La ragazza si avvicinò a Will Barbee mentre lui, ritto davanti al terminal di vetro e cemento di Trojan Field, il nuovo aeroporto municipale di Clarendon, osservava il cielo di piombo cercando di scorgere gli aerei in arrivo. Non c’era alcun motivo perché Will dovesse sentirsi percorrere da un brivido tale da fargli battere i denti: ma forse era stata soltanto una folata dell’umido vento di levante.

Snella ed elegante nella bianca pelliccia, la ragazza gli trasmetteva un’o­scura sensazione di gelo. Tuttavia, aveva una incredibile massa di capelli ros­si; e bianca e flessuosa com’era, il volto serio e dolce, confermò la prima impressione ricevuta da Will: che fosse qualcosa di straordinariamente pre­zioso e bello. Lo fissò, e la bocca di lei parve incurvarsi in un accenno di sorriso.

Barbee, col fiato mozzo, esaminò più attentamente quegli occhi che lo guar­davano sorridendo gravi: erano proprio verdi, verdissimi. La scrutò, cercan­do di spiegarsi quel freddo brivido di allarme istintivo, e si rese conto di provare un’attrazione altrettanto istintiva. Gli parve illogico: la vita lo aveva reso cinico in fatto di donne, e si considerava ormai immune al loro fascino.

Il tailleur di gabardine verde che la ragazza portava sotto la pelliccia, sem­plice e severo, era di certo molto costoso, e la tinta si intonava al colore degli occhi. Contro le raffiche gelide di quel grigio pomeriggio d’ottobre, la ragaz­za era difesa da una specie di cappotto di pelo candido e folto, che a Will parve di lupo artico: albino, probabilmente.

Il gatto però era davvero strano.

Dall’apertura della borsa di coccodrillo che le pendeva dal braccio, e sem­brava che intorno a esso fosse avvolto un rettile vivo, un gattino spuntava fuori con aria soddisfatta; un piccolo micio nato da poco, tutto nero, con un bel nastro di seta rossa annodato intorno al collo.

Insieme, erano una perfetta immagine di serena innocenza. Ma quel micino che sbatteva gli occhi alle luci che si rincorrevano nel crepuscolo, portava una nota discorde. La ragazza non sembrava il tipo che gioisse della compa­gnia di una bestiola così tenera. E la sua apparenza di giovane e determinata donna d’affari non sembrava proprio conciliabile con l’inclusione di un gatti­no nero, sia pur piccolo e grazioso, fra gli accessori d’abbigliamento.

Barbee si chiese dove e quando l’avesse conosciuta. Clarendon non era cer­to una grande città, e un cronista come lui, che va dappertutto, dei capelli rossi come quelli li avrebbe visti e ricordati anche se fosse stato cieco. La guardò ancora, dubbioso che quegli occhi verdi si dedicassero proprio a lui.

La ragazza continuava a fissarlo.

«Barbee?», chiese con voce morbida e piena, una voce che rivelava una vitalità così intensa da possedere quasi una sfumatura gutturale.

«Will Barbee», rispose lui. «Cronista del Clarendon Star. »

Si era illuso che un così modesto particolare potesse sembrare interessante alla ragazza.

«Il direttore stasera vuole che prenda due piccioni con una sola fava», riprese, a corto di argomenti. «Il primo piccione sarebbe il colonnello Walraven, che ha piantato Washington e la burocrazia per tornarsene a Clarendon, dove spera di essere eletto senatore. Ma avrà ben poco da dire alla stampa, prima di aver parlato con Preston Troy.»

Il gattino sbadigliò mentre le luci si accendevano, e la piccola folla di paren­ti e amici in attesa si accalcò lungo la rete metallica che divideva il pubblico dal campo. Intanto, gli intensi occhi verdi della ragazza non s’erano staccati per un attimo dalla sua faccia, e la sua voce magica domandò dolcemente:

«E il secondo piccione?».

«Quello è il più grosso. Si tratta del professor Lamarck Mondrick. Anima e corpo dell’Istituto per le Ricerche Antropologiche, vicino all’università. È atteso per quest’oggi, su un aereo noleggiato sulla costa del Pacifico, insieme coi suoi compagni di spedizione. Sono stati nel deserto di Gobi, in Mongolia. Ma lei già saprà tutto di questi esploratori.»

«No», e qualcosa nella voce di lei gli accelerò le pulsazioni del sangue nelle vene. «Che cosa hanno fatto?»

«Sono archeologi, che la guerra ha sorpreso mentre facevano degli scavi in Mongolia, scavi che naturalmente furono interrotti. Nel 1945, quando i giap­ponesi si sono arresi, la spedizione è tornata subito là, malgrado gli impacci burocratici. Sam Quain, che è il braccio destro di Mondrick, durante la guer­ra aveva fatto parte d’una importante missione militare in Cina e perciò ha potuto ottenere i permessi necessari. Sembra che abbiano trovato qualcosa di eccezionale.»

La ragazza lo ascoltava con interesse, per cui Barbee riprese: «Sono tutti di Clarendon, e tornano in patria stasera dopo due anni di lotta e di pericoli con militari, banditi, tempeste di sabbia e scorpioni nel cuore della Mongolia più misteriosa. Sembra che portino con sé qualcosa che sconvolgerà il mondo archeologico.»

«E cioè?»

