Sam Quain fissava senza vederlo il corpo dell’uomo disteso per terra. In maniche di camicia, sotto la sferza di quel gelido vento, rabbrividiva, anche se non sembrava accorgersene. Non parve nemmeno accorgersi del pesante cappotto che Barbee s’era tolto per gettarglielo sulle spalle.

«Grazie, Will», disse poi, sempre con la mente chi sa dove. «Deve far fred­do.»

Trattenne per un istante il respiro e poi si rivolse ai giornalisti.

«Un grosso titolo per voi, signori», disse calmo, con voce lenta, trasognata. «La morte del professor Lamarck Mondrick, famoso antropologo ed esplora­tore. Vi prego di fare attenzione alla grafia: il professore teneva in modo particolare alla c di Lamarck.»

Barbee gli strinse un braccio.

«Che cosa lo ha ucciso, Sam?»

«Morte dovuta a cause naturali, dirà il magistrato», rispose Quain con la stessa voce quasi indifferente, ma Barbee lo sentì irrigidirsi. «Soffriva d’asma da parecchi anni. Quando ci trovavamo ancora laggiù, in Mongolia, mi disse che sapeva di essere malato di cuore, di averlo sempre saputo. E la nostra spedizione non è stata davvero una passeggiata, soprattutto per un uomo della sua età, e per giunta malato di cuore.»

Barbee guardò il corpo immobile ai loro piedi e la donna vestita a lutto che singhiozzava silenziosamente.

«Dimmelo, Sam... che cosa voleva dire Mondrick quando ha avuto l’attac­co?»

Sam Quain inghiottì con uno sforzo. I suoi freddi occhi azzurri evitarono lo sguardo del giornalista, frugarono le ombre del crepuscolo, tornarono a fis­sare gli occhi dell’antico compagno d’università. Alzò le spalle, quasi cercas­se di scrollarsi di dosso l’orrore che gravava su di lui come una cappa.

«Niente», mormorò con voce rauca, «niente del tutto.»

«Niente?», ripeté la voce dura di un altro giornalista alle spalle di Barbee. «E tutte quelle precisazioni sui pericoli misteriosi? sul Figlio della Notte e il Messia Nero? Scherziamo, Quain?»

La faccia triste di Sam Quain tentò di sorridere.

«Il professor Mondrick amava le espressioni figurate e non trascurava mai di dare un certo tono drammatico alle sue dichiarazioni. Il suo Figlio della Notte è, con ogni probabilità, una figura retorica, una personificazione, for­se, dell’ignoranza umana.» Indicò col mento la cassa. «È là dentro che si trova materia per brillanti servizi giornalistici, signori, ammesso che le teorie sull’evoluzione umana rappresentino ancora notizie sensazionali per i quoti­diani. Il minimo particolare sulle origini del genere umano è del massimo interesse per scienziati come Mondrick, ma non per il profano, a meno che non lo si drammatizzi romanticamente.»

Un’ambulanza venne a prendersi il corpo di Mondrick, mentre la vedova dava al marito l’estremo addio e tutt’intorno s’accendevano i lampi dei foto­grafi.

«Quali sono ora i vostri progetti, signor Quain?», domandò un uomo vestito di nero e dal profilo d’avvoltoio, cronista scientifico di un’agenzia giornalisti­ca. «Quando ci darete il resto delle dichiarazioni interrotte così tragicamen­te?»

«Oh, ci vorrà del tempo», rispose Quain, battendo le palpebre alla luce vivida dei lampi. «Noi tutti suoi collaboratori, vedete, eravamo dell’opinione che le dichiarazioni del professore fossero premature. Gli oggetti che abbia­mo portato dall’Ala-shan dovranno essere studiati lungamente in laborato­rio, insieme con gli appunti e gli scritti di Mondrick, prima di renderli di pubblica ragione. A suo tempo, la Fondazione pubblicherà una monografia in merito. Ci vorrà un anno. Forse due.»

Un mormorio di delusione si levò dal gruppo di giornalisti in ascolto.

