Due inservienti dell’aeroporto attendevano con una passerella a ruote per la discesa dei passeggeri. Ma il grosso apparecchio, nero e incombente nella luce dei riflettori, s’era fermato a un centinaio di metri almeno. I possenti motori tacquero, e nel silenzio, tutti parvero tenere il fiato sospeso.

«Marck!» In quell’improvviso silenzio, la voce della signora Mondrick echeggiò come un grido di terrore. «Nessuno riesce a vedere Marck?»

Il gruppetto dei suoi amici corse avanti, verso la massa lontana dell’appa­recchio immobile. Barbee si fece vicino alla cieca.

«L’aereo si è fermato a una certa distanza», le spiegò, «non so perché; ma tuo marito e gli altri saranno qui da un minuto all’altro.»

«Grazie, Will.» Lei gli sorrise riconoscente, ma la sua ansia non pareva averla abbandonata. «Ho tanta paura per Marck! Conosco le sue teorie e so quello che Sam Quain ha trovato, scavando sotto la sua direzione in quell’an­tichissimo sepolcreto dell’Ala-shan, durante l’altra spedizione. Ecco perché ho cercato in ogni modo di non lasciarlo ritornare in Mongolia.»

Si volse bruscamente, tendendo l’orecchio.

«Ma dove sono, Will?», sussurrò. «Perché non vengono?»

«Non riesco a capire», rispose Barbee, anche lui preoccupato. «L’aereo è fermo laggiù, in attesa. Hanno messo la passerella, e si è aperta la porta, ma non scende nessuno. Ora c’è il dottor Bennett, dell’Istituto, che sale a bor­do.»

Tenendosi il cane vicino il più possibile, la cieca si volse ancora verso l’edifi­cio della stazione, tendendo l’orecchio.

«Dov’è quella tua amica?», domandò, sempre con voce tesa dall’ansia. «Quella che Turk ha allontanato?»

«Dentro l’edificio. Mi spiace che possa essere accaduto qualche cosa di spiacevole, Rowena. April è una ragazza deliziosa, ed ero sicuro che ti sareb­be piaciuta. Davvero, non riesco a vedere una ragione...»

«Ma una ragione c’è di sicuro. Altrimenti, Turk non l’avrebbe attaccata a quel modo. Turk sa...»

«Andiamo, Rowena, non ti sembra di esagerare nella tua fiducia in Turk?»

Le lenti nere della cieca parvero fissarlo con ostilità.

«Marck ha addestrato Turk a proteggermi», insistette in tono solenne. «E se Turk ha attaccato quella donna, è perché l’ha sentita ostile.» Le dita della cieca accarezzarono ancora una volta le borchie d’argento del collare del cane. «Ricordatene, Will. Non dubito che quella ragazza possa essere af­fascinante... certo! Ma Turk non si lascia mai ingannare!»

Barbee fece un passo indietro, a disagio. Si chiese se gli artigli del leopardo nero, strappandole gli occhi, non le avessero anche parzialmente leso il cer­vello. Le ansie di Rowena andavano molto al di là d’ogni ragionevolezza.

«Ecco Bennett», le fece con un sospiro di sollievo. «Ora anche gli altri scen­deranno con lui.»

Rowena trattenne il fiato, e attesero in silenzio. Solo Barbee, tuttavia, pote­va vedere Bennett: e se la sua voce era tranquillizzante, il viso rabbuiato pareva smentirla, quando l’uomo li ebbe raggiunti.

«Stanno tutti bene, signora Mondrick», disse. «Si stanno preparando a scen­dere, ma credo che dovremo attendere ancora un po’.»

«Ma perché?»

«Suo marito, a quanto pare, ha scoperto cose di straordinaria importanza, e vuole fare una dichiarazione pubblica sui risultati della sua spedizione prima ancora di uscire dall’aeroporto.»

«Oh, no!», esclamò Rowena, al massimo dell’angoscia. «Non deve!», sin­ghiozzò. «Non glielo permetteranno.»

Bennett aggrottò la fronte lievemente stupito.

«Non vedo che cosa ci sia di preoccupante in una dichiarazione sui risultati d’una spedizione scientifica», disse. «Le assicuro, signora Mondrick, che non c’è il minimo pericolo. Il professore mi è parso forse un po’ troppo sollecito riguardo a non so quale intoppo, tanto che mi ha pregato di chiamare la polizia, per proteggere i membri della spedizione e i reperti fino a quando la dichiarazione non abbia avuto luogo.»

