Middletown decide

Coi nervi tesi, Kenniston attraversò la polvere e la desolazio­ne della pianura, verso la lucida cupola di Nuova Middle­town. Erano con lui Arnol e il grosso Gorr Holl. Tutto era come prima, come lo ricordava: il vento gelido e il sole rossa­stro, con la sua orbita cinta da una breve corona di raggi.

«Perfetto!» mormorò Arnol. «Perfetto! Proprio il mondo che io ho sempre sognato per compiere la mia prova!»

«Eccoli! Vengono!» disse Gorr Holl, indicando la gran­de porta della città.

Le guardie armate avevano riconosciuto Kenniston e Gorr Holl. La notizia si era immediatamente diffusa, e gli abitanti si riversavano fuori della porta, per andare loro incontro.

Dopo pochi secondi erano già circondati da una grossa folla che gridava e acclamava, tutta eccitata. Kenniston ri­conobbe visi a lui noti... Bud Martin, John Borzak, Lauber, e altri.

La figura torreggiante di McLain si avvicinò a lui, tra la folla.

«Che è accaduto lassù, Kenniston?» domandò.

«Sì! Sì. Qual è il verdetto?» gridò un’altra voce. E un’al­tra ancora: «Ci lasceranno star qui, dunque?»

Kenniston alzò la voce per farsi udire dalla folla.

«Tutti alla piazza!» gridò. «Passate la parola anche agli altri. Vi dirò tutto sulla piazza, quando sarete riuniti.»

«In piazza! In piazza!» gridarono allora tutti.

Alcuni cominciarono a tornare di corsa verso la città, per portare la notizia attraverso le strade. Altri circondarono Gorr Holl, lieti di rivederlo. Molti guardarono curiosamente Jon Arnol, chiedendo chi fosse, ma Kenniston scosse il capo. Quella storia sarebbe stata tutt’altro che facile da spiegare, e non voleva ripeterla due volte.

Cercò nella folla il viso di Carol. Desiderava molto veder­la... eppure, nel profondo della sua mente, in qualche modo indistinto, provava una strana riluttanza a incontrarla, a tro­varsi nuovamente con lei, e non ne capiva il perché. Ma non la vide. Avrebbe dovuto sapere che non si sarebbe avventura­ta in mezzo a quella folla eccitata.

Il sindaco Garris si precipitò verso di lui sulla porta della città, precedendo Hubble e alcuni membri del consiglio mu­nicipale.

«Avete messo a posto le cose, Kenniston?» gridò. «Hanno capito, lassù, ciò che volevamo?»

«Farò il mio rapporto nella piazza, dove tutti potranno udire» rispose Kenniston.

Il sindaco gli diede un’occhiata ansiosa e preoccupata, quasi spaventata, e si fece in disparte. Kenniston afferrò Hubble per un braccio.

«Ho bisogno di parlarti, Hubble» disse. «Ho fatto qualche cosa, e non so...»

Parlò rapidamente, a bassa voce, allo scienziato anziano, mentre percorrevano le strade che conducevano alla piazza.

La reazione di Hubble fu identica a quella di Kenniston quando aveva udito per la prima volta il progetto. Arretrò spaventato, impallidendo di colpo.

«Per l’amor del Cielo, Ken! È una cosa... pazzesca, peri­colosa...»

Ma, mentre ascoltava ulteriori chiarimenti, la sua espres­sione di allarme si mutò in un’altra, di grave attenzione, e in­fine in un acuto interesse.

«Sì, sembra una cosa perfettamente logica, anche secon­do i principi della nostra stessa scienza fisica.» Guardò Jon Arnol. «Se potessi soltanto parlargli chiaro...»

«Non servirebbe a nulla» disse Kenniston seccamen­te. «È proprio questo il punto più terribile. La sua scienza è milioni di anni più avanti di ogni nostra concezione scientifica.»

Hubble si volse a Gorr Holl. Aveva lavorato a fianco di quel grosso gigante peloso, lo conosceva e aveva fiducia nella sua abilità e perizia come tecnico atomico.

«Riuscirà Arnol nel suo procedimento?» gli domandò, ansioso.

