Barbee rammentava qualcosa di ciò che aveva imparato anni prima alle le­zioni di Mondrick sulle pratiche di magia in uso presso l’umanità primitiva, ma non era uno studioso di quelle che sono chiamate comunemente scienze occulte. Non c’era bisogno di essere esperti, tuttavia, per stabilire che il gatti­no nero e il vecchio esploratore erano morti nello stesso istante e nello stes­so modo.

Quasi certamente era stata April Bell a uccidere il gattino. Lei intendeva dunque — ignara di quanto la morte di Mondrick potesse dipendere da quella nuova magia biochimica, tanto di moda, chiamata allergia — procurare la morte di Mondrick?

Barbee ormai non ne dubitava.

Il suo primo impulso fu di portare la borsetta col suo spiacevole contenuto a casa di Sam Quain; ma abbandonò subito l’idea. La magia poteva essere un soggetto eccellente per monografie di studiosi eclettici e originali come Mondrick, ma Quain sarebbe scoppiato a ridere all’ipotesi di una strega molto giovane, molto bella, molto chic, con le labbra dipinte da un rossetto alla moda e le unghie laccate, che si dava a pratiche di magia nera in una moder­na città degli Stati Uniti. Senza contare che il tono brusco e distante di Sam lo aveva un po’ offeso.

E, poi, sentiva una certa riluttanza a coinvolgere April Bell. Dopo tutto, non aveva nessuna prova che fosse stata la ragazza a uccidere il gatto. C’era­no tanti monelli, all’aeroporto, all’arrivo di ogni apparecchio di linea! Forse, esisteva anche la zia Agatha. Quella sera, a cena, pensò Barbee, avrebbe cercato di sapere quanto più potesse di quella strana ragazza.

Ripulì lo spillo col lupo di giada e se lo mise in tasca, dopo aver gettato di nuovo la borsetta tra i rifiuti del bidone.

Uscendo dalla cabina telefonica, April Bell se lo trovò davanti, in attesa. La ragazza aveva il volto animato, gli occhi lucenti, forse per la soddisfazione di aver concluso il suo primo servizio importante. Certo, non aveva l’aria di un’assassina.

«Finito?», le disse Barbee, e indicando col mento il parcheggio, fuori, dove lo attendeva il suo vecchio macinino: «Posso accompagnarti in città?»

«Grazie, ma anch’io ho fuori la macchina.» Parve trattenere il fiato per un istante. «Zia Agatha aveva un bridge ed è tornata in città con l’autobus.»

«Oh.» Il giornalista cercò di nascondere il suo disappunto, nonché i suoi dubbi sull’esistenza della zia Agatha. «E questa sera, poi, ci si vede?»

«Ho telefonato alla zia, che ha detto di non avere nulla in contrario», ri­spose lei con un sorriso così gaio che gli riscaldò il cuore.

«Magnifico!», disse. «Dove abiti?»

«Al Trojan Arms, appartamento 2-C.»

«Oh!» non poté fare a meno d’esclamare Will Barbee. Il lussuoso residence era un’altra delle grosse imprese finanziarie di Preston Troy, e Barbee aveva dovuto parlarne più volte, elogiativamente, sul giornale. L’appartamento più economico, sapeva, non costava meno di 200 dollari al mese. April Bell gua­dagnava benino, a quanto pareva, per essere una cronista ai primi passi; a meno che, naturalmente, la zia Agatha fosse non solo reale, ma anche milionaria.

«Dove mi porterai?», domandò la rossa April.

«Al “Knob Hill”, ti va?», propose lui, sebbene quel ritrovo notturno subur­bano fosse davvero troppo costoso per cronisti sul ruolino stipendi dello Star.

«Delizioso!», cinguettò la ragazza.

L’accompagnò, nel vento notturno, verso la sua macchina, una lunga con­vertibile marrone, che non poteva costar meno, calcolò lui, a disagio, di 4000 dollari. Erano pochi i cronisti che potevano permettersi simili lussi. Ma forse anche quella macchina era della zia Agatha.