Rowena scosse la fiera testa candida, come dubitando della protezione di cui poteva essere capace la polizia.

«Cosa potrà mai fare la polizia!», disse con voce esasperata. «La prego, vada a dire a Marck...»

«Abbia pazienza, signora», la interruppe il signor Bennett, «ma debbo ese­guire immediatamente gli ordini di suo marito. Mi ha detto di far molto pre­sto... come se il minimo ritardo possa rappresentare un pericolo.»

«E ha ragione!» La cieca assentì cupamente. «Corra, allora.»

Barbee si mise a passeggiare lentamente nella sala d’aspetto, e a un tratto vide i capelli di fiamma di April Bell all’interno d’una cabina telefonica. Ma per quanto si guardasse intorno, non riuscì a scorgere alcuna vecchia signora che potesse ricordargli una zia Agatha qualunque. Bevve allora due tazze di caffè, senza riuscire a togliersi il freddo che aveva dentro, un gelo ben più molesto del vento tagliente. E quando udì il gracidio degli altoparlanti che annunciavano l’arrivo dell’aereo di linea, corse fuori per non lasciarsi sfuggi­re Walraven.

L’uomo politico si mise in posa come un imperatore romano davanti al fo­tografo dello Star,ma non volle fare dichiarazioni di sorta, quando Barbee cercò d’intervistarlo sul suo programma. In confidenza, e non per il giornale, disse a Barbee che intendeva studiare un programma di azione col suo vec­chio e grande amico Preston Troy. Invitò il giornalista a passare qualche volta nel suo studio d’avvocato a bere un bicchierino, ma per il momento non voleva fare dichiarazioni. Puntò ancora una volta in aria per il fotografo il mento appena abbozzato, e salì su un tassi.

Sarebbe stato Preston Troy a tracciare il piano d’azione, come Barbee sape­va benissimo, e a pagare il giornalista che avrebbe dovuto organizzare la campagna di stampa. La verità su Walraven, uomo di paglia nell’ambizioso programma politico di Preston Troy, sarebbe stata materia per una serie di articoli e rivelazioni sensazionali. Ma non per lo Star. Barbee tornò presso l’aereo di Mondrick.

Erano arrivate tre auto della polizia, e una mezza dozzina di uomini in uniforme stava scortando cronisti e fotografi verso il grosso velivolo. Due poliziotti si fermarono e si volsero per far indietreggiare la turba dei parenti e amici angosciati.

«Vi prego», stava quasi urlando Rowena Mondrick a un agente, «lasciatemi restare qui. Mondrick è mio marito ed è in pericolo. Devo restare qui, vicino a lui, per aiutarlo!»

«Mi dispiace, signora, ma è compito nostro proteggere suo marito, anche se non vedo quale pericolo possa minacciarlo. Tutti, meno la stampa, devono tornare davanti all’edificio della stazione.»

«Ma voi non potete sapere!», insistette la cieca in una specie di roco sussur­ro. «Voi non potete essergli di alcun aiuto...»

Senza ascoltarla, il poliziotto la condusse verso la stazione.

Pallida come una morta, Nora Quain riportò la sua piccola, che piangeva perché non le lasciavano vedere il papà, nella sala d’aspetto. Mamma Spivak emise un piccolo gemito e abbandonò la testa sulla spalla del piccolo marito. Il vecchio Ben Chittum sbatté la pipetta annerita quasi in faccia al poliziotto che lo andava sospingendo indietro:

«Mi stia a sentire, agente. Sono due anni che prego il Cielo che mio nipote torni vivo da quel maledetto deserto. E gli Spivak, qui, hanno speso più di quanto potessero permettersi per venire fin qua da New York in aeroplano. Per la miseria, sergente...».

Barbee gli strinse a mezz’aria il braccio tremante d’indignazione.

«Meglio aspettare con calma, Ben», gli disse. E il vecchietto zoppicò via dietro gli altri, brontolando e minacciando tra i denti.

Barbee mostrò alla polizia il tesserino di giornalista, si sottopose a una bre­ve perquisizione nell’eventualità che avesse armi nascoste e raggiunse gli altri cronisti radunati sotto l’immensa ala dell’apparecchio. Si trovò a un tratto April Bell accanto.

Il gattino nero doveva essere tornato dalla zia Agatha, dopo tutto, perché la borsetta di pelle era chiusa. La ragazza fissava l’apparecchio con un’intensità quasi morbosa, in attesa che la porta si aprisse. Parve sussultare, quanto sen­tì su di lei lo sguardo di Barbee, e volse di scatto verso di lui la massa fiam­meggiante dei capelli. Gli sorrise.

