Davanti agli occhi di Barbee l’atmosfera rossastra del locale notturno co­minciò a roteare. Per un istante il giovane credette di essere stato ipnotizza­to. Seguitò a guardare sbalordito la ragazza, che a voce bassa, quasi roca, non aveva cessato di parlare.

«Perché, vedi, la mamma era la seconda moglie di mio padre. Ed era di tanto più giovane di lui da poter essergli comodamente figlia. So che non lo amò mai, e a dire la verità non ho mai capito perché lo avesse sposato. Era un uomo d’istinti brutali e povero in canna. È un fatto, poveretta, che lei non aveva mai messo in pratica le norme che volle poi insegnarmi.»

Barbee cercò una sigaretta, aveva bisogno di far qualcosa con le mani, tale era la tensione che lo dominava. Offrì il portasigarette aperto alla ragazza, che rifiutò scuotendo il capo.

«Mio padre era un uomo terribilmente severo», seguitò April, dopo che Barbee ebbe acceso la sigaretta. «Un puritano all’antica, era nato a Salem, figurati, da un’antica famiglia di scozzesi fanaticamente religiosi. Sebbene non avesse ricevuto gli ordini, perché non era d’accordo del tutto con nes­suna congregazione religiosa, aveva l’abitudine di predicare la sua dura fede agli angoli delle strade e sulla piazza nei giorni di mercato: ovunque, insom­ma, potesse trovare qualche fannullone disposto ad ascoltarlo. Si considera­va un uomo pio, virtuoso, che cercava di tenere il mondo lontano dal pecca­to. In realtà, sapeva essere mostruosamente crudele. Con me lo fu.»

Un’ombra di quello che doveva essere stato il suo antico dolore le oscurò il bel volto.

«Ero una bambina molto precoce. Mio padre aveva altri figli dal suo prece­dente matrimonio, i quali non erano affatto precoci. A tre anni io già sapevo un poco leggere. Capivo la gente. In un certo modo, sentivo ciò che la gente avrebbe fatto e le cose che stavano per accadere. Mio padre non era affatto contento che io fossi più svelta dei miei fratellastri e delle mie sorellastre.»

Sorrise debolmente.

«E dovevo essere anche piuttosto bellina, almeno mia madre non si stanca­va di dirlo. Questo doveva avermi alquanto viziata. Di fatto, ero sempre in lite coi miei fratellastri, e mia madre mi dava ragione. Erano molto più gran­di di me, ma anche allora credo che fossi molto più svelta di loro nel trovare il modo di ferirli.

Inoltre, mio padre, che era bruno come mia madre, odiava i miei capelli rossi. Gli bastava guardarli per essere colto da vere e proprie crisi di furore. Non avevo più di cinque anni, quando mi chiamò per la prima volta “piccola strega” e mi strappò dalle braccia di mia madre per staffilarmi.»

I suoi occhi verdi erano ora asciutti e cupi. A Barbee sembravano duri come smeraldi, prosciugati da un odio antico come il mondo. E la sua voce som­messa e recisa faceva pensare ai venti crudeli che dovevano soffiare, fantasti­cò Barbee, sulle desolate distese dell’Ala-shan.

«Mio padre mi ha sempre odiato, e i miei fratellastri ancora di più: perché mi sentivano differente da loro; perché ero più graziosa delle femmine e più intelligente dei maschi; perché sapevo fare cose di cui erano incapaci. Sì... perché ero già una strega!»

Barbee scosse ancora il capo, incredulo e impaziente.

«Tutti erano contro di me... tutti, meno mia madre. Dovevo continuamente difendermi e restituire i colpi tutte le volte che mi se ne offrisse il destro. Sapevo delle streghe dalla Bibbia: papà ne leggeva un brano all’ora dei pasti e poi salmodiava un interminabile ringraziamento, prima di lasciarci mangia­re. Io volli sapere che cosa facessero le streghe. Mia madre mi disse qualcosa, ma molto di più seppi dalla vecchia levatrice che frequentava la nostra casa quando una delle mie sorelle sposate ebbe un bambino... era una vec­chia stranissima! A sette anni, avevo già cominciato a mettere in pratica le cose che avevo imparato.»

