Bisognava vedere il nostro quartierino otto giorni dopo, quando mia moglie vi ebbe messo i suoi mobili ed io l'ordine! È più facile farsene un'idea, immaginando un insieme molto bellino, molto pulito, molto allegro, molto simmetrico, che descriverlo — perciò non lo descrivo.
Ho detto che i mobili erano di mia moglie, dirò il resto alla libera: anche le lenzuola, le tovaglie e le poche cedole al portatore, che ci innalzavano alla dignità di creditori dello Stato, tutto era di mia moglie; io non possedevo al mondo altro che due cavalletti, dodici pennelli, otto tavolozze, alcune tele di genere rimaste invendute, pochi spiccioli in un cassetto e molta economia. Non crediate però che, sposandoci, la mia Annetta credesse d'aver fatto un carrozzino (come si dice) ed io un buon affare; ci sposammo, perchè ci piacevamo, perchè ci volevamo bene, e se i nostri mobili si fossero provati a mettere la discordia fra noi due, credo che ne avrei fatto tanta legna da ardere senza metafora nel focolare domestico, e che mia moglie mi avrebbe dato mano. Erano mobili di noce, lucidi, ma serii, ben saldi sulle gambe, bene equilibrati, mobili poco mobili, che se ne stavano al loro posto. Tutti i cassetti aprivano e chiudevano senza farsi tirare, senza farsi mai mandare a quel paese dal marito, il che può essere pericoloso, quando i mobili sono della moglie — parlo per conto del prossimo.
Bisognava vedere — e perciò appunto un giorno il mio amico Valente fece le scale e se ne venne disopra a fare il curioso.
Provatevi ad indovinare quello che egli disse, quando ebbe messo il naso da per tutto; anzi non vi state a provare, perchè tanto non l'indovinereste mai.
— Come t'invidio! — così disse. — Lo guardai in faccia, perchè mi ricordavo che l'amico mio aveva una cert'aria, nel dir le cose, da non lasciar mai capire se dicesse proprio sui serio o da burla. Diceva sul serio, ve lo assicuro, prima di tutto perchè ora non aveva più quella cert'aria d'una volta, e poi perchè lo scherzo sarebbe stato di cattivo genere, e Valente anche nel far la burletta badava a non offendere menomamente gli amici.
Provai a ridere per accertarmi proprio. Non rise. Non sapevo che fantasticare, quando ad un tratto mi venne in mente (come non ci avevo pensato prima?) mi venne in mente la sua manía, e questa volta risi di cuore.
— Sì poveraccio! — esclamai — sei proprio da compiangere, tu nato, fatto per essere il miserabile più felice che campi sotto le stelle, tu ricco, tu padrone d'un palazzo splendido, tu servito da domestici in livrea, tu.... Ah! la sorte è senza giudizio, —
Cominciò dal fare eco alla mia risata, come per intonarsi più giusto, poi rispose tra il serio ed il faceto:
— Meno male che tu mi comprendi! Se non sono propriamente una vittima delle mie nuove ricchezze, ti assicuro che esse m'hanno rubato molto della mia ricchezza d'una volta, tanto più preziosa; la spensieratezza, la fantasticheria, le repentine gioie che ci dà un nonnulla, tutto questo va perduto facendo un'eredità. Prova e vedrai. —
Qui ci stava un sospiro, ed io ce lo misi tanto per fare il paio, perchè se v'era una cosa che desse ragione a Valente, poteva esser questa: che io non aveva un desiderio molto vivo di fare una eredità.
Valente aveva preso il filo: — Questa cameretta (eravamo nel tinello) può invidiare la mia sala, ma se ha giudizio non la invidierà; può però aspirare a diventar bella un po' più, ad avere prima la tappezzeria che le manca, poi le porte inverniciate di nuovo, poi la vòlta dipinta meglio, il mosaico per terra, ed infine le credenze più graziose, di rovere e palissandro..., guarda quanti bei sogni può fare questa cameretta, e quante gioie purissime le prepara l'avvenire. —
Egli diceva la cameretta, ma guardava me, parlava di me, ed io leggeva nel suo risolino che il preparatore di quelle gioie purissime voleva esser lui, e facevo le mie riserve.
