarsi di argento. Ora potremo porre fine a questi mostri umani e salvare così il Figlio della Notte».

I due uomini chiusi nella cameretta non parvero molto mostruosi a Barbee. Nick Spivak scriveva, stancamente semisdraiato sulla scrivania. Alzò la testa quando Barbee lo guardò, con un soprassalto nervoso. Dietro le lenti spesse, i suoi occhi erano iniettati di sangue, febbrili, spiritati, e la faccia livida dalla stanchezza era coperta da una barba di qualche giorno.

Sam Quain dormiva su una branda lungo il muro. Era così sfinito che anche nel sonno la sua faccia era stirata e contratta per la stanchezza. Da sotto le coperte sporgeva il braccio robusto, a stringere una delle maniglie di cuoio della cassa, anche nel sonno.

La cassa era sempre chiusa col lucchetto. Barbee fece uno sforzo mentale, a tentoni, verso il suo contenuto, e sentì quel massiccio rivestimento d’argento all’interno del ferro e del legno della cassa: una barriera che gli fece scorrere un freddo brivido lungo le spire. Indietreggiò già in preda a un vago males­sere, annebbiato dal fetore immondo che emanava la cassa. La lupa gli si accucciò vicino, spaventata e in preda al malessere.

Sempre alla scrivania, Spivak fissava coi suoi poveri occhi arrossati Barbee, ma non parve vedere né il serpente né la lupa. Rabbrividendo un poco, come di freddo, riprese infine il suo lavoro.

Barbee gli fluì vicino, sollevando la lunga testa piatta per guardare di sopra la sua spalla magra e curva. Vide le dita tremanti di Spivak girare distratta­mente il frammento stranamente conformato di un osso ingiallito dal tempo. Vide poi l’uomo prendere un altro oggetto sulla scrivania, e uno sgradevole torpore irrigidì le sue spire.

Quell’oggetto era di gesso bianco. Sembrava il calco di una pietra a forma di cuore, profondamente incisa. Una parte dell’orlo ricurvo dell’originale do­veva essere stato appiattito dall’usura; doveva essersi spezzato, vide Barbee, e un pezzetto ne mancava. Il fetore dolciastro che ne emanava come una nube era così potente che dovette ritrarre la testa nera di scatto.

«Dev’essere un calco della Pietra», spiegò la lupa, barcollando sulle zampe. «E la Pietra stessa deve trovarsi in quella cassa... col segreto che annientò la nostra specie inciso su di essa e protetto da quell’intollerabile emanazione. Non possiamo arrivare alla Pietra stanotte... ma penso che potremo impedire al tuo amico di leggere l’iscrizione.»

Barbee si eresse come una nera colonna arabescata per vedere meglio sulla scrivania: Nick Spivak aveva ricopiato tutte le iscrizioni dal disco di gesso strofinando una matita su morbida carta gialla. Ora cercava di decifrarle, indubbiamente, perché i bizzarri caratteri eano sparsi in file e colonne su varie pagine, frammisti ad appunti e quadri sinottici in caratteri comuni.

«Sei fortissimo questa notte, Barbee», anelò la lupa. «Posso vedere una si­cura probabilità di morte per Spivak... un campo magnetico a cui tu puoi attingere...»

Digrignò improvvisamente le zanne. «Uccidilo! Uccidilo finché esiste il nes­so!»

Rigidamente, penosamente, Barbee si costrinse a immergersi di nuovo nella nuvola di fetore letale che aleggiava intorno al calco di gesso. Spinse poi le spire ricoperte di scaglie verso l’uomo sfinito intento a scrivere, perché quel­l’uomo era un nemico del Figlio della Notte e tutto era cambiato, ormai. Nessuna cosa più, della sua vita diurna, era importante.

Importava solo la sua nuova potenza, l’atteso arrivo del Figlio della Notte e l’amore della lupa dagli occhi verdi.

Nervosamente, Nick Spivak, messi da parte i suoi appunti, studiava ora at­traverso una lente il calco di gesso, come per cercare un errore fatto nel rilevare l’iscrizione. Crollò il capo, accese una sigaretta e la schiacciò subito nel portacenere. Infine si volse a guardare con la fronte aggrottata Sam Quain addormentato sulla branda.

«Gran Dio!», mormorò. «Sono isterico, questa notte!» Allontanò da sé il calco e si chinò nuovamente sulle carte. «Se potessi almeno identificare quel maledetto carattere!» Si mise a succhiare la matita, aggrottando la fronte. «I creatori del disco riuscirono ad annientare quei demoni, un tempo, e la loro scoperta può riuscirvi ancora!» Le sue spalle curve si eressero risolutamente. «Vediamo... se il carattere alfa rappresenta veramente l’unità...»

