I

Incubo

In tutte le case della collina si stava ancora festeggiando l’anno nuovo, quando il capo Dakin balzò fuori dal suo macinino e corse su per il vialetto di casa Haight, sotto le vecchie stelle del nuovo millenovecentoquarantuno. Il capo della polizia annuì tra sé: era molto meglio. Nessuno si sarebbe accorto che qualcosa non andava. Dakin era sottile, nervoso; sembrava un contadino e aveva due occhi opachi, divisi da un grosso naso tipicamente americano. Assomigliava a una vecchia tartaruga finché non ci si accorgeva che la sua bocca era la bocca di un poeta. Nessuno a Wrightsville se n’era accorto, eccetto Patricia Wright e forse la signora Dakin, per la quale il capo della polizia riuniva in sé i migliori aspetti di Abramo Lincoln e del Padreterno. La chiamata telefonica di Carter Bradford l’aveva interotto nel bel mezzo di un’allegra carola inneggiante al nuovo anno, cantata in coro coi familiari.

«È veleno» fece Dakin in tono asciutto, rivolgendosi a Carter Bradford, al di sopra del cadavere di Rosemary Haight. «Mi pare che abbiate esagerato un po’ nei festeggiamenti di capodanno, questa volta. Di che specie di veleno si tratta, dottore?»

«Arsenico. Uno dei composti, ma non saprei dire quale.»

«Veleno per topi, vero?» Poi il capo della polizia soggiunse lentamente: «Immagino che questo bel pasticcio metta il nostro Procuratore Distrettuale nei guai; che ne dice, Cart?».

«Altro che! Tutti gl’indiziati sono miei amici.» Bradford tremava. «Dakin, mettiamoci all’opera, per amor del cielo.»

«Ma certamente, Cart.» Gli occhi di Dakin si posarono su Frank Lloyd. «Buonasera, signor Lloyd.»

«Buonasera a lei» borbottò Lloyd. «Non potrei andar fuori dai piedi?»

«Preferirei di no» rispose Dakin con un sorriso di scusa. «Grazie. Ora veniamo a noi. Come diavolo è stato che la sorella di Jim Haight ha ingoiato del veleno per topi?»

Carter Bradford e il dottor Willoughby glielo dissero. Il signor Queen, seduto in un angolo, osservava, ascoltava, e pensava quanto un certo poliziotto di New York assomigliasse al capo Dakin di Wrightsville. Quell’aria pacata e autorevole… Dakin ascoltava rispettosamente le voci agitate dei suoi amici; poi i suoi occhi si posarono tre volte sulla persona del signor “Smith”, e questi si fece piccino piccino.

«Capisco» disse infine Dakin annuendo. E si diresse lentamente verso la cucina.

«Non posso crederci» gemette improvvisamente Jim Haight. «È un incidente. Come può essere finita nel bicchiere quella roba? Forse qualche ragazzino… dalla finestra. È uno scherzo! »

Nessuno gli rispose, e Jim fece schioccare le dita e fissò con gli occhi sbarrati i giornali stesi sul sofà. L’agente Brady, con la faccia color mattone, entrò un po’ affannato, cercando di non far vedere che era sulle spine.

«Ho ricevuto una chiamata» annunziò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Perdinci.» Si diede una lisciatina, e raggiunse il suo capo in cucina.

Quando i due funzionari riapparvero, Brady portava numerose bottiglie e bicchieri. Scomparve col suo carico, e poco dopo ritornò a mani vuote. In silenzio, Dakin gli indicò i vari bicchieri vuoti del salotto. Brady li raccolse uno per uno, deponendoli nel suo berretto d’uniforme; li maneggiava delicatamente, prendendoli per il bordo, e li disponeva nel berretto come fossero uova di piccione.

«È per le impronte digitali» spiegò Dakin, parlando apparentemente al caminetto. «Non si può mai dire. Poi si deve fare l’esame chimico.»

«Che cosa?» esclamò involontariamente Ellery Queen.

Per la quarta volta gli occhi del capo Dakin si fissarono come raggi X sulla persona del signor “Smith”.