«È appunto quello che il mio direttore vorrebbe che io scoprissi stasera.» Barbee la osservò con due grigi occhi pazienti e perplessi. Il gattino nero ammiccò, più arzillo che mai. Niente, nell’aspetto della ragazza, giustificava il suo sfuggevole brivido di allarme. Il suo sguardo era ancora impersonale. Temette che se ne andasse.

Inghiottendo la saliva, il giornalista si decise: «Dove ci siamo conosciuti?», domandò.

«Sono una collega, o per meglio dire una rivale», disse la ragazza, in tono più aperto, non privo di cordialità. «April Bell, del Clarendon Call. »Gli mo­strò un taccuino nero: «Mi hanno detto di guardarmi da te, Will Barbee.»

«Oh», sorrise lui, e indicando con un cenno del capo il gruppetto di persone dietro le vetrate della stazione, in attesa dell’aereo: «Avrei creduto piuttosto che tu fossi qui di passaggio, tornando a Hollywood o a qualche teatro di Broadway... Ma non sei proprio della redazione del Call,vero?» E lasciò scorrere lo sguardo su quegli splendidi capelli di fiamma, scotendo la testa in muta ammirazione. «Perché ti avrei notata...»

«Sono nuova», disse la ragazza. «Mi sono diplomata in giornalismo questa estate. Ho cominciato a lavorare al Call lunedì scorso. Questo è il mio primo servizio.» E con tono infantilmente confidenziale: «Ho paura d’essere come un pesce fuor d’acqua, qui a Clarendon... Sai, sono nata qui, ma la mia fami­glia mi ha portata in California quand’ero ancora bambina.» I denti bianchis­simi lampeggiarono in un sorriso d’ingenua fiducia. «Sono del tutto forestie­ra a Clarendon, e nello stesso tempo ho tanto desiderio di farmi onore al Call »,confessò dolcemente. «Vorrei proprio fare un bel pezzo su questa spedizione di Mondrick. Pare che ci siano tante cose misteriose e affascinan­ti, nella spedizione! Ma ho paura di non avere studiato troppe materie scien­tifiche all’università. Non ti dispiace, Barbee, se ti faccio qualche domanda?»

Barbee non rispose perché era immerso nella contemplazione dei suoi den­ti. Denti regolari, forti, candidi. Quel tipo di denti con cui ragazze bellissime stritolano ossa nelle pubblicità dei dentifrici. Pensò che lo spettacolo di April Bell intenta a stritolare un osso sanguinolento sarebbe stato dei più eccitanti.

«Vedo che ti dispiacerebbe, vero?»

Barbee inghiottì di nuovo e con uno sforzo tornò alla realtà. Le sorrise, perché ora cominciava a capire. Era una novellina, ma furba come Lilith. Il gattino aveva indubbiamente il compito di dare il tocco finale al commovente quadretto d’una fanciulla sola e senza aiuto, annientando così le ultime resi­stenze maschili che i suoi occhi affascinanti e la chioma fiammeggiante non avessero ancora debellato.

«Noi siamo rivali, dolcezza», le ricordò, cercando di fare il severo. L’occhia­ta ferita di lei non andò perduta, ma il giovane mantenne il tono ruvido della sua voce. «E poi April Bell sembra un nome finto.»

«Mi chiamo Susan, in realtà», e i verdi occhi della ragazza divennero quasi neri tanto era intensa l’implorazione che vi si leggeva. «Ma April m’è parso molto più adatto al mio primo servizio firmato. Ti prego... dimmi qualcosa sulla spedizione... quel Mondrick dev’essere un pezzo grosso davvero, se tutti i giornali vogliono articoli su di lui...»

«È uno studioso veramente in gamba. La sua spedizione si compone soltan­to di quattro uomini, e non ho dubbi che devono avere visto cose incredibili in quelle regioni sconosciute, in mezzo al deserto, in tempi come questi. È già un mistero come abbiano fatto ad arrivare fin là e a tornare indietro. Ma Sam Quain ha amici cinesi, e questi devono averli molto aiutati.»

Con una minuscola stilografica, lei intanto prendeva appunti rapidissimi sul taccuino nero.

«Amici cinesi», mormorò la ragazza scrivendo. Poi alzò gli occhi imploranti: «Davvero non hai idea di che cosa portino di là?».

«Nemmeno la più pallida ombra di un’idea. Qualcuno della Fondazione ha telefonato oggi allo Star per informarci che sarebbero arrivati stasera in ae­reo. Ha anche detto che la spedizione aveva novità sensazionali da annuncia­re. Pare che si tratti di una grande scoperta scientifica. Ci ha consigliato di mandare fotografi e i nostri redattori scientifici, ma lo Star non è giornale che prenda troppo sul serio i problemi della scienza. Secondo il direttore basto io tanto per il servizio su Walraven quanto per quello sulla spedizio­ne.»

Intanto cercava di ricordarsi il nome di un certo personaggio mitologico, affascinante e desiderabile, senza dubbio, quanto lo era April Bell, ma dedita alla brutta abitudine di tramutare gli uomini invaghiti di lei in bestie ripu­gnanti. Come si chiamava... Circe?

Non aveva pronunciato quel nome a voce alta... ma l’improvviso incurvarsi ironico delle labbra, e un certo scintillìo malizioso negli occhi verdi, gli fece­ro pensare per un istante di averlo fatto. Ed era strano, perché non capiva che cosa l’avesse fatto pensare alla mitica maga.