«Comunque, non si torna al giornale del tutto a mani vuote», fece un croni­sta. «Mi sembra già di vedere i titoli di domani: Maledizione preistorica uccide violatore di sepolcri. »

«Pubblicate quel che volete», disse Quain, guardandosi intorno con quella che a Barbee non sfuggì essere segreta apprensione. «Ma spero che tutti sarete generosi, scrivendo del professor Mondrick. Era un grande scienziato, anche se talvolta un po’ eccentrico. La sua opera, quando sarà pubblicata, lo porrà sicuramente tra i pochi eletti del pensiero scientifico, insieme con Freud e Darwin.» La mascella gli si indurì in un’espressione di testardaggine. «E questo è tutto quanto io... o i miei colleghi... abbiamo da dire.»

I fotografi accesero un ultimo flash in onore di quell’espressione testarda e cominciarono a riporre i loro aggeggi, il radiocronista fece riavvolgere il na­stro, dopo aver fatto sparire il microfono, e gli inviati dei giornali se ne tor­narono in redazione a scrivere un pezzo su un oscuro fatto inspiegabile.

In lontananza Barbee vide April Bell entrare nella sala d’aspetto. Evidentemente era filata via per telefonare il suo pezzo al Call. Ma Barbee aveva tempo fino a mezzanotte, quando si chiudeva la prima edizione del mattino, per cercar di risolvere il mistero della morte di Mondrick. Impulsivamente fece un passo avanti e afferrò Sam Quain per il braccio. L’esploratore si ritrasse con un sussulto e un grido soffocato da quel tocco improvviso, e poi riuscì con uno sforzo tormentoso ad abbozzare una specie di sorriso. Chi non sarebbe stato nervoso dopo prove così tragiche? Barbee lo trasse da parte, verso la coda dell’enorme aeroplano silenzioso.

«Che cosa c’è sotto questa tragedia, Sam? Agli altri hai potuto darla a bere, non a me. Mondrick parlava sul serio, non per simboli. E anche voi eravate terrorizzati. Di che cosa avete tanta paura?»

Gli occhi azzurri di Sam Quain lo fissarono, scrutandolo, come per scoprire, stanare non si sa che mostruoso nemico. Sam Quain rabbrividì, stringendosi intorno al corpo il cappotto non suo, ma fu con molta calma che la sua voce stanca e paziente rispose:

«Avevamo tutti paura che accadesse proprio quanto è avvenuto. Sapevamo quale fosse lo stato di salute di Mondrick. E poi, in aereo, siamo dovuti salire ad alta quota, date le condizioni meteorologiche infami, e quell’altezza deve avergli affaticato il cuore...».

Barbee scosse il capo.

«No, Sam, queste spiegazioni non reggono. Voi tutti avete paura di qualco­sa che non aveva nulla a che vedere col mal di cuore.» Strinse ancora l’esplo­ratore per il braccio. «Non ti fidi di me, Sam? Siamo sempre amici, no?»

«Che sciocchezze, Will!» Quain cominciava a spazientirsi. «Mondrick, a dire il vero, non sembrava fidarsi molto di te, e non ha mai voluto dirmene il motivo... del resto, erano ben poche le persone di cui si fidasse... Ma natural­mente noi siamo sempre amici, si capisce!»

Alzò ancora le spalle, a disagio, e i suoi occhi si posarono con espressione smarrita sulla cassa, presso la quale Spivak e Chittum continuavano a montar la guardia.

«Ora devo andare, Will. Ho troppe cose da fare, con quello che è succes­so...» Si tolse il cappotto, rabbrividendo. «Grazie, Will. Tu ne hai bisogno e io ho il mio a bordo. Scusami ora.»

Barbee si riprese il cappotto.

«Ma come!», fece sbalordito. «E tua moglie e la tua bambina? Avete tutti e tre le vostre famiglie a pochi passi di distanza, e non potete trovare un mo­mento per salutarle?»