«Credo nel suo procedimento quanto basta per rischiare la mia vita per aiutarlo» disse Gorr Holl semplicemente.

Kenniston tradusse la frase, e Hubble parve rassicurato.

«Mi sembra ancora un grosso rischio, Ken» disse. «Ma... a ogni modo vale la pena di tentare.»

Dopo pochi minuti Kenniston salì i gradini del Municipio e rimase zitto, davanti al microfono.

Di fronte a lui, a migliaia, erano affollati gli abitanti di Middletown... era tutto un caleidoscopio di visi ansiosi, ecci­tati, frementi nell’attesa.

Quello era il momento a cui aveva tanto pensato... il mo­mento che aveva spesso temuto di non poter sopportare. Di­re quella cosa era assai più duro di quanto immaginasse. Ep­pure occorreva dirle, quelle parole.

Non sarebbe servito a nulla usare precauzioni, dire la ve­rità a poco a poco. La disse, invece, quasi brutalmente.

«La decisione è contro di noi. Hanno detto che dobbia­mo andarcene.»

Ascoltò il clamore furente che accolse quelle parole, le gri­da irate di tutta quella folla esasperata fino al parossismo.

Il sindaco Garris espresse con la sua voce, alta e tremante, l’appassionata reazione di tutta Middletown.

«Non lasceremo la Terra! E se vogliono spingerci a com­battere, combatteremo!»

Kenniston alzò le mani, chiedendo silenzio.

«Aspettate!» gridò nel microfono. «Ascoltate! Forse non vi sarà alcun bisogno che ve ne andiate dalla Terra, e for­se non vi sarà alcun bisogno che combattiate. Vi è ancora una possibilità...»

Spiegò loro, nel modo più semplice e cauto che poteva, il grande esperimento che veniva proposto da Jon Arnol.

«La Terra diventerà calda nuovamente... forse non così calda come prima, ma abbastanza perché possiate viverci comodamente per tutto il tempo futuro.»

Vi fu un grande silenzio. Kenniston sapeva che quel pro­getto era troppo enorme perché potessero assimilarlo subito. Ma cercavano di comprendere il senso di quanto egli aveva esposto. Il significato planetario di quel concetto non poteva­no capirlo: dovevano avere il tempo per riportarlo a una di­mensione più modesta, che potessero afferrare.

Infine John Borzak si fece avanti, con quel suo viso rozzo e squadrato, dai capelli grigi, di uomo che aveva passato la vita lavorando duramente. «Sentite un po’, signor Kenni­ston» disse. «Volete dire che potremmo, allora, ritornare a Middletown?»

«Sì!» rispose Kenniston.

Dalla folla si alzò allora un applauso che scosse gli alti edi­fici delle fondamenta.

«Tornare a Middletown? Avete sentito? Potremo tornare a Middletown!»

Kenniston ne fu enormemente commosso. Per loro, il ri­dare la vita a un pianeta significava soprattutto una cosa: la possibilità di ritornare alla piccola e modesta città, al di là delle colline, la città che per loro significava ancora una casa.

Alzò le mani, nuovamente, per chiedere silenzio.

«Debbo però avvertirvi» aggiunse. «Questo esperi­mento non è mai stato tentato, sinora, su un mondo come la Terra. È anche possibile che non abbia successo. Se così fos­se, la Terra potrebbe anche essere distrutta da terremoti.»

La folla rimase in silenzio. Kenniston poteva vedere il ti­more sui loro visi, vedeva che si parlavano l’un l’altro, scuote­vano la testa e si guardavano ansiosi attorno.

Infine, una voce gridò: «Che cosa ne pensate, voi e il dot­tor Hubble? Siete scienziati. Qual è il vostro parere?»

Kenniston esitò. Poi disse, lentamente:

«Se io fossi solo, sulla Terra, tenterei. Ma non vi posso dare un consiglio. Dovete prendere da soli la vostra deci­sione.»

Hubble intervenne, parlando nel microfono: «Non pos­siamo darvi un consiglio, perché noi stessi non sappiamo va­lutare la fondatezza scientifica di questo esperimento. Ci tro­viamo di fronte a una scienza che è al di là delle nostre possi­bilità di comprensione. Non possiamo che accettare ciò che i loro scienziati affermano, sulla loro parola.»

