Il sabato era un gran giorno. Un gran giorno per John, che si preparava per la clientela del sabato sera, un gran giorno per mamma, che andava al mercato e preparava i pasti per la fine settimana, e risultò essere un gran giorno anche per Casey. Innanzi tutto, dormì fino a tardi, vinto dalla stanchezza dopo una notte passata a lottare contro il disagio della vecchia poltrona a dondolo presa dal porticato sul retro (senza fornire spiegazioni). Phyllis invece, avendo goduto di un relativo lusso nel letto di ottone, era allegra e di buon umore, quando lui entrò in cucina ancora assonnato, e indossava di nuovo sottana e camicetta, i capelli tenuti stretti da un nastro di colore vivace.

Curva su un secchio, le braccia immerse nella schiuma, non appena posò gli occhi su di lui esclamò: — Casimir Morokowski, torna immediatamente in camera e cambiati quella camicia sporca. Sto lavando alcune cose e tanto vale che ci aggiunga quella.

Casey sorrise divertito. Se avesse continuato a trattarlo su quel tono, mamma avrebbe dimenticato l’assenza dell’anello matrimoniale. In quell’attimo gli balenò la grande idea, e dovette sforzarsi per far colazione tanto aveva fretta di uscire.

La sua mèta distava circa cinque isolati dal locale di Big John, oltre il mercato generale, il negozio di oggetti usati, il mercato del pesce, e due porte oltre il negozio di barbiere di Nick. Una piccola gioielleria che era sempre esistita ed esisteva tuttora. Si fermò davanti alla vetrina, fissando un vassoio colmo di anelli d’oro e d’argento, e finì per entrare, confuso come uno sposo novellino. Quando uscì con la scatoletta in tasca si sentiva decisamente meglio.

— Casey! Casey Morokowski! Vecchio mascalzone…

Si fermò irrigidito. Era stato un duro colpo sentirsi apostrofare con il nome che usava da alcuni anni, ma poi ricordò che i compagni di scuola lo avevano sempre chiamato così. Appunto per quello aveva adottato il nome.

— Non è possibile! Credevo che fossi morto e seppellito.

Il volto era familiare, e Casey si trovò a fissare un uomo circa della sua età, alto più o meno un metro e ottanta che pareva scoppiare dentro il suo cappotto portato e riportato. Reggeva su un braccio un bimbetto dal viso sporco di dolciumi, mentre stendeva l’altro in gesto di saluto.

— Dove diavolo sei stato? — tuonò.

Casey finalmente lo riconobbe. — Ciao, Stan — disse. — Come va la vita?

— Benone, ma tu che cosa diavolo hai fatto tutto questo tempo?

Stan, di cui non ricordava assolutamente il cognome, un tempo abitava sull’altro lato del vicolo. Avevano frequentato la scuola insieme, giocato a baseball e si erano visti spesso anche a scuola finita. Ed ora eccolo con qualche ruga e un’ombra di doppio mento e gli stringeva la mano, accogliendolo come un fratello ritrovato dopo anni di separazione.

— Sono arrivato ieri sera dalla California — spiegò.

Avrebbe voluto andarsene, ma non c’era nulla da fare. Gli toccò rispondere alle domande, ascoltare notizie su gente pressoché dimenticata e di cui non gli importava nulla, dovette pronunciare alcune frasi lusinghiere sul bambino dal viso impiastricciato e permettergli di stringergli la mano con i suoi ditini appiccicosi.

— Ti ricorderai di Wanda — fece Stan, quando apparve una giovane grassoccia che spingeva un carrettino ricolmo di compere. Se ricordava Wanda? Eccome se la ricordava. A scuola era stata un tipino grazioso, ma non aveva mantenuto le promesse di bellezza, e ora non pareva più una tragedia non essere mai riuscito a trovare il coraggio di chiederle un appuntamento. Se ne infischiava che Stan lo avesse battuto.

— E tu? — stava dicendo questi. — Non vorrai dirmi che sei ancora libero come un fringuello?

— Io? — Casey sorrideva, pregustando già il divertimento. Il piccolo Casey Morokowski incapace di acchiappare il pallone al volo, incapace di farsi dare un appuntamento da una ragazza. — Anzi, sono proprio in viaggio di nozze.

Era stato uno sbaglio e se ne rese conto troppo tardi. La notizia, per tipi come Stan e Wanda, significava conoscere la sposa con i dovuti festeggiamenti, e nulla sarebbe valso a distoglierli dal proposito. Quando riuscì a liberarsi malediceva il sabato sera, malediceva la gente fisionomista e incapace di badare ai fatti propri.