Barbee continuava ad ascoltare, quasi offeso che lei potesse crederlo capa­ce di prestar fede a simili assurdità e mezzo affascinato.

«Il primo incidente serio ebbe luogo quando avevo nove anni. Harry, uno dei miei fratellastri, aveva un cane chiamato Tige, che, per motivi che ignoro, non mi poteva vedere. Ringhiava appena cercavo di accarezzarlo, minaccioso come quel terribile cane di oggi. Altro segno, diceva mio padre, che ero una strega, mandata a infliggere l’ira del Signore sulla sua casa.

Un giorno, Tige mi azzannò e Harry si mise a ridere, dandomi della strega e minacciando di scatenarmi ancora contro il cane. Forse scherzava, non so, ma io vinta dall’ira mi lasciai andare a dirgli che gli avrei dimostrato che cosa può fare una strega. Gli promisi che avrei gettato un incantesimo sul suo cane e lo avrei fatto morire. Feci del mio meglio per mantenere la promes­sa.»

Socchiuse gli occhi, al ricordo, e le sue narici palpitarono un poco.

«Ricordavo tutto quello che la vecchia levatrice mi aveva detto. Inventai una specie di nenia sulla morte del cane e mi misi a mormorarla all’ora dei pasti. Raccolsi alcuni peli dalla sua cuccia, vi sputai sopra e li bruciai nella stufa della cucina. E attesi la morte di Tige.»

Barbee sentì il bisogno di attenuare la terribile tensione che sentiva emana­re dalla ragazza:

«Eri ancora una bambina», disse. «Giocavi, in fondo.»

«Tige divenne idrofobo la settimana dopo», disse lei tranquillamente, «e mio padre dovette ammazzarlo con una fucilata.»

Barbee si mosse a disagio.

«Una coincidenza», disse.

«Può darsi.» E negli occhi di April passò un’espressione beffarda. «Ma io non lo credo.» Ancora l’ombra di un antico dolore oscurò il pallido volto enigmatico. «Io credevo nel mio potere. Harry vi credeva anche lui, ormai. E anche mio padre ci credette, quando Harry gli disse della minaccia che avevo fatto a proposito del cane. Corsi dalla mamma, che stava cucendo, ma mio padre mi trascinò fuori di casa e mi frustò ferocemente!»

Le sue dita lunghe e affusolate presero il bicchiere e lo alzarono, tremanti, per poi deporlo di nuovo sul tavolo, senza averlo avvicinato alle labbra.

«Mio padre mi martirizzò, quella volta, e fu terribilmente ingiusto. Ma men­tre mi staffilava con tutta la sua forza, gli urlai che mi sarei vendicata. Appe­na mi lasciò andare, corsi pesta e sanguinante direttamente nella stalla dove, strappati un ciuffo di peli alle tre vacche migliori e al toro che mio padre aveva appena comprato per la monta, vi sputai sopra, li bruciai con un fiam­mifero e sotterrai il mucchietto di cenere dietro la stalla. Poi feci un’altra cantilena.»

April fissava lo sguardo davanti a sé, attraverso il fumo rossastro della sala.

«Dopo una settimana il toro morì, e il veterinario disse che si era trattato di setticemia emorragica. Anche le tre vacche morirono, insieme con la miglior giovenca d’un anno e due giovani buoi. Mio padre ricordò le minacce che avevo gridato sotto la sferza e Harry disse di avermi visto scavare dietro la stalla. Allora mio padre mi frustò fino a quando dovetti confessare.»

