Provò a riaddormentarsi, ma i particolari del suo sogno lo ossessionavano talmente che dovette rinunciarvi e zoppicando tornò di nuovo alla finestra e l’aprì completamente alla cruda luce del giorno. Poi, disinfettata la misterio­sa graffiatura e rasosi con gran cura, prese un’aspirina per addormentare il dolore che gli faceva il dente. Infine, visto che i dubbi e le apprensioni che gli causava l’incubo della notte non si placavano ai suoi vari tentativi di una spiegazione razionale, decise di telefonare a Rowena per accertarsi che fosse al sicuro nella sua casa col fedele Turk accanto.

Formò il numero con un indice ancora intorpidito, e per un bel pezzo nes­suno rispose: forse, sperò, tutti erano ancora comodamente addormentati nel loro letto. Finalmente, la voce acuta della signora Rye, la direttrice di casa, gli domandò piuttosto di malagrazia che cosa volesse.

«Parlare alla signora Mondrick, se è già alzata.»

«La signora non c’è.»

«Eh!», sussultò Barbee, di colpo in preda al panico. «Datemi allora la signo­rina Ulford.»

«Non c’è nemmeno lei.»

«Ma... Ma dove...»

«È andata via anche lei con l’ambulanza, per assistere la povera signora Mondrick.»

Fu un miracolo se il microfono non gli cadde di mano.

«Ma che cosa è successo?»

«La signora, poverina, dev’essere quasi impazzita questa notte. Dopo il col­po terribile del marito, d’altra parte... E poi è sempre stata un po’ stramba, no? dopo che quella belva le tolse gli occhi, laggiù in Africa...»

Barbee inghiottì la saliva a fatica.

«Che cosa è successo, esattamente?»

«Si è alzata nel cuor della notte ed è uscita in strada con quell’enorme cane che si è incaponita a voler tenere. Secondo me, doveva essersi messa in testa di dar la caccia a qualcuno... a quello stesso leopardo, forse, che l’ha acceca­ta. Fatto sta che è uscita con un tagliacarte d’argento, affilatissimo, ma per fortuna il cane s’è messo ad abbaiare, svegliando la signorina Ulford, che si è alzata e l’ha inseguita.»

Muto e atterrito, Barbee ascoltava.

«Poi il cane dev’essersi messo a correre, abbandonandola, ma la signora, povera cieca, l’ha inseguito fin dove ha potuto. La signorina l’ha trovata a una ventina d’isolati di distanza: incredibile per una donna della sua età, e cieca per giunta!»

La donna sembrava trovare una soddisfazione morbosa nel suo racconto.

«La signorina Ulford, più morta che viva lei stessa, è riuscita finalmente a riportare a casa la signora in un tassi. Sanguinava tutta perché s’era sbuccia­ta, cadendo nel selciato, e sembrava che le avesse dato completamente di volta il cervello. Non voleva cedere quel pugnale affilato che aveva in mano, e hanno dovuto strapparglielo con la forza, mentre lei continuava a urlare non so che a proposito degli assassini che secondo lei il cane stava inseguen­do. La signorina Ulford ha dovuto chiamare un’ambulanza e farla ricoverare a Glennhaven. Son venuti a prenderla un’ora fa, bisognava vedere come si divincolava e lottava con gli infermieri, povera donna, c’era pericolo che si ammazzasse!»

«Perché non voleva andare a Glennhaven?»

«Perché s’era messa in testa di andare a casa di Sam Quain. Era così frene­tica, in proposito, che ho finito per telefonare al dottor Quain, ma la società telefonica mi ha detto che avevano dimenticato di riagganciare il microfono. Ora la signora è a Glennhaven e speriamo che si rimetta. Posso esserle utile in qualche modo?»

Barbee era impietrito, talmente impietrito, che non fu capace di rispondere.

«Pronto?», disse la donna. «Pronto?»

Lui non riuscì a trovare la voce e, impaziente, la signora Rye tolse la comu­nicazione. Barcollando, Barbee tornò nella stanza da bagno, si versò mezzo bicchiere di whisky, ma poi lo scaraventò, colto da un dubbio atroce, nel lavabo, senza assaggiarlo. Se il whisky lo aveva ridotto così, non doveva più berne una goccia.