Hubble fece una pausa, poi proseguì: «I loro scienziati affermano che la loro teoria è assolutamente esatta. Noi vi abbiamo avvertiti della possibilità di un insuccesso. Il rischio è grande, ma siete voi che dovete decidere se volete affrontar­lo, oppure no.»

Kenniston si rivolse al sindaco Garris, e gli disse: «Av­vertiteli anche voi, che debbono riflettere intensamente, prima di decidere. Poi si farà una votazione... Quelli che sa­ranno in favore del tentativo si raggrupperanno sul lato op­posto.»

E volgendosi a Hubble, aggiunse: «Occorrerebbe dare lo­ro dei mesi, per fare una scelta del genere, invece che pochi minuti!»

Allora, il sindaco Garris esortò i cittadini a esporre la loro decisione. La folla ondeggiò e si rimescolò nella piazza, mentre si formavano gruppi e si scambiavano opinioni. Frammenti di conversazioni accalorate giungevano sino agli orecchi di Kenniston: «Quei tecnici venuti dalle stelle si sono comportati molto bene. Hanno rimesso in attività tutta la città e i suoi impianti. Sanno di sicuro ciò che stanno facendo!»

«Ma... non so. E se quell’esperimento provocasse terribi­li terremoti?»

«Quella gente sa il fatto suo! E dev’essere così, se sono riusciti a vivere nelle stelle!»

«Già! Proprio così! Ma preferirei rimanere qui, anche in mezzo ai terremoti, piuttosto di andarmene a zonzo per la Via Lattea!»

Alla fine, il sindaco Garris gridò: «Siete pronti per il voto?»

Erano pronti. Erano sempre stati pronti a qualsiasi even­tualità, pur di non lasciare la Terra.

Kenniston attese, scrutando la folla, col cuore che gli bat­teva forte. Al suo fianco, anche Jon Arnol osservava ansiosa­mente. Kenniston gli aveva spiegato come avrebbe avuto luo­go il voto. Sapeva ciò che in quel momento Jon Arnol prova­va, mentre attendeva che tutto il lavoro della sua vita fosse deciso da quel voto.

Per un poco, i moti della folla non furono che un caotico rimescolio. Poi, gradatamente, il movimento di separazione si accentuò.

Quelli in favore dell’esperimento, alla destra della piazza...

Quelli contro l’esperimento, alla sinistra...

Lo spazio tra le due fazioni si allargò sempre più netta­mente. Kenniston vide alla fine che, a sinistra della piazza, non rimanevano che un paio di centinaia di persone circa.

Il voto si era concluso. L’esperimento era stato approvato.

Kenniston si sentì tremare le ginocchia. Guardò Arnol. Il suo viso era contratto dal sollievo e dalla gioia. Egli stesso provava un’eccitazione selvaggia... eppure, anche ora, persi­no ora, non riusciva a soffocare i timori.

Ora tutto dipendeva da lui, da Arnol e dai suoi uomini. La vita o la morte dipendevano da loro.

Afferrato il microfono, gridò ancora: «Dobbiamo proce­dere all’esperimento il più presto possibile. Abbiamo pochis­simo tempo davanti a noi, prima che le navi spaziali della Fe­derazione vengano a impedirci di agire. Prego tutti voi di prepararvi a lasciare la città immediatamente, con un preav­viso di pochi minuti. Per precauzione, nessuno deve rimane­re sotto la cupola della città quando la bomba verrà fatta esplodere. Quelli di voi che hanno votato contro, potranno lasciare la Terra prima che l’esperimento abbia luogo. L’in­crociatore spaziale col quale siamo venuti ne potrà traspor­tare lontano solo una parte, perciò tirerete a sorte, fra voi, co­loro che dovranno salirvi.»

Si volse di scatto verso il sindaco.

«Volete incaricarvi voi del resto?» disse. «Organizzate voi l’evacuazione della città e la partenza... Noi avremo biso­gno di ogni minuto che ancora ci resta!»

«Credo» osservò Hubble «che faremo bene a mostrare subito ad Arnol il pozzo che immette nelle profondità del­la Terra.»