Bruscamente, con la rapidità morbida ed elegante di un felino, April bevve il cocktail d’un fiato. Le sue pupille verdi si fissarono su Barbee, dure e vitree, come se non lo vedessero. Nervosamente, le dita sottili cominciarono a far girare il calice su se stesso, e a un tratto il fusto si spezzò e la coppa di cristallo andò a infrangersi sul pavimento. Lei parve non essersene accorta, perché riprese, cupa e sommessa:

«Fu una notte spaventosa, Will. Mio padre mandò tutti gli altri ragazzi a casa di quella nostra sorella sposata, per sfuggire all’orrore degli esorcismi, disse, ed evitare la maledizione dell’ira del Signore. Rimanemmo in casa sol­tanto la mamma e io, per pregare insieme, minacciò mio padre, e prepararmi a patire il giusto castigo per i miei peccati. Non dimenticherò mai quella notte. Mia madre che invocava pietà per me, dopo essersi inginocchiata da­vanti a mio padre, che andava e veniva come un dio furibondo sul pavimento di assi spezzate della cucina. Ma mio padre non l’ascoltava nemmeno. Urlava le sue domande e le sue accuse a mia madre e a me, fermandosi ogni tanto a leggere la Bibbia alla luce di una fumosa lampada a petrolio. Più volte rilesse la terribile frase: “Non tollererai che una strega viva”.».

Per evitare che la sua mano tremante si tagliasse sui frammenti aguzzi del bicchiere, Barbee le tolse dalle dita il mozzicone del calice. La ragazza non parve accorgersene.

«La tetra cerimonia durò quasi tutta la notte. Mio padre ci faceva inginocchiare e pregare. Poi riprendeva la sua marcia agitata per la cucina, urlando e maledicendo mia madre e me. La faceva risollevare a strattoni, quando la mamma gli si inginocchiava davanti, e poi a ceffoni la spingeva qua e là per la stanza, rimproverandola di avere concepito nel suo seno una figlia strega. Infine, strappatami dalle sue braccia, ricominciava a frustarmi, riducendomi ogni volta quasi priva di sensi; e dopo tornava a leggere la Bibbia: “Non tollererai che una strega viva”.»

Barbee si accorse d’essersi tagliato un dito, coi frammenti del calice. Con cura ripose tutti i pezzetti di vetro nel portacenere, si asciugò le goccioline di sangue col fazzoletto, e accese un’altra sigaretta.

«Avrebbe certamente finito con l’uccidermi», continuò April, «se mia ma­dre, all’ultimo, non avesse osato aggredirlo. Gli ruppe una sedia sulla testa, ma lui non parve nemmeno accorgersene. Mi lasciò andare, tuttavia, e si diresse verso il fucile, appoggiato al muro presso la porta. Capii che stava per ammazzarci tutt’e due, e allora mi misi a cantare una nenia magica per impe­dirglielo. Riuscii anche questa volta, perché cadde per terra nell’istante in cui tendeva il braccio per prendere il fucile. I medici dissero poi che si tratta­va di emorragia cerebrale. E gli consigliarono di non perdere tanto facilmen­te la calma, in avvenire. Non ebbe il modo di perderla, comunque, perché cadde morto il giorno stesso in cui uscì dall’ospedale, alla notizia che mia madre era scappata con me in California.»

Barbee rimase piuttosto stupito nel constatare che il cameriere aveva spaz­zato via i resti del bicchiere e servito altri due dacquari sul tavolino. April Bell portò il suo alle labbra avidamente. Barbee pescò altri due dollari nel portafogli sgonfio, e si chiese vagamente a che cosa sarebbe ammontato il conto quando avessero ordinato il pranzo. Si mise a sorseggiare il cocktail, stando bene attento a non interrompere.

«Non ho mai saputo esattamente che cosa credesse mia madre.» Ciò rispon­deva esattamente a quello che avrebbe voluto chiederle, ma non osava. «Mi amava moltissimo. Credo che mi avrebbe perdonato qualunque cosa. Ma mi fece promettere, quando fummo al sicuro, lontano dalla casa di mio padre, che non avrei mai più tentato di fare altri malefici. La mamma era molto buona, e tu le avresti voluto un gran bene, Will. Col passare degli anni, credo che abbia finito quasi col dimenticare tutto quello che avevamo passato a Clarendon. So che desiderava dimenticare con tutta l’anima. Non espresse mai il desiderio di tornare, nemmeno per rivedere i suoi vecchi amici di qui. So che l’avrebbe addolorata atrocemente sapere quello che ero... che sono realmente.»