Il disagio durò un istante, che impiegò per cercar di scoprire i motivi di quella strana associazione mentale. Aveva letto Menninger e Freud, cono­sceva il Ramo d’oro di Frazer. Sapeva che i simboli delle antiche leggende entrate nel folklore esprimevano le paure e le speranze dell’uomo primitivo: perciò, l’immagine lampeggiata nei suoi pensieri doveva riportare a qualcosa nel suo inconscio. E non voleva nemmeno sapere a che cosa.

Rise improvvisamente e disse:

«Va bene, ti dirò tutto quello che so, anche se rischierò il licenziamento in tronco quando Preston Troy leggerà il mio servizio anche sul Call. O preferi­sci che te lo scriva io?».

«Grazie, ma la mia stenografia è abbastanza buona.»

«Bene, Mondrick era già un antropologo di fama alla Clarendon University, prima di dimettersi una decina di anni fa per creare la sua Fondazione An­tropologica. Oggi è considerato, malgrado la sua straordinaria modestia, il più grande studioso, forse, in tutto il mondo, della specie umana. Biologo, psicologo, archeologo, sociologo, etnologo... Insomma, sembra che sappia tutto quello che val la pena di sapere sul suo argomento favorito: il genere umano. Ha diretto tre spedizioni nel deserto di Gobi, prima che la guerra lo costringesse a sospendere le ricerche; poi, appena ha potuto, vi si è precipita­to di nuovo. Gli scavi si trovano nella regione di Ala-shan, nel Gobi sud-occidentale, dove il deserto è più arido, ostile, torrido...»

«Avanti», lo spronò la ragazza, la punta della penna ferma sul taccuino. «Hai un’idea di che cosa cercasse la spedizione?»

«È il loro grande mistero. Ma è certo che, di qualunque cosa si tratti, Mon­drick se ne occupa da almeno vent’anni. Ha organizzato la Fondazione esclu­sivamente per trovare quello che cerca, lasciando la cattedra universitaria. È il lavoro di tutta la sua vita: e, dato l’uomo, non può che essere una cosa importante.»

La piccola folla di persone in attesa presso la barriera d’acciaio si agitò e un bimbo indicò eccitatissimo il cielo grigio. Il vento saturo di umidità vibrava al rombo di motori possenti. Barbee guardò l’orologio.

«Cinque e quaranta», disse alla ragazza. «L’aereo è atteso per le sei, di modo che se questo è l’apparecchio di Mondrick, evidentemente è in antici­po.»

«Di già?» Con gli occhi verdi pieni di luce, April pareva emozionata almeno quanto il bimbo che aveva indicato il cielo. «E gli altri? I collaboratori di Mondrick, intendo, li conosci?»

Un’onda di ricordi fece indugiare Barbee, che annuì, con un po’ di tristezza. Nella sua mente balenarono tre volti un tempo familiari, e il brusio della piccola folla in attesa si trasformò nell’eco remota di voci venute dal passato.

«Oh, certo che li conosco», disse.

«Allora, parlamene.»

La voce di April Bell interruppe la sua breve fantasticheria. La ragazza at­tendeva, la penna puntata sul taccuino. Will sapeva perfettamente che non si deve mai rivelare al collega di un giornale concorrente il materiale che fa da sfondo a un servizio speciale, ma quei capelli erano d’un rosso fiamma trop­po rabbioso e quegli occhi bizzarramente allungati così misteriosi, che la sua riluttanza si sciolse come neve al sole.

«I tre uomini che nel ’45 sono tornati in Mongolia con Mondrick sono Sam Quain, Nick Spivak e Rex Chittum. Sono i miei più vecchi amici. Eravamo tutti colleghi all’università, quando ancora Mondrick insegnava alla Claren­don University. Sam e io siamo stati due anni a pensione in casa di Mon­drick, e poi tutti e quattro ci siamo trasferiti in un appartamento per studenti dell’università. Seguivamo i corsi di Mondrick e... insomma... sai...»

Barbee cominciò a balbettare e infine tacque, timido e impacciato. Un anti­co dolore che non s’era mai spento si era ridestato di colpo, gli palpitava in gola, stringendola in un nodo.

«Continua», disse April Bell con voce sommessa. Il sorriso di affettuosa comprensione che gli rivolse lo spinse a riprendere:

«Mondrick stava già cercando i suoi collaboratori più fidati, capisci. Doveva avere già in mente di fondare il suo istituto di ricerche antropologiche, seb­bene non gli abbia dato vita che quando io m’ero già laureato. Credo che scegliesse gli uomini da addestrare per le sue ricerche nel Gobi».

Inghiottì a fatica.

«A ogni modo, tutti noi seguivamo le sue lezioni... su quelle che lui chiama­va “scienze dell’uomo”. Lo adoravamo. Lui ci aveva procurato delle borse di studio, ci dava tutto l’aiuto che poteva e ci conduceva con sé ai suoi campeg­gi scientifici, d’estate, in America Centrale e nel Perù.»

Gli occhi della ragazza erano penetranti fino a sconvolgere.

«E tu, Barbee?»

«Io alla fine sono stato escluso», confessò a disagio. «Non ho mai saputo bene perché... dato che avevo anch’io la loro passione, e i miei voti erano superiori a quelli dello stesso Sam, e i miei risultati migliori. Avrei dato il braccio destro per poter essere con loro, quando Mondrick avviò la Fonda­zione e li condusse con sé nella prima spedizione nel Gobi.»