La piccola signorina Ulford aveva fatto bene, si disse cocciuto, a far ricove­rare la povera cieca in manicomio. La tragedia dell’aeroporto era stata per lei il colpo di grazia, e i suoi stessi timori sulla sua sanità mentale dovevano avere contribuito alla formazione di quell’incubo grottesco. Con tetra capar­bietà decise di chiudere gli occhi alle troppo numerose coincidenze tra realtà e sogno, di non avventurarsi su quella strada che conduceva alla follia e su cui la stessa Rowena s’era spinta.

Cedendo a un impulso improvviso, telefonò ad April al Trojan Arms. Non intendeva parlarle del sogno, ma solo udire la sua voce e sapere dove si trovava. Si sarebbe scusato di non essere più andato a trovarla, il giorno prima, e le avrebbe chiesto un altro appuntamento. Fu con voce tremante, che chiese della signorina Bell.

«Mi dispiace», disse l’uomo al banco, «ma non possiamo disturbare la si­gnorina.»

«Sono un amico», insistette Barbee, «vedrete che non si seccherà.»

Ma l’uomo fu irremovibile e allora Barbee chiese del direttore. La pubblici­tà conta parecchio per un direttore d’albergo, e Gilkins infatti ci teneva, di regola, ad accontentare i giornalisti. Ma il caso di April Bell rappresentava, a quanto parve, l’eccezione a quella regola.

«Spiacente, signor Barbee», mormorò con mortificata correttezza, «ma dav­vero non possiamo disturbare la signorina. Abbia pazienza, vecchio mio, la signorina, vede, dorme sempre fino a mezzogiorno e ha dato ordini precisi di non essere svegliata per nessunissimo motivo, a meno che non si tratti di un incendio o di un assassinio.»

Barbee cercò di non rabbrividire alle ultime parole. La ragazza dai capelli di fiamma se la prendeva piuttosto comoda per essere una semplice pratican­te in un giornale della sera, quel genere di giornali che vogliono tutti presenti fin dall’alba. Pregò che l’avvertissero che lui aveva telefonato, e s’impose di non pensare più all’incubo della notte.

Si vestì in fretta e furia, si fermò a bere un caffè al bar dell’angolo e infine pilotò la sua vecchia baracca verso il centro. Aveva bisogno di sentirsi gente intorno. Esseri umani. Aveva nostalgia di voci familiari, di udire il ticchettìo delle macchine da scrivere e delle telescriventi, il fruscio martellante delle linotypes e il fracasso rombante delle rotative. Si fermò all’edicola di Ben Chittum davanti allo Star e chiese notizie di Rex.

«È sconvolto», disse il vecchio, che sembrava anche lui piuttosto depresso. «La morte di Mondrick deve averlo colpito terribilmente. Si è fermato ieri un momento a salutarmi, dopo il funerale, ma non sembrava che avesse mol­ta voglia di parlare. E poi doveva tornare subito all’Istituto.»

Fece una pausa per accomodare meglio un pacco di giornali e poi scrutò attentamente Barbee: «Ma perché i giornali non ne parlano più?», domandò. «C’eri tu, all’aeroporto, e quella ragazza del Call. Mi parrebbe importante, quando un uomo come Mondrick muore in quel modo, se fossi io il capocronista. E invece i giornali quasi non ne dicono niente.»

«Possibile?», rispose Barbee stupito. «Ero convinto che ne avrebbero fatto un servizio da prima pagina, con titolo enorme, che ho buttato giù un pezzo di almeno seicento parole. E poi ero abbastanza sconvolto anch’io e non mi sono curato di vedere che cosa possono aver tolto.»

«Guarda», disse il vecchietto. E gli mostrò una copia dello Star della vigilia. Non una sola parola del suo articolo era stata stampata. Su una delle pagine interne, c’era soltanto l’annuncio del funerale di Mondrick alle due del po­meriggio.

«Strano», disse, e con un’alzata di spalle si scrollò di dosso il piccolo enig­ma. Aveva ben altri misteri da risolvere, quando ne avesse avuto voglia. E attraversò la strada, lieto di ritrovarsi nell’ordinata confusione della sala cro­nisti.