«Buonasera, signor Smith» disse il capo della polizia sorridendo. «A quanto pare, noi c’incontriamo sempre nei momenti difficili.»

«Prego?» domandò il signor Smith, con voce completamente inespressiva.

«Quel giorno, sulla strada provinciale» sospirò il capo della polizia. «Quando io ero in macchina con Carter. Il giorno in cui Jim Haight era così ubriaco…» Jim si alzò: Dakin si sedette senza guardarlo. «Che cosa sa di tutta questa faccenda, signor Smith?» domandò con la massima cortesia.

«Che una donna chiamata Rosemary Haight è morta qui, questa sera.» Ellery si strinse nelle spalle. «Questo è l’unico fatto che posso fornirle. Non credo che sia molto; considerando che il cadavere è a meno di tre metri da noi.»

«Avvelenata, come dice il dottor Willoughby» osservò educatamente Dakin. «Questo è un altro fatto.»

«Oh, sì!» convenne umilmente Ellery, mentre il dottor Willoughby gli lanciava un’occhiata interrogativa. “Stai attento!” si disse. “Il dottor Willoughby si ricorda senz’altro del flaconcino di idrossido di ferro che tu gli hai dato proprio nel momento in cui Nora aveva bisogno di un antidoto e i minuti erano preziosi… Chissà se il buon dottore racconterà lo strano fatto che un estraneo alla casa, alla famiglia, al delitto, si portava in tasca un simile preparato proprio quando, stranamente, una donna moriva e un’altra correva lo stesso rischio per via di un veleno il cui antidoto ufficiale era proprio l’idrossido di ferro?”

Il dottor Willoughby guardò altrove.

“Sospetta che io sappia qualcosa che riguarda i Wright” pensò ancora Ellery. “È un vecchio amico di famiglia. Ha fatto nascere le tre ragazze… Ora è imbarazzato. Devo forse metterlo maggiormente in imbarazzo confidandogli che ho comperato quel farmaco perché avevo promesso a Patricia Wright che sua sorella Nora non sarebbe morta?”

Ellery Queen sospirò. Le cose si complicavano.

«Dov’è tutta la famiglia?» domandò Dakin.

«Di sopra» rispose Bradford. «La signora Wright insiste perché Nora… la signora Haight… sia trasportata in casa Wright.»

«Qui non è il posto migliore per lei, Dakin. Nora sta molto male. Ha bisogno di cure assidue e affettuose.»

«Per me facciano pure» dichiarò il capo della polizia. «Cioè, se il Procuratore Distrettuale non ha nulla in contrario.»

Bradford accennò frettolosamente di sì, e si morse le labbra.

«Non le vuole interrogare?»

«Ecco, non vedo perché dovrei tormentare i Wright, facendoli star peggio di quanto già stiano» dichiarò il capo della polizia lentamente. «Quindi se non ha obiezioni, Cart, direi che per questa notte basta. Ci ritroveremo tutti qui in questa stanza domattina. Avverti tu i Wright, Cart, tanto per non dare ufficialità alla cosa.»

«Tu resti qui?»

«Solo per un momento. Dovrò chiamare qualcuno per far portar via il corpo… Lloyd, mi raccomando a lei. Niente chiacchiere sul giornale.» Il Capo della Polizia sospirò. «È la prima volta che capita un omicidio a Wrightsville e io occupo questa carica da più di venti anni. Dottore, vuole essere così gentile da fare lei l’autopsia? Il magistrato Salemson è in vacanza.»

«Va bene» rispose il dottore. Uscì senza salutare.

Ellery Queen si alzò.

Carter Bradford attraversò la stanza, si fermò e si voltò.

Jim Haight era seduto immobile sulla sedia.

«Perché se ne sta lì seduto, Haight!» tuonò Bradford con voce astiosa.

Jim sollevò lentamente lo sguardo. «Cosa?»

«Non può stare lì tutta la notte. Perché non va da sua moglie?»

«Non mi lasciano.» Prese un fazzoletto e si asciugò gli occhi. «Non mi lasciano.»

Balzò dalla sedia e salì le scale. Udirono una porta sbattere: si era chiuso nel suo studio.