«Che cosa accadde?»

«Non l’ho mai saputo, ma qualcosa mi voltò Mondrick contro, qualcosa che mi sfugge ancor oggi. Eravamo ormai tutti laureandi, e Mondrick ci stava vaccinando e prelevava campioni dei nostri gruppi sanguigni per un altro campeggio scientifico, quando mi chiamò nel suo laboratorio, un giorno, per dirmi che avrei fatto bene a non pensare più a viaggi del genere.»

«Ma perché?», mormorò la ragazza.

«Non volle dirmelo. Per quanto vedesse come soffrivo, non volle spiegarsi. Divenne ruvido, come se la cosa facesse male anche a lui, e mi promise d’aiu­tarmi a trovare qualunque altro posto mi fosse piaciuto. Fu allora che mi assunsero allo Star. »

«E i tuoi amici invece andarono in Mongolia?» Gli occhi verdi lo scrutavano penetranti.

«Quella stessa estate. Con la prima spedizione della Fondazione di ricerche antropologiche.»

«Ma almeno», disse, «voi quattro siete rimasti amici?»

Barbee annuì, perplesso.

«Sì, siamo amici. Serbavo un po’ di rancore a Mondrick che non aveva volu­to dirmi perché mi avesse tagliato fuori, ma non ho mai avuto il minimo screzio con Sam, o Nick, o Rex. Quando ci vediamo, ci trattiamo sempre con l’antica cordialità. I Quattro Mulattieri, ci chiamava Sam, quando partivamo per quelle spedizioni a dorso di mulo nel cuore del Messico, del Guatemala o del Perù. Se Mondrick ha detto loro perché non mi ha più voluto, loro non me ne hanno mai parlato.»

Barbee guardò con aria infelice sopra i capelli fiammeggianti della ragazza, nel freddo crepuscolo plumbeo, che ora palpitava tutto al rombo dell’aero­plano invisibile.

«Non sono mai cambiati», riprese. «Ma naturalmente la vita a poco a poco ci ha allontanati. Mondrick ne ha fatto un gruppo di specialisti nelle varie discipline delle sue “scienze dell’uomo”, addestrandoli alle ricerche di quel qualcosa nell’Ala-shan. Non avevano più troppo tempo da dedicarmi.»

Barbee s’interruppe di colpo.

«April Bell», le domandò bruscamente, come per metter fine a quei ricordi penosi d’una sconfitta, «come hai fatto ad avere il mio nome?»

Gli occhi di lei s’illuminarono d’una blanda ironia.

«E se fosse stata intuizione?»

Barbee fu scosso da un altro leggero brivido. Sapeva di possedere quello che si chiama “fiuto per le notizie”, una percezione intuitiva dei motivi uma­ni e degli eventi che ne derivano. Non era una facoltà che si potesse analizza­re o spiegare, ma sapeva che non era insolita. Molti giornalisti di successo la possedevano, anche se, in un’epoca scettica verso tutto quello che non fosse il più vieto materialismo meccanicistico, desideravano dar prova di buon sen­so rinnegandola. Il suo intuito, tuttavia, spesso gli si era rivelato utile: nei loro viaggi scientifici, prima che Mondrick lo mandasse a fare il giornalista, lo aveva guidato più d’una volta al rinvenimento di qualche interessante lo­calità preistorica, semplicemente perché sapeva, chissà come, dove una tor­ma di cacciatori selvaggi avrebbero preferito accamparsi, o scavare una tana, o preparare la tomba di un compagno.

Tuttavia quella facoltà incontrollabile era stata per lui più una maledizione che un vantaggio. Lo rendeva sempre troppo acutamente conscio di tutto ciò che la gente intorno pensava e faceva, lo teneva sempre troppo vigile e teso. Tranne quando beveva. Beveva troppo, e non ignorava che molti altri giorna­listi facevano altrettanto. Quella singolare sensibilità, ne era convinto, rappresentava buona parte del motivo.

Era stato forse quel vago intuito a farlo rabbrividire al suo primo scorgere April Bell, sebbene nulla in quei lunghi occhi caldi e quei capelli color di fiamma gli sembrasse ora temibile.

Le sorrise e cercò di vincere la sua istintiva apprensione. Indubbiamente il suo direttore le aveva fatto, nell’istruirla su come preparare il servizio, il suo nome. Con ogni probabilità, quella ragazza era solita infliggere le sofferenze di Tantalo agli uomini, con quel suo irresistibile miscuglio di candore e di malizia. Le incongruità più strane hanno sempre una spiegazione logica, quando si riesca a trovarla.

«E ora, Barbee, ti prego... dimmi, chi sono quelli?»

Indicò il gruppo di persone che stavano uscendo dal terminal. Un ometto fragile e minuto fece un gesto verso la cappa plumbea del cielo. Una bam­bina piccola gridò che voleva vedere meglio, e la madre la prese in braccio. Un’altra donna cieca veniva dietro tutti, guidata da un cane enorme, un fulvo pastore tedesco.

«Se hai un intuito così prodigioso,» fece Barbee, «perché mi fai delle do­mande?»

La ragazza gli sorrise di rimando.

