Da molti anni ormai la via si chiamava Pulaski Road, ma per Casey e per molti altri sarebbe sempre rimasta la Crawford Avenue. Non si trattava precisamente del genere di strada di cui la gente manda la fotografia a colori ai parenti lontani, ma una delle tante vie commerciali, con le rotaie del tram e i semafori. In fondo, precedendo verso nord, si dipartivano vie secondarie fiancheggiate da file di casette in mattoni rossi, con i loggiati di cemento armato e i vasi di terracotta per le petunie che in genere non fiorivano. Tutte le strade avevano nomi remoti che portavano alla mente parchi e foreste, finché non si fossero guardate con attenzione, oppure commemoravano uomini ormai dimenticati da tutti. Era un quadro ben noto a Casey che procedeva verso nord sotto la pioggia. Non si trattava di un quartiere miserabile, ma di una zona dove la gente avrebbe potuto essere più povera e lo sarebbe probabilmente diventata di quel passo.

In una di quelle vie, sull’angolo della fermata del filobus, si ergeva un brutto edificio in mattoni gialli, e al pianterreno si trovava la taverna di Big John Posda, la cui abitazione era un appartamento di cinque camere al piano superiore. Casey oltrepassò il locale, girò attorno all’isolato e andò a parcheggiare in una viuzza laterale. Ormai aveva già raccontato a Phyllis quanto c’era da sapere su Casimir Morokowski che aveva perso il padre a nove anni e la madre aveva avuto le mansioni di fantesca nel locale di Big John, a undici dollari la settimana, fino al giorno in cui aveva sposato il padrone, scomparendo così dalla lista paga.

Phyllis non aveva fatto commenti. Gli stava seduta a fianco, pallida, lo sguardo solenne, i capelli stretti da una fascia verde e il bavero del cappotto rialzato. Ai suoi piedi era posata una valigetta che conteneva tutti i loro beni, eccettuata la radio, che teneva sulle ginocchia.

— Di quella non ne avremo bisogno — le disse Casey mentre scendevano. — Ci sarà fracasso abbastanza, là dentro.

Non era cambiato nulla. Le finestre della taverna verniciate di verde quasi fino in cima, una nuova insegna al neon sulla porta, ma il resto era come sempre. Pannelli di legno scuro, bancone del bar liscio per l’usura e, di fronte, una fila di nicchie che arrivava fino alla doppia porta della cucina. La maggior parte delle nicchie era vuota, ma una o due donne dai capelli grigi infilavano monetine nel grammofono automatico che suonava una polka, e attorno al banco era riunito un certo numero di persone. Dopo aver sistemato Phyllis in una delle nicchie, Casey si avvicinò al bancone e, prima ancora di scorgerlo, udiva già Big John.

— Le cifre non vogliono dir nulla! — stava gridando con voce stentorea.

Dall’altro lato del bancone un avventore protestò: — Non sono mie le cifre! Ti sto dando le statistiche, le statistiche del governo.

— Le statistiche! — Big John abbatté una grossa mano sul banco facendo tintinnare i bicchieri. — E chi vuole le statistiche? — tuonò. — I miei affari vanno male, e io lo so. Si perde l’impiego e si sa, perdio! La gente non può mangiare quelle maledette statistiche.

Big John era fatto così. Mentre discuteva continuava a mescere birra, ad asciugare il bancone, oppure agitava il panno umido in cenno di saluto verso qualche vecchio amico che entrava. Non stava mai in ozio, e la sua voce tonante riecheggiava senza sosta. Casey si issò su uno degli sgabelli più vicini all’uscita e attese. Prima o poi avrebbe smesso di discutere, si sarebbe udita la sua fragorosa risata per qualche spiritosaggine detta in polacco, e poi sarebbe avanzato lungo il banco per chiedere l’ordinazione al nuovo avventore.

Infatti il panno strofinò una piccola macchia davanti a Casey, e poco dopo Big John alzò lo sguardo. Non era molto cambiato a parte che i capelli brizzolati lasciavano più scoperta la fronte, e qualche chilo si era aggiunto alla sua pesante sagoma. Portava come sempre una camicia a righe azzurre senza colletto; le capsule d’oro gli luccicavano in bocca, e i suoi piccoli occhi simili a due chicchi d’uva, inespressivi e fissi, suscitavano ancora in Casey la sensazione di essere un bambino sparuto e intimorito, in calzoni troppo stretti e blusotto.

