L'amico Valente passava delle ore buone nel mio studiolo, sdraiato nella mia poltroncina, dinanzi al mio cavalletto, fumando la mia pipa, e dandomi ogni tanto dei consigli con un'aria tutta sua, coll'aria di chiedermene, facendomi venire un dubbio, balenare un'idea col mostrarsi ingenuo e dubitoso egli stesso. A sentirlo, era un secolo che non toccava i pennelli, la tavolozza aveva certe croste di colori che non avrebbe sciolte nemmanco il diluvio, in somma doveva essersi dimenticato di tutto. Ma a volte mi diceva:

— Scusa un po', che te ne sembra? caricando un tantino quell'ombra, la figura non si staccherebbe meglio? prova per farmi piacere.... cancellerai dopo. —

Io provavo per fargli piacere e non cancellavo più; e il giorno di poi, rivedendo il quadro, non ci era pericolo che Valente dicesse, come avrebbe fatto un altro: — Oh! l'hai lasciata l'ombra? hai fatto bene! —

Peccato che egli avesse voltate le spalle all'arte; mi ricordavo di certi suoi studi di nudo all'Accademia che noi scolari mettevamo sotto voce sopra quelli del professore; egli aveva una certa sua maniera spiccia, sicura, che formava la disperazione degli emuli. Anche a me da principio aveva fatto dispetto, perchè gli volevo passare innanzi anch'io, volevo fare anch'io i nudi più belli de' suoi; ma quando Samuele, un vecchio modello con tanto di barba bianca, mi ebbe detto un paio di volte che i muscoli che avevo messo sulla tela non erano i suoi, la carne nemmeno, e che le mie costole non avevano nulla da vedere colle sue, ed ebbe soggiunto che il nudo non gli pareva il mio forte, che il mio genere era probabilmente il genere — allora andai ad offrire la mia amicizia a Valente, e cominciai a dire a quanti mi volevano intendere che i suoi nudi erano i migliori; che chi non è nato pel nudo, è inutile si ostini, faccia le donne e gli uomini vestiti; che ciascuno deve trovare la sua strada, e che il mio genere era sicuramente il genere.

Così si divenne indivisibili.

Ora sembravamo tornati a quei beatissimi tempi; la mia Annetta era proprio innamorata della signora Chiarina, di quella donnina-gingillo, donnina-tesoro, donnina-minuzzolo di paradiso, come diceva lei. E quando io facevo qualche restrizione, per tattica maritale, ella mi diceva ironica: — Davvero? come dovrebbero essere le donne, perchè il signore le trovasse perfette?

— Dovrebbero essere amate.... come te.

Allora mi chiamava ipocrita ridendo.

Quanto alla signora Chiarina, mi pare che volesse propriamente bene alla mia Annetta, perchè, vedendola, le correva incontro ed era la prima a porgere le guance per farsi baciare, e le restituiva un bacio appena appena ci stava lo spazio di tempo necessario; ma parlava pochino, massimamente in presenza mia, e mentre non si dava le arie di gran signora, aveva un certo ritegno che mi metteva in imbarazzo; lo avrei detto sussiego, senza quella grandissima facilità di ridere e di farsi rossa. Perchè si faceva rossa? Io non sono uno sguaiato, e le parole prima di lasciarmele venir fuori dalla bocca le misuro colla lingua, pure non potevo fare una parlatina di quattro periodi senza vedere arrossire quella faccetta bianca. Allora mi fermavo pensando: «che cosa ho detto?» Meno di nulla. S'era parlato di pittura, o di mia moglie, o di suo marito. Un paio di volte avevo nominato la Venere dei Medici, o messo in ridicolo le Pompeiane moderne, che sono sempre a sedere dinanzi allo specchio, o ritte senza camicia dinanzi al bagno. Si era fatta rossa, non ci era di che, però mi guardai bene dal ricascarci.

Parlandone con mia moglie, essa mi disse: — «non capisco nulla io pure, è una cosina tutta timida, tutta ingenua, è una sensitiva, sarà per questo.»

— Sensitiva quanto vuoi, è pure la moglie di suo marito, e certe cose deve.... —

Annetta non mi lasciò finire, e corse via tappandosi le orecchie — influenza del buon esempio!

Non in questo solo mia moglie cercava di assomigliare alla sua nuova amica; a spasso mi si attaccava al braccio appoggiando un tantino la testa al mio omero, come vedeva far lei ogni giorno, stando alla finestra, nelle ore che i padroni di casa erano soliti uscire; e ripeteva le esclamazioni favorite della signora; e si pettinava liscia come lei. È detto tutto in tre parole: ne era innamorata.