«Andiamo, Barbee, è vero che sono tornata a Clarendon da poco, ma ho ancora molti amici qui, e poi il mio direttore mi ha detto che tu avevi lavora­to con Mondrick. Quel gruppo di gente laggiù deve essere venuta per acco­gliere gli esploratori. Sono sicura che tu li conosci. Perché non andiamo a intervistarne qualcuno?»

«Se ci tieni.» Barbee rinunciò a ogni idea di resistenza. «Andiamo.»

La ragazza infilò il braccio sotto il suo. Anche la pelliccia bianca, là dove gli sfiorava il polso, dava una strana sensazione elettrica. Quella ragazza eserci­tava uno strano fascino su di lui, che s’era creduto fino a quel giorno invulne­rabile alle donne. Ma la sua cordialità, insieme con quella strana sensazione di disagio che a tratti lo opprimeva, lo turbava più di quanto lui desiderasse dare a vedere.

La guidò entro il terminal, fermandosi a un tratto presso l’operatore della telescrivente per domandargli:

«È l’aereo di Mondrick?».

«Sta atterrando, Barbee.» L’operatore annuì, indicando un anemometro. «Con l’aiuto degli strumenti, praticamente un atterraggio alla cieca.»

Barbee non riuscì a vedere l’apparecchio, quando uscirono di nuovo e si spinsero fino all’estremità della pista di cemento; il rombo del motore sem­brava più fioco nella nebbia sempre più densa.

«Allora, Barbee», e la ragazza indicò col mento il gruppetto di persone in attesa, «chi sono?»

Barbee si chiese, rispondendole, perché mai la sua voce suonasse così incer­ta.

«Vedi quella signora alta col cane», cominciò, «quella che se ne sta un po’ appartata, con gli occhiali neri e il volto malinconico? È la moglie di Mondrick. Una cara, simpaticissima donna, e una pianista di valore, anche se cieca. Siamo sempre stati amici, fin da quando Sam Quain e io, per due anni, abbiamo alloggiato a casa sua, durante l’università. Vieni, ti presento.»

Ma la ragazza s’era fermata, fissando la donna.

«Così, quella è Rowena Mondrick?» La sua voce era scesa a un bisbiglio pieno d’intensità. «Che strani gioielli porta!»

Stupito, Barbee guardò meglio la cieca, che se ne stava eretta sulla persona, silenziosa e appartata da tutti. Come sempre, era vestita a lutto. Gli ci volle qualche istante per vedere i gioielli, semplicemente perché li conosceva trop­po bene. Sorrise:

«Quell’argento, dici?».

La ragazza annuì, osservando gli antichi pettini d’argento nei folti capelli bianchi di Rowena Mondrick, la broche d’argento sul collo dell’abito nero, i braccialetti d’argento massiccio e gli anelli, sempre d’argento, alle mani sotti­li, quasi da fanciulla, che trattenevano il cane. Perfino il collare dell’animale era irto di massicce borchie d’argento.

«Già, è strano», disse Barbee. «Non mi ero mai soffermato sulla passione di Rowena per l’argento. Diceva che le piace il tocco freddo di quel metallo... Sai, il tatto è importante per lei, nelle sue condizioni.» Guardò l’espressione ostile della ragazza. «Che c’è? sei arrabbiata?»

Lei scosse il capo:

«No», bisbigliò. «Solo che non posso soffrire l’argento.» Poi sorrise, come per farsi perdonare quel momento di malumore. «L’ho sentita nominare, ma non so niente di lei.»

«Credo che fosse infermiera psichiatrica a Glennhaven quando conobbe Mondrick. Parlo d’una trentina d’anni fa. Doveva essere molto bella allora. Mondrick la salvò da non so quale amore infelice e la interessò al suo lavo­ro.»

Con gli occhi sempre fissi sulla donna, la ragazza lo ascoltava con grande attenzione.

«Finì per diventare sua allieva», riprese Barbee, «e lo accompagnò in tutte le sue spedizioni, fino al giorno in cui perse la vista. Da allora, per vent’anni, è sempre vissuta tranquilla qui a Clarendon. Ha la sua musica e una cerchia molto ristretta di amici. Non credo che partecipi più alle ricerche del marito. Molti la considerano un po’ strana... Sai, dopo il modo in cui perse la vista...»

«Come successe?»

«Si trovavano nell’Africa occidentale», disse piano Barbee, pensando con rimpianto ai giorni lontani in cui anche lui aveva preso parte a spedizioni in terre remote, in cerca di frammenti del passato. «Credo che Mondrick stesse cercando le prove che l’uomo moderno ha cominciato a evolversi in Africa... Questo molti anni prima delle sue spedizioni in Mongolia. Con l’occasione Rowena cominciò a raccogliere dati etnologici sulle tribù della Nigeria di alligatori umani e uomini-leopardo.»

«Uomini-leopardo?» Gli occhi verdi di April parvero socchiudersi, farsi quasi neri. «Che cosa sono?»

«Membri d’un culto segreto, cannibalistico, che secondo le leggende sareb­bero capaci di trasformarsi in leopardi.» E Barbee sorrise all’attenzione con cui April lo ascoltava. «Rowena, capisci, voleva scrivere un libro sulla licantropia. La credenza, comune a molte tribù primitive, che certi individui pos­sano trasformarsi in lupi e altre belve.»

«Oh!»