Una strana, liquida dolcezza colmava ora gli occhi verdescuri di April.

«Mantenni la promessa di non fare più malefici», disse quasi teneramente. «Ma nulla avrebbe potuto impedirmi di sapere quali forze si andassero de­stando e sviluppando in me. Nulla poteva impedirmi di sentire ciò che gli altri pensavano, di prevedere cose che sarebbero avvenute.»

«Lo so», disse inaspettatamente Barbee. «È quello che nel nostro mondo chiamiamo aver naso, o fiuto, o il senso delle notizie.»

Lei scosse il capo, gravemente.

«È ben altro», disse; e poi, come se non volesse perdere tempo a spiegare a chi non poteva capire: «Non ricorsi più a fatture o incantesimi, ma molte cose continuavano ad accadere, senza che io le volessi direttamente».

Il giornalista l’ascoltava intento, e cercò di non farle vedere gli strani brividi che a tratti lo percorrevano.

«Avevo una compagna di università, per esempio, che non potevo soffrire: di quelle ragazze, sai, dotate di una specie di soave perfidia, che citano sem­pre la Bibbia, più o meno a sproposito, e s’impicciano della vita degli altri, esattamente come facevano le mie sorellastre. Vinse una borsa di studio per il corso di giornalismo, la stessa sulla quale avevo riposto tutte le mie speran­ze e che, sapevo, lei era riuscita a vincere solo attraverso inganni e sotterfugi. Non potei fare a meno di augurarle del male.»

«E», ansimò Barbee, «il tuo desiderio fu esaudito?»

«Precisamente», disse April con dolcezza. «Il giorno in cui quella ragazza avrebbe dovuto ricevere la borsa di studio, si svegliò in preda a uno strano malessere. Volle recarsi all’università lo stesso, ma svenne lungo la strada. Appendicite acuta, dissero i medici. Fu sul punto di morire... Un’altra coinci­denza, dirai tu. Era quello che volevo pensare anch’io, Barbee, a quell’epoca. Perché non odiavo davvero quella ragazza, ed ero disperata, finché i medici non dissero che si sarebbe salvata. Ma non fu questo il solo incidente. Altre cose accaddero, più o meno di questa portata. Alla fine, cominciai ad avere paura di me.»

La sua voce scese a un bisbiglio quasi impercettibile.

«Capisci, Barbee?» I suoi occhi lo imploravano di comprendere. «Indipen­dentemente dalla mia volontà, il potere entro di me continuava ad agire. È questo che ho bisogno che almeno tu capisca; io non ho mai desiderato es­sere una strega: sono nata così.»

Barbee si mise a tamburellare nervosamente con le dita sulla tavola. Veden­do arrivare il cameriere, lo allontanò con un gesto impaziente della mano. Inghiottì a fatica e disse:

«Scusami, April, mi permetti di farti qualche altra domanda?».

Le bianche spalle di lei si alzarono, in muta e disillusa stanchezza.

«Ormai», disse, «che importanza vuoi che abbia?»

«Ci sono cose che possono ancora avere molta importanza... per te, per me», rispose lui. La faccia della ragazza esprimeva soltanto una tristezza in­finita, ma questa volta April gli permise di prenderle una mano, mentre le chiedeva con appassionato fervore: «Hai mai parlato di queste cose a qualcu­no che potesse capire, non so, uno psichiatra, o uno scienziato come il pove­ro Mondrick?».

Lei assentì con apatia.

«Ho un amico che sa tutto di me... conosceva mia madre e credo che ci abbia molto aiutato, quando abbiamo passato momenti difficili. Un paio d’anni or sono mi convinse ad andare dal dottor Glenn, Archer Glenn, quel­lo giovane, sai, qui a Clarendon.»

Barbee cercò di soffocare l’istintivo bisogno geloso di chiedere maggiori informazioni su quell’amico, e le sue dita si strinsero sulla mano fredda e inerte di April, ma poi riuscì ad annuire con un’espressione di placida rifles­sività.