Il personale tecnico di Arnol era frattanto giunto sul po­sto. I tecnici studiarono il grande pozzo, insieme ad Arnol, Gorr Holl e Magro, mentre Kenniston e Hubble attendevano il loro giudizio.

«Va benissimo!» disse infine Arnol. «Giunge proprio fino alle profondità desiderate. Ma i pozzi analoghi, delle al­tre città a cupola esistenti sulla Terra, dovranno essere fatti saltare ed essere sigillati prima dello scoppio.»

Kenniston ne fu colpito. Non aveva pensato a una cosa si­mile.

«Ma ci vorrà tempo...»

«No, non molto tempo. Alcuni miei uomini possono rag­giungerli in breve tempo, con l’incrociatore spaziale, e far tutto molto in fretta. Ho portato con me, naturalmente, delle carte della Terra... e le città a cupola non sono più di una mezza dozzina.»

«Quanto tempo servirà per i preparativi, qui?» do­mandò Kenniston.

«Se facciamo un miracolo» rispose Arnol «potremmo essere pronti domani, a mezzogiorno.»

«Benissimo!» disse Kenniston. «Farò del mio meglio per aiutarvi, e tutti, qui, faranno come me. Ho bisogno solo di dieci minuti, ora.»

Dieci minuti non erano molti. Non erano molti per passar­li con la propria ragazza, dopo avere attraversato metà del­l’universo. Ma tempo non ce n’era. E anche quel poco tempo che egli si prendeva per andare da Carol era un tempo pre­zioso, sottratto al bisogno comune.

Eppure, di fronte a quella terribile decisione che era stata presa, di fronte a quella cosa sovrumana che stavano facen­do alla Terra, doveva assolutamente vederla, per acquietare i suoi timori e rassicurarla nel modo migliore. Pensava che, forse, Carol avrebbe voluto all’ultimo momento rifugiarsi sull’incrociatore spaziale e pregava il cielo di poterglielo nel caso concedere.

Carol lo attendeva, come se avesse saputo della sua visita. Ma, con grande sorpresa di Kenniston, non era affatto spa­ventata. Era, al contrario, piena di ansia e di speranza, con gli occhi che le brillavano come egli non aveva mai visto fin dai giorni lontani in cui erano stati così felici.

«Ken, potrà veramente riuscire?» gridò. «Riuscirà davvero? Renderà davvero la Terra più calda?»

«Ne siamo così sicuri, che giochiamo il tutto per tutto» disse Kenniston. «Naturalmente, c’è sempre la possibilità di un insuccesso...»

Ma Carol non voleva nemmeno udire una cosa simile. Gli stringeva le braccia, e aveva il viso tutto eccitato, mentre esclamava: «Ma questo non importa, non importa affatto! Vale la pena di correre qualsiasi rischio, pur di avere una possibilità di riuscita... pur di poter tornare nella vecchia Middletown!»

Kenniston vide negli occhi di lei, fra le lacrime, un deside­rio disperato, mentre bisbigliava: «È una gioia solo a pen­sarci... poter tornare alla nostra città, alle nostre case, alla nostra gente...»

Kenniston capiva, ora. Nell’intimo di Carol vi era una di­sperata nostalgia per la vecchia città, per il vecchio modo di vivere. E quella nostalgia era talmente profonda che riusciva a vincere qualsiasi timore.

Kenniston la prese tra le braccia e la baciò. Le accarezzò i capelli, e frattanto pensava: “Sì, mi ama... ma solo come una parte della vita che se n’è andata, non me solo, non solo John Kenniston, ma il Kenniston di Middletown. E sarà ancora fe­lice con me se potremo trasformare la nostra vita sino a farla assomigliare un poco alla vita di prima”.

Ma perché quel pensiero non gli portava nessuna gioia? Perché pensava a Varn Allan, in quel momento, stanca e sola, che affrontava coraggiosamente l’intero universo, portando un peso e svolgendo un compito troppo grave per lei?

«Com’era la vita, Ken, lassù?» gli stava domandando Carol.

Kenniston scosse il capo.

«Una vita strana...» disse «e ostile... e anche bella, ma in un modo terribile.»