— Ah, sei tornato! — fece John.

Era fatto così. Sempre pronto ad accogliere con calore il figliuol prodigo.

— Come sta la mamma? — chiese Casey.

— Come sta? — Le capsule d’oro brillarono per un attimo. — “Come credi che stia? Manchi da nove o dieci anni… mai una lettera, mai una cartolina…

— Otto anni — corresse Casey.

— E va bene, otto. Un bel po’ di tempo.

Casey sentiva su di sé lo sguardo di quegli occhietti penetranti e si sforzava di ripetersi che ormai era un uomo fatto, libero di andare e venire senza rendere conto a nessuno.

Non aveva mai avuto simpatia per John Posda, non lo aveva mai considerato un padre, giudicandolo semplicemente un grassone che sua madre aveva sposato perché la vita era dura. Tuttavia Big John non gli aveva mai fatto del male, non lo aveva mai percosso e neppure ripreso con troppa durezza. Quando si era sposato per la seconda volta aveva già figli grandi e sistemati, e l’idea di allevarne altri, certo non lo allettava.

Riprese a lucidare il bancone scrollando le robuste spalle e disse: — La mamma è disopra. È invecchiata come tutti, ma è ancora disopra. Val su da lei, sei suo figlio.

Dal tono pareva quasi che se ne vantasse, ma Casey non rimase ad ascoltare altro. Per arrivare alle scale gli toccò uscire dalla doppia porta e voltare poi a sinistra. Come in passato, un’unica lampadina illuminava le scale, e lui ricordava ancora la suonata che aveva preso il giorno in cui per disgrazia aveva rotto il paralume di vetro smerigliato con la mazza da baseball.

In fondo al corridoio al piano superiore, una porta immetteva nella cucina che era tuttora verniciata di verde, col pavimento ricoperto da un linoleum nocciola. La madre era seduta davanti al tavolo verniciato a smalto, su cui era steso un giornale aperto; Casey notò per prima cosa che aveva tutti i capelli grigi. Non ricordava bene di che colore fossero stati in passato, ma adesso erano grigi. Le mani posate sul giornale erano screpolate, ruvide per il troppo lavoro, e il viso che volse verso di lui nell’udire la porta che si apriva era troppo stanco per trovare riposo su questa terra. Ammiccò leggermente — non si era mai arresa alla necessità di usare gli occhiali — quindi fece un rapido segno della croce.

— Ciao, mamma — disse Casey. — John mi ha detto che eri qui e sono salito.

— Mio Dio — mormorò lei, con le labbra tremanti. — Credevo che fossi un fantasma.

— Sono io in carne e ossa.

Il silenzio di anni che si frapponeva tra loro era tragico: quante cose non avrebbero mai potuto essere dette né raccontate. “È mia madre” diceva Casey a se stesso “ma per me è un’estranea… oppure sono io un estraneo per lei. Non siamo più neppure capaci di parlarci.”

Alla fine lei disse: — Non mi hai mai scritto; ti credevo morto. Ho acceso tante candele in chiesa.

— In effetti, un paio di volte ho sfiorato la morte, in guerra.

— John me lo aveva detto. Quando te ne andasti senza fiatare con nessuno, mi disse: “Non aspettarti di rivedere Casey. È andato in guerra”. Invece io ti aspettavo sempre, ma tu non tornavi.

Si era alzata in piedi, ma il figlio non aveva fatto neppure un passo verso di lei, e allora restò accanto al tavolo, forse perché aveva bisogno di un sostegno. Casey era addolorato della propria freddezza, ma che cosa si può dire quando si è stati lontani tanto tempo? Strinse i pugni, dicendosi che non sarebbe dovuto tornare. Avrebbe dovuto rimanere lontano e lasciare che sua madre accendesse le candele; questo forse le avrebbe dato maggior conforto. Ma poi, d’un tratto, lei girò attorno al tavolo e si accostò, scrutandolo, divorandolo con lo sguardo, e solo quando gli fu molto vicina Casey vide che i suoi occhi erano umidi di lacrime.