«Conosco Glenn», disse. «L’ho intervistato una volta, quando suo padre lavorava ancora con lui; dovevo preparare un servizio per lo Star su Glennhaven, che molti considerano la migliore clinica psichiatrica degli Stati Uni­ti... E che cosa ti disse Glenn?»

«Oh, Glenn non crede alle streghe», rispose lei con la sua aria beffarda. «Cercò di psicoanalizzarmi. Per quasi un anno sono andata ogni giorno a coricarmi per un’ora su un divano del suo studio, a Glennhaven, e a raccon­targli i fatti miei. Ho fatto del mio meglio per collaborare... a quaranta dolla­ri l’ora! Gli ho detto tutto quanto ho raccontato a te, ma lui continua a non credere alle streghe.»

Emise un piccolo riso soffocato.

«Glenn pensa che nell’universo tutto si possa spiegare in base al concetto che due e due fanno quattro. Mi ripeteva che, se si getta una specie di in­cantesimo su qualunque cosa e poi si ha la pazienza di aspettare, qualcosa prima o poi dovrà accadere. Insomma, voleva dire che io cercavo inconscia­mente d’ingannare me stessa. Era convinto che io sia un po’ squilibrata, una paranoica, per chiamare le cose col loro nome. Ma che fossi una strega, non voleva nemmeno lasciarmelo dire.»

Un sorriso malizioso le illuminò debolmente il bel viso.

«Neanche quando glielo dimostrai.»

«Glielo dimostrasti? E in che modo?»

«I cani di solito non hanno simpatia per me, e ogni volta che andavo a Glennhaven, che come sai è in aperta campagna, i cani delle fattorie mi veni­vano incontro sulla strada, pieni di odio, abbaiando frenetici, e mi persegui­tavano così dalla fermata dell’autobus fino alla clinica. Un giorno che ne avevo veramente abbastanza, decisi di dare una piccola dimostrazione a Glenn. Portai un po’ di creta umida e la mescolai alla polvere presa ai piedi d’una panchina all’angolo, dove i cani erano soliti sostare. Nell’ufficio di Glenn, modellai con la creta le figure di cinque di quei cani. Mormorai una delle mie filastrocche, sputai sopra i modellini e infine li spaccai gettandoli a terra. Quindi invitai Glenn a guardare dalla finestra.»

Una luce strana brillava ora negli occhi obliqui della ragazza.

«Aspettammo una decina di minuti. Io gli indicai i cani, che come al solito mi avevano inseguito fin sulla porta della clinica e ora stavano abbaiando alla nostra finestra. Improvvisamente si gettarono tutti all’inseguimento d’una ca­gnetta, una terrier,che doveva essere in calore. Si erano spinti in gruppo in mezzo alla strada, quando una macchina lanciata a grande velocità sbucò dalla curva. L’uomo al volante cercò di sterzare, ma non ne ebbe tempo. La macchina investì in pieno i cani, prima di rovesciarsi sul margine della strada. Tutti i cani rimasero uccisi, e con mio sollievo seppi che l’automobilista era rimasto miracolosamente illeso.»

«E Glenn, che disse?»

«Ne parve deliziato.» April Bell sorrise enigmaticamente. «Appresi poi che la cagnetta apparteneva a un chiroterapista con lo studio in fondo alla stra­da. Glenn non ama né i cani né i seguaci della chiroterapia, ma anche quella volta non si lasciò convincere all’esistenza delle streghe. Secondo lui, i cani erano morti perché la cagnetta s’era liberata del guinzaglio e non a causa di qualche mia “fattura”. Disse poi ch’era evidente come io non volessi rinun­ciare alla mia psicosi e che pertanto non avremmo fatto progressi fino a quando non avessi cambiato atteggiamento. Il mio presunto dono sopranna­turale, secondo Glenn non era che autoillusione di origine paranoica. Mi addebitò altri quaranta dollari per quell’ora supplementare e iniziammo la seduta di psicanalisi.»