Se qualcuno avesse riconosciuto Phyllis… Ricordò d’un tratto l’aspetto di lei con i capelli legati dal nastro di colore vivace e le braccia immerse nella schiuma, e si chiedeva se qualcuno, lui compreso, sarebbe stato capace di riconoscere in lei Phyllis Brunner, la ragazza scomparsa. Era diversa, e non si trattava soltanto di una pettinatura differente e di una camicetta a buon mercato. Era diversa nell’animo.

Quando fu riuscito a spiegarsi tutto ciò, stava ormai salendo le scale per recarsi nell’appartamento sovrastante la taverna; dal corridoio udiva Phyllis chiacchierare con sua madre come se la conoscesse da sempre. Non si sarebbe meravigliato più di nulla, neppure di udire un fiotto di parole polacche uscire dalla sua bocca.

Appena lo vide esclamò:

— Pensa! Sto imparando certe ricette di tua madre.

— Dovevi dirmelo! Mi sarei fermato dal droghiere per comperare del bicarbonato.

La risata di lei era contagiosa, e perfino mamma sorrideva. Ora, decise Casey, ora che mamma sta guardando. Trasse di tasca il piccolo astuccio e tese a Phyllis l’anello, improvvisando: — Ti avevo detto che lo avrei fatto stringere la prima volta che ci fossimo fermati abbastanza a lungo da qualche parte. — Aveva avuto ragione, e mamma sorrideva. Soggiunse, ridendo: — Pensa, ci siamo sposati tanto in fretta che ho comprato un anello così largo che Paula non riusciva a tenerlo al dito.

Purché fosse di misura giusta! Phyllis lo guardava in modo strano, ma poi sorrise e stese la mano dicendo: — Mettimelo tu.

Era di una misura perfetta, aveva indovinato giusto: una manina piccola, infantile. Vi dichiaro marito e moglie… Non pronunciò le parole, ma si sentiva tintinnare come dei campanellini nel cervello, e fu sul punto di lasciar cadere la mano di lei. Era pazzesca l’idea che gli veniva affiorando alla mente.

Nulla tuttavia era pazzesco quanto la festicciola che si svolse quella sera nella taverna. A dare il via furono Stan e Wanda, apparsi verso le otto con alcuni altri vecchi amici, e Big John, che non scoraggiava mai i festeggiamenti perché facevano scampanellare il registratore di cassa, offrì in dono la prima botticella di birra. Oltre la birra c’era vino rosso in quantità e altre bibite rinfrescanti. In aggiunta al grammofono automatico, un certo Joe, dal viso vagamente familiare, si dedicava a una fisarmonica, traendone note allegre.

— Un valzer prima di tutto — ordinò Stan — e i novelli sposi faranno un a solo.

Casey era terrorizzato. Terrorizzato dalla festa, dagli occhi curiosi fissi sulla ragazza che aveva sposato Casimir Morokowski. Per Phyllis tutto era fonte di divertimento; una festa per lei che amava tanto le feste. I capelli adorni di fiori bianchi, di prammatica per una sposa, le avevano detto, indossava un abito semplice dall’ampia sottana e rideva mentre i loro bicchieri si urtavano nel primo brindisi.

Alle prime note, vedendo che gli tendeva le braccia, Casey mormorò: — Sono un pessimo ballerino.

— Forse non hai mai ballato con la ragazza fatta per te — fu la risposta, accompagnata da uno sguardo ironico.

Non era possibile restare lì impacciati, mentre tutti li fissavano in attesa che cominciassero. Sulle prime si muovevano rigidi, ma poi i loro movimenti si fecero sempre più elastici, tanto che Casey finì per chiedersi, stupito, come mai il ballo fosse tanto diverso dal solito. Dopo il valzer una polka, dopo la polka un altro valzer, e Phyllis cominciò a improvvisare figure di danza che Casey seguiva senza fatica di sorta. Era facile dimenticare con l’aiuto della musica e del vino che la città era popolata di poliziotti in caccia di due presunti omicidi. Troppo facile.

Joe, abbandonata per un momento la fisarmonica, sfidò Phyllis a ballare l’unica rumba che offrisse il grammofono automatico, e fu allora che Casey cominciò a provare uno strano formicolìo alla nuca. Si volse a guardare verso il bar e, grazie all’antipatia di Big John per le luci soffuse, non gli fu difficile trovare la fonte del suo disagio. Un paio di scaltri occhi azzurri lo fissavano e parevano trafiggerlo, gli occhi di un uomo che indossava un impermeabile grigio sgualcito e un cappello di feltro azzurro.