«Salve, cronista!», fece in tono allegro. «Qui sento l’odore di un servizio da prima pagina con titolo a sei colonne. Eccoli!»

Sam Quain precedette gli altri sulla passerella. Anche in quel primo istante d’intensa curiosità, Barbee si rese conto che era molto cambiato. Il volto deciso, dalla mascella quadrata, era riarso dal sole, i capelli biondi sembrava­no quasi bianchi, tanto erano stati calcinati. Doveva essersi rasato a bordo, ma l’abito kaki che indossava era logoro, spiegazzato, pieno di macchie. Sembrava stanchissimo, invecchiato molto più di due anni.

E c’era qualcos’altro.

C’era qualcos’altro, impresso sui tre uomini che lo seguivano scendendo la passerella. Barbee si chiese se non fossero tutti vittime di una malattia. Il volto pallido e massiccio di Mondrick, sotto il casco coloniale macchiato e pesto, era un ammasso di carne flaccida e tremolante. Forse la sua vecchia asma, o il cuore, lo avevano minato in quei due anni.

In un momento come quello, uomini della loro condizione, anche se malati, avrebbero dovuto sorridere; erano invece tutti terribilmente seri e accigliati, come rosi da una segreta angoscia.

Nick Spivack e Rex Chittum seguivano il vecchio Mondrick. Anche i loro abiti kaki erano logori e macchiati. Rex non poté non udire il saluto gridato­gli con voce tremante dal vecchio Ben Chittum in mezzo al gruppo di familia­ri, davanti all’edificio della stazione, ma non fece segno di risposta.

Lui e Nick portavano una cassa rettangolare, verniciata di verde, con attac­cate due maniglie di cuoio. Era rinforzata da molte fasce di metallo, e un grosso lucchetto la chiudeva. Sembrava pesantissima, tanto che i due uomini che la portavano parvero a un tratto perdere l’equilibrio.

«Attenti!», s’udì gridare la voce di Mondrick. «Ci mancherebbe altro che dovessimo perderlo proprio ora!»

L’antropologo corse accanto alla cassa e tese le braccia per aiutarli a rad­drizzarla. Non la lasciò fino a quando non fu portata sana e salva fino a terra; e, anche allora, non ne staccò la mano, mentre diceva ai suoi due colla­boratori di portarla verso il gruppetto dei giornalisti.

Quegli uomini avevano paura. Traspariva da ogni loro gesto. Non tornava­no come vincitori, ma come uomini condannati a fare qualcosa che li riempi­va di terrore.

«Sarei proprio curiosa di sapere che cosa hanno trovato», mormorò April, mentre i suoi occhi si socchiudevano, incupendosi.

«Non so; ma qualunque cosa abbiano trovata», rispose Barbee, «non sem­bra dar loro molta gioia. Un fanatico religioso potrebbe credere che i loro scavi li abbiano portati sull’orlo dell’inferno.»

«No», rispose la ragazza; «gli uomini non hanno tanta paura dell’inferno.»

Barbee s’accorse che Sam Quain lo stava fissando, e allora lo salutò con la mano. Senza sorridere, col duro volto abbronzato più ansioso che mai, Sam rispose con un lieve cenno del capo.

Mondrick si pose davanti ai fotografi, sotto l’ala dell’apparecchio. Partirono i lampi delle macchine fotografiche nel crepuscolo pieno di vento, mentre Mondrick attendeva che i suoi collaboratori lo raggiungessero. Se Nick, Sam e Rex avevano l’aria indurita e tesa fino alla ferocia, chiaramente Mondrick era un uomo distrutto. I suoi gesti stanchi e incerti, interrotti da scatti im­provvisi, rivelavano un sistema nervoso sulle soglie del collasso, e la sua fac­cia era come ossessionata.

«Signori», disse ai giornalisti, guardandosi intorno per accertarsi che i suoi tre collaboratori lo avessero raggiunto presso la cassa, «grazie per aver volu­to attendere. Vedrete che la vostra pazienza sarà ricompensata, perché», e qui parve a Barbee che la sua voce roca rivelasse una fretta esasperata, come se temesse di essere interrotto, «perché abbiamo qualcosa da rivelare al ge­nere umano.» S’udì il suo respiro ansimante. «Una terribile minaccia, signo­ri, che è stata nascosta, sepolta, soppressa per un fine perfidamente atroce.»