Sul suo tavolo trovò un familiare foglietto blu da memorandum, che gli co­municava di presentarsi da Preston Troy. Lo Star non era la più importante delle imprese industriali di Troy, che comprendevano stabilimenti, mulini, il Trojan Trust, la stazione radio e il circolo di baseball. Ma il giornale era il suo giocattolo favorito, tanto che sbrigava quasi tutti i suoi affari nello spazioso studio d’angolo che si era riservato sopra la sala cronisti.

Barbee trovò l’editore che dettava una lettera a una sottile segretaria dai capelli d’un biondo tiziano (Troy era famoso per la raffinata bellezza delle sue segretarie). Era un uomo robusto e tarchiato, con un cerchio sottile di capelli rossicci attorno alla cupola rosea della testa. Fissò Barbee con due scaltri occhi azzurri e fece ruotare il grosso sigaro da un angolo all’altro della bocca larga e sensuale.

«Prenda la cartella Walraven», ordinò alla ragazza, poi i suoi occhi gelidi si posarono di nuovo su Barbee. «Il suo direttore mi dice che lei è un uomo in gamba, Barbee. Voglio offrirle la possibilità d’un servizio importante, firma­to, per montare la candidatura del colonnello Walraven al Senato.»

«Grazie, Presidente», disse Barbee, senza molto entusiasmo per il colonnel­lo Walraven. «Ho visto che Grady non ha passato il mio pezzo sulla morte di Mondrick, ieri.»

«Gli ho detto io di non pubblicarlo.»

«Potrebbe dirmi perché?» E Barbee piantò gli occhi bellicosamente sul ro­seo volto del proprietario. «A me sembrava che fosse roba da prima pagina. Profondo interesse umano e tutto un lato misterioso, molto giallo: Mondrick, capisce, è morto mentre stava dicendo che cosa aveva portato dall’Asia in quella cassa verde... Ed è ancora valido, come servizio, Presidente.» Barbee cercò di soffocare l’irritazione che lo stava dominando. «Il verdetto del coroner è stato di morte per cause naturali, ma gli amici dello scienziato si com­portano come se non credessero una sola parola del verdetto. Stanno na­scondendo ciò che si trova nella cassa e hanno più che mai paura di parlare.» Ancora Barbee cercò di dominarsi. «Affidi a me questo lavoro, Presidente. Con un fotografo, monterò un servizio che farà di Clarendon la città più famosa del mondo. Voglio scoprire perché Mondrick è andato nell’Ala-shan, e voglio scoprire di che cosa hanno paura quegli uomini, e che cosa nascon­dono in quella cassa.»

Gli occhi con cui Troy lo fissava erano duri e inespressivi.

«Troppo sensazionale per lo Star. »La voce del Presidente s’era fatta bru­scamente dittatoriale. «Non pensiamoci più, Barbee. Si metta a lavorare sul colonnello.»

«Troppo sensazionale, Presidente? Ma se ha sempre sostenuto che la cro­naca nera dev’essere la chiave di volta dello Star... »

«Ho già fissato quella che dev’essere la linea del nostro giornale!», urlò quasi l’editore. «Non si stamperà una sola parola sul caso Mondrick. E non se ne stamperà una parola, come constaterà lei stesso, su nessun altro gior­nale importante.»

Barbee cercò di non dare troppo a vedere il suo stupore.

«Ma io non riesco a non pensarci, Presidente», protestò. «Devo assoluta­mente scoprire che cosa nasconde Sam Quain in quella cassa. Ne sono osses­sionato. Lo sogno la notte.»

«Ci si dedicherà nelle ore libere... e a suo rischio e pericolo.» La voce di Troy era fredda e recisa. «Non certo per il giornale.» Osservò il suo dipen­dente con occhi penetranti, spostando ancora il grosso sigaro da un angolo all’altro della bocca. «Ah, un’altra cosa, Barbee: si metta in testa che il suo organismo non è una distilleria clandestina: meglio piantarla di bere.»

Aprì un cassetto della scrivania e la sua dura faccia di sciolse.

«Ecco un buon sigaro, Barbee.»

La sua voce s’era fatta di nuovo calda e cordiale. «Qui c’è tutta la pratica Walraven. Voglio una serie di articoli biografici. La giovinezza di duri stenti, laboriosa, l’eroismo degli anni di guerra, le opere di beneficenza segreta, la felice vita domestica, le sue prestazioni ispirate al più alto senso patriottico durante la sua attività a Washington. E tralasci tutto quanto possa dispiacere agli elettori.»