Barbee esalò un getto di fumo azzurro nella nebbia rossastra della sala e si mosse a disagio nella sua poltroncina triangolare. Vide il cameriere spiarlo imperiosamente, ma non aveva più voglia di bere, e riportò lo sguardo su April Bell. La ragazza ora sembrava al colmo della stanchezza. Lentamente, trasse la mano fredda di sotto alle dita del giornalista.

«E tu sei convinto che avesse ragione lui, Barbee.»

«Santo Cielo», esclamò il giornalista, «non ci sarebbe troppo da stupirsi se tu rivelassi qualche tendenza alla follia, dopo tutto quello che hai passato!»

E si sentì sommergere da un’onda di compassione per tutte le sue sofferen­ze, per l’ignoranza e il fanatismo d’un padre crudele, che l’avevano spinta a credere a tali assurde fantasie. L’aria soffocante lo fece tossire. Cercò di nascondere sotto quella tosse i suoi sentimenti: temeva che una pietà troppo palese potesse offenderla.

Con molta calma April disse:

«So benissimo di non essere pazza».

Tutti i pazzi dicono così, pensò Barbee. E s’accorse di non avere più niente da dire. Aveva bisogno di tempo per riflettere, per analizzare quelle straordi­narie confessioni e verificarle alla luce della morte di Mondrick. Guardò l’o­rologio e accennò col capo alla sala da pranzo:

«Vogliamo mangiare?», propose.

Lei assentì con entusiasmo.

«Ho una fame da lupo», disse.

La frase frenò Barbee, ricordandogli la spilla di giada. La ragazza stava già allungando il braccio verso la pelliccia, ma Barbee ricadde pesantemente sul­la sua scomoda poltroncina.

«Beviamo un ultimo cocktail.» Chiamò il cameriere con un cenno e ordinò altri due dacquari, prima che April si volgesse a guardarlo con un’espressio­ne d’imbronciato stupore. «Lo so che è tardi», le disse in tono di scusa, «ma vorrei chiederti ancora una cosa.» Esitò, vide di nuovo quella pericolosa ten­sione immobilizzare il corpo della ragazza in un’attesa elettrica, e con rilut­tanza le chiese: «Sei stata tu, vero, ad ammazzare quel gattino?».

«Sì.»

«Per causare la morte del professor Mondrick?»

Nel fumo rossastro, April annuì, quasi distrattamente.

«E infatti è morto.»

C’era veramente da impazzire.

«Ma perché, April, desideravi la sua morte?»

La voce di lei, nel rispondere, era impersonale e lontana, come se venisse da una torre lontanissima:

«Perché avevo paura».

Barbee inarcò le sopracciglia.

«Paura? e di che? Mi hai detto che non lo conoscevi nemmeno. E che male avrebbe mai potuto farti? Io, magari, potevo aver dei motivi di rancore verso di lui, per avermi allontanato dalla sua cerchia, senza che gli avessi mai fatto nulla, ma era un uomo innocuo e generoso, uno scienziato amante solo della verità e della luce.»

«Sapevo ciò che voleva fare.» La voce della ragazza era dura e fredda, ma ancora lontanissima, proveniente come da una remota fortezza assediata. «Vedi, Will, io ho sempre voluto conoscere la mia vita interiore, la forza che avevo in me. Non ho studiato psicologia all’università, perché tutti i profes­sori sembravano stupidamente radicati nell’errore. Ma ho letto quasi tutto ciò che è stato pubblicato su casi insoliti e bizzarri come il mio. Tu forse non sai che Mondrick era un’autorità riconosciuta nel campo della stregoneria. Conosceva a fondo la storia delle persecuzioni delle streghe, e molte altre cose ancora. Aveva studiato le leggende di tutte le razze primitive, e quelle leggende erano per lui qualcosa di più che strane fiabe e miti fantasiosi. I miti dell’antica Grecia, per esempio, pieni di amori tra gli dèi e le fanciulle degli uomini. Quasi tutti gli eroi greci, Ercole, Perseo, ecc, avevano fama di possedere una parte illegittima di sangue immortale nelle vene. E avevano doni e poteri sovrumani. Bene, anni fa Mondrick scrisse una monografia che analizzava queste leggende, interpretandole come ricordi razziali del conflit­to e degli occasionali incroci fra due razze preistoriche: gli alti ed evoluti Cromagnon, forse, e gli scimmieschi Neanderthaliani. Del resto, tu hai studiato con lui, Barbee, e dovresti conoscere l’estensione delle sue ricerche. Cercava di individuare differenze in seno all’umanità odierna, faceva prove del sangue, misurava reazioni, analizzava sogni negli individui più disparati. Aveva la mente aperta a tutte quelle cose che gli scienziati rifiutano solo perché non corrispondono alle loro prevenzioni; era un’autorità in fatto di parapsicologia e telecinesi, e si può dire che non abbia lasciata intentata nes­suna via per giungere alla conoscenza che lo attirava.»