Gli disse: — Sei più robusto.

— Infatti, devo aver preso qualche chilo.

— Hai un buon aspetto. Stai bene?

— Benone, mamma.

— Non sei stato ferito in guerra?

— Qualche graffio. Ho avuto fortuna.

— Io accendevo le candele — gli ricordò.

Lo scrutava ancora, ma poi il suo sguardo si fece più attento e, prima ancora che avesse aperto bocca, Casey intuì le domande che si stavano formando nella mente di lei.

— Sei nei guai?

— Niente guai, mamma.

— Ti ho visto nei guai altre volte. Ti si legge in faccia.

— Ti dico che non sono nei guai. Passavo di qui…

Non lo ascoltava più e fissava qualcosa alle spalle di lui. Casey si voltò. Per qualche minuto aveva addirittura dimenticato Phyllis, ma ora eccola ritta sulla soglia con uno sguardo sperduto negli occhi. Cercò di sorridere, quindi venne a infilare un braccio sotto quello di lui.

Schiarendosi la gola, Casey disse: — Mamma, questa è Paula. — Avevano deciso di adottare quel nome. — Mia moglie.

Era la prima volta che pronunciava quella parola e ne ebbe una strana sensazione. Si aspettava che rispondesse qualcosa, ma vedendo che sua madre fissava immobile Phyllis, fu preso dal terrore che l’avesse riconosciuta dalle fotografie sui giornali. Poi si ricordò che era miope e leggeva soltanto le notizie sulla colonia polacca.

— Come state, signora Morokowski? — riuscì a dire Phyllis. — Sono molto felice di fare finalmente la vostra conoscenza.

— Sono la signora Posda — fu l’asciutta risposta, mentre sfiorava appena la mano tesa verso di lei. — Casimir avrebbe dovuto dirvelo.

Questi intervenne rapidamente: — Siamo sposati da pochi giorni.

— Davvero?

Stavano tutti in piedi, illuminati dalla forte luce proveniente dal soffitto, ed era inutile nascondersi che mamma fissava l’anulare della mano sinistra di Phyllis, appoggiata tanto visibilmente sul braccio di Casey, quella mano che pareva nuda senza la vera matrimoniale. Una svista a cui nessuno dei due aveva badato fino a quel momento. Phyllis aveva già fatto miracoli, procurandosi uno sposo così sui due piedi, ma l’anello era proprio un particolare che mamma avrebbe serbato da conto insieme agli altri suoi sospetti.

Cercando di sviarla, Casey disse: — Stai proprio bene e anche John è in forma… Avrà molto da fare, suppongo.

— Ti occorre denaro?

Non esisteva ragione perché la domanda fosse imbarazzante. Era una vecchia abitudine di mamma di dire senza perifrasi tutto ciò che pensava; che cosa importava se Phyllis udiva e sorrideva tra sé? A Casey Morrow, in effetti, non fece né caldo né freddo. — Non ho bisogno di un bel niente — ribatté con tono secco. — Ti ho già detto che passavamo di qui, e se vuoi possiamo anche andarcene.

Era fatta. Nello sguardo di mamma il sospetto non si sarebbe più dileguato neppure per far posto al dispiacere. La sua dura risposta l’aveva tradito, perché Casimir lottava soltanto quando si trovava con le spalle al muro, e la mamma lo sapeva meglio di chiunque altro al mondo. Fu allora che Phyllis, calma e attenta osservatrice di tutta la scena, fece un passo avanti e passò un braccio attorno alla magra vita della vecchia, dicendo: — Non fategli caso. Abbiamo viaggiato tutto il giorno, è stanco, e quando è stanco diventa irascibile come una scimmia. Se la nostra presenza deve essere un disturbo per voi, ce ne andremo senz’altro.

La lezione era servita per far capire a Casey di tenere il becco chiuso, e mamma si raddolcì improvvisamente, gli occhi soffusi da un velo di pianto. Fissava il pavimento, torcendo tra le dita un lembo del grembiule, ma ogni sfumatura di acredine era scomparsa dalla sua voce quando rispose: — Non abbiamo lussi, ma la camera di Casimir è come la lasciò. Potete sistemarvi lì.