La rivelazione

L’equipaggio del Thanis arrivò a Nuova Middletown nel po­meriggio, e Kenniston, Carol insieme a tutti gli altri abitanti li videro insieme.

Erano una quarantina. Avevano un po’ l’atteggiamento abile ed efficiente dei marinai, che Kenniston aveva visto tante volte, ma i mari che questi solcavano erano le incalco­labili profondità dello spazio e avevano il viso abbronzato dai raggi di altri soli lontani. Venivano ora attraverso la pol­vere sollevata dal vento di questo mondo che li aveva gene­rati, e li aveva perduti, e vi erano fra loro anche quelli ai quali aveva accennato Piers Eglin... gli strani figli di altri pianeti.

Kenniston aveva cercato di spiegare a Carol l’aspetto di questi esseri. Carol infatti non aveva visto, al disopra della folla, che la testa di Gorr Holl e le sue orecchie pelose; ella aveva supposto, come gli altri, che si trattasse di una specie di animale domestico. Kenniston non era tuttavia molto si­curo di essersi fatto capire a sufficienza dalla ragazza.

«Ma se vengono da Vega» aveva detto Carol, rabbrivi­dendo e guardando il cielo profondo nel quale le stelle scintillavano anche in pieno giorno «se vengono da Vega, Ken, non possono essere come noi. Nessuna creatura umana po­trebbe più essere come noi, dopo tanta lontananza.»

Kenniston rimase colpito nel sentire i suoi stessi pensieri espressi dalla fanciulla, ma disse, in tono rassicurante: «Non possono aver mutato molto, immagino. E gli altri, gli... uma­noidi, potranno avere un aspetto molto strano, ma saranno comunque nostri amici.»

Si trattava proprio della medesima cosa che il sindaco Garris aveva annunciato alla popolazione.

«Qualunque sia l’aspetto dei nuovi venuti, debbono esse­re trattati col dovuto rispetto. Una buona prigione sarà desti­nata a chiunque li disturbi. Avete capito bene? Qualunque sia il loro aspetto, dovrete trattarli come se fossero uomini!»

Ma sentire è una cosa, e vedere è un’altra. E ora, le dita di Carol stringevano convulsamente la mano di Kenniston e il corpo di lei si stringeva spaventato a quello di lui. La folla, che si era radunata per assistere a quel secondo ingresso de­gli incredibili visitatori, rimase ora sbalordita, stupefatta, at­territa. Si udivano bisbigli sommessi, si vedevano persone appartarsi timorose.

Uno di quegli esseri era grosso e pesante, e procedeva on­deggiando sulle gambe massicce. La sua pelle, grigia e rugo­sa, ricadeva in grosse e pesanti pieghe. Il viso era largo e piat­to, senza espressione, con occhi piccoli e saggi, da vecchio, che guardavano con acuta comprensione la folla attonita e silenziosa al suo passaggio.

Altri due, invece, erano magri e scuri, e si muovevano co­me cospiratori, avvolti in mantelli neri. La loro testa sottile era senza peli e lo sguardo era intelligente ed espressivo. Kenniston si accorse di colpo, con un sussulto di raccapric­cio, che quei mantelli non erano altro che ali, che essi teneva­no strette attorno al corpo.

Ve n’era un altro, che aveva una grazia tutta particolare e sembrava che scivolasse, invece di camminare. Dava subito l’idea di forza e il suo portamento era sprezzante e orgoglio­so. Era molto bello, con una criniera di pelliccia, bianca co­me la neve, che gli partiva dalla fronte, e aveva una sottile espressione di crudeltà.

Questi quattro, e in più Gorr Holl che la folla aveva già vi­sto, erano simili a uomini, ma non erano uomini. Erano figli di altri mondi lontanissimi, e camminavano ora, con piena disinvoltura, sulla vecchia Terra.

«Ma sono orribili!» bisbigliò Carol, tirandosi indietro. «Sono perfino sacrileghi. Come puoi sopportare di stare vi­cino a questi esseri?»

Kenniston lottava egli stesso contro un sentimento di re­pulsione. Gli abitanti di Middletown guardavano a bocca aperta, bisbigliando turbati e arretrando, in parte per un sen­timento di timore nei confronti del soprannaturale, in parte per una pura avversione razziale. Era difficile ammettere che quegli esseri non umani esistessero, ma ancora più difficile era l’accettarli come eguali, come propri simili. Un animale era un animale e un uomo era un uomo, e non vi poteva esse­re alcuna via di mezzo...