— Invece la mia sala immensa, dorata, splendida, non ha più un desiderio, un bisogno, non si aspetta più alcuna gioia; tu metti le cortine di bucato alla stanzuccia; vedila ilare, contenta; io in mancanza di meglio caccio nella mia sala cento nonnulla costosi, che non mi costano niente, che una volta messi là par che si nascondano, che la lasciano fredda, superba, indifferente e stupida. —
Si accalorava un tantino nel dire queste parole: la sala era lui!
— Dunque non sei felice?
— Sì, sono felice, ma una volta ero di più. Ecco il mio stato; gli è che la nuova ricchezza non è soltanto la cessazione della povertà, ma l'agonia delle gioie più belle, dei desiderî più ardenti, delle speranze più balde, degli affetti più semplici, delle fantasticherie più alate. —
Ora mi andava nella lirica, bisognava fermarlo.
— Perchè tu manchi di regola — gli dissi — perchè tu non hai metodo, perchè, secondo il tuo modo di vedere, agi ed ozio sono sinonimi, perchè tu nelle ricchezze non vedi se non il possesso freddo, monotono, incapace di dare un palpito, mentre vi è la distribuzione che è varia, animata e conosce «gli affetti semplici,» e vede da vicino la «gioia,» e non volta le spalle alla «speranza.» Se io fossi in te avrei tante cose da fare, tante, tante, che non mi rimarrebbe un briciolo di tempo alle «fantasticherie alate....»
— Ah! oh! — disse crollando il capo, — l'unico, vero, purissimo conforto della vita è il fantasma; l'immaginazione è la felicità; non mi stare a compiangere i poeti morti all'ospedale, perchè per essi la vita era un giardino incantato, e lo spedale una reggia. Quando ero studente di pittura all'Accademia, e mi avevate battezzato «l'uomo del domani,» perchè non facevo che castelli in aria, allora sì che ero contento!
— Schiettamente: vorresti tornare a quei tempo, a quello stato?
— Schiettamente: no.
— Lo vedi!
— Lo vedi che non mi capisci! — esclamò egli trionfante.
In quella entrò mia moglie, che era rimasta di là a farsi un po' bella per ricevere la visita. L'amico Valente si inchinò, le strinse la mano, le chiese come stava, con una garbatezza sciolta, di cui un tempo l'avrei creduto incapace.
E non so come avvenne la solita trasformazione intorno a me; mi parve che l'amico mio si allungasse, si allungasse, e mentre finora io lo aveva lasciato sopra una seggiola, nell'atto che si rimetteva a sedere gli spinsi fra le gambe un seggiolone.
Valente fu gentilissimo colla mia Annetta, la lodò del buon gusto, della disposizione dei nostri mobili, e la poverina tenne così poco per sè protestando di non averci quasi merito, che io dovetti intervenire due volte perchè non mi facesse la parte larga più del giusto e del ragionevole.
Sul pianerottolo l'amico mi strinse forte le due mani e mi disse:
— Hai una donnina che vale un tesoro!
— E la tua!
Non mi rispose; stette un momento in pensiero, poi disse:
— No, non vorrei essere nei tuoi panni, e pure t'invidio; prova a diventar ricco e mi comprenderai.
— Se non ti spieghi ora, temo che non avrò mai occasione di comprenderti. —
E allora egli mi disse con una serietà da burla:
— Il primo furto che ti fa la ricchezza è la volontà: tu sei padrone di molto denaro e non più di te stesso; ci è un avversario in te, che dorme finchè sei.... (voleva dir povero ) finchè sei.... così; il mio s'è svegliato. Perciò io vorrei essere il Valente di una volta, ma lui non vuole.... andare a letto. —
Rise, risi; ci scrollammo le mani; egli scese le scale ed io mi buttai, contento come una pasqua, nelle braccia d'Annetta, che era lì, dietro l'uscio, ad aspettarmi.