Le aprì lo sportello e lei salì rapida ed elegante, nella sua pelliccia immaco­lata, come la minuscola scultura di giada che Will aveva in tasca. April gli prese per un istante la mano e il tocco delle sue dita fredde e forti fu per lui sconvolgente come la sua voce. Will dovette lottare contro la tentazione di baciarla, timoroso di sciupare ogni cosa. Ansava un poco. Assassina o no, April Bell era una ragazza che faceva girare la testa.

«Ciao, Barbee», gli disse in un sussurro. «Alle nove!»

Il giornalista se ne tornò in città nel suo vecchio catorcio e, sedutosi al suo tavolo nella lunga sala di cronaca dello Star,batté il pezzo. Scrivendo, s’ac­corse di pensare con simpatia alla tersa, impersonale obiettività del giornali­smo moderno.

Poi, risalito in macchina, andò a casa.

Aveva un appartamento di due stanze, oltre alla cucina e alla stanza da bagno, in una vecchia casa a due piani di Bread Street. Il quartiere era un po’ troppo vicino alla zona industriale, ma l’affitto era tutt’altro che caro e la padrona di casa non sembrava badare a quanto lui bevesse.

Fece il bagno, si rase e s’accorse di fischiettare allegramente, mentre cerca­va una camicia pulita e un abito che non fosse troppo sciupato per il Knob Hill.

Improvvisamente, udì squillare il telefono e corse a rispondere, con la pau­ra che fosse April Bell che lo avvertiva all’ultimo momento di non poter venire.

«Will?» Era una voce di donna, pacata ma intensa. «Ho bisogno urgente di parlarti.»

Non era April Bell, e quella sua paura improvvisa si dissipò. Era la voce limpida e serena della cieca moglie di Mondrick, una voce che non rivelava lo strazio che la donna doveva provare.

«Non potresti saltare in macchina e correre da me, Will? Subito?»

Il giornalista lanciò un’occhiata all’orologio. Il Knob Hill si trovava a circa quaranta isolati in fondo a Central Street, oltre il fiume, praticamente fuori della città. La vecchia casa dei Mondrick era a quaranta isolati, esattamente nella direzione opposta. E l’orologio segnava quasi le nove.

«Ora non posso, Rowena», balbettò goffamente. «Sono a tua completa di­sposizione, naturalmente, per qualunque cosa possa occorrerti. Verrò do­mattina o anche stasera stessa, ma più tardi, forse. Ora ho un impegno che non posso rimandare.»

«Oh!» Era un’esclamazione di doloroso stupore. Poi Rowena Mondrick do­mandò con dolcezza: «Esci con quella... ragazza?».

«Con April Bell.»

«Will, chi è?»

«Una giovane cronista alle sue prime armi in un giornale della sera. L’ho conosciuta stasera, non l’avevo mai incontrata prima. Turk non ha avuto l’a­ria di trovarla di suo gradimento, ma a me pare molto in gamba.»

«Non è possibile!», protestò la cieca, e poi, implorante: «Annulla il tuo im­pegno, Will! O almeno rimandalo di qualche ora, dopo che ti avrò parlato. Te ne prego, Will!»

«Non puoi immaginare quanto mi dispiaccia», rispose lui, terribilmente a disagio, «ma davvero non posso, Rowena.» Una punta di irritazione gli ina­sprì la voce, contro la sua volontà. «Anche se a te e al tuo cane non piace, per me è una ragazza interessante.»

«Quella ragazza non mi piace, è vero», rispose Rowena con calma, «e per un’eccellente ragione, che conto dirti appena verrai a trovarmi. Perciò ti pre­go di farti vivo il più presto possibile.»

Non avrebbe saputo dirle, lui, per quali e quante ragioni si sentisse attratto da April Bell; non le sapeva precisamente nemmeno lui. Ma un’onda di pietà per quella povera donna cieca e nuovamente colpita dalla tragedia lo spinse a dirle pentito:

«Stai tranquilla, Rowena. Verrò al più presto. Sii certa della mia amicizia».