Fece un gesto col braccio, sussultante, che rivelava la disperata tensione che lo possedeva. «Il mondo deve essere avvertito», seguitò, «sempre che non sia troppo tardi. Per cui, fate bene attenzione a quanto sto per dirvi. Diffondete via radio le mie dichiarazioni, se vi è possibile. Fotografate i reperti e le prove che abbiamo portato dall’Asia.» Con lo stivale consunto, toccò la cas­sa. «Parlatene alla radio e sui giornali, stasera stessa, se potete.»

«Siamo qua per questo, professore», disse un cronista della radio, avvici­nandosi col microfono. «Facciamo una registrazione, e la manderemo in onda subito, se le sue dichiarazioni sono politicamente interessanti. Immagi­no che vorrà dirci il suo punto di vista sulla situazione cinese.»

«Abbiamo visto molte cose della guerra in Cina», rispose Mondrick solen­nemente, «ma non è di questo che voglio parlare. Quanto sto per dirvi è più importante di qualunque notizia di guerre; anzi, ci aiuterà a capire perché si combattono le guerre. Spiegherà molte cose che gli uomini non sono mai riusciti a capire, o di cui addirittura si è insegnato loro a negare l’esistenza.»

«Bene, professore.» Il radiocronista maneggiò ancora per qualche istante i suoi strumenti. «Parli pure.»

«Sto per dirvi...»

Lo studioso fu interrotto da un colpo di tosse, che lo lasciò col fiato mozzo per qualche istante. Si udì di nuovo il suo respiro faticoso, sibilante, e Barbee vide Sam Quain fissare il professore con espressione improvvisamente allar­mata. Gli offrì un fazzoletto, e Mondrick si asciugò la fronte, sudata malgra­do il soffio gelido del vento.

«Sto per dirvi cose che stenterete a credere, signori», riprese Mondrick, più rauco che mai. «Sto per dirvi d’un nemico occulto, segreto, di una tenebrosa congrega che trama e spia insospettata tra i veri uomini... un nemico na­scosto, infinitamente più insidioso delle cosiddette quinte colonne che si pro­pongono la rovina delle nazioni. Intendo parlarvi dell’avvento non inatteso del Messia Nero — il Figlio della Notte — la cui comparsa tra i veri uomini sarà il segnale di una spaventevole, mostruosa, incredibile rivolta!»

Mondrick, sfinito, ansimò ancora, rabbrividendo.

«Preparatevi a qualcosa di terribile, signori. Si tratta d’una cosa così terrifi­cante, che forse non riuscirete a credermi. Ma dovrete accettarla, come ho dovuto fare io, quando avrete visto anche voi gli oggetti che abbiamo portato da quei sepolcri preistorici trovati nel cuore del deserto di Gobi. Le nostre scoperte nell’Ala-shan risolvono molti enigmi. Noi», e i suoi occhi stanchi si volsero riconoscenti ai tre uomini intorno alla cassa cerchiata di ferro, «ab­biamo trovato la risposta a molti enigmi della scienza, la soluzione di misteri così ovvii, così impliciti nella nostra vita quotidiana, che la maggior parte di noi non è nemmeno consapevole della loro esistenza. Abbiamo trovato la risposta a una domanda che, forse, vi farà sorridere: perché, signori, nella nostra vita sembra che il Male predomini?»

La sua faccia plumbea s’era trasformata ora in una maschera di dolore.

«Non v’è parso a volte di scorgere una deliberata volontà malefica dietro le avversità? Non vi siete mai chiesti che cosa si nasconda sotto l’inguaribile discordia che divide il genere umano? Sotto le guerre, le lotte civili, l’oppres­sione? Leggendo le cronache dei giornali, non vi ha mai atterrito l’inesplica­bile, inutile mostruosità dell’uomo? Non vi siete mai soffermati a riflettere, talvolta, sulla tragica divisione entro voi stessi, scoprendo nel vostro subco­sciente abissi d’orrore?»

Seguì un altro violentissimo attacco di tosse. Come spezzato in due, Mondrick s’era fatto cianotico. Infine, si passò nuovamente il fazzoletto sulla fronte e riprese, con voce stridula, quasi squarciata.

«Non ho il tempo d’enumerare tutti i tenebrosi enigmi che caratterizzano la nostra vita, individuale e collettiva», ansimò, «ma una cosa ancora voglio dirvi!»

Scosso dalla sensazione di una mostruosa e velata tensione che s’andava acuendo, Barbee si guardò intorno con ansia. Un fotografo stava inserendo un nuovo rullino nella macchina. L’uomo della radio era tutto intento alla registrazione. Meccanicamente, gli sbalorditi cronisti stenografavano sui loro taccuini.