Diversamente la pensavano i bambini di Middletown. Essi trascuravano del tutto gli uomini veri e propri che passavano abbronzati davanti a loro, e si affollavano invece attorno agli umanoidi. I bambini non avevano nessuno dei preconcetti dei loro genitori. Quelle erano per loro creature da fiaba di­venute realtà, e ciò li eccitava molto.

Piers Eglin si avvicinò a Kenniston.

«Hubble ha fatto aprire le sale dei generatori atomici» disse Kenniston. «Ci attende là. Vi condurrò io.»

Egli sospirò.

«Grazie!» disse. Aveva un’aria infelice. Kenniston sa­lutò in fretta Carol e si incamminò a fianco dello storico.

«C’è qualche cosa che non va?» gli domandò.

«Ho avuto ordini» spiegò Piers Eglin. «Debbo fare da interprete e debbo insegnare ad alcuni di voi la nostra lingua.» Scosse il capo deluso. «Ci vorranno molti gior­ni, e quella vostra vecchia città... Avrei già dovuto essere là da tempo, a visitarla, e invece...»

Kenniston sorrise.

«Cercherò di imparare presto» disse.

Si avviarono verso il punto in cui Hubble aspettava, e Ken­niston poteva sentire dietro di sé i passi inconsueti di quegli altri individui che non erano umani. Gli sembrava incredibi­le, dover lavorare a fianco di quegli esseri che gli davano un brivido ogni volta che passava loro vicino. Certamente non potevano comportarsi come uomini!

Entrarono nell’edificio, poi in una enorme sala piena di strutture torreggianti e polverose che racchiudevano i mec­canismi che né lui né Hubble erano riusciti a comprendere e a usare. Hubble si unì a loro, guardando incuriosito gli uma­noidi.

«Abbiamo supposto che questi fossero i generatori ato­mici principali» disse Kenniston. Parlava a Piers Eglin, in quanto questi doveva tradurre, ma guardava Gorr Holl e gli altri quattro che stavano ritti accanto a lui. «Se potete dav­vero ripararli e metterli in funzione, noi...»

Ma si interruppe. Quelle cinque paia di occhi, strani e so­prannaturali, lo osservavano; Kenniston vedeva i loro cinque corpi respirare e agitarsi. La cresta di pelliccia bianca sul cranio di quello dall’aria più orgogliosa si rizzò d’un tratto, in modo talmente animalesco che Kenniston capì quanto fosse impossibile tentare di considerarli esseri umani. Il dubbio, il disgusto, e anche un certo timore, gli si dipinsero sul viso. Piers Eglin aggrottò un poco la fronte.

Lavorando attorno ai polverosi generatori atomici, Gorr Holl si trasformò immediatamente da essere assurdo in un tecnico di alta abilità. Facendo funzionare certe leve nasco­ste, aprì il pannello di copertura di uno dei grossi meccani­smi, prima che Kenniston potesse capire come avesse fatto. Poi da una borsa appesa al finimento di cui era vestito, estrasse una lampada e, facendosi luce, ficcò la testa pelosa dentro il meccanismo. Lo si udiva borbottare fra sé qualche cosa, in tono di disapprovazione. Infine, Gorr Holl ritirò la testa dal meccanismo e parlò in modo disgustato. Eglin tra­dusse, nel suo inglese stentato.

«Dice che questo vecchio impianto è stato malamente progettato e si trova in cattive condizioni. Dice che vorrebbe avere tra le mani i tecnici che lo hanno costruito.»

Kenniston scoppiò in una risata. Quel grosso Gorr Holl as­somigliava in tutto a un autentico tecnico riparatore della Terra.

Mentre Gorr Holl esaminava gli altri generatori, Piers Eglin subissava Hubble e Kenniston di domande sul loro tempo lontano. Kenniston riuscì finalmente a fargli, a sua volta, una domanda che gli premeva molto ma che né lui né Hubble avevano ancora potuto fare.

«Ma perché la Terra è ora senza vita? Che è accaduto a tutti i suoi abitanti?»