«Stai attento, Will!», lo ammonì di nuovo la vecchia signora. «Guardati da quella donna, stasera. Perché sono certa che trama qualcosa contro di te, trama per farti del male, un male immenso!»

«Male a me? E in che modo?»

«Vieni a trovarmi domani e te lo dirò.»

«Dimmelo subito, ti prego», insistette lui, ma udì riattaccare il ricevitore. Allora riattaccò a sua volta, e rimase per qualche istante accanto all’apparec­chio a ripensare alle parole di Rowena.

La moglie di Mondrick era sempre stata d’umore bizzarro, per non dire strambo, da quando la conosceva. Solitamente calma e serena, piena di viva­cità e d’allegria con gli ospiti, talvolta abbandonava senza spiegazioni il pia­noforte e la compagnia dei suoi migliori amici, per starsene sola col suo enorme cane, carezzando gli strani monili d’argento che amava portare.

Stranezze che la tragedia africana giustificava pienamente e che ora la mor­te del marito, si disse Barbee, non avrebbe potuto che accentuare.

Il bar del Knob Hill era una saletta semicircolare dalle pareti di vetro, illu­minata da una luce rossastra, diffusa, al neon. L’effetto complessivo era lie­vemente conturbante, forse per confondere maggiormente le idee e spingere la clientela a bere di più. Le poltrone, di cuoio verde e metallo cromato, un po’ troppo angolose, erano più comode all’aspetto che nella sostanza.

April Bell gli lanciò il lampo del suo sorriso scarlatto da un minuscolo tavo­lo nero sotto un arco di vetro percorso da onde di rossa luce vibrante. La pelliccia bianca era gettata con noncuranza sulla spalliera di un’altra poltron­cina, e la ragazza aveva un’espressione di completo benessere sulla sua ango­losa poltrona, come se quell’atmosfera volutamente snervante le si confaces­se in modo particolare. Si leggeva infatti sul suo volto una soddisfazione qua­si felina.

Il suo abito da sera piuttosto provocante era d’un verde cupo che faceva risaltare il verde dei suoi occhi lievemente obliqui. Barbee non aveva pensato a mettersi un abito scuro, e per un istante si sentì a disagio nel suo vecchio vestito grigio, entro il quale il suo corpo magro ballava come un manico di scopa. Ma April non parve badarvi e lui dimenticò il suo disagio contemplan­do tutto ciò che la pelliccia bianca gli aveva tenuto nascosto. La liscia e com­patta carne di lei era quanto di più desiderabile potesse esservi al mondo; pure, Barbee non poté fare a meno di ricordare, a un tratto, l’avvertimento della cieca.

«Potrei avere un dacquari?», chiese April.

Barbee ordinò due dacquari.

Era seduto davanti a lei, ma il minuscolo tavolo li teneva così vicini, che poteva aspirare il sano profumo che emanava. Come ubriaco prima ancora di bere, trovò difficile ricordare il suo piano d’azione, e il sospetto di trovarsi di fronte a un’assassina. L’unica cosa che ora gli premeva era di piacerle, e non gli importava più di scoprire i motivi per cui avrebbe potuto volere la morte di Mondrick. Contemporaneamente, s’accorse di pensare a chi potesse es­sere il «nemico segreto» di Mondrick, in attesa che si manifestasse l’avvento del «Figlio della Notte».

April faceva forse parte di qualche segreto complotto spionistico? In quel torbido dopoguerra, in cui nazioni, razze, ideologie opposte si combattevano per sopravvivere e gli scienziati ponevano a servizio dell’odio internazionale i più sbalorditivi segreti del Creato, non era poi tanto difficile crederlo.

Forse, in Asia Mondrick e i suoi amici avevano scoperto le prove di questa cospirazione, e le avevano custodite gelosamente nella loro cassa cerchiata di ferro. Poi, consapevoli di un pericolo mortale che sapevano inevitabile, ave­vano cercato di avvertire il mondo; ma Mondrick era caduto vittima di quel pericolo prima di poter parlare...