Fu tutto quello che disse. Perché il rettile aveva scagliato la testa sottile tra il volto dell’uomo e il piano della scrivania. Tre volte il lunghissimo corpo si avvolse attorno all’uomo, poi, stringendo le spire, si tese con tutta la sua forza verso il campo magnetico della probabilità favorevole.

Il volto affinato e smunto di Spivak si contrasse in un’espressione di orrore. Dietro le lenti, i suoi occhi sembravano prossimi a scoppiare. Aprì la bocca per urlare, ma un colpo secco infertogli dalla dura testa del rettile lo paralizzò alla gola. Il fiato gli usciva in un sibilo dal petto, che cedeva sotto la stretta terribile.

Con le mani ad artiglio cercò di puntellarsi al tavolo per alzarsi in piedi. Ma le spire si strinsero ancora di più e il torace dell’uomo s’incavò in modo impressionante. Le dita brancicanti, in un ultimo sforzo frenetico, afferraro­no il disco di gesso e lo scagliarono debolmente contro le costole di Barbee. Il freddo urto del suo tocco e l’odore intollerabile annebbiarono il serpente, le cui spire palpitanti si rilassarono un poco.

Ma ormai il povero Nick era già morto. Il disco gli cadde dalle dita inerti e si spezzò sul pavimento. La lupa corse verso la finestra:

«Presto! Quain si sta svegliando.»

Barbee le corse accanto e si accinse a dissolvere la materia della finestra; ma la lupa scosse la testa sottile.

«No. Dobbiamo riuscire ad aprire la maniglia. Non ci sono persiane e Spivak era sonnambulo, quando si trovava in condizioni di estrema stanchez­za. E questa notte sembrava sfinito. È questo il circuito magnetico delle pro­babilità che ho trovato per aiutarti a ucciderlo.»

Finalmente, dopo un lungo affaccendarsi con le zampe e le zanne, mentre il rettile cercava di aiutarla usando la dura testa come leva, la lupa riuscì a far girare la maniglia e ad aprire la finestra con uno schianto che fece sussultare Quain. Questi si mosse pesantemente sulla branda.

«Nick», mormorò confusamente, «che diavolo sta succedendo?»

Ma non si levò e la lupa avvertì:

«Non può svegliarsi ora... ciò spezzerebbe il circuito».

L’aria limpida e fredda che irrompeva dalla finestra dissolse in parte il feto­re che li stordiva con la forza di uno stupefacente. Il rettile fu in grado di trascinare il corpo stritolato di Spivak presso la finestra.

«Presto!» La lupa era imperiosa. «Gettalo giù! Dobbiamo andarcene di qua prima che Quain si svegli... e io devo fare ancora qualcosa di molto difficile, per le mie zampe.»

Balzò sulla scrivania, con la leggerezza di un essere alato, e cercò di stringe­re la matita che la mano di Spivak aveva abbandonato pochi minuti prima. Barbee avrebbe voluto sapere che cosa stava tentando di scrivere, ma un gemito di Quain nel sonno lo riscosse. Con uno sforzo indescrivibile, riuscì a far precipitare la massa di carne e ossa stritolate oltre il davanzale della fine­stra. Ma le sue spire dovettero scivolare su una goccia di sangue, perché il suo corpo perse la presa che lo manteneva sull’orlo della finestra, e cadde a sua volta. Udì dietro di sé l’ansiosa ingiunzione della lupa:

«Fuggi di qua, Will!... prima che Quain si svegli!».

Il suo lunghissimo corpo nero precipitò giù, nel vuoto, per nove piani d’al­tezza, ardentemente teso verso il rifugio — ora — di quell’altro suo misero corpo addormentato a Glennhaven.

Udì, in basso, il tonfo sordo e netto dei resti di Spivak che si abbattevano sul viale di cemento ai piedi della torre. E continuò a precipitare a sua volta, finché non si abbatté — e il mutamento fu questa volta repentino, indolore — presso il suo letto a Glennhaven, comunissimo bipede, istupidito dal sonno.

La testa gli doleva per il gran colpo dato per terra nel cadere dal letto. Si levò ritto, barcollando. Aveva un bisogno imperioso di bere qualcosa di for­te. Lo stomaco era sconvolto, sembrava svolazzare per la stanza, e tutto il corpo era in preda a un sordo indolenzimento. Glenn, si disse, gli avrebbe detto, senza dubbio, che lui era rotolato per terra scivolando dai cuscini su cui s’era sostenuto per leggere, e che tutto quello spaventevole sogno era nato poi dal suo tentativo, inconscio e probabilmente d’origine alcoolica, di spiegare in qualche modo la caduta.