«Tutto vero», disse Barbee; «e con questo?»

«Mondrick era prudentissimo in tutto ciò che scriveva», riprese la fredda voce remota di April. «Velava il vero significato dei suoi scritti con innocui termini scientifici. Non voleva agitare troppa gente, prima di avere le prove di quanto asseriva. Finché, una dozzina d’anni fa, abbandonò del tutto la sua attività di scrittore e addirittura ricomprò e bruciò tutte le copie delle sue precedenti monografie. Ma aveva già scritto troppo. Io, per esempio, avevo ben compreso ciò che stava facendo.»

April attese che il cameriere desse a Barbee il resto del suo unico biglietto da venti dollari, sorseggiando lenta il quarto dacquari. Quella ragazza sapeva bere, non poté fare a meno di pensare Barbee.

«Mondrick credeva nelle streghe», dichiarò finalmente April.

«Sciocchezze!», protestò Barbee. «Mondrick era uno scienziato!»

«Eppure, o forse proprio per questo, ci credeva! È proprio di questo che avevo paura. Mondrick aveva impiegato quasi tutta la sua vita a cercar di dare basi scientifiche alla stregoneria. Si era recato nell’Ala-shan per trovare altre prove. E oggi, al suo arrivo, ho capito che aveva trovato ciò che cercava da anni.»

«Ma non certo le prove sulla stregoneria!»

«Tu non vuoi credere, Barbee», e ancora quell’impercettibile sorriso beffar­do aleggiò per un istante sul suo volto, «come non vuol credere la maggio­ranza delle persone. È la nostra migliore protezione... perché noi siamo il nemico. Comprenderai perché gli esseri umani ci odiano: perché siamo dif­ferenti. Perché abbiamo, innati, poteri maggiori di quelli concessi agli esseri umani... e tuttavia non così grandi come vorremmo!»

Una luce selvaggia di spietata ostilità s’era accesa nei suoi occhi verdi, per un istante; ma in quell’istante Barbee vi lesse una ferocia nuda, assoluta, che non avrebbe dimenticato mai più. Abbassò gli occhi, soggiogato, e delibera­tamente vuotò il calice.

«Mondrick voleva additarci e rivelarci all’umanità, perché ci annientasse. Per questo ho avuto paura», riprese April. «Forse aveva inventato un conge­gno, un mezzo scientifico per l’identificazione delle creature dotate di poteri metapsichici. Anni fa, rammento, scrisse una memoria scientifica sui gruppi sanguigni e l’introversione.... introverso è uno degli asettici termini scientifici che usa per indicare le streghe.»

Un breve silenzio, poi alzò le spalle, in un gesto d’impazienza.

«Non ne ha colpa nessuno, ma è così, e non ci si può far nulla.» Improvvisa­mente, i suoi occhi si riempirono di lacrime. «I guai cominciarono quando la prima strega fu inseguita, braccata e uccisa a colpi di pietra dal primo uomo delle caverne. E continuerà così fino a che l’ultima strega non sia morta. Sempre e dovunque, gli uomini obbediranno all’antica legge biblica: “Non tollererai che una strega viva”.»

Alzò ancora le spalle.