Ed era stata April Bell a ucciderlo. E il micino nero doveva essere stato l’arma, per assurdo che ciò potesse sembrare.

I due dacquari vennero serviti e i denti bianchi della ragazza lampeggiarono in un sorriso sull’orlo del bicchiere. Barbee, scuotendo impercettibilmente il capo, le sorrise a sua volta, e toccò col suo il bicchiere della ragazza.

Una fattucchiera? Una maga? Una strega?

E con questo? Che c’entrava lui con l’assurda ipotesi che lei avesse cercato di uccidere con arti occulte il povero Mondrick, strangolando il micino nero? Che razza di superstizioni medievali gli stavano passando per la testa da qualche tempo?

Il fatto era che ne aveva piene le tasche della vita che la sorte gli aveva finora riserbata. Ottanta ore alla settimana in quel giornalaccio di Preston Troy, con una paga che gli bastava appena per l’affitto, i pasti e il whisky. Da parecchio tempo ne beveva quasi una bottiglia al giorno, di quello più a buon mercato. April Bell, anche se si credeva una strega, poteva rivelarsi qualcosa di molto meglio, capitato in quella sua sporca vita.

Lei lo guardò, mentre i loro bicchieri si sfioravano con un lieve tintinnìo; i suoi occhi enigmatici lo guardarono con una specie di fredda sfida beffarda.

«Dunque... Barbee?»

Lui si sporse innanzi sul minuscolo tavolino ottagonale.

«Alla nostra... serata!» La vicinanza fisica della donna gli toglieva quasi il fiato. «Ascoltami, April, ti prego... voglio sapere tante cose di te... voglio sapere tutto. Tutto quello che sei stata, tutto quello che hai fatto. Voglio sapere della tua famiglia, dei tuoi amici. Di che cosa sogni e che cosa ti piace la mattina a colazione.»

Le labbra rosse si piegarono in un sorriso ironico.

«Mi stupisci, Barbee... il mistero di una donna è quasi tutto il suo fascino.»

Non poté fare a meno di notare ancora una volta la bianca forza ferina dei suoi denti perfetti. Gli facevano venire in mente uno dei racconti sopranna­turali di Poe, la storia di un uomo ossessionato dai denti della donna amata. Cercò di scacciare dalla mente quell’inquietante associazione d’idee e alzò di nuovo il bicchiere. Un brivido inspiegabile glielo fece traballare fra le dita, e il pallido liquido gli spruzzò la mano.

«D’accordo, ma troppo mistero è preoccupante.» Depose il bicchiere con attenzione. «Perché ho veramente paura di te.»

«Davvero?» Stava osservando attentamente il modo con cui si puliva col fazzoletto le dita appiccicose di liquore. «Strano, perché sei tu, Barbee, quel­lo veramente pericoloso.»

Barbee abbassò gli occhi e bevve ancora, a disagio. La sua certezza di essere refrattario ai pericoli rappresentati dalle donne lo stava ormai definitivamen­te abbandonando.

«Vedi, Barbee, ho cercato di ammantarmi in una specie di velo illusorio. E tu mi hai fatto veramente felice mostrando di accettarlo. Ora, perché lo vuoi lacerare?»

«Voglio lacerarlo», disse lui con semplicità. «Ti prego, April, accontenta­mi.»

Un lampo parve scorrere sui suoi capelli di fiamma, mentre lei annuiva.

«E sia, Barbee», rise. «Per accontentarti lascerò cadere il mio velo dipinto.»

Depose il bicchiere e si chinò verso di lui, le braccia incrociate sul tavolo. La sottile fragranza del suo corpo gli salì alle nari, una fragranza sana di bosco, di felci, di foglie umide.

«Sono figlia di agricoltori», disse. «Sono nata in queste campagne, nella contea di Clarendon. I miei genitori avevano una piccola fattoria presso il fiume, subito dopo il ponte della ferrovia. Dovevo fare tutte le mattine un bel tratto di strada a piedi, per andare a prendere l’autobus che mi portava a scuola.»