Ancora Valente non mi aveva fatto vedere i suoi cartoni, ed io mi proponevo ogni giorno di chiedere quanto non mi veniva offerto, ma differivo per una ragione semplicissima, ed è che ancora Valente non mi aveva condotto in giro per il suo appartamento. Alla fine ci condusse. Quante stanze! Quanti mobili! Quanto lusso! Sulle prime non mi potei fare un'idea chiara di quel labirinto, ma quando pensandoci me n'ebbi messa la pianta nel cervello, vi trovai alcuni difetti di distribuzione che sarebbe stato un peccato non correggere. Dov'era un salotto, uno dei tanti, ci doveva essere lo studiolo, che così avrebbe ricevuto una luce bellissima; quanto a renderlo indipendente, come lo voleva l'amico mio, bastava condannare un uscio; cosa elementare.

— Grazie — mi disse Valente, e tirammo innanzi. Giunti ad uno stanzino in fondo, ci affacciammo appena di qui e di là a due camere, i cui usci si guardavano; due camere identiche, un lettuccio in ciascuna; quella a dritta era della signora Chiarina, l'altra di Valente; dentro di me io non approvavo una disposizione simile, ma quando vidi la signora Chiarina tutta rossa, ed intesi Valente dire che la si faceva rossa, figuratevi! per timore ci rivelasse la paura orribile ch'ella aveva di notte, allora non mi potei trattenere dal pensare: — Ma se ha tanta paura!...

Diceva Valente:

— Quando ho guardato sotto i letti, nell'armadio, dietro le portiere, e fatto correre le poltroncine, e lasciati aperti gli usci delle nostre due camere e la lampada accesa, quest'eroina ha ancora paura.... —

E allora non mi seppi trattenere dal dire, come avevo pensato:

— Ma se ha tanta paura.... —

Non mi si lasciò finire; la signora Chiarina ebbe l'aria di fuggire; mia moglie e Valente le andarono dietro, ed io in coda.

Nel ripassare dinanzi allo studiolo, mi fermai a squadrarlo, così, sul limitare; era proprio vero: un cavalletto stava ripiegato ed addossato alla parete, alcune tavolozze pendevano appese ad un chiodo, una sopra l'altra, ed ecco i pennelli in fascio entro un secchiolino. Valente Nebuli non era più pittore! Sulle pareti si vedevano appese alcune tele sbozzate appena; qua e là pochi tocchi di carbone svelavano l'intenzione d'una signora mitologica qualunque — non più che l'intenzione; ma per un artista non vi hanno abbozzi; egli vede il quadro compiuto dove non sono che quattro linee, ci mette i colori del suo, l'aria, la luce, il fondo, — ecco, la figura si stacca bella come non potrà essere mai. Quanti capilavori ho fatto io così! Andavo in giro per la stanza, facendo il sordo, mentre Valente continuava a dirmi: — Vieni via, non c'è nulla di buono, lascia stare. —

La curiosità, non l'arte, mi fece fermare dinanzi ad un gran quadro; non l'arte, ma la curiosità; perchè quel quadro era interamente coperto da una cortina, come le Madonne miracolose degli altari. Cercavo la cordicella per tirar su la cortina, quando Valente mi prese per un braccio ripetendomi: — Vieni, lascia stare! —

Naturalmente non lasciai stare, la tenda andò su, e vidi....

Oh! la vaghissima delle creature! Un visino bianco, soave, un po' sbigottito, con due occhi, in cui brillava una luce modesta, coi capelli neri, morbidi, ondulati, scendenti giù giù per le spalle; tutto ciò disegnato e colorito da gran maestro. Ma perchè sbigottito? Stava dinanzi alla finestra, dove, oltre d'un garofano in fiore, nulla vi era da far sbigottire una signora.

Notai le vesti trascurate, notai la finestra ed il garofano fatti alla carlona, ed atteggiandomi dinanzi a Valente come un punto interrogativo, vidi che egli pure mi guardava, quasi volendomi leggere in faccia quel che ne pensassi.

— Il volto è meraviglioso — dissi — il resto, lo sai meglio di me, non vale un quattrino; se quelle pieghe non le hai copiate da una Madonna di legno, io non le capisco; garofani simili già non ne ho mai visti, il pavimento non ci è male.... ma che sorta di colori hai adoperato?...

— Volevo ben dire! — esclamò Valente; — è un quadro misto, ecco tutto il suo pregio; la testa è dipinta ad olio, le vesti, la finestra, il garofano ed il resto a tempera.... tanto per finirlo.

— Ma così non hai finito nulla! — esclamai.