«Ci vediamo domattina, signori» disse il Capo Dankin.

Se ne andarono e Dankin rimase solo, solo col corpo di Rosemary. Il signor Queen avrebbe voluto rimanere, ma lo sguardo di Dankin lo aveva scoraggiato.

Ellery non vide Patricia Wright fino al mattino dopo, quando tutti si riunirono nel salotto, dove si era svolta la festa, alle dieci del mattino del primo giorno dell’anno… tutti, eccetto Nora, che giaceva nel suo letto di ragazza nell’altra casa, guardata a vista da Ludie. Il dottor Willoughby l’aveva già visitata quel mattino, e le aveva proibito non solo di lasciare la stanza, ma anche d’alzarsi. Ellery riuscì finalmente a bloccare Pat sotto il portico di casa Haight.

«Prima di entrare» disse rapidamente «vorrei spiegarle…

«Non la biasimo, Ellery.» Pat pareva malata, quasi come Nora. «Poteva anche andar peggio… Poteva capitare a Nora. Per poco non toccava veramente a lei.» La ragazza rabbrividì.

«Mi dispiace per Rosemary» affermò Ellery.

Pat gli lanciò uno sguardo completamente inespressivo. Poi entrò in casa. Ellery indugiò sotto il portico. Era un giorno grigio, come il viso di Rosemary Haight: un giorno grigio e freddo, un giorno che si addiceva alla morte. Un’automobile si fermò al cancello. Ne balzò fuori Frank Lloyd seguito da Lola Wright. I due percorsero insieme il vialetto.

«Come sta Nora?» domandò con ansia la ragazza.

«Ho dato un passaggio a Lola» dichiarò Lloyd, che sembrava respirare a fatica. «Stava salendo a piedi la collina.»

«Lola sapeva già qualcosa?» domandò Pat mentre entrava in casa con Frank.

«No, faceva una passeggiata; almeno così mi ha detto. Nessuno sa ancora niente.»

«Lo sapranno quando il suo giornale sarà messo in vendita» osservò Ellery quasi seccato.

«Lei è un maledetto ficcanaso» gemette Lloyd «ma mi è simpatico. Voglio darle un consiglio: salti sul primo treno e se ne vada.»

«Mi piace star qui» sorrise Ellery. «E poi, perché dovrei partire?»

«Perché questa è una città pericolosa; vedrà che cosa succede quando la notizia sarà risaputa. Tutti coloro che hanno partecipato alla festa di ieri sera saranno infamati.»

«Una coscienza pulita ha delle ottime qualità detersive» ribatté amabilmente il signor Queen.

«Non capisco proprio perché sto qui a perdere il mio tempo con un idiota come lei» dichiarò il giornalista con violenza e si diresse a grandi passi verso il salotto.

«Il veleno» stava dicendo il dottor Willoughby «è triossido di arsenico, o ossido arsenioso, come preferite. Arsenico bianco.»

I presenti erano seduti in semicerchio come spettatori increduli ad una seduta spiritica. Dakin era in piedi vicino al caminetto, e si batteva un rotolo di carta contro i denti falsi.

«Avanti, dottore» invitò. «Che cosa ha trovato d’altro? Fin qui andiamo bene: abbiamo fatto il controllo stanotte nel nostro laboratorio.»

«In medicina lo si usa principalmente come tonico» proseguì il medico con voce impersonale. «La più alta dose terapeutica è di un decimo di grano. Dai residui del cocktail non si può dire nulla; nulla di certo, almeno, ma giudicando dalla rapidità con cui il veleno ha agito, io direi che in quel bicchiere ve ne fossero almeno tre o quattro grani.»

«Non ha prescritto una medicina contenente arsenico, di recente, a nessuno… di sua conoscenza, dottore?» domandò Carter Bradford.

«No.»

«Noi siamo riusciti a stabilire qualcosa di più» dichiarò il capo della polizia guardandosi attorno. «Molto probabilmente si trattava di comune veleno per topi. E, per di più, non se n’è trovata traccia se non nel bicchiere… non negli altri bicchieri, non nelle bottiglie, non nel vaso delle ciliege, o in nessun altro recipiente.»

