La mattina seguente era venerdì ed era quasi mezzogiorno quando Sweeney si svegliò. Dopo essere rimasto sveglio a letto, per qualche minuto, si alzò a sedere e mise fuori i piedi: la testa non gli faceva male, ma a parte quello, non aveva altro che andasse bene. La stanza sembrava piena di nebbia, ma riuscì a mettere a fuoco la sveglia e vide che erano le undici e quaranta. Cioè aveva dormito dodici ore.

Sopra al giradischi, sulla metà che non si poteva aprire, spiccava una statuetta alta circa venticinque centimetri, tutta nera. Rappresentava una fanciulla nuda, con le braccia tese a difendersi dallo Squartatore, la bocca aperta in un eterno urlo silenzioso. Il corpo, che in riposo sarebbe stato bello, era leggermente contorto e irrigidito nel terrore. Solo a un sadico sarebbe piaciuta, e Sweeney, che non lo era, distolse gli occhi con un brivido. Ma il contemplare «La statua che urla» lo risvegliò e lo fece ricadere nell’incubo, spingendolo a desiderare di bere, spingendolo a ricordare con nostalgia il torpido stato di indifferenza in cui ancora si trovava due giorni prima, un giorno e mezzo prima. Gli faceva desiderare di tornare indietro di nuovo. Perché no, del resto? Aveva un mucchio di denaro: non poteva dunque uscire a bere un bicchiere e poi un altro e così via?

Il caldo entrava a ondate dalla finestra spalancata, e Sweeney era coperto di sudore mentre respirava affannosamente. Si alzò in piedi con un gesto inconsapevole per respingere la nebbia e il caldo, e prese un accappatoio nell’armadio. Attraversò l’atrio fino al bagno e rimase a sedere sul bordo della vasca a guardare l’acqua scendere, acqua quasi gelata. L’entrarvi lo risvegliò: trasse un gran respiro e si lasciò scivolare giù fino al collo, così che il freddo cancellasse il calore del suo corpo e la nebbia della sua mente.

Il calore, pensava, è ciò che l’uomo vuole, è quello per cui vive, per cui lavora, finché ne ha troppo… e allora il freddo è un elemento meraviglioso. Per esempio, il pensare di dover giacere per l’eternità in una gelida tomba, d’inverno è una previsione spaventosa, mentre d’estate… Ma quella era pazzia. Come il pensare a Lola Brent, tanto innamorata di un ladro da diventare disonesta per aiutarlo.

E aveva venduto una statuetta nera a un uomo che, con lo sguardo, aveva confrontato lei e la sua statua… Sweeney bestemmiò. Che cosa importava a lui di quella ballerina scomparsa, che ormai era sottoterra? Ci sarebbe finita comunque, fra cinque o fra cinquant’anni. La morte è una malattia incurabile, che nasce insieme con gli uomini e con le donne e prima o poi li vince. L’assassino non uccide mai, in realtà, soltanto anticipa i tempi, uccidendo sempre qualcuno che è già sulla via della morte, che è già vinto. E, nella realtà, l’assassino non fa mai male alla vittima che uccide, ma a quelli che l’amavano e che debbono continuare a vivere. L’uomo che aveva ucciso Lola, aveva fatto molto più male a Sammy Cole che a lei. Se lui, Sweeney, fosse arrivato a odiare intensamente Doc Greene e avesse voluto fargli male nel modo peggiore…

Balzò a sedere nella vasca. Forse…? Ma no, era sciocco. Certo poteva esserci chi odiasse Doc Greene con tale forza da volerlo colpire uccidendo Iolanda, ma allora gli altri delitti restavano insoluti. Lola Brent, Stella Gaylord, Dorothy Lee. Nessun essere umano (dotato di facoltà «normali», ma, d’altra parte, qual è la normalità?) era concepibile che odiasse quattro uomini diversi al punto di ucciderne le quattro amanti. E poi, quella soluzione lasciava fuori il sadismo e la statua, mentre «La statua che urla» era la chiave. Invece di riadagiarsi nell’acqua, Sweeney uscì e si asciugò rapidamente. Mentre finiva di farlo, guardava il piccolo rigurgito dell’acqua mentre la vasca si vuotava. E gli venne la domanda: ho commesso un assassinio? Non è forse una vasca d’acqua, quando è piena, un’entità? Un ente che ha, se non la vita, per lo meno un’esistenza propria? Ma allora la vita nel corpo umano è come l’acqua in una vasca: non può darsi che attraverso la canalizzazione delle arterie e delle vene essa scorra verso una specie di lago Michigan e poi forse in un oceano, quando viene tolto il tappo di chiusura alla vasca? Eppure anche così è un assassinio, perché anche se l’acqua continuerà a esistere, quella data vasca non esisterà mai più, non vivrà mai più.