Che è parecchio, pensò Barbee. E ad alta voce:

«Benissimo, Presidente».

Ritornò al suo tavolo nella sala cronaca del giornale e cominciò a esamina­re i ritagli che gli aveva dato il Presidente. Ma sapeva troppe cose di quelle che i ritagli tacevano, delle obbligazioni emesse per l’impianto di fognature cittadine e dello scandalo dell’autostrada, e perché la sua prima moglie lo aveva lasciato. Era difficile concentrarsi sull’insipido compito di riverniciare a nuovo un uomo simile per il Senato, e si accorse di fissare al di sopra della macchina per scrivere l’immagine sottile di un lupo che, su un calendario, ululava alla luna, e di pensare con nostalgia alla meravigliosa libertà, al pote­re straordinario che aveva goduto in sogno.

Al diavolo anche Walraven.

Barbee capì che era assolutamente necessario per lui arrivare alla cono­scenza dei fatti che stavano sotto la morte di Mondrick, la follia di Rowena e l’assurda confessione di April Bell. Se poi lui non faceva altro che trarre pazzesche fantasie dal whisky e da una serie di coincidenze, tanto valeva saperlo. Diversamente... anche la pazzia, in fin dei conti, era preferibile al­l’insopportabile tran-tran d’un cronista dello Star.

Cacciò il materiale Walraven alla rinfusa in un cassetto, e tratta la sua auto dal parcheggio percorse tutta Center Street verso l’università. Non riusciva a capire perché il caso Mondrick non rientrasse nella «linea» del giornale: non c’era mai cosa, prima, che fosse abbastanza sensazionale per Preston Troy. A ogni modo, giornale o non giornale, lui doveva sapere che cosa ci fosse, in quella cassa. Fermò la macchina davanti alla villetta di Sam Quain: aveva esattamente lo stesso aspetto che aveva avuto nel sogno, c’era perfino il sec­chiello di latta arrugginito, con la paletta di Pat che aveva visto durante la notte sul mucchio di sabbia per i giochi. Picchiò, cercando di vincere il males­sere che lo dominava, e Nora venne ad aprire dalla cucina dove stava lavo­rando.

«Oh, Will... avanti!»

Una blanda sorpresa le dilatava gli occhi azzurri, un po’ sbattuti, parve al giornalista, e con le palpebre gonfie, come se non avesse dormito bene. Non poté fare a meno di fiutare l’aria, timoroso di percepire l’atroce fetore che doveva emanare dalla cassa chiusa dello studio. Ma nell’aria aleggiava sola­mente il caldo aroma dell’arrosto che Nora aveva messo nel forno.

«Sono venuto a cercare Sam per intervistarlo ancora sulla spedizione e su quello che hanno trovato nell’Ala-shan.»

La donna aggrottò la fronte.

«Meglio non pensarci più, Will», rispose a disagio. «Sam non vuole parlarne con nessuno, nemmeno con me. Io non so che cosa abbiano portato in quella misteriosa cassa e Sam non ti direbbe niente.»

«Dov’è Sam adesso?»

«È andato all’Istituto. Ha un gran da fare, là, perché, mi ha detto, stanno impiantando un nuòvo laboratorio. Ha telefonato all’Istituto, quando si è svegliato questa mattina tutto impensierito, e Nick e Rex sono venuti a pren­dere lui e la sua cassa con una giardinetta. Non ha fatto nemmeno colazio­ne.»

Nora guardò Barbee con occhi imploranti. «Mi ha detto di stare tranquilla», riprese, «ma io sto tanto in pensiero. Poco fa ha telefonato per avvertirmi che questa sera non verrà a casa. Immagino che si tratti di una grande scoperta, che li renderà tutti famosi quando sarà resa nota, ma non riesco a capire il loro modo di fare. Sembrano tutti così... spaventati!» Si scosse, e riprese in tono più allegro: «Speriamo almeno che Rex dirà...». E s’interrup­pe, come chi ha parlato troppo.

«Dirà che cosa?», insistette Barbee.