«Ecco, questa sono io, Will», sussurrò con amarezza. «Hai voluto lacerare il mio povero velo illusorio, non ti bastava il mio semplice aspetto umano di donna. Hai voluto vedere sotto l’illusione...» Stancamente, allungò di nuovo il braccio verso la pelliccia. «Ed eccomi qua, nemica del genere umano, brac­cata, perseguitata. Mondrick era lo spietato cacciatore umano, sempre alla ricerca d’ogni risorsa della scienza per scoprire e annientare me e i miei simi­li. Puoi condannarmi, se a mia volta sono ricorsa a un maleficio per salvar­mi? Puoi condannarmi se ho raggiunto il mio scopo?»

A Barbee pareva di avere le gambe di piombo. Si scosse, come per liberarsi da quella specie di sonnolenza ipnotica in cui il verde magnetismo degli occhi di April (ma forse erano i cocktails) sembrava averlo sprofondato.

«I tuoi simili?», ripeté. «Dunque, non sei sola.»

«Io sono del tutto sola», rispose lei con voce dura.

«Quando Mondrick ha parlato di un segreto nemico, alludeva alle streghe, secondo te?»

«Certo.»

«Tu ne conosci altre?»

La risposta, gli parve, giunse con un secondo di ritardo. Ma volto e occhi di April erano del tutto impassibili.

«No.» Bruscamente si mise a tremare, e Barbee capì che lottava per ricac­ciare le lacrime. Con un filo di voce, implorò: «Oh, Will, vuoi perseguitarmi anche tu?».

«Perdonami, April, ma ora che mi hai detto tanto, puoi dirmi anche il resto, no? Chi è quel Figlio della Notte, cui ha alluso Mondrick?»

«Oh, come potrei saperlo? C’è altro?»

«Una cosa sola: non sai, per caso, a quali proteine Mondrick fosse allergi­co?»

La ragazza lo fissò con uno stupore che gli parve sincero.

«Allergico? L’allergia è un disturbo che a che fare con il raffreddore da fieno e l’indigestione, vero? No, proprio, non lo so.» Si mise a ridere. «Non conoscevo Mondrick personalmente e non sapevo che soffrisse d’asma da fieno. L’ho visto per la prima volta in vita mia questa sera.»

«Dio sia lodato!», esclamò Barbee, alzandosi. Respirò a pieni polmoni l’aria corrotta della sala, e guardò dall’alto della sua allampanata figura la ragazza, ch’era rimasta seduta e lo guardava con uno stanco sorriso. «Lo so che ti ho sottoposta a un terzo grado semplicemente odioso», le disse. «Ma avrei potu­to fare diversamente? E ora vuoi concedermi il tuo perdono?»

«Concesso», rispose lei. «E possiamo anche fare a meno di mangiare: non ti trattengo, se preferisci andartene.»

«Andarmene?», protestò il giornalista. «Ma tu mi avevi promesso questa serata, cara. E poco fa hai confessato di avere una fame da lupo, e non biso­gna dimenticare che Knob Hill è famoso per le sue costate. Possiamo ballare un po’, dopo cena, o fare una corsa in macchina sotto la luna, a scelta. O sei tu che preferisci che me ne vada?»

Gli occhi di lei si raddolcirono, e a Barbee sembrò di scorgervi una luce di sincera gratitudine.

«È proprio vero, Will», bisbigliò, «che anche ora, dopo aver visto ciò che si nasconde dietro il velo, non desideri andartene?»

Ancora quell’ondata di pietà e di tenerezza sommerse Barbee; che tuttavia scoppiò in un’allegra risata.

«Se tu sei un’incantatrice», le disse, «sappi che sono già completamente incantato.»

April si alzò con un sorriso radioso.

«Grazie, Will», disse semplicemente. Prese la pelliccia e si avviarono verso la sala da pranzo. «Una preghiera, Will», sussurrò frettolosamente: «tenterai, per questa sera soltanto, d’aiutarmi a dimenticare che sono... quella che sono?».

Barbee assentì calorosamente.

«Farò il possibile, mia bella fata.»