Si senti gelare il sangue nelle vene. Non era facile dimenticare il tenente Johnson, anche avendolo visto una sola volta nell’atrio di un albergo, e non occorreva spremersi le meningi per capire che cosa stesse facendo al bar di Big John, tanto lontano dal quartiere dei Brunner. Casey provò l’impulso di fuggire, di abbandonare ogni prudenza e scappare come un bambino che abbia spaccato un vetro col pallone. Ma ormai la rumba aveva elettrizzato gli astanti, e gli riuscì soltanto di farsi faticosamente strada fra la calca di ballerini.

Vide mamma uscire dalla cucina reggendo una tazza di caffè fumante e avviarsi verso il bancone su cui depose la tazza proprio davanti all’agente, mentre il fragoroso benvenuto di Big John scioglieva un poco il ghiaccio che gelava le vene di Casey. Forse non era sulle sue piste, dopotutto; forse era un cliente abituale, e comunque fuggire era fuori questione, a questo punto. Era invece indispensabile appurare la situazione.

— Caffè! — bofonchiava Big John. — Perché bere caffè una sera come questa? Via, ordina quello che vuoi. Offre la casa.

Il viso di Johnson, prima nascosto dalla tazza, riapparve rischiarato da un sorriso. — Si direbbe che si tratti di una festa speciale — disse. — Che succede, John? Un anniversario?

— Macché anniversario! Il figlio di mia moglie è tornato ieri sera con la sua sposa. Ehi, Casimir! Che c’è? Ti ha già piantato per uno di quei bei giovanotti?

Una festa è pur sempre una festa, e in tali circostanze John non era mai alieno dal gustare le proprie merci. Di conseguenza era in uno dei suoi rari stati d’animo paterni. Casey si senti trascinare verso il bancone da Big John, che gli aveva circondato le spalle con il suo braccio robusto e lo spingeva verso l’ultima persona al mondo ch’egli avrebbe desiderato avvicinare.

— Lo credevamo morto. Non si è fatto vivo per nove o dieci anni e poi, tutto d’un tratto, eccolo con la moglie. Straordinario, no?

— Per qualcuno il matrimonio equivale alla morte — osservò il tenente — ma io, essendo felicemente sposato… rallegramenti, Casimir.

Gli occhi azzurri non svelavano nulla, forse perché non avevano nulla da svelare. Del resto Casey non era neppure certo che il poliziotto lo avesse notato quella mattina nell’atrio dell’albergo. Si era semplicemente lasciato prendere dal panico, la peggior cosa che potesse fare. Cercò di tirar fuori qualche frase spiritosa per colmare lo spaventoso vuoto nella conversazione, ma Casimir Morokowski non aveva mai avuto la battuta pronta, e ora anche mamma lo stava fissando… o anche questo era frutto dei suoi nervi tesi?

— Butterei giù anch’io un sorso di caffè — borbottò. — Non sono abituato alle feste…

— Sei sbronzo! — tuonò John. — Così deve essere una festa di nozze… ci si deve ubriacare prima che la moglie cominci a rompere le uova nel paniere. Giusto?

Anche se Johnson prima non ricordava il suo viso ormai non lo avrebbe più dimenticato. — Siete dunque Casimir — disse. — Il figlio di cui la signora Posda parla sempre.

— Parla sempre di me? — fece Casey con voce strozzata.

— Quello che credeva morto in guerra.

Era stupito. Non aveva mai creduto che a mamma importasse gran che della sua sorte e tanto meno che parlasse di lui con estranei. — La guerra l’ho fatta — disse.

— Esercito di occupazione?

Per farsi coraggio, si diceva che Johnson faceva il suo mestiere, rivolgendo domande. Non significava nulla, stava cercando di riempire le lacune del passato. Non ebbe tuttavia tempo di rispondere, perché la rumba ebbe fine in mezzo ai frenetici applausi, e gli astanti chiedevano a gran voce un’altra polka. Guardandosi alle spalle vide Phyllis che lo cercava. Male. Anche con i capelli acconciati in quel modo, anche con la strana metamorfosi che aveva cancellato in lei il suo modo di fare superficiale, non gli garbava il rischio che si trovasse a faccia a faccia con una persona che indubbiamente aveva studiato abbastanza le sue fotografie per imprimersi nel cervello ogni suo lineamento.

Facendosi strada verso la calca, borbottò: — Se non torno là in mezzo, probabilmente dimenticheranno quale di noi è lo sposo.

Non era cortese voltare in quel momento le spalle al tenente, ma provò un gran sollievo quando si fu tuffato nella ressa e la musica ebbe riattaccato. Non seppe mai quando fu che Johnson se ne andò, ma la volta successiva in cui ebbe il coraggio di guardare verso il bar, lui era scomparso. Sparito silenziosamente come era arrivato. Ormai tra il vino, il grammofono e Phyllis tra le braccia, Casey se ne infischiava.