Le sue labbra si piegarono in un lieve sorriso beffardo.

«Soddisfatto?», domandò poi. «Il velo è caduto abbastanza?»

Barbee scosse il capo.

«Per nulla», disse. «Ti prego di continuare, perché siamo ancora al punto di prima.»

April parve turbata.

«Ti prego, Will», disse dolcemente. «Preferirei non dirti altro di me... alme­no per questa sera. Quel velo è la mia corazza. Sarei completamente inerme senza, e forse nemmeno troppo simpatica. Non farmelo lacerare. Forse, dopo non ti piacerei più.»

«Ti assicuro che non corri pericoli di questo genere», e nella voce di Barbee c’era una nota aspra. «Ho bisogno che tu continui, perché ho ancora paura di te.»

La ragazza sorseggiò il suo dacquari, e intanto scrutava il volto magro del giovane dagli occhi tristi che le sedeva davanti. Sembrava anche lei, ora, in preda a una segreta tristezza.

«Ti avverto... si tratta di qualcosa di basso e doloroso.»

«Voglio saperlo, per conoscerti e apprezzarti meglio.»

«Speriamo», sospirò lei. Un’ombra impercettibile di disgusto le passò sul volto pallido. «I miei genitori non andavano d’accordo; e questo è il nocciolo di tutto, direi. Mio padre... ma non è il caso di portare alla luce troppi parti­colari sgradevoli. Avevo nove anni, quando mia madre mi portò con sé in California. Gli altri bambini rimasero con mio padre. È per nascondere que­sto triste sfondo che ho voluto creare il mio velo d’illusione.»

Vuotò il bicchiere nervosamente.

«Vedi, mio padre non passò più un soldo alla mamma per il nostro mante­nimento.» La voce della ragazza era piena d’amarezza. «Mia madre riprese il suo nome da ragazza. E si mise a lavorare. Domestica, commessa di negozio, stenografa, comparsa cinematografica, infine qualche particina più che se­condaria. Ma era stata una vita terribile per lei, e volle addestrarmi perché io potessi affrontare l’esistenza meno ingenuamente di lei.

La mamma non aveva molta stima degli uomini, e a ragione, direi. Volle dunque che io imparassi a proteggermi. E fece di me... insomma, diciamo una lupa.» I bei denti lampeggiarono in un sorriso assolutamente privo di allegria. «Ed eccomi qui, Barbee caro. La mamma riuscì a farmi arrivare all’università e a pagare un’assicurazione, così alla sua morte ebbi qualche migliaio di dollari. Quando quel gruzzolo sarà finito, se io farò come lei volle insegnarmi...»

Fece una piccola smorfia e cercò di sorridere.

«E ora hai il quadro completo, Will. Io sono uno spietato animale da pre­da.» Spinse il bicchiere vuoto da parte, bruscamente, in un gesto che non si capiva se fosse d’impaccio o di sfida. «E adesso ti piaccio ancora?»

A disagio sotto la penetrante acutezza di quegli occhi lievemente obliqui, Barbee accolse l’arrivo del cameriere con un senso di sollievo; e ordinò altri due dacquari.

«La squallida realtà dietro il mio povero velo squarciato», riprese April Bell, di nuovo lievemente beffarda, «ti ha fatto passare la paura che t’ispira­vo?»

Barbee si mise a ridere, ma a fatica.

«Come animale da preda», disse, «sei splendidamente equipaggiata. Vorrei solo che i cronisti dello Star fossero una preda pagata un po’ meglio. Ma», e la sua voce si fece grave, «c’è un’altra cosa che mi fa paura.»

La fissò, perché aveva avuto l’impressione precisa che il suo bel corpo sotti­le si fosse impercettibilmente teso, come dinanzi a un pericolo. I suoi occhi, che lo fissavano socchiusi, erano diventati quasi neri. Sembrava davvero una fiera rannicchiata là, dietro quel piccolo tavolo, minacciosa e vigile.

