Rimasero nel locale fino alla chiusura. La cena era stata superiore a ogni aspettativa e l’orchestra suonava, si sarebbe detto, solo per loro due, mentre April Bell si muoveva tra le sue braccia con una grazia morbida e lieve da animale selvatico.

Barbee avrebbe voluto accompagnarla a casa, ma c’era la splendida conver­tibile della ragazza nel parcheggio del locale, e il giornalista dovette limitarsi ad accompagnarla solo all’automobile. Le aprì lo sportello, e mentre lei scivolava sul sedile verso il volante, la prese impulsivamente per il braccio.

«Sai, April», le disse, non sapendo bene nemmeno lui che cosa volesse dir­le; poi vedendo il cordiale sorriso di lei in attesa, continuò: «Provo per te qualcosa che non riesco a capire. Una strana sensazione... che non mi so spiegare».

Il volto pallido di lei era lievemente rovesciato sotto il suo, e lui fu domina­to da un divorante bisogno di baciarla.

«La sensazione, forse, di averti conosciuta sempre. La sensazione che tu sia parte di qualcosa... d’una cosa antica e importante... che appartiene solo a te e a me. Come se tu avessi ridestato qualche cosa che dormiva in me...»

Lei sorrise nell’ombra, e la sua voce morbida accennò dolcemente l’aria di una canzone che quella sera avevano ballato: Forse è amore.

Era l’amore, forse. Anni e anni erano passati dall’ultima volta in cui Will Barbee s’era creduto innamorato, ma a ripensarci bene il turbamento prova­to allora non era nemmeno paragonabile a quello attuale. Perché aveva an­cora paura, non di April, non più ora, ma delle vaghe, quasi travolgenti sen­sazioni che April ridestava in lui, delle correnti e delle forze e degli istintivi ricordi che suscitava nel suo intimo. Tutte cose ch’era impossibile esprimere; un altro brivido lo scosse, irresistibilmente.

«Questo vento è sempre più freddo!» Non cercò di baciarla. Bruscamente, quasi con durezza, la spinse entro la macchina e chiuse lo sportello di colpo. «Grazie per la serata meravigliosa.» Non voleva rivelare la confusione del suo stato d’animo. «Passerò a salutarti domani al Trojan Arms.»

April lo guardò dal suo posto davanti al volante. Il lento sorriso che le aleggiava sulle labbra sembrava rivelare che era consapevole di tanto turba­mento spirituale.

«Buona notte, Barbee», gli disse in tono carezzevole, chinando il capo in cerca del bottone della messa in moto.

Il giornalista rimase fermo a vederla scivolar via sulla grande macchina si­lenziosa come una nave. Giocherellava con lo spillo di giada che aveva in tasca. Si chiese in virtù di quale timore — o di quale abulia — non gliel’avesse restituito. Una nuova folata di vento gelido lo investì, e lo spinse verso il suo vecchio macinino.

Barbee scrisse il servizio sul funerale di Mondrick per lo Star. Le esequie erano state fissate alle due del pomeriggio, e il vento della vigilia soffiava ancora, più freddo e tagliente che mai.

Nick Spivak e Rex Chittum erano tra coloro che tenevano i cordoni, ma Sam Quain, stranamente, mancava. Barbee si pose al fianco di Nora, a qual­che passo di distanza da Rowena Mondrick, che procedeva più impettita che mai tra il suo gran cane fulvo e la governante.

«No, Sam sta benissimo», rispose Nora alla domanda sussurratale da Bar­bee. Nora era sempre rimasta gentile e affettuosa con lui, anche se Mondrick e Sam erano cambiati. Tanto che Barbee, s’era chiesto più volte quanto di­versa sarebbe stata la sua vita se Nora avesse sposato lui anziché Sam. «È rimasto a casa per tener d’occhio quella cassa che hanno portato dall’Asia. Hai un’idea di quello che possa contenere?»