Quando i passi attutiti di Big John risuonarono ancora una volta diretti alla stanza da bagno, Casey smise i suoi tentativi di dormire. Non riusciva a togliersi di mente la festa, a eliminare il suono della musica e l’orgasmo della serata; d’altronde, la poltrona a dondolo gli indolenziva la schiena. Alzatosi in piedi, si stiracchiò e si accostò alla finestra. Era una notte limpida, e proprio di fronte a lui uno spolverìo di stelle illuminava un tratto di cielo. Doveva far freddo. Intorno alla finestra c’era uno stretto terrazzino a cui si arrivava per mezzo di una scala esterna. Sentendo il desiderio di fumare, apri silenziosamente le persiane e uscì.

Non aveva più sonno e dal terrazzino poteva contare le vetrine buie delle botteghe che fiancheggiavano la via principale. Più oltre, ricominciavano le casette a due piani, ma lui non vide altro, immerso com’era a rispolverare vecchi ricordi. Sull’altro lato della strada, la drogheria di Kovack, un seminterrato sovrastato da un grande edificio in mattoni gialli, costruito quando lui aveva circa dieci anni. Aveva anzi rischiato di farsi arrestare per aver asportato assi di legno dal cantiere edilizio. Tutto ciò era accaduto prima che mamma sposasse Big John, e allora valeva la pena correre qualche rischio per procurarsi un poco di combustibile. Là, due porte più oltre, la piccola impresa di pompe funebri, con le sue tende color mostarda…

Appoggiato alla ringhiera di legno del loggiato, lanciava boccate di fumo nell’oscurità, osservando i fantasmi di fronte all’impresa di pompe funebri. Li ricordava bene. Quel ragazzino dal volto smunto era lui, Casimir Morokowski, che cercava di capire che cosa significasse andare al funerale del proprio padre: un fantasma Piccolino, quello, e ce n’erano tanti altri. Li aveva seguiti tutti con gli occhi proprio da quello stesso loggiato, senza capire nulla, eccettuato che la morte era una cosa con cui non si poteva discutere, così come non si discuteva con la polizia, con le suore della scuola o con la frusta della mamma. Sotto certi aspetti, la morte era simile alla vita.

Un funerale con quattro bare, una grande e tre piccole. Poliziotti, folla, fotografi e il piccolo meccanico dell’ autorimessa di Sadow che piangeva come un bambino sperduto e sgomento. Perché aveva confessato di avere avvelenato moglie e figli, quando invece (era occórso un certo tempo per provarlo) era stata la ghiacciaia guasta nel loro modesto appartamento a inquinare il cibo? Perché? I fantasmi erano molto vecchi, ma Casey tremava. Poteva ripetersi che ormai le cose erano mutate, che nessuno sarebbe riuscito a strappare una parola a Casey Morrow con la forza, ma in cuor suo non credeva a se stesso più di quanto non pretendeva che credesse il mondo.

— Casey…

Si volse di scatto, ma era soltanto Phyllis che veniva verso di lui uscendo dalla porta-finestra. Non aveva nulla del fantasma, Phyllis, neppure al buio.

— Non riesco a dormire — disse. — Ho bisogno di una sigaretta.

Era già un progresso riuscire ad accenderle la sigaretta senza che la mano gli tremasse. — Prenderai freddo — osservò Morrow.

— Ho il cappotto.

— Prenderai freddo comunque, a uscire così dal letto caldo.

Del resto non aveva importanza. Capì d’un tratto che qualsiasi cosa avessero detto o fatto nei successivi momenti non avrebbe avuto la minima importanza, perché ormai tutto era deciso e sarebbe andata com’era stabilito che andasse. Una delle tante cose su cui non si poteva discutere.

Il lampione sull’angolo della strada fece emergere dall’ombra il viso di Phyllis. — Che cosa guardi? — gli chiese.

— Fantasmi.

— Molti?

Anche questo non aveva importanza. Soltanto parole che dovevano essere scambiate. Chissà perché. Il mondo è fatto così.

— Troppi — rispose. — Quando ero bambino venivo spesso qui fuori di notte, soprattutto in estate, quando in casa faceva troppo caldo per dormire. Non è un bel luogo, questo, per trascorrervi la fanciullezza.

“È il mio mondo” le stava dicendo. “Guardalo bene e stai attenta.” Ma ormai era già troppo tardi. Vino, grammofono e sogno pazzesco si erano fusi e ogni parola era stata pronunciata. La sigaretta di Phyllis le scivolò tra le dita e cadde a spirale nell’oscurità simile a una stella filante. Quella di Casey fece altrettanto, e i fantasmi, i miseri grigi fantasmi, impallidirono e poi scomparvero.