«Gli animali sono di solito scelti tra i più feroci della regione dove domina questa superstizione: orsi nei paesi nordici, giaguari nel bacino del Rio delle Amazzoni, lupi in Europa... I contadini della Francia medievale, per esem­pio, vivevano nel terrore del loup garou,il Lupo Mannaro. Leopardi o tigri, invece, in Africa e in Asia. Non si comprende come questa credenza possa essersi diffusa in tutte le parti del mondo.»

«Molto interessante.» La ragazza sorrise obliquamente, come per una se­greta soddisfazione. «Ma come fu che Rowena Mondrick divenne cieca?»

«Erano accampati nell’interno della Nigeria in una regione che aveva visto pochissimi uomini bianchi, e Rowena aveva cercato di conquistare la fiducia degli indigeni, che tempestava di domande sui loro riti. Cercava di collegare gli uomini leopardo delle tribù cannibali con gli spiriti-leopardo degli strego­ni Lhota Naga dell’Assam e gli “spiriti dei boschi” di certe tribù amerinde. Troppe domande, a detta di Mondrick, perché i loro portatori cominciarono a mostrarsi impauriti e l’avvertirono di guardarsi dagli uomini-leopardo. Ma Rowena non diede loro ascolto, e le sue ricerche la spinsero fino a una valle che gli indigeni consideravano tabù. Vi trovarono manufatti che interessaro­no notevolmente Mondrick, e stavano trasferendo l’accampamento nella val­le, quando avvenne la tragedia. Percorrevano una pista nella foresta, di not­te, quando un leopardo nero balzò su Rowena da un albero... Era un leopar­do vero e proprio, naturalmente, non un indigeno vestito di una pelle di leopardo; ma la coincidenza apparve anche troppo significativa per la super­stizione dei portatori, che fuggirono da tutte le parti. La belva ebbe Rowena sotto le zanne prima che le fucilate di Mondrick riuscissero a farla scappare. Le ferite risultarono gravissime e naturalmente si infettarono; la poveretta, quando il marito finalmente poté raggiungere una specie di ospedale, era in fin di vita. Fu la loro ultima spedizione in Africa: lei era ormai cieca e non poteva più viaggiare, e lui doveva avere ormai abbandonato la teoria che l’ homo sapiens fosse originario dell’Africa. Dopo tutto, poveretta, non c’è da meravigliarsi che appaia un pochino strana, non ti sembra? L’aggressione di quel leopardo fu piuttosto ironica...»

Guardando il volto teso e bianco di April, fu colpito dall’espressione che vi colse: un’espressione come di crudele esultanza. O forse era soltanto un ef­fetto delle luci smorzate del crepuscolo? Lei sorrise, cogliendo la sorpresa nei suoi occhi.

«Sì, c’è una strana ironia in quel dramma», osservò con indifferenza. «La vita gioca tiri bizzarri a volte.» La sua voce si fece grave. «Dev’essere stato un colpo terribile.»

«Senza dubbio, ma Rowena è una donna straordinariamente forte. Nessuna autocommiserazione. Molto coraggio. Frequentandola, ci si dimentica che sia cieca.» Prese la ragazza per il braccio. «Vieni, sono sicuro che ti piacerà.»

Il gattino nero, sempre affacciato all’orlo della borsetta, ammiccò con gli enormi occhi azzurri. April Bell si ritrasse:

«No, Barbee!», bisbigliò. «Ti prego di non...»

Ma già Barbee aveva fatto qualche passo avanti e annunciava a gran voce:

«Rowena! Sono Will Barbee. Il giornale mi ha mandato qui per tuo marito. Permettimi di presentarti una collega, April Bell...».

La cieca aveva voltato bruscamente il capo al suono della sua voce. Pros­sima alla sessantina, la moglie di Mondrick conservava una snellezza giovani­le. Le dense onde dei suoi capelli, Barbee le aveva viste sempre bianche, ma il volto, colorito ora dall’eccitazione e dalla temperatura pungente, era roseo e liscio come quello di una giovanetta. Abituato a vederli, Barbee non badò agli occhiali dalle lenti d’un nero opaco.

«Oh, salve, Will!», disse la cieca con voce calda e musicale. «È sempre un piacere conoscere i tuoi amici.» Si passò il corto guinzaglio del cane nella mano sinistra, e porse la destra. «Molto lieta, signorina Bell. Come sta?»

«Bene». La voce di April era dolcemente remota, e lei non accennò mini­mamente a prendere la mano che la cieca le porgeva. «Grazie.»

Arrossendo, Barbee tirò con forza la manica della ragazza, che si ritrasse di scatto. Vide che le sue guance s’erano fatte livide, in forte contrasto con il rosso violento della bocca. Socchiusi, quasi neri, i suoi occhi fissavano ancora i pesanti braccialetti d’argento di Rowena. Confuso, Barbee cercò di salvare la situazione.

«Stai bene attenta a quello che dici», avvertì Rowena in un tentativo di far dello spirito, «perché April lavora per il Call e stenografa ogni parola che la colpisca.»

La cieca sorrise, con grande sollievo di Barbee, come se non si fosse accorta della scortesia di April Bell. Chinando il capo da una parte, per tendere l’orecchio verso il rombo che riempiva il cielo, domandò ansiosamente:

«Non sono ancora atterrati?».

«No», rispose Barbee. «Ma è questione di minuti.»

«Dio sia lodato», sospirò la donna. «Sono stata così in pensiero, questa volta, fin dal giorno che Marck è partito. Non sta bene, e continua a correre rischi sempre più gravi.»

