Era grave. Per quello che io ne capii, quando Valente mi spiegò la cosa, si trattava d'un testamento impugnato. Come si impugni un testamento, voi forse non lo sapete più di me, ed io prego il Signore che non vi metta mai nella condizione di doverlo chiedere ad un avvocato, perchè già chiederlo al vocabolario sarebbe inutile.

Quello che io interrogai per farmi un'idea chiara la prima volta che fui interessato nella cosa, m'insegnava ad impugnare la forchetta e la lancia e non so quante altre cose che io sapeva impugnare benissimo (almeno mi pareva), ma di testamenti non fiatava neppure. Si trattava di un testamento impugnato, — causa Corvi contro Corvi, perchè sebbene i due Corvi, attore e convenuto, fossero in sepoltura, le leggi continuavano a supporre che non potessero aver pace se non si litigava in nome loro.

Ora era Pasquali quello che impugnava; l'altro che non voleva lasciar fare era Nebuli, non già Valente, ma il suo autore (si dice così), cioè lo zio materno, da cui l'amico mio aveva ereditato i poderi e la lite. Ci siete? Ecco come era andata la cosa.

Lo zio Nebuli ed il signor Pasquali erano stati cari e buoni amici sempre, così buoni e così cari, che per far le cose proprio benino fino all'ultimo, senza sciupare la loro amicizia, avevano pensato di innamorarsi di due sorelle e di sposarsele. Il caso — il gran sensale di matrimoni — fece trovare le due sorelle Corvi disponibili, e le doppie nozze furono conchiuse; le spose portavano, unica dote, un monte di speranze sopra un avo mezzo milionario e mezzo morto, perchè era paralitico dal lato sinistro. Lo credereste? Diventati parenti, gli amici non furono più quelli; — colpa delle cognate — dicevano, le quali abusavano (pare) del diritto che la Natura e la Società danno ad ogni buona sorella di ficcare il naso in casa del cognato, per vederci un gran numero d'importantissime cosucce che erano così, mentre dovevano essere altrimenti.

Le cognate erano ottime massaie tutte e due, ma di due massaie ottime ce n'è sempre una che ha qualche cosa di sopraffino, a cui l'altra non arriva.

Costei coltivò tanto bene lo sperato campicello dotale, che gli fece fruttare il centocinquanta per cento — quesito matematico economico, che giuridicamente si può risolvere così: far testare il nonno in favor suo, senza pregiudizio della legittima. In queste parole in corsivo deve stare tutta la furberia, e se voi ce la sapete vedere alla prima così chiaro come non l'ho vista io, per quanto aguzzassi tutte le mie facoltà visive, andate là che vi potete vantare. Le due sorelle si vollero cavar gli occhi; gli amici, inseparabili un tempo, ora parenti per giunta, cominciarono dal dirsi non so che, nulla di buono di sicuro; poi quando si trovarono per istrada la prima volta, l'uno guardò le nuvole, l'altro il selciato, e finalmente riuscirono a passarsi rasente senza più aver l'aria di conoscersi.

Per giungere a questo risultato splendido le difficoltà non furono lievi, perchè l'uomo, come sapete, è una creatura piena di debolezze.

Fu allora che la signora Pasquali, consigliata da un avvocato, scoprì che il nonno doveva essere imbecillito, ed incominciò ad impugnare il testamento; e fu allora che la signora Nebuli cominciò a gridare, per bocca d'un altro avvocato, che era una vergogna calunniare un uomo pieno di giudizio come il nonno.

La signora Pasquali prima, la signora Nebuli poi, disperando del Codice di procedura civile, andarono a comporre il loro litigio al tribunale del Padre Eterno; ai tribunali ed agli avvocati di quaggiù rimasero i coniugi superstiti, uno dei quali convinto peggio che mai della necessità di impugnare, l'altro meglio che mai persuaso che a lui spettava difendere la libera volontà del defunto. Dissero, e scrissero, e disdissero tanto gli avvocati eloquenti, che i vecchi amici d'una volta ebbero tempo a diventare nemici, vecchi, reumatici e gottosi, e quando in buon'ora fu emanata la sentenza, che condannava l'amico Pasquali a tutte le spese della lite, ai danni ed agli interessi, l'amico Nebuli fu così felice da dimenticare la gotta, la quale approfittò di quel momento di sbadataggine per dargli uno spintone e farlo stramazzare al mondo di là. Fu allora che l'avvocato telegrafò all'erede unico in Torino, venisse a raccogliere l'eredità dei defunto, ed a rinnovargli il mandato, prevedendo che la parte avversaria avrebbe appellato in tempo utile. L'amico Valente disertò l'Accademia, corse a Milano, accettò l'eredità col benefizio d'inventario, rinnovò il mandato, e non so più che altro fece per far piacere all'avvocato, poi se ne andò a Parigi che non aveva mai visto ed era sempre stato il suo sogno; dove, appena giunto, seppe che «la parte avversaria era ricorsa in appello in tempo utile.»

Tutta la questione dunque si riduceva a questo: era o non era imbecillito dalla paralisi il nonno dello zio di Valente?

Valente diceva di no, ma il vecchio signor Pasquali non stava in questo mondo di reumi, se non per sostenere di con dieci documenti e quattro perizie; molti testimoni avevano deposto che era imbecille e che non era imbecille, ed erano morti dopo essersi alleggeriti di quell'enorme peso. Ma vi erano lettere del vecchio piene di buon senso e senza errori di ortografia e di grammatica: altre ve ne erano (oltre al testamento stesso) piene di errori di grammatica e di ortografia, e queste ultime posteriori. — Ora, diceva l'avvocato avversario, — la grammatica e l'ortografia non si perdono come una chiave od un fazzoletto (in cento fogli di caria bollata veniva ripetuto non so quante volte questo argomento, ed era sempre la chiave ed il fazzoletto che fornivano il paragone) — dunque il nonno era imbecillito.

Il tribunale non si era lasciato commovere dall'argomento; fu notato solo che un giudice si palpò le tasche per assicurarsi di non aver perduto la chiave di casa, e che il presidente si soffiò il naso; ma al momento di sentenziare lo fecero come ho detto.

Rimaneva il tribunale d'appello, di cui Valente si teneva sicuro, ma l'avvocato mostrava dei dubbî e così gravi, che anche l'amico mio aveva preso a dubitare — ed allora l'uomo della legge lo incoraggiò lasciandogli capire che la sua eloquenza gli avrebbe messo un'altra volta in pugno la vittoria.

A voi che ne sembra? Era o non era imbecillito il nonno dello zio di Valente?

A me pareva grave.