«Che impronte digitali ha trovato sul bicchiere del veleno, capo?» domandò il signor Queen con la sensazione di fare una domanda stupida.

«Quelle del signor Haight, della signorina Haight, della signora Nora Haight e nessun’altra.»

Ellery rivolse un pensiero di ammirazione all’abilità del capo della polizia. Dakin non era rimasto in ozio, quella notte. Aveva preso le impronte digitali del cadavere. Aveva trovato qualche oggetto che apparteneva sicuramente a Nora, probabilmente in camera da letto, e aveva rilevato le sue impronte. Jim Haight era rimasto in casa tutta notte, ma Ellery era pronto a scommettere che nemmeno Jim era stato disturbato. Un bel lavoro, molto abile. Ma appunto quella efficienza e quell’abilità turbarono il signor Queen. Il giovane lanciò un’occhiata a Pat, che osservava il capo della polizia come ipnotizzata.

«Qual è stato il risultato dell’autopsia, dottore?» domandò Dakin in tono deferente.

«La signorina Haight è morta per avvelenamento, dovuto a triossido di arsenico.»

«Grazie. Adesso cerchiamo di organizzare un po’ le cose, se ai signori non dispiace» fece Dakin. «Dunque, noi sappiamo che le signore sono state avvelenate da quell’unico cocktail. Chi l’ha preparato?» Nessuno rispose. «Ebbene, io lo so già. È stato lei, signor Haight. Lei ha preparato quel cocktail.»

Jim Haight non si era fatto la barba. Intorno agli occhi aveva delle ombre bluastre.

«Davvero?» Aveva la voce roca, e tentò varie volte di schiarirsela. «Se lo dice lei… ne ho preparati tanti…»

«E chi ha servito i liquori?» domandò Dakin. «Tutti i liquori, compreso quello avvelenato? È stato ancora lei, signor Haight. Mi sbaglio? Perché vede, così mi hanno detto» concluse in tono di scusa.

«Se cerca d’insinuare…» cominciò Hermione con voce imperiosa.

«Benissimo, signora Wright» si arrese il capo della polizia. «Forse mi sbaglio. Però quei cocktails li ha preparati lei, signor Haight; lei li ha serviti; quindi, a quanto pare, lei è l’unico che poteva avvelenarne uno, col veleno dei topi. Ma io ho detto “a quanto pare”. Era davvero solo? Ha lasciato il vassoio da qualche parte anche per pochi secondi?»

«Senta» sbottò Jim. «Forse sono impazzito. Forse quel ch’è accaduto ieri sera mi ha fatto dar di volta il cervello. Ma che cos’è tutta questa commedia? Mi si sospetta di aver avvelenato mia moglie?»

Parve improvvisamente che l’aria della stanza diventasse di nuovo respirabile. Sul viso di Hermy tornò un po’ di colore, e persino Pat guardò Jim.

«Che sciocchezze, signor Dakin!» esclamò Hermione freddamente.

«È stato lei, signor Haight?» domandò cortesemente il signor Dakin.

«Naturalmente ho portato io il vassoio in salotto!» Jim balzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro davanti all’ispettore. «Ma ricordo che avevo appena finito di mischiare i liquori e stavo per buttarvi dentro le ciliege, quando ho dovuto lasciare la dispensa per qualche minuto. Ecco tutto!»

«Vede che stiamo arrivando a qualcosa!» esclamò Dakin cordialmente. «Non potrebbe essere entrato qualcuno di nascosto nella dispensa e aver avvelenato un bicchiere, senza che lei se ne accorgesse?

La sensazione di sollievo svanì rapidamente; a tutti i presenti parve nuovamente di soffocare…

«Io non ho avvelenato quei cocktails» affermò Jim. «Quindi qualcuno deve essere entrato per forza.»

Dakin si rivolse all’auditorio:

«Chi è uscito dal salotto mentre il signor Haight stava preparando i cocktails in cucina? Questa domanda è molto importante; vi prego di pensarci bene.»