Le sue mani sottili furono scosse da un tremito, notò Barbee, e strinsero il guinzaglio del cane con forza così convulsa che le nocche divennero livide.

«Ci sono cose sepolte che devono restare sepolte», sussurrò poi. «Ho fatto di tutto perché Marck non tornasse a quegli scavi di Ala-shan. Avevo paura di ciò che avrebbe potuto trovarvi.»

April Bell stava ascoltando attentamente, e Barbee la udì trattenere il fiato.

«Lei», mormorò, «aveva paura?» La sua penna, puntata sul minuscolo tac­cuino, ebbe un fremito. «Che cosa temeva che il suo famoso marito potesse trovare?»

«Niente!», si affrettò a rispondere la cieca, come spaventata. «Proprio nien­te!»

«Me lo dica», insistette la ragazza duramente. «Tanto vale che me lo dica perché credo di poter già indovinare...»

La sua voce sommessa si ruppe in un urlo soffocato, e lei indietreggiò bar­collando. Il guinzaglio del cane lupo era scivolato tra le dita della cieca, e silenziosamente l’enorme cane si spingeva verso la ragazza spaurita. Barbee cercò di tenerlo lontano con un calcio, ma il cane lo superò, digrignando ferocemente i denti.

Barbee si girò fulmineo e afferrò il guinzaglio. La ragazza aveva alzato le braccia istintivamente. La sua borsetta di coccodrillo, scagliata lungo una pa­rabola fortuita, le salvò la gola dalle fauci rabbiose. Sempre ferocemente silenzioso, l’animale tentò di balzare ancora, ma Barbee stringeva ormai sal­damente il guinzaglio.

«Turk!», chiamò Rowena. «Turk, a cuccia!»

Docilmente, sempre senza un ringhio o un brontolio, il grande cane da pa­store trotterellò verso la sua padrona. Barbee restituì il guinzaglio alla cieca, che lo cercava brancolando con la mano, e Rowena si trasse accanto la be­stia, che aveva il pelo irto.

«Grazie, Will», disse calma. «Spero che Turk non abbia fatto male alla tua signorina Bell. Ti prego di farle tutte le mie scuse.»

Ma non rimproverò l’animale, notò Barbee. Il bestione restò immobile ac­canto alla gonna nera della donna; digrignando silenziosamente i denti, e fissava April con i minacciosi occhi gialli. Pallida e tremante, la ragazza si stava ritraendo verso la sala d’aspetto.

«Quel dannato cagnaccio!» Una donna piccola e magra, dal profilo sottile, si staccò dal gruppo più avanti e si mise a dire con voce querula: «Ha visto, signora Mondrick, che avevo ragione a consigliarle di non portarlo? Sta di­ventando feroce. Finirà per ammazzare qualcuno!»

La cieca accarezzò con calma la testa del suo cane; poi, preso il collare nella mano, passò le dita sopra le grosse borchie d’argento. A Rowena, ricordò Barbee, era sempre piaciuto straordinariamente l’argento.

«No, signorina Ulford», rispose dolcemente; «Turk è stato addestrato a di­fendermi, e io lo voglio sempre con me. Non si avventa mai su nessuno, a meno che non si tenti di farmi del male.» Tese ancora l’orecchio al rombo lontano. «Non è ancora atterrato l’aereo?»

A Barbee non era parso che April avesse fatto alcun gesto minaccioso. Stupito, tornò al fianco della ragazza dai capelli rossi, che stava accarezzan­do il gattino nero e gli mormorava dolcemente:

«Buono, buono, piccolino, quel cagnaccio cattivo non ci vuol bene, è vero, ma noi non abbiamo paura...»

«Sono dolente dell’accaduto», le disse Barbee impacciato. «Non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa simile.»

«Colpa mia, collega», gli sorrise April. «Non avrei dovuto portare il povero Fifi così vicino a quella specie di belva.» Gli occhi verdi lampeggiarono. «E grazie per averla trattenuta per il guinzaglio.»

«Turk non si è mai comportato così», rispose il giornalista. «La signora Mondrick ti fa le sue scuse...»

«Sì?» April Bell osservò di traverso la cieca, con occhi privi di qualsiasi espressione. «Non parliamone più. L’aereo sta atterrando, e tu non mi hai ancora detto nulla degli altri.» E accennò col mento al gruppetto di persone, da cui la signora Mondrick stava un poco appartata quando le si erano avvi­cinati.

«Quella donnetta piccola e magra è la signorina Ulford, governante di Ro­wena; ma siccome sta sempre male, è Rowena che praticamente la assiste.»

«E gli altri?»

«Il vecchio che si sta accendendo la pipa è Ben Chittum, nonno di Rex e suo unico parente. Ha un’edicola-libreria in fondo a Center Street, proprio di fronte al palazzo dello Star. È lui che ha permesso a Rex di fare l’universi­tà, finché Mondrick non gli ha procurato una borsa di studio.»

«E gli altri?»

«L’uomo infagottato in quel cappotto che gli tocca i piedi è il padre di Nick Spivak, e la donna bruna dalle arie regali è la madre. Hanno una sartoria a Brooklyn, e Nick è il loro unico figlio. Sono stati molto in ansia, da quando Nick è partito per la spedizione. Mi hanno scritto decine di lettere chieden­domi se sapessi qualche cosa. Hanno preso l’aereo stamane; forse Nick li ha avvertiti con un telegramma. Gli altri sono amici, colleghi dell’Istituto, il professor Fisher della facoltà di antropologia dell’università, e il dottor Bennett, che ha sostituito Mondrick durante la sua assenza.»