Un’espressione di muto tormento passò negli occhi di Quain. «Abbraccere­mo i nostri cari appena potremo, Will.» Si mise a frugare tra un mucchio di bagagli e di casse ch’era stato appena scaricato dall’apparecchio, finché non ebbe trovato un vecchio giubbotto di pelle. «Gran Dio, Will», mormorò con voce sorda, «tu dirai forse che non siamo più nemmeno umani. Sono due anni che non vedo mia moglie e mia figlia... ma prima dobbiamo occuparci della cassa di Mondrick.»

«Un momento!», disse Barbee, trattenendolo per il braccio. «Un’ultima do­manda.» Abbassò la voce, per non farsi udire dagli uomini che stavano scari­cando l’aeroplano. «Che cosa c’entrano i gatti con la morte di Mondrick?»

«Eh?» Barbee sentì il braccio di Quain tremare. «Gatti?»

«Sì, gatti.»

Quain s’era fatto pallidissimo, ma rispose: «Ho sentito Mondrick mormora­re, quand’era già in agonia, qualcosa a proposito di un gatto, ma non ne ho visto nessuno».

«Ma perché», insistette Barbee, «doveva pensare a un gatto, proprio in quel momento?»

Gli occhi di Quain lo scrutarono ancora, sotto le palpebre socchiuse.

«L’asma di Mondrick era d’origine allergica», mormorò Quain. «Un’allergia al pelo di gatto. Non poteva entrare in una camera dove fosse stato un gatto senza avere una crisi. Will, hai visto per caso un gatto?»

«Sì, un gattino nero.»

Vide Quain irrigidirsi e, nello stesso istante, April che s’avvicinava, con un passo lungo, armonioso ed elastico, come uno splendido gatto selvatico. La giovane incontrò gli occhi ansiosi di Barbee e gli sorrise allegramente.

«Dove?», sussurrò con impazienza Quain. «Dove hai visto dei gatti?»

Barbee fissò i lunghi occhi di April Bell e qualcosa, dentro, gli disse di non rivelare a Sam Quain che era stata proprio quella ragazza dai capelli rossi a portare un gatto. In April c’era una forza che lo faceva rimescolare e lo trasformava in un modo che preferiva non analizzare. A voce bassa, in gran fretta, rispose di malavoglia:

«Laggiù, dietro il terminal, qualche minuto prima che arrivassero gli aerei. Non ho visto dove sia andato a finire».

Gli occhi di Quain s’erano fatti ostili e sospettosi. Aprì la bocca come per fare un’altra domanda, ma si frenò con una specie di singulto quando si vide April Bell accanto. A Barbee sembrò che si rannicchiasse su se stesso, come un lottatore davanti a un avversario temibile.

«Dunque, lei è il signor Quain!», cinguettò la ragazza dolcemente. «Vorrei chiederle solo una cosa, se non le dispiace... per il Clarendon Call. Che cosa contiene quella cassa verde?» E indicò con lo sguardo il cassone cerchiato di ferro, presso il quale i due uomini stanchi erano sempre di guardia. «Una palata di diamanti? I progetti completi di un nuovo tipo di bomba atomica?»

Saldamente in equilibrio come un pugile sulla punta dei piedi, Sam Quain rispose con voce calma: «Nulla di così interessante, purtroppo, o per lo meno nulla che possa interessare i lettori di un quotidiano. Roba che, se la trovaste per terra andando a spasso, non vi chinereste a raccogliere. Vecchie ossa. Frammenti di anticaglie buttate via come inservibili ancor prima che la storia dell’umanità avesse inizio».

Lei scoppiò a ridere, discreta:

«Abbia pazienza, signor Quain. Ma se la vostra cassa non contiene nulla di valore, allora perché...».

«Voglia scusarmi», la interruppe Quain bruscamente. April lo prese per il braccio, ma l’uomo si svincolò abilmente e si allontanò a passo rapido verso la cassa, dove i due uomini lo stavano aspettando.

«Forse in quella cassa non c’è nient’altro che quello che ha detto», sussurrò April Bell all’orecchio di Barbee, «ma sembrano tutti disposti a dare la vita, come ha fatto Mondrick, per difenderla. Non sarebbe buffo», aggiunse poi quasi in un sospiro, «se lo facessero?»