Cancellò l’evidenza del delitto sciacquando la vasca e tornò in camera sua. S’infilò soltanto un paio di calze e le mutande, più che sufficienti, con quel caldo, fino al momento in cui sarebbe uscito.

Qual era la seconda? Stella Gaylord, la ragazza di Madison Street. Poteva procedere in ordine cronologico. Il delitto di Lola Brent era avvenuto due mesi prima; quello della Gaylord dieci giorni prima. Mise la pila di giornali su una seggiola, accanto al letto, così da raggiungerli facilmente, e accomodò il cuscino contro la spalliera. E perché non avere un po’ di musica? Lo aiutava sempre a concentrarsi e, per qualche strana ragione, gli restava meglio impresso quel che leggeva, se lo leggeva con un accompagnamento musicale. Acquistava maggior vivezza. L’uso della musica in questo senso era l’unica novità che avessero scoperto i produttori cinematografici.

Esaminò gli album dei dischi, cercando quello che avrebbe potuto accompagnare l’assassinio di Stella Gaylord. Qualcosa di maestoso e misterioso, forse. Esitò sulla Sagra della primavera, ma proseguì. La Morte e Trasfigurazione di Strauss? La Patetica? No, meravigliosa, ma troppo potente. La sua mano tornò indietro alla Morte e Trasfigurazione. Sistemò i dischi e diede il via al giradischi, poi si sdraiò sul letto e prese il primo giornale di dieci giorni prima, con il resoconto della morte di Stella Gaylord.

Era in prima pagina, in alto a destra, un titolo in neretto, su una colonna:

IN UN VICOLO, RAGAZZA UCCISA A COLTELLATE.

Sweeney lesse il pezzo che seguiva e trovò che, data l’assoluta mancanza di particolari, avrebbero potuto anche mettere il titolo e basta. Oh, c’erano il nome della donna e l’indirizzo (West Madison Street) fra la State Street e la Dearborn. Il cadavere era stato rinvenuto alle tre e mezzo del mattino e, stando alle dichiarazioni del medico che aveva esaminato il corpo, la donna era morta da meno di un’ora. A quanto si poteva constatare, non si era trovata traccia di furto, e la vittima, con un divertito stupore da parte di Sweeney, evidentemente non era stata aggredita violentemente. La polizia sospettava che vi fosse in circolazione un pazzo omicida, sebbene il caso della Brent sembrasse dimenticato e non se ne facesse parola. Il numero seguente riproduceva una fotografia della Gaylord, ma se ne poteva ricavare soltanto l’impressione che doveva essere una bella ragazza. Vi era qualche altra notizia su di lei, compreso l’indirizzo del locale di West Madison Street dove lavorava a percentuale. Là era stata vista viva per l’ultima volta, quando ne era uscita, sola, alle due del mattino, un’ora prima che il suo cadavere venisse ritrovato. Per la prima volta l’assassinio di Stella veniva collegato con quello della Brent e si suggeriva la possibilità che uno stesso maniaco le avesse colpite entrambe. Nei giornali dei giorni successivi erano riportati alcuni particolari nuovi, ma la vicenda non aveva avuto alcuno sviluppo.

Sweeney si raddrizzò per fermare il giradischi e in quel gesto la vista della statuetta gli rammentò qualcosa che doveva fare. Infilò l’accappatoio e si recò al telefono nell’atrio.

Riuscì a farsi dare in pochi minuti dal centralino interurbano la Ganslen Art Company a Louisville, nella persona del suo direttore generale, Ralph Burke.

— Questo è il “Blade” di Chicago — disse Sweeney. — Pare che si sia venuti a scoprire un collegamento tra una delle vostre statuette e un assassinio, su cui si vanno facendo ricerche. Si tratta di una giovane donna atterrita e qualcuno di voi l’ha battezzata «La statua che urla».

— Ah, sì, certamente; ora la ricordo. Cosa vorreste sapere?

— Potete dirmi quante copie ne sono state vendute e in particolare quante nella città di Chicago?