«Credo che ti abbia cambiato» disse Carol. «Un poco, sì. Ma credo che cambierebbe chiunque.»

E rabbrividì come se, anche solo a toccarlo, sentisse il re­spiro gelido delle profondità sconosciute, degli abissi infiniti che egli aveva attraversato.

«No, Carol» disse Kenniston «non sono cambiato. Ma non posso rimanere, ora. Debbo ritornare... ogni minuto è prezioso...»

Mentre si affrettava per raggiungere gli altri, Kenniston si accorse che Nuova Middletown era invasa da una eccitazio­ne frenetica. Voci lo chiamavano, mani cercavano di tratte­nerlo, uomini e donne volevano fargli domande. Fu lieto quando poté raggiungere gli altri attorno al grande pozzo.

Gorr Holl gli sorrise.

«Ora, mettiamoci al lavoro!» disse.

Per un tempo che gli parve un’eternità, Kenniston lavorò con gli altri. Fabbri e meccanici furono reclutati nella popo­lazione, fu fatta incetta di metalli e attrezzi. Materiali furono trasportati dall’incrociatore spaziale fino al pozzo. I martelli battevano con assordante clamore, lavorando il metallo su forge improvvisate.

Venne così costruita, gradualmente, penosamente, a prez­zo di sforzi e sudore, una grande incastellatura al disopra del pozzo.

Magro lavorava coi tecnici per mettere a punto gli inne­schi, nonché i comandi elettrici che, da lontano, avrebbero fatto scendere ed esplodere l’ordigno.

Kenniston aveva poco tempo per pensare. Eppure la sua mente ritornava stranamente a Varn Allan, chiusa nella cabi­na a bordo dell’incrociatore spaziale, e si domandava a che cosa stesse pensando.

Venne il mattino. La città doveva essere abbandonata a mezzogiorno. Uomini e donne tenevano riuniti i bambini, pronti ad allontanarsi. Non avrebbero preso nulla con loro. In un modo o nell’altro, non avrebbero più avuto bisogno di nulla.

La massa nera ovoidale della bomba fu posta in posizio­ne accanto al pozzo. Con essa vennero approntati altri quat­tro oggetti rotondi, assai più piccoli, di aspetto del tutto di­verso.

«Sono bombe di sicurezza» spiegò Arnol. «Le ab­biamo preparate nel laboratorio dell’incrociatore spaziale durante il viaggio. Verranno lasciate cadere dopo la bomba nucleare ed esploderanno nel pozzo prima di essa, per si­gillarlo e impedire qualsiasi ripercussione quassù dello scoppio.»

Kenniston guardò i tecnici mentre disponevano le bom­be sulla incastellatura, l’una al disopra dell’altra. La caduta di quelle bombe sarebbe avvenuta per mezzo di un teleco­mando.

Kenniston sentiva aumentare i suoi timori, mentre il mo­mento fatale si avvicinava. Pensava agli abitanti di Middletown che avevano accettato con fiducia l’autorità degli scien­ziati: con la medesima fiducia noncurante con la quale gli uomini avevano un tempo accettato l’autorità degli stregoni e dei maghi.

Sperava almeno, se l’esperimento si fosse risolto in un di­sastroso insuccesso, di poter avere la fortuna di non soprav­vivere.

Gli esperti elettronici stavano lavorando disperatamente per terminare gli intricati contatti dei meccanismi che avrebbero dovuto rispondere ai comandi con infinita preci­sione.

Una delle travi della incastellatura aveva leggermente ce­duto, e gli operai sudavano per sostituirla.

Ancora poche ore, ormai, e tutto sarebbe stato pronto. Per mezzogiorno, o poco più tardi, avrebbero saputo se la Terra doveva vivere o morire.

In quel momento, uno degli uomini di Arnol li raggiunse. Aveva fatto di corsa tutta la strada, dall’incrociatore spaziale. Era trafelato, senza respiro e aveva gli occhi sbarrati.

Gridò ad Arnol: «Un messaggio sul televisore, dalla squadra di navi spaziali del Controllo! Dicono che stanno avvicinandosi alla Terra, e ordinano di cessare immediata­mente ogni operazione!»