— Lo finirò.

— Quando?

— Presto, ora lascia stare, e vieni.

— Ancora un pochino.... ah! quella testa!... oh! quegli occhi! ma perchè quell'espressione sbigottita? Nella finestra non c'è che un garofano e nel garofano che c'è da far sbigottire?

— Me lo domandi? Non dici tu stesso di non averne mai visti di garofani simili?

— Mai, te lo giuro.

— Anche la signora Valeria non ne ha visti probabilmente mai; «è un garofano? non è?» ecco perchè ha l'aria sbigottita. —

Rideva.

— Si chiama Valeria? — chiesi.

— Sì. —

E cessò di ridere.

Si mosse, gli tenni dietro, ma mi voltai sull'uscio ed in quell'ultima occhiata mi balenò un'idea. La signora Valeria rassomigliava a qualcheduno.... A chi?... Un quarto d'ora dopo non mi rimaneva dubbio; fatte le debite indagini, trovai che, tranne il colore dei capelli, la fronte, il naso, la bocca, gli occhi ed anche un pochino l'ovale del viso, tranne questo, la signora Valeria del quadro e la signora Chiarina, che mi stava dinanzi impacciata dai miei sguardi curiosi, si assomigliavano come due goccie d'acqua. Da pittore di ritratti coscienzioso, devo dire che non seppi per un pezzo in qual linea identica delle due faccette bianche collocare questa strana rassomiglianza, e dovetti accontentare la mia vanità col dire che tutte le perfezioni si rassomigliano, che le Veneri greche, dissimili tutte, sono pur sorelle, e tante altre cose solenni che quando si ha il carbone od il pennello in mano fanno ridere; ma finalmente trovai le linee (erano due), linee parallele e quasi impercettibili, che scendevano dalle narici al principio del mento, e dovevano costringere le due faccette bianche a ridere, a sorridere, a star serie ad un modo. Ho sporcato tanta carta per indovinare quelle linee, che ora le so a memoria, e le potrei metter qui colla penna, e ce le vorrei mettere se avessi speranza di farmi intendere meglio.

Naturalmente questa scoperta unita al mistero della cortina e dei modi dell'amico Valente, mi pose in una gran curiosità.

Dove scava l'immaginazione — tenetelo bene a mente, perchè è filosofia pratica — dove scava l'immaginazione invece del ragionamento, la profondità rimane il vuoto, quando non diventa il caos.

Messomi a fantasticare, feci dieci romanzetti, protagonisti i due capolavori, il quadro e la signora Chiarina, romanzetti uno più sconclusionato dell'altro, che per buona sorte rimasero uno più inedito dell'altro.

Veniamo al negozio della lite: non vi ho detto che vi era una lite pendente in casa Nebuli, perchè non me ne ero accorto prima di ricevere per isbaglio la visita di un usciere.

— È lei il signor.... — e qui una guardatina al suo scartafaccio — il signor Nebuli?

— Al primo piano.

— Qui sta scritto al terzo — nuova guardatina come sopra.

— Avranno sbagliato.... —

Non pareva persuaso.

— Sono l'usciere del Tribunale.... — disse con sussiego.

— Ciò non impedisce al signor Nebuli di stare al primo piano. —

Feci allora l'osservazione, comprovata di poi, che gli uscieri avvezzi allo stile ameno delle loro intimazioni non amano le amenità di stile degli altri. Quel sacerdote, cioè quel sacrestano d'Astrea, se ne andò senza salutarmi.

Il sacerdote venne più tardi, una sera che si rideva tutti insieme in casa dell'amico mio; e venne impettito in tutta la solennità de' suoi solini inamidati, de' suoi occhiali, del suo farsetto abbottonato, a far la parte di spegnitoio del nostro buon umore.

Si trascinò Valente in uno stanzino, stette un pezzo a nominargli i tribunali, le sentenze, l'appello, tutte queste grosse parole, che giungevano ogni tanto fino a me di mezzo agli squilli armoniosi della signora Chiarina che rideva, della mia Annetta che la faceva ridere; e finalmente ce lo restituì un po' pallido, salutò senza piegare la colonna vertebrale ed uscì solennemente, accompagnato dal servitore in livrea, che era più solenne di lui.

— Hai delle liti?

— Sì.

— E quello è il tuo procuratore?

— Sì.

— Come mi piacerebbe averlo per un'ora a mia disposizione... e anche l'usciere!

— Hai tu pure una lite?

— No, ma vorrei pregarli di posare un quarticino d'ora per un quadro di genere.... —

La signora Chiarina rise forte, lui no; la lite doveva essere grave.