— Non molte, che io sappia. Non è stato un oggetto di grande successo, tanto che non l’abbiamo neppure inclusa nel catalogo. Abbiamo fatto una prova con dodici dozzine, ma ci sono rimaste quasi tutte invendute. Ne abbiamo dato un campione a tutti i rappresentanti sei mesi fa, e qualcuno ne ha piazzato alcuni esemplari. Se attendete un minuto al telefono, posso guardare quante ne sono state vendute a Chicago. O volete che vi richiami io più tardi?

— Aspetto in linea — rispose Sweeney.

Non era trascorso più di un minuto che la voce del direttore risuonava al telefono. — Ho tutto qui con me. Per fortuna registriamo separatamente ogni articolo. Dunque… ce ne sono state soltanto due vendute a Chicago. Due sole ed entrambe a un negozio che si chiama “Da Raoul”. Tutt’insieme ne abbiamo vendute una quarantina. Volete i dati precisi?

— No, grazie — disse Sweeney — ditemi invece, per favore, che cosa ne farete delle cento statuette che vi rimangono?

— Ce ne libereremo l’anno venturo, con lotti misti di merce. Se un cliente ci ordina, per esempio, una dozzina di figurette varie a nostra scelta, le paga alla metà del prezzo di listino e noi ci liberiamo così dei residui e dei fondi di magazzino. Ci perdiamo, naturalmente, ma è sempre meglio che buttarle via.

— È evidente — disse Sweeney. — Ricordate chi ha trovato il nome «La statua che urla»?

— Il nostro contabile: per lui è una mania cercare dei nomi che accompagnino gli articoli, perché dice che lo aiuta a ricordare gli articoli stessi. — Il direttore fece una risatina. — Ogni tanto ne azzecca qualcuno a meraviglia: mi ricordo per esempio…

— Mi piacerebbe quasi ordinarvene una copia — lo interruppe Sweeney. — Ma torniamo alla statua. Chi l’ha disegnata o scolpita o modellata?

— Un tale che si chiama Chapman Wilson. Artista e scultore che vive a Brampton, nel Wisconsin. L’aveva modellata in creta.

— E ve l’ha mandata?

— No, l’ho comperata io da lui a Brampton. Sono io che mi occupo degli acquisti, durante i molti viaggi che faccio apposta nel corso dell’anno. Abbiamo un certo numero di artisti dai quali acquistiamo modelli ed è molto più pratico andare di persona nei loro studi a vedere che cos’hanno, piuttosto che avere qui in magazzino un monte di roba, di cui la maggior parte si dovrebbe poi rimandare indietro. «La statua che urla» l’ho comperata da lui un anno fa, insieme ad altre due figurine. Per le altre ho indovinato perché si vendono benissimo.

— Questo Chapman Wilson… ha copiato la statua dal vero o come?

— Non saprei; non gliel’ho domandato. L’originale era in creta, della stessa misura delle nostre copie, circa venticinque centimetri. Ho accettato il rischio di prenderla perché era diversa dal solito. L’insolito può avere un magnifico successo oppure essere un fallimento. È il rischio che corriamo noi.

— Non sapete nulla su Chapman, personalmente?

— Non molto. È piuttosto stravagante, ma quasi tutti gli artisti lo sono.

— È sposato?

— No. O almeno credo di no. Non gliel’ho domandato, ma non ho mai visto in casa sua una donna o qualche traccia femminile.

— Mi avete detto che è stravagante: potrebbe essere addirittura uno psicopatico?

— Credo di no. È un poco svaporato, e basta. La maggior parte della sua produzione è graziosa e normale e si vende benissimo.

— Grazie mille — disse Sweeney — credo di non avere altro da chiedervi. Arrivederci. — Si segnò le unità telefoniche, per sistemare i conti con la signora Randall, e tornò in camera.

Seduto sull’orlo del letto, guardava la statuetta nera: era stato più fortunato di quanto non avesse sperato. Soltanto due statuette erano state vendute a Chicago ed egli ne aveva una davanti agli occhi. L’altra… forse in quel momento la guardava lo Squartatore.

La fortuna degli irlandesi, pensò Sweeney: si occupava del caso da un giorno e aveva una traccia per cui i poliziotti avrebbero dato un occhio. Inoltre, si sentiva pronto per il compito che lo aspettava. Provava perfino un certo appetito, e sarebbe probabilmente riuscito quel giorno a inghiottire un intero pasto. Si tolse l’accappatoio e, appendendolo a un gancio, si stirò piacevolmente. Si sentiva più grande e sorrise alla statuetta, pensando: “Tu e io, piccola, siamo di un passo avanti alla polizia e tutto quel che dobbiamo fare è di trovare la tua sorellina”.