«Molto tempo fa» disse Piers Eglin «gli abitanti della Terra sono emigrati in altri mondi. Ma non sugli altri pianeti del sistema solare: anche questi erano freddi e Venere era troppo coperta di acque e disponeva di troppo poca superfi­cie solida. Sono perciò andati nei mondi di altre stelle, al di là della Galassia.»

«Ma alcuni di loro saranno pur rimasti sulla Terra» obiettò Kenniston.

«Lo hanno fatto» rispose Eglin, scuotendo le spalle «finché la temperatura è divenuta così fredda che anche in queste città coperte da una cupola la vita è divenuta dif­ficile. Allora, anche gli ultimi uomini se ne andarono verso mondi che avevano soli più caldi.»

«Nella nostra epoca non eravamo nemmeno riusciti a raggiungere la Luna» disse Kenniston. Tutto quel racconto gli dava le vertigini. “Nei mondi di altre stelle, al di là della Galassia...” aveva detto Eglin.

Gorr Holl si riavvicinò infine a loro, e parlò a lungo. Eglin tradusse.

«Crede che sia possibile rimettere nuovamente in azione i generatori. Ma ci vorrà tempo, e avrà bisogno di materiale: rame, magnesio, anche platino.»

Kenniston e Hubble ascoltarono attentamente le spiega­zioni di Eglin. Poi Hubble fece un cenno affermativo col ca­po, e disse: «Potremo trovare tutte queste cose nella vecchia Middletown.»

«La vecchia città?» gridò Piers Eglin, improvvisamente entusiasta. «Verrò sicuramente con voi! Partiremo subito!»

Il piccolo e magro storico era pazzo di gioia, alla pro­spettiva di poter dare finalmente un’occhiata alla vecchia città. Continuò a insistere finché lui, Hubble e Kenniston non partirono in jeep attraverso la desolata pianura color ocra.

«Vedrò finalmente, proprio coi miei occhi, una città del­l’era preatomica!» diceva esultante.

Era una cosa piuttosto strana, arrivare alla vecchia Midd­letown così deserta e silenziosa, in mezzo a tutta quella deso­lazione. Le case erano ancora come le avevano lasciate, con le porte e le finestre sbarrate. Le strade erano invase da uno spesso strato di polvere. Gli alberi erano nudi e anche l’ulti­mo filo d’erba era ormai morto.

Kenniston vide che Hubble aveva gli occhi umidi e sentì che anche il suo cuore si contraeva in una terribile e ango­sciosa nostalgia. Si pentì di essere tornato là. Trovandosi nel­l’altra città, assorbito nello sforzo di sopravvivere, poteva al­meno dimenticare quale era stata la sua vita di prima.

Guidava la jeep attraverso quelle strade, silenziose e mor­te, e la memoria gli parlava di lontane estati... ragazze in vesti vivaci, alberi carichi di fiori, il gridìo dei passeri, le luci, i suo­ni delle voci umane nella sera sonnolenta...

Piers Eglin era ammutolito per la meraviglia. Era come perduto in un suo sogno di storico, che ora si avverava. Di­sceso dalla macchina, camminava per le strade e spiava nei negozi e nelle case.

«Dev’essere tutto conservato» bisbigliò. «È troppo prezioso, tutto questo. Farò costruire una cupola per difen­dere tutta la città dalle intemperie e dal tempo, e farò sigilla­re la cupola... Quante cose...! Le insegne, i manufatti, i bellis­simi pezzi di carta...!»

«C’è qualcuno qui» disse Hubble, d’improvviso.

Kenniston vide che, davanti a loro, vicino alla porta dei vecchi Laboratori, era ferma una specie di vettura molto pic­cola, a forma di proiettile.

Dall’edificio uscivano in quel momento Norden Lund e Varn Allan.

La donna parlò a Eglin, e questi tradusse: «Stavano rac­cogliendo dati per la loro relazione al Governo centrale.»

Kenniston scorse un’espressione di disgusto nel viso in­telligente della giovane donna, mentre i suoi occhi azzurri osservavano il panorama dei vecchi stabilimenti, le cimi­niere scure annerite dal fumo, le ringhiere arrugginite, le piccole e modeste case allineate sulle strade anguste. Ne provò un acuto risentimento, e disse, quasi in tono di sfi­da: «Domandatele che ne pensa della nostra piccola città.»