«Dunque?», disse. «Di che cosa hai paura?»

Barbee bevve d’un fiato il suo dacquari.

«April...», cominciò. E s’interruppe, perché ora il delicato ovale del volto che gli stava davanti aveva assunto una espressione remota, fredda, quasi ostile, e i verdi occhi s’erano socchiusi di nuovo, come se April sapesse già quello che lui stava per dire. «April», riprese il giovane, costringendosi a parlare, «è di ciò che è accaduto all’aeroporto.» Si chinò sul tavolo, verso di lei, e un lungo brivido lo percorse dalla testa ai piedi. La sua voce si fece ad un tratto dura, accusatrice. «Sei stata tu a uccidere il gattino nero, ho trovato il corpo della bestiola. E lo hai fatto per provocare la morte di Mondrick.»

S’era aspettato un violento diniego, una sbalordita mancanza di compren­sione delle sue parole, come se veramente il gatto fosse stato ucciso da qual­che monello, comunque una reazione battagliera. Ma era completamente im­preparato alla scena che si verificò. Perché April, copertasi il volto con le mani, i gomiti sul tavolino, piangeva ora silenziosamente, scossa da muti e violenti singulti.

Si sentì smarrito, stupido e inerte davanti a quelle lacrime che aveva provo­cato. Le lacrime lo avevano sempre reso impotente e infelice.

«April, ti prego...», balbettò, «davvero, non intendevo...»

Tacque, nel vedere il cameriere che si avvicinava con due altri dacquari e se ne andava con i due dollari del conto e i bicchieri vuoti.

«April», pregò poi, «perdonami, cara, ti chiedo scusa con tutto il cuore...»

La ragazza sollevò il capo e lo guardò silenziosamente attraverso il velo di lacrime che le colmavano gli occhi dal taglio orientale, quegli occhi che appa­rivano ora enormi, neri, solenni; e la sua testa di fiamma assentì due o tre volte, lentamente, in una conferma di stanca sconfitta.

«Dunque, tu sai», disse, in tono amaramente conclusivo.

«Io non so niente», si affrettò a ribattere lui. «So soltanto che tutto questo sta diventando un incubo, e ci sono troppe cose che non riesco a credere o a capire. Non volevo certo offenderti, April, ti scongiuro di crederlo. Tu mi interessi e mi piaci... molto, moltissimo. Ma... insomma, hai visto anche tu come è morto il povero Mondrick.»

April aveva aperto la borsetta di pelle verde per trarne un fazzoletto col quale ora si stava asciugando gli occhi. Poi si incipriò il volto, che le lacrime avevano devastato, e bevve deliberatamente il resto del cocktail. Ma Barbee vide che il bicchiere le tremava fra le lunghe dita sottili. Infine April alzò gli occhi su di lui e lo fissò con espressione triste e solenne.

«Sì, Will», disse lentamente, «mi hai scoperto. Credo che sia inutile voler cercare d’ingannarti oltre. La verità è dura a confessarsi e so che ti sconvol­gerà.»

Fece un’altra pausa, e infine pronunziò poche incredibili parole:

«Perché, vedi: io sono una strega, Will».

Barbee si levò a mezzo, sedette di nuovo e nervosamente trangugiò il suo dacquari. Guardò, battendo le palpebre, il volto triste e serio di April e scos­se due o tre volte il capo, non sapendo se offendersi per uno scherzo di cattivo gusto, o crederla una povera allucinata. Alla fine domandò col fiato mozzo:

«Si può sapere che diavolo dici?».

«Non te l’ho detto?», rispose lei con una specie di accorata mestizia. «Poco fa ti ho taciuto il motivo per cui mio padre e la mamma si divisero. Non sapevo come dirtelo. Ma fu questa la causa. Io ero una strega bambina, e mio padre se n’era accorto. La mamma lo aveva sempre saputo, e mi difese. Mio padre mi avrebbe ucciso, se non ci fosse stata lei. E per questo ci cacciò di casa.»