Ellery accese una sigaretta, pensando che senz’altro qualcuno doveva aver notato la sua assenza la sera precedente. Ma tutti cominciarono a parlare contemporaneamente finché il capo li interruppe con un gesto.

«Non arriveremo a nulla, se insisteremo su questa unica domanda. Si è ballato e bevuto troppo, ieri sera; poi la camera era quasi buia perché solo le candele dell’albero erano accese… non che questo faccia molta differenza» soggiunse Dakin.

«Che cosa vuol dire?» domandò Pat rapidamente.

«Voglio dire che questo non è un punto importante, signorina Wright.» In quel momento la voce di Dakin era fredda, quasi gelida. «Quel che importa è: chi ha avuto il controllo della distribuzione delle bibite? Rispondete a questa domanda! Perché colui che ha portato il cocktail alla signora… dev’essere per forza la persona che l’ha avvelenato!»

“Benissimo, capo!” pensò il signor Queen. “Tu non sai quel che so io, ma hai colpito nel segno ugualmente. Dovresti mettere a frutto il tuo talento…”

« Lei ha portato quel cocktail, Jim Haight» disse con forza Dakin. «Nessun avvelenatore avrebbe lasciato cadere dell’arsenico in uno di quei bicchieri, fidando poi in Dio perché la persona designata prendesse quello giusto. Nossignore. Non ci sarebbe senso. Sua moglie ha ricevuto il bicchiere avvelenato, sì o no?»

«E va bene, sono stato io. E con questo?» Gli occhi di Jim sembravano due tizzoni. «Si sente soddisfatto, ora?»

«Pienamente» dichiarò il capo con tono mite. «Solo una cosa non sapeva, signor Haight. Lei è uscito dal salotto per preparare altre bibite, senza immaginare che sua sorella Rosemary avrebbe insistito per farsi dare un altro liquore; non sapeva che sua moglie, dopo aver bevuto due piccoli sorsi dal proprio bicchiere, gliel’avrebbe offerto. Così, invece di uccidere sua moglie, ha ucciso sua sorella!»

«Non può credere ch’io abbia fatto una cosa simile, Dakin» mormorò Jim con voce roca.

Dakin si strinse nelle spalle.

«Signor Haight, io so soltanto quello che mi dice il buon senso. I fatti rivelano chiaramente che lei, soltanto lei, aveva, come si dice?, l’occasione. Quindi può darsi che lei non avesse quello che si chiama il movente… io non lo so. Lo sa qualcuno dei presenti?»

Era una domanda disarmante. L’ammirazione del signor Queen per Dakin crebbe ancora. La sottigliezza del capo della polizia era squisita.

«Vuole sapere perché avrei dovuto uccidere mia moglie, dopo quattro mesi di matrimonio?» rispose aggressivamente Jim. «Vada all’inferno.»

«Questa non è una risposta, signor Haight. Chi di voi ci può aiutare?»

John strinse con forza i braccioli della sua poltrona, lanciando un’occhiata ad Hermy. Ma nello sguardo di sua moglie non lesse che orrore.

«Mia figlia Nora» disse John a fatica «ha ereditato centomila dollari dal nonno il giorno del suo matrimonio con Jim. Se Nora fosse morta… Jim avrebbe ereditato tutto a sua volta.»

Jim rimase seduto, guardandosi attorno, senza vedere. Il capo Dakin fece un cenno a Bradford ed entrambi lasciarono la stanza. Cinque minuti dopo rientrarono. Carter era ancora pallido e fissava davanti a sé, cercando di evitare gli sguardi degli altri.

«Signor Haight» disse gravemente Dakin «sono costretto a chiederle di non lasciare Wrightsville per nessuna ragione.»

Era stato Bradford a ritardare l’arresto vero e proprio, pensò Ellery, ma non l’aveva fatto per compassione. Aveva agito per dovere, piuttosto; il caso, da un punto di vista legale, era tutt’altro che completo. Ma il “caso” sarebbe proseguito, comunque. Il signor Queen era certo che, se non fosse sopravvenuto un vero e proprio miracolo, Jim Haight non avrebbe girato a lungo libero per le strade di Wrightsville.