Eglin fece la domanda e Varn Allan rispose con parole incisive. Il piccolo storico apparve imbarazzato, quando Kenniston gli domandò di tradurre la risposta. Egli esitò. Infine disse: «Varn Allan dice che è incredibile che esseri umani abbiano potuto vivere in un posto così misero e sor­dido.»

Lund scoppiò a ridere. Kenniston arrossì violentemente, e per un attimo detestò quella donna. La detestò per quella sua fredda, imperiosa superiorità. Guardava la vecchia Middletown come avrebbe potuto guardare uno sporco antro di scimmie.

Hubble vide ciò che passava nell’animo di Kenniston, e gli mise una mano sul braccio.

«Vieni, Ken. Abbiamo del lavoro da fare.»

Kenniston seguì il suo superiore nei Laboratori, mentre Piers Eglin li accompagnava.

«Ma perché hanno messo quella bionda altezzosa a capo della loro spedizione?» domandò Kenniston.

«Probabilmente perché era competente a farlo» rispo­se Hubble. «Non mi vorrai far credere che sei tormentato da un atavico orgoglio mascolino?»

Piers Eglin aveva capito ciò che dicevano, perché si mise a ridere.

«Non è un sentimento così atavico come credete. Anche a Norden Lund non piace affatto essere agli ordini di una ra­gazza.»

Quando uscirono dall’edificio coi materiali che occorreva­no a Gorr Holl, Varn Allan e Norden Lund se n’erano già an­dati.

Al loro ritorno, trovarono che Gorr Holl e i suoi compagni si erano già messi al lavoro e stavano smontando i generato­ri. Lanciando ordini a destra e a sinistra, attaccando ogni ge­neratore come se fosse un suo personale nemico, Gorr Holl riusciva a ottenere miracoli da quegli strani tecnici che lo ac­compagnavano.

Kenniston, nei giorni che seguirono, dimenticò ogni im­pressione di stranezza e di imbarazzo, nell’intenso interesse tecnico del lavoro. Lavorava come poteva; mangiava e dor­miva con quei suoi strani colleghi e cominciò ad apprendere la loro lingua con sorprendente rapidità. Piers Eglin lo aiuta­va con molta sollecitudine e, dopo che Kenniston ebbe sco­perto le analogie tra la loro lingua e l’inglese, le cose andaro­no assai più speditamente.

Si accorse, un giorno, che lavorava con gli umanoidi nel modo più naturale del mondo, come se lo avesse sempre fat­to. Non gli sembrava più tanto strano, ora, che Magro, quel­l’essere elegante con la criniera bianca, fosse un esperto di elettronica il cui rapido e preciso lavoro lasciava Kenniston a bocca aperta.

I due fratelli alati, Ban e Bal, erano veri maestri nel lavoro di riparazione. Kenniston invidiava la loro abilità nel rimet­tere a nuovo le parti logorate, la facilità con la quale i loro agili corpi si levavano in volo, come pipistrelli, per raggiun­gere i punti più alti degli apparecchi atomici, dove agli uomi­ni normali non era possibile giungere.

Lal’lor, il vecchio grigio dal corpo massiccio, che parlava poco ma vedeva molto coi suoi occhi piccoli e saggi, possede­va un genio matematico stupefacente. Kenniston se ne accorse, quando Lallor si recò con lui, Hubble e Piers Eglin, a dare un’occhiata al grande pozzo calorifico.

Lo storico disse che il pozzo scendeva probabilmente fino alle più lontane profondità della Terra.

«È stata una grande opera. Sia questa, sia gli altri pozzi costruiti nelle città protette da cupole hanno conservato la Terra abitabile per molte epoche, più di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Ma ormai non si può più ricavare calore dalle profondità della Terra.» Così dicendo sospirò. «Que­sto è il destino di tutti i pianeti, presto o tardi. Anche quando i loro soli si sono affievoliti, possono vivere fintanto che il ca­lore interno li mantiene caldi. Ma quando quel calore interno muore, il pianeta deve essere abbandonato.»

Lal’lor parlò allora, con la sua voce profonda e gutturale.

«Ma Jon Arnol, come sapete, afferma che un pianeta morto e freddo può essere fatto rivivere. E le sue equazioni sono inattaccabili.»