Al suo fianco, April Bell sembrava tramutata in una statua di ghiaccio. Pal­lidissima, stringeva con forza la cerniera della borsetta. I lunghi occhi fissava­no con le verdi pupille dilatate il volto tormentato di Mondrick. La loro in­tensità era impressionante. E in una frazione di secondo, Will Barbee capì con chiarezza una cosa che fino a quell’istante aveva più o meno inconscia­mente avvertito: April Bell gli faceva paura.

Dimentica di lui, la ragazza continuava a fissare Mondrick, movendo lenta­mente le labbra, stringendo la borsetta con una specie di convulsa ferocia, tanto che le dita sottili parevano artigli laceranti.

Mondrick pareva aver ritrovato abbastanza fiato da poter riprendere.

«Vi prego di credere, signori, che il mio non è un capriccio, un umore del momento. Ho cominciato a sospettare i fatti terribili che intendo portare a vostra conoscenza circa una trentina d’anni fa, quando una dolorosa espe­rienza mi fece pensare che tutta l’opera di Freud, con le sue rivelazioni sulla psicologia dell’inconscio, era soltanto una descrizione più o meno perfetta della mente e della condotta umane, più che una spiegazione del male che vediamo.

Svolgevo allora la mia attività di psichiatra, a Glennhaven. Abbandonai la professione, perché la verità che cominciavo a sospettare si faceva beffe di tutto ciò che m’era stato insegnato e mi faceva dubitare di tutti i miei sforzi per aiutare le menti turbate. Sfortunatamente, ebbi una discussione molto vivace col vecchio dottor Glenn, padre del Glenn che oggi dirige Glennha­ven, a proposito della dolorosa esperienza accennatavi prima. Mi volsi allora ad altri campi, alla ricerca di qualcosa che dimostrasse la fallacia di quanto sospettavo. Non trovai nulla. Continuai i miei studi all’estero, e infine accet­tai una cattedra all’Università di Clarendon. Cercai di penetrare il più pro­fondamente possibile nei segreti dell’antropologia, dell’archeologia, dell’et­nologia, ogni ramo della scienza che studiasse la vera natura del genere umano. A poco a poco, le mie ricerche mi rivelarono fatti che mi hanno dato la conferma della cosa più orrenda che l’uomo abbia mai dovuto temere.»

Mondrick fece una nuova pausa, per riprender fiato.

«Per anni ho tentato di lavorare da solo. Capirete tra poco che cosa signifi­casse questo, e quanto mi fosse difficile trovare chi potesse aiutarmi. Ho accettato la collaborazione della mia carissima moglie, perché era già a parte del mio segreto. Ciò le è costato la vista, e il suo immenso sacrificio mi ha provato che tutti i nostri timori erano giustificati. Ma alla fine ho trovato uomini degni della mia fiducia.» Il volto terreo di Mondrick tentò di sorride­re, e i suoi occhi ancora una volta si volsero a guardare Sam Quain, Nick Spivak e Rex Chittum con espressione affettuosa. «E li ho allenati a poco a poco a dividere...»

Spezzato nuovamente in due dai colpi di tosse e dalla difficoltà di respira­zione, il vecchio scienziato dovette essere sorretto da Sam Quain, finché il parossismo non si fu calmato.

«Perdonatemi, signori, sono purtroppo soggetto a queste crisi... Ma tutti questi preliminari sono necessari alla piena comprensione da parte vostra di ciò che devo dirvi.»

Sam Quain gli mormorò qualche parola all’orecchio, e Mondrick annuì stancamente.

«Ormai la nostra teoria era formulata», riprese lo scienziato, cercando pale­semente di affrettarsi. «Ma avevamo bisogno di prove, per avvertire e prepa­rare alla difesa l’autentico genere umano. La prova che cercavamo poteva esistere solo tra le ceneri del più remoto passato. Dieci anni fa abbandonai la cattedra, per frugare nelle antiche culle delle razze umane e semi-umane e trovare così la prova irrefutabile.