«Sam mi ha detto di non parlarne a nessuno...» Torse il grembiule con le mani arrossate dal bucato. «Mi fido di te, Will, ma davvero non avrei dovuto parlarne... Promettimi almeno che non lo pubblicherai.» Un’ombra di terrore le incupì gli occhi. «Oh, Will, sono così sconvolta... non so che cosa fare.»

Barbee le batté la mano sulla spalla grassoccia, tranquillizzante: «Non stam­però nulla di quello che mi dirai», promise.

«Sai, non è molto, a dir la verità», riprese lei in tono di gratitudine. «Sem­plicemente che Sam ha rimandato qui Rex, stamattina, a prendere la nostra macchina. Dovevo portarla al garage per farle stringere i freni. Sembra che Rex, mi ha detto Sam al telefono, debba andare con la nostra macchina a State College, stasera, a fare un discorso alla radio.»

«Su che cosa?»

«Non lo so... Sam mi ha solo detto che l’Istituto si è accordato con la radio per una trasmissione speciale, stasera. Mi ha pregato anzi di stare in ascolto al nostro apparecchio. Ma di non parlarne a nessuno. Io spero proprio che questa sera spiegheranno un poco tutti questi misteri. Tu non ne parlerai, vero, Will?»

«Stai tranquilla. Oh, buongiorno, Pat, come stai?»

La piccola Patricia uscì lentamente dalla nursery e s’attaccò alla mano della madre. I suoi occhi azzurri erano più arrossati di quelli di Nora e il suo visetto s’era composto come in una ferma espressione di non voler piangere più.

«Sto bene, signor Will, grazie.» La sua vocina rivelò lo sforzo di non spez­zarsi. «Lo sa? Il mio povero Grillo, lo hanno ammazzato questa notte.»

Barbee sentì un gelido vento soffiare dalle tenebre della sua mente. Tossì per nascondere un sussulto di terrore.

«Oh, ma è terribile!», disse. «E com’è stato?»

Gli azzurri occhioni umidi tremarono.

«Sono venuti due grossi cani, questa notte, uno bianco e uno grigio, per portare via la cassa del papà nello studio. Il povero Grillo è uscito per fer­marli e allora il grande cane grigio lo ha ucciso.»

Muto e sconvolto, Barbee si volse a gardare interrogativamente Nora.

«Questo è quanto va ripetendo la bambina», rispose, con voce stanca. «Cer­to, il suo cagnolino è morto. Lo abbiamo trovato sul mucchio di sabbia que­sta mattina, proprio dove Pat mi aveva detto di guardare, quando si è sveglia­ta piangendo.»

La spalla della donna si alzò in un gesto d’impotenza davanti all’inesplicabi­le.

«Io, a ogni modo», insistette risolutamente, «sono convinta che la povera bestiola sia stata travolta da un’automobile. Ci sono di quegli studenti che la notte guidano la macchina come forsennati. Probabilmente, Grillo si è tra­scinato fin sul mucchio di sabbia e Pat deve averlo udito gemere.»

«No, mammina, no!», protestò la piccola. «È stato quel grande cane grigio, che è venuto con un bel cane bianco, quando li ho sognati. Anche papà ha detto che era vero.»

Nora accarezzò il volto della figlia, e rivolgendosi a Barbee:

«Il fatto è che Sam è diventato pallido come un cencio, quando la bambina ha raccontato il suo sogno, ed è corso subito nello studio a vedere la cassa». Lo guardò preoccupata: «Sei pallido, Will... non ti senti bene?».

«Ho fatto anch’io un sogno piuttosto buffo», disse Barbee cercando di sorri­dere. «Dev’essere stato qualcosa che m’è rimasto sullo stomaco. Be’, ora farò un salto all’Istituto e cercherò di vedere Sam.» Pose una mano sulla schiena rotonda della piccola. «Mi dispiace proprio tanto per il povero Grillo, sai, cara?»

La bimba si ritrasse di scatto di sotto alla sua mano e andò a nascondere il visetto rattristato dietro la gonna della madre.

«Non credo che Sam sarà disposto a dirti qualcosa», stava dicendo Nora. «Ma se ti dicesse qualche cosa, Will... me lo farai sapere?» Lo accompagnò fin sulla soglia e, abbassando la voce per non farsi sentire dalla bimba: «Ti prego, Will, ho tanta paura, sapessi, e non so che cosa fare!».