E il grosso e grigio umanoide ripeté di punto in bianco tut­ta una serie vertiginosa di equazioni, alla quale Kenniston non poté nemmeno tener dietro.

Piers Eglin, per qualche ragione speciale, parve strana­mente imbarazzato. Evitando gli occhi di Lal’lor, disse allora in fretta: «Jon Arnol è un entusiasta, un teorico fanatico. Sapete bene ciò che è accaduto, quando ha voluto tentare un esperimento.»

Non appena Kenniston poté farsi comprendere nella nuo­va lingua, Piers Eglin considerò finito il suo compito e partì per la vecchia Middletown, a rabbrividire e congelare alle­gramente fra i tesori arcaici che ivi abbondavano in ogni strada. Lasciato solo con gli umanoidi interplanetari, Kenni­ston si accorse che dimenticava sempre più ogni diversità di epoca e di cultura nonché di razza, mentre lavorava con loro a ricondurre la vita nelle arterie energetiche della città.

Rimisero così in pieno funzionamento il sistema di rifor­nimento idrico di Nuova Middletown, e il lusso di poter apri­re quegli strani rubinetti e vederne sgorgare l’acqua in quan­tità illimitata era una cosa veramente stupenda. Molti dei grandi generatori atomici ripresero finalmente a funzionare, compreso un gigantesco sistema di riscaldamento ausiliario che fece aumentare di parecchi gradi la temperatura dell’aria sotto la cupola. Ma Gorr Holl e Magro lavoravano sodo per realizzare il miracolo definitivo.

Giunse così una sera in cui Gorr Holl chiamò Kenniston in una delle sale dei generatori più grandi. Magro e altri tec­nici della nave spaziale erano pure riuniti là dentro, sporchi di polvere e di grasso, ma sorridenti per aver finalmente compiuto un difficile lavoro. Gorr Holl mostrò a Kenniston una finestra.

«Affacciati a quella finestra» gli disse «e sta’ a guar­dare.»

Kenniston guardò fuori, sulla città in penombra. Non vi era Luna e le grandi torri dei palazzi erano ormai avviluppa­te nell’oscurità, mentre le gole profonde delle strade erano qua e là illuminate dal debole chiarore di qualche candela e dalle poche lampadine elettriche che splendevano attorno al Municipio.

Gorr Holl attraversò la sala, e si avvicinò a un enorme qua­dro di comandi che occupava fino a metà altezza la parete. Si udì uno scatto, mentre un commutatore veniva chiuso, e d’improvviso su tutta quella vasta città immersa nel buio del­la notte, dilagò una luce brillantissima.

Le torri degli edifici si accesero di un bagliore accecante. Le strade divennero fiumi di luce radiante, morbida e chia­ra, e al disopra di tutto ciò apparve un nuovo cielo nottur­no... Era la meravigliosa luminescenza della cupola che, co­me una grande bolla, decorata a raggi lunari e a nubi varia­mente colorate, incoronava le torri scintillanti degli edifici, in una apoteosi di luce. Era una cosa talmente strana e tal­mente bella, dopo quel lungo periodo di oscurità e di ombre, che Kenniston rimase a lungo immobile a guardare quel mi­racolo di luce; si accorse solo più tardi di avere le lacrime agli occhi.

La città dormiente si svegliò. Gli abitanti si riversarono nelle strade brillantemente illuminate, e il suono delle loro voci si levò altissimo, fino a divenire un lungo grido di gioia. Kenniston si volse a Gorr Holl, a Magro e agli altri. Voleva dir loro qualche cosa, ma non poteva trovare le parole. Infine scoppiò a ridere, felice, ed essi risero con lui, e uscirono poi tutti insieme nelle strade illuminate.

Incontrarono quasi subito il sindaco Garris che veniva di corsa dal Municipio. Erano con lui Hubble e quasi tutti gli appartenenti ai vecchi Laboratori, nonché una vera folla di abitanti. Senza tanti preamboli Gorr Holl, Magro e gli altri membri dell’equipaggio della nave spaziale si trovarono issa­ti sulle spalle degli abitanti più entusiasti e portati in proces­sione trionfale attorno alla piazza, mentre le urla e gli applausi divenivano assordanti. Più ancora dell’acqua, più an­cora del calore, la folla apprezzava quell’immenso dono della luce. E da quella notte accettarono e accolsero tutti gli uma­noidi come fratelli.