«Buffo, forse, ma non molto divertente», mormorò Barbee.

Ancora una volta fu attraversato da un brivido. Si allontanò di un passo o due dalla ragazza, perché a un tratto si accorse che non voleva essere toccato da quella pelliccia bianca. Continuava a pensare al gattino. C’era una pos­sibilità, tutt’altro che piacevole, che quella ragazza dai capelli rossi fosse un’assassina estremamente abile. Quasi automaticamente i suoi occhi cerca­rono la borsetta di pelle che aveva contenuto il gattino, e videro che non c’era più. La ragazza parve seguire il suo sguardo, e bruscamente si fece pallidissima:

«La mia borsetta!», gridò, allargando le belle mani vuote. «Devo averla la­sciata in qualche posto, nella fretta di telefonare il servizio. Me l’ha regalata la zia Agatha, e devo assolutamente ritrovarla... c’è un ricordo di famiglia, una spilla di giada bianca. Vuoi aiutarmi a cercarla, Barbee?»

Frugarono dappertutto, dal punto dove s’era fermata l’ambulanza alle cabi­ne telefoniche, senza trovare la borsetta: il che non lo stupì affatto. Si sareb­be stupito, invece, se l’avessero trovata. Alla fine April guardò un orologino incrostato di piccoli diamanti.

«Rinunciamo, Barbee», disse, senza troppo rammarico. «Grazie infinite, ma vedrai che non l’ho perduta, l’avrò lasciata alla zia Agatha, quando le ho ridato Fifi.»

Barbee cercò di non inarcare le sopracciglia, ma continuava a sospettare che la zia Agatha fosse del tutto immaginaria. Ricordava d’aver visto la bor­setta, che le mani della ragazza stringevano convulse mentre Mondrick ago­nizzava, ma non lo disse. Non capiva April Bell.

«Grazie ancora, Barbee», fece lei. «Ora devo telefonare in redazione. E perdonami, se il mio servizio oscurerà il tuo.»

«Se volete tutta la verità, leggete lo Star »,sorrise Barbee citando lo slogan del suo giornale. «Io ho ancora tempo fino a mezzanotte per scoprire il con­tenuto di quella cassa verde e perché Mondrick è morto quando è morto.» Si fece serio, e inghiottendo la saliva: «Quando... quando possiamo rivederci?»

Sentiva il bisogno prepotente di rivederla... forse perché temeva davvero che avesse ucciso Mondrick, o invece perché sperava con tutta l’anima che fosse innocente? Per un istante un’ombra di perplessità le corrugò la fronte. Barbee respirò ancora quando la vide sorridere.

«Quando vuoi, Barbee», rispose con estrema dolcezza, «se lo desideri.»

«Questa sera a cena, allora?», disse subito Barbee cercando di non mostra­re la sua emozione. «Va bene per le nove? Prima voglio scoprire che cosa Quain e compagni intendono fare col loro misterioso cassone, e poi devo scrivere il pezzo.»

«Le nove? Benissimo», rispose lei. «Adoro la notte. E poi, anch’io voglio tenere d’occhio quella cassa.»

Gli occhi della ragazza s’erano volti a guardare gli stanchi esploratori che cautamente caricavano la loro cassa sulla macchina del dottor Bennett. Il gruppetto dei familiari, un po’ in disparte, osservava la scena, stupito e rattri­stato. Barbee toccò la pelliccia immacolata di April e rabbrividì nel vento gelido. «Alle nove, dunque?», disse ancora. «Dove?»

April sorrise bruscamente, inarcando le sopracciglia con una punta d’ironia.

«Questa sera stessa, Barbee?», gorgheggiò. «Nora penserà che tu abbia per­duto la testa.»

«Forse l’ho perduta.» Toccò la pelliccia, e cercò di non rabbrividire. «Sono scombussolato anch’io: Rowena Mondrick mi è sempre amica, anche se suo marito non ha più voluto esserlo. Ma Sam Quain si prenderà cura di tutto. Spero che tu voglia cenare con me stasera, April.»