«Chi è quella bionda procace?», domandò April improvvisamente. «Se non sbaglio ti sta sorridendo.»

«È Nora», rispose Barbee a bassa voce. «La moglie di Sam Quain.»

Aveva conosciuto Nora la stessa sera in cui l’aveva conosciuta Sam, a una festa di studenti a Clarendon. Quattordici anni non avevano offuscato la luce cordiale dei suoi occhi; sorridente, ora, la matura madre di famiglia in attesa del marito appariva altrettanto entusiasta quanto la matricola di allora, ecci­tata dal primo contatto con il mondo universitario.

Barbee andò verso di lei con April Bell, e Nora a sua volta venne loro incontro, tenendo per mano la sua piccola Patricia, una bimba di cinque anni.

«Nora, ti presento April Bell, della redazione del Call. Attenta a quel che dici, perché ogni tua parola potrebbe essere citata sul giornale contro di te.»

«Barbee, che fama!», protestò April con una risatina un po’ leziosa. Ma quando gli occhi delle due donne s’incontrarono, Barbee ebbe la sensazione che stesse scoppiando un incendio. Con un sorriso angelico si strinsero la mano.

«Oh, cara, sono così felice di conoscerla!»

Si odiano, pensò Barbee, si odiano con tutta l’anima.

«Mammina!», esclamò la piccola Pat con calore, «voglio carezzare il micio!»

«No, tesoro, sii brava...»

Nora tirò verso di sé in gran fretta la bimba, ma la manina rosea s’era già tesa verso il gatto. Che, soffiando e ammiccando, graffiò fulmineo. Soffocan­do coraggiosamente un singhiozzo, Pat si strinse alla gonna della madre.

«Oh, signora Quain», gemette April Bell, «quanto mi dispiace!»

«Tu non mi piaci», dichiarò Pat in tono di sfida.

«Guardate», esclamò il vecchio Ben Chittum, tutto eccitato, indicando con la pipa un punto nella nebbia, oltre le vetrate. «Sta’ atterrando in questo momento!»

Tutto il gruppo uscì in gran fretta, seguito a qualche passo di distanza da Rowena Mondrick, fiera, diritta e silenziosa. Sembrava del tutto sola, sebbe­ne avesse al fianco la piccola signorina Ulford, che la guidava tenendola per un braccio; all’altro lato le camminava il suo gigantesco cane biondo. Barbee le lanciò un’occhiata, ma il pallore estremo del suo volto, che sembrava com­battuto tra la speranza e un terrore senza nome, lo costrinse a volgere in gran fretta gli occhi altrove. Si accorse di essere rimasto solo con April Bell.

«Fifi, sei stato molto cattivo», diceva la ragazza, accarezzando la testa del gattino. «Hai rovinato la nostra intervista!» E a Barbee: «Scusami, sai, per Fifi...».

«Niente di male», disse lui; «ma perché te lo sei portato dietro?»

Il verde di quegli occhi indescrivibili s’incupì ancora una volta fino a farsi quasi nero, mentre la loro espressione diveniva intensa, come se una paura segreta ne dilatasse le pupille. In quegli occhi, Barbee lesse una disperazione mortale, come se quella ragazza stesse giocando una partita difficile e ri­schiosa.

Ma ecco che, l’istante dopo, il volto della ragazza sorrideva di nuovo, men­tre lei aggiustava il nastrino rosso del micio.

«Fifi non è mio, ma della zia Agatha», spiegò. «Io per ora abito da lei. Oggi siamo uscite insieme, e siccome la zia doveva fare delle spese mi ha lasciato il gattino. Ma abbiamo appuntamento nella sala d’aspetto, qui. Vado anzi a vedere se è venuta, così potrò liberarmi di questa belvetta.»

Scappò via, e Barbee ne seguì con lo sguardo la figura esile ed elegante allontanarsi con passo elastico, pieno di grazia. Anche il suo modo di cammi­nare lo affascinava. Sembrava l’incedere di un animale selvaggio.

Si avvicinò a Nora Quain e al gruppetto presso il termine della pista di cemento, dove la sagoma confusa del grosso apparecchio passeggeri era cala­ta e si avvicinava rallentando. Barbee si accorse di sentirsi stanco, snervato: probabilmente da qualche tempo lavorava troppo. Ecco perché una ragazza, sia pure insolita come April Bell, poteva averlo turbato tanto.

Nora Quain distrasse la sua attenzione dall’aereo in arrivo per chiedergli:

«È importante per te quella ragazza?».

«L’ho appena conosciuta.» Barbee esitò, perplesso. «Ma mi sembra un tipo... insolito.»

«Cerca di non farla diventare importante», disse Nora, con un tono di im­plorazione insistente nella voce. «Quella ragazza è una...»

S’interruppe, come esitando a pronunziare la parola adatta per definire April Bell. Non sorrideva più, ora, e istintivamente la sua mano si tese a trarre la piccola Pat al suo fianco. Ma non pronunziò la parola.

«Davvero, Will», bisbigliò. «Ti prego!»

Il rombo dei motori le coprì la voce.