Più tardi, una festosa riunione ebbe luogo in Municipio. Vi erano Gorr Holl e Magro, Kenniston, Hubble e il sindaco. Bertram Garris prese la grossa mano di Gorr Holl e, sorri­dendo anche a Magro, cercò di esprimere i suoi ringrazia­menti per tutto ciò che essi e gli altri avevano fatto. Gorr Holl ascoltava, sorridendo.

«Cosa dice?» domandò a Kenniston che fungeva ora da’ interprete.

Kenniston scoppiò in una risata.

«Vuol sapere che cosa deve fare per mostrarti la sua gra­titudine: come per esempio regalarti la città, darti sua figlia in moglie, oppure qualche pinta del suo sangue. Ma, parlan­do seriamente, Gorr, ti siamo tutti molto grati. Col vostro la­voro avete fatto nuovamente rivivere la città, e... be’, vi è qualche cosa che possiamo fare per dimostrarvi la nostra gratitudine?»

Gorr Holl pensò un poco. Guardò Magro e questi fece col capo un solenne cenno di approvazione. Allora, Gorr Holl disse: «Ebbene, essendo primitivi come noi siamo, ci fareb­be piacere un buon brindisi!»

Hubble, che aveva frattanto imparato qualche cosa della lingua, diede in una risata. Kenniston tradusse al sindaco le parole di Gorr Holl e il sindaco, rinunciando immediatamen­te a ogni restrizione, corse a prendere alcune bottiglie dal mobile che era stato adibito a credenza. Fu una lieta celebra­zione, e Kenniston sentì veramente la mancanza di Bal e Ban e del grigio Lal’lor, che erano ritornati alla nave spaziale il giorno prima.

Con una infelice ispirazione, Kenniston disse, allora: «Ri­tengo che partirete presto tutti, ora che il lavoro è finito.»

Magro scosse le spalle.

«Questo dipenderà da molte cose» replicò, guardando ironicamente Gorr Holl.

Gorr Holl era ormai un poco ubriaco; non molto, ma quel tanto da farlo stare allegro e farlo parlare ad alta voce. Anche il sindaco si sentiva a suo agio e batteva amichevolmente una mano sulla grossa spalla pelosa di Gorr Holl.

«Desidero farvi capire» diceva sinceramente Garris «quanto io sia spiacente per quella stupida accoglienza che vi ho fatto all’inizio. Siamo tutti spiacenti, per quella stupida accoglienza, pensando a quanto bene ci avete fatto.»

«Be’, non abbiamo fatto gran che» rispose Gorr Holl quando Kenniston gli ebbe tradotto le parole del sindaco. «Ma la luce e tutto il resto serviranno a farvi stare più a vostro agio, mentre attendete.»

Kenniston lo guardò stupito.

«Che vuoi dire... mentre attendete?»

«Ma... mentre attendete di essere evacuati, naturalmen­te» disse Gorr.

Vi fu un improvviso silenzio. Kenniston si sentì d’un tratto i nervi stranamente tesi. Sapeva che quella era la rivelazione che egli aspettava da tempo, una rivelazione per nulla piace­vole che egli temeva da tempo.

«Gorr» disse lentamente, cautamente «non riusciamo a capire ciò che hai detto. Che cosa è questa storia dell’eva­cuazione?»

Il grosso Gorr Holl lo guardò fisso, con una viva sorpresa nei grandi occhi scuri e nel viso da orso. Ma, d’un tratto, par­ve a Kenniston di capire che quella sorpresa non fosse del tutto sincera e che Gorr Holl avesse voluto rivelare quella no­tizia per osservare la loro reazione.

«Ma non vi ha detto nulla, Piers Eglin?» chiese Gorr Holl. «Già, non credo. Credo che abbia avuto istruzioni di non dirvi nulla. Hanno creduto che voi foste esseri troppo emotivi, come Magro e me, e che meno penserete a questo, meglio sarà per voi.»

Kenniston ripeté, lentamente, con voce ferma: «Che cosa intendi per evacuazione?»

Gorr Holl lo guardava ora fisso negli occhi, lealmente.

«Voglio dire semplicemente questo: che, per ordine dei Governatori, tutti voi sarete evacuati dalla Terra, per essere trasportati su di un altro pianeta.»