E spero, aggiunse a se stesso, che finirai per dirmi perché hai portato qui quel gattino nero e perché hai avuto il bisogno di inventare la zia Agatha e se avevi qualche motivo di desiderare la morte di Mondrick.

«Vedrò di venire», promise la ragazza. «Ora devo sbrigarmi... ho da telefo­nare in cronaca e poi bisognerà che avverta la zia Agatha.»

Scappò via con l’elasticità e la grazia d’una creatura dei boschi, mai domata. Will la vide entrare in una cabina telefonica sbalordito che una donna potes­se sconvolgerlo tanto. La carezza della sua liquida voce indugiava ancora entro di lui.

Il giovane trasse un profondo sospiro, abbassò il viso e strinse i pugni. Si pentì d’aver bevuto tanto whisky in quegli ultimi tempi e di non essersi preso abbastanza cura di sé. Intravvide il biancore della pelliccia di April, oltre il vetro della cabina, e rabbrividì ancora. Si allontanò. Che effetto ti farebbe,si disse, scoprire che quella rossa sirena è una volgare assassina?

Il dolore che si vedeva sulla faccia grinzosa e rinsecchita del vecchio Ben Chittum lo spinse a dire: «Vieni con me, Ben. Ho la macchina qui fuori, ti porto io in città».

«Grazie, Will, non preoccuparti.» Il vecchio riuscì a mettere insieme un sor­riso. «Rex tornerà a prendermi, quando avranno messo al sicuro quella cassa a casa di Sam.»

Il gruppetto dei familiari, abbandonato a se stesso dagli esploratori spariti con la cassa sulla macchina di Bennett, si aggirava malinconicamente nella sala d’aspetto. Barbee vide Nora che piangeva, e la piccola Pat cercava di consolarla.

Si volse a guardare se April fosse sempre nella cabina telefonica, poi seguì un’ispirazione improvvisa. Era lo stesso genere d’ispirazioni che lo avevano aiutato a scoprire cento nuovi indizi per rivelazioni sensazionali, quello che Preston Troy chiamava il requisito essenziale del vero reporter: aver «fiuto per le notizie». Una volta ne aveva parlato al dottor Glenn, e l’affabile psi­chiatra gli aveva risposto che quella facoltà non era che frutto di ragiona­menti logici, in atto sotto il livello della mente cosciente.

Si diresse rapidamente verso l’enorme cassone dei rifiuti, dietro l’edificio, e si mise a frugare tra giornali sporchi, cestini da viaggio vuoti e un cappello di paglia sfondato.

Sotto il cappello di paglia, Will Barbee trovò la borsetta di pelle di cocco­drillo.

I due capi di un nastro rosso pendevano fuori della cerniera, gualciti e con­torti come se fossero stati stretti, avvolti intorno a dita convulsamente tese. Barbee aprì la borsetta e trovò il corpicino senza vita del micio nero della zia Agatha. Il nastro rosso, legato a nodo scorsoio, era ancora stretto intorno al collo del gattino, e con tanta forza che la povera bestiola era stata quasi decapitata.

Una goccia di sangue, sulla fodera di seta bianca della borsetta, fece scopri­re a Barbee qualche altra cosa.

Nello spostare col dito il corpicino, il giornalista sentì sotto il polpastrello un oggetto duro e liscio, sepolto nel pelame della bestiola. Lo trasse fuori con cautela, ed emise un lieve sibilo quando lo esaminò alla luce che veniva dal terminal. Era il ricordo di famiglia che April aveva dato per perso, la spilla di giada bianca. La parte ornamentale era lavorata in modo da rappre­sentare un piccolo lupo in corsa, dai verdi occhi di malachite. Il lavoro era delicato e realistico: il minuscolo lupo appariva esile e pieno di grazia, come la stessa April.

Il fermaglio dietro la figura era aperto e il robusto spillone d’acciaio era stato piantato nel corpo del gattino. Una goccia di sangue nerastro lo seguì, quando Barbee lo trasse fuori. La punta, si disse il giornalista, doveva aver trafitto il cuore della povera bestiola.