La statuetta continuò nel suo silenzioso urlo di terrore, e il sorriso di Sweeney disparve: in qualche angolo di Chicago, un’altra statuetta stava urlando come la sua e con miglior motivo. Era un pazzo armato di un coltello a possederla, un essere dalla mente contorta e dal rasoio diritto e affilato. Un essere che non avrebbe mai voluto che Sweeney lo scoprisse. Mentalmente Sweeney si scosse per allontanare quel pensiero e si voltò verso lo specchio sopra il lavabo, passandosi una mano sulla faccia. Doveva farsi la barba: nel pomeriggio avrebbe conosciuto Iolanda, se Doc Greene manteneva la parola. Aveva idea che l’avrebbe mantenuta. Stese in fuori la mano per osservarla: sì, era abbastanza ferma perché potesse farsi la barba col rasoio affilato senza tagliarsi. Prese sulla mensola il sapone da barba e il pennello, immerse questo nell’acqua bollente e si insaponò abbondantemente la faccia. Poi cercò il rasoio: non c’era, non era là dove sarebbe dovuto essere. La mano gli era rimasta a mezz’aria, sopra alla mensola, in una immobilità gelida, come l’urlo della statuetta, finché, con uno sforzo meditato, la ritirò. Chinandosi in avanti guardò con la massima attenzione e la massima incredulità un segno sul lieve strato di polvere che copriva la mensola, un segno identico alla forma del rasoio.

Ripulì con cura la faccia dal sapone con una salvietta bagnata e si vestì. Poi scese al piano inferiore. La porta della signora Randall era socchiusa. Lei lo chiamò. — Entri, signor Sweeney.

Sweeney si fermò sulla soglia. — Quando avete spolverato in camera mia, l’ultima volta?

— Be’… ieri mattina.

— Vi ricordate di aver visto… — Stava per domandarle se avesse scorto il rasoio al suo posto, poi si rese conto che non doveva domandarlo. Che la donna lo ricordasse o no, il segno fresco sulla polvere indicava che il rasoio era stato ancora là dopo il passaggio dello strofinaccio per la polvere. Allora cambiò la domanda. — È andato qualcuno in camera mia, ieri sera o ieri pomeriggio, dopo che ero uscito?

— No, perché? Non che io sappia con certezza, perché non c’ero. Sono stata al cinema. Vi manca qualcosa?

— Niente di valore — disse Sweeney — forse l’ho preso io quando ero ubriaco, l’ultima volta che sono entrato. Già… e voi non siete più andata in camera mia da ieri mattina?

— No. Anzi, uscite oggi? Vorrei rifarvi il letto e, se andate fuori, posso salire subito.

— Fra pochi minuti avrò sgombrato il campo. Grazie.

Tornò in camera e chiuse la porta, poi, acceso Un fiammifero, esaminò minutamente il segno sulla polvere: sì, c’era un velo lieve di polvere anche sulla forma del rasoio, un velo che aveva metà dello spessore di quello intorno. Quindi, dopo la spolveratura, il rasoio era rimasto ancora là: doveva essere stato asportato nel tardo pomeriggio o nella serata precedente.

Sedette in poltrona e cercò di ricostruire se avesse visto il rasoio quando era rientrato con la statuetta, o anche prima, quando era salito a cambiarsi gli abiti. Non ricordava di averlo visto, ma non lo aveva nemmeno cercato, perché si era sbarbato con il rasoio elettrico di Goetz, nella camera di Goetz.

Mancava forse qualcos’altro? Andò al cassettone e aprì il primo dei cassetti, dove conservava i piccoli oggetti vari. Tutto sembrava intatto, finché gli venne in mente un temperino a due lame che si sarebbe dovuto trovare dentro il cassetto. Ma che adesso non c’era.

Non mancava niente altro: vi erano in bella vista dei gemelli d’oro, che valevano tre o quattro volte il temperino. Vi era una spilla da cravatta con uno zircone, che a un ladro sarebbe potuto anche sembrare un diamante. Ma dal cassetto era stato sottratto solamente il temperino. E dalla stanza soltanto il rasoio.

Sweeney guardò la statuetta e capì quali dovessero essere i suoi sentimenti.