Vi lascio immaginare le difficoltà e i pericoli che abbiamo dovuto affronta­re: il tempo non mi consente di descriverveli. I mongoli Torgod hanno assali­to e saccheggiato più volte il nostro accampamento. Siamo stati sul punto di morire di sete prima e congelati poi. Quindi la guerra ci ha costretti a parti­re, proprio quando avevamo appena trovato i primi insediamenti pre-umani. Si sarebbe detto che i cacciatori delle tenebre sapessero che noi li sospetta­vamo, e cercassero di annientarci prima che potessimo accusarli. Il Diparti­mento di Stato non voleva farci ritornare laggiù. Il Governo cinese ha fatto di tutto per tenerci lontani. I Russi ci credevano spie... insomma, gli uomini e la natura ci sono stati avversi. Ma noi siamo riusciti a trovare ciò che cerca­vamo. E a portarlo in America da quei remoti nascondigli preumani.» Toccò ancora con la punta del piede la cassa. «È tutto qui», disse.

Per un istante Barbee incontrò gli occhi di Mondrick, e vi lesse l’angoscia di una gran fretta e di una paura mortale. Aveva capito il motivo di quel lungo preambolo; sapeva che Mondrick ardeva dal desiderio di parlare, di esporre i suoi fatti terribili l’uno dopo l’altro, ma che il timore di non essere creduto lo costringeva alla prolissità.

«Perdonatemi se tutte queste precauzioni possono sembrarvi inutili. Capire­te quando avrete saputo. E ora che siete in certo qual modo preparati a udire il resto, dovrò parlare con brutale precipitazione, esporvi i fatti alla rinfusa prima che me lo si impedisca.»

Il suo volto si contorse, percorso da un tremito.

«Perché un terribile pericolo ci minaccia, signori. Ognuno di voi... chiunque ascolti in questo momento le mie parole... si trova sotto la minaccia di un pericolo mortale. Pure, devo pregarvi di ascoltare... perché io spero ancora... che, diffondendo la verità... così largamente che non riescano più a uccidere tanto da soffocarla... sia ancora possibile sconfiggere la spaventosa congiu­ra.»

Mondrick ansimò ancora, piegandosi, rabbrividendo.

«Fu centomila anni fa...»

Soffocava. Le sue mani si levarono tremanti verso la gola, come per aprire una via al respiro. Un gorgoglio cupo gli risuonò nella strozza. La faccia stravolta, le mani ripiegate ad artiglio si fecero d’un azzurro cianotico. Cadde in ginocchio, afferrandosi alle braccia di Sam Quain, farbugliando parole inintelligibili.

«Ma è impossibile!» Barbee udì l’atterrito bisbiglio di Sam Quain. «Non ci sono gatti, qui!»

Barbee lanciò un’occhiata perplessa ad April Bell. La ragazza fissava anco­ra l’esploratore ansimante, che anelava una boccata d’aria. Dilatati nella luce ambigua del crepuscolo, i suoi occhi sembravano del tutto neri. Bianca come la sua pelliccia, la sua faccia era completamente priva di espressione.

Gatti? La borsetta era chiusa e non poteva, così sigillata, contenere un gat­to, per piccino che fosse. Rabbrividendo al freddo vento dell’est, Barbee volse nuovamente lo sguardo su Mondrick. Sam Quain e Nick Spivak avevano disteso l’infelice scienziato supino, con la giacca ripiegata di Quain sotto il capo. Ma Rex Chittum era rimasto vicino alla cassa, gli occhi vigili, come se il suo contenuto fosse più importante dell’agonia del vecchio esploratore.

Perché Mondrick, era ormai chiaro, stava morendo. Le sue mani anna­sparono per l’ultima volta nell’aria, e ricaddero. La faccia livida si rilassò, immobile. Dopo un ultimo, disperato brivido, il corpo giacque per sempre. Strangolato, come dal cappio di un boia.

I lampi dei fotografi si fecero intensissimi, mentre la polizia tratteneva i giornalisti che si spingevano innanzi. Qualcuno urlò per chiamare l’ambulan­za, ma ormai Mondrick era morto.

«Marck!»

Barbee udì l’urlo acutissimo. Vide la moglie cieca di Mondrick staccarsi dal gruppo presso il terminal e correre verso di loro, l’enorme cane al fianco, veloce e dritta come se vedesse. Uno degli agenti cercò di fermarla, ma do­vette ritrarsi davanti alle zanne di Turk. La cieca giunse presso il corpo del marito e gli si inginocchiò accanto, sfiorandogli il volto devastato, le mani stanche con dita disperatamente indagatrici. La luce cadde sugli anelli e i braccialetti d’argento, rifulgendo nelle lacrime che scorrevano dalle vuote occhiaie martoriate dietro le lenti.

«Marck, povero caro! Perché non hai voluto che venissi con Turk a proteg­gerti? Non li hai visti stringersi attorno a te?»