Barbee scosse il capo, rispondendo che non ne aveva la più pallida idea. Rowena doveva avere udito le loro voci, perché si voltò di scatto, quasi con allarme. Aveva la faccia sconvolta, pallidissima.

«Will Barbee?», chiamò forte. «Sei tu?»

«Sì, Rowena», e si mise a balbettare qualche generica parola di condoglian­za; ma la cieca non attese.

«Ho sempre bisogno di vederti, sai, Will», disse Rowena, ansiosamente. «Spero che non sia ancora troppo tardi per aiutarti. Puoi venire da me oggi... diciamo, le quattro?»

Barbee fissò incerto quel viso sottile, pallidissimo, che un’angoscia indicibi­le sembrava sconvolgere più ancora del dolore per la perdita del marito, ri­cordò la telefonata della sera prima e si chiese ancora quanto la morte di Mondrick avesse potuto ledere le facoltà mentali della povera donna.

«Va bene, Rowena», promise; «alle quattro sarò a casa tua.»

Mancavano cinque minuti all’ora fissata, quando Barbee fermò la macchina davanti alla vecchia e malandata casa di mattoni rossi sull’University Avenue. Le imposte erano tarlate e traballanti, i muri scrostati e il prato del giardino incolto rivelava chiazze nude e spelacchiate. L’Istituto aveva eviden­temente prosciugato quasi tutti i fondi i Mondrick, oltre ai capitali che lo scienziato era riuscito a raccogliere da altri.

Rowena stessa venne ad aprire.

«Grazie d’essere venuto», gli disse con volce dolce e composta, sebbene sul volto le si vedessero le tracce di lacrime recenti. E introdusse Barbee nel salotto ch’egli conosceva fin da quando lui e Sam erano stati a pensione nella casa. La camera era lievemente soffusa del profumo che emanava da un gran vaso di rose sul pianoforte. Una stufetta a gas ardeva nella nera caverna del caminetto, davanti al quale Turk se ne stava accosciato in posa leonina, fis­sando i gialli occhi attenti sul nuovo venuto.

«Siedi», lo invitò Rowena. «Ho mandato fuori la signorina Ulford a fare delle spese, perché dobbiamo parlare da soli, Will.»

Impressionato dalla solennità del preambolo, il giovane sedette, mormoran­do confusamente qualche parola di condoglianza sulla fatale disgrazia che aveva colto Mondrick.

«Non è stata una disgrazia, Will», disse dolcemente la cieca. «Mio marito è stato assassinato... ero convinta che anche tu lo sospettassi.»

Barbee inghiottì penosamente. Non intendeva parlare di sospetti e perples­sità con nessuno, prima di decidere qualcosa in cuor suo a proposito di April Bell.

«Sì, l’ho sospettato», ammise; «ma erano sospetti campati in aria.»

«Sei stato con April Bell, ieri sera?»

«Siamo stati a cena insieme.» Osservò la cieca che veniva con la sua scon­certante sicurezza di movimenti a porsi davanti a lui, restando poi ritta così, nel sobrio vestito nero, una mano sottile appoggiata sul piano a coda. Un lievissimo moto di risentimento lo spinse a dire in tono difensivo: «So che Turk non ama April Bell, ma io sono convinto che si tratti di una ragazza eccezionale».

«Temevo infatti che tu la vedessi in questa luce», disse la cieca, con voce piena d’una grave tristezza. «Ho parlato a Nora Quain, e mi ha detto che non può soffrire quella ragazza. Turk non ha lasciato dubbi in proposito e quanto a me sai come la penso. C’è una ragione dietro tutto ciò, Will, che tu devi sapere.»

Barbee se ne stava seduto tutto impettito e piuttosto seccato, anche. Dopo tutto, scegliere le sue amiche non toccava né alla vedova di Mondrick né alla moglie di Sam Quain. Ma non disse nulla. Turk si stirò davanti al fuoco, tenendo sempre gli occhi fissi su Barbee.

«Quella donna è pericolosa», riprese la cieca, «e pericolosa soprattutto per te.» Si chinò su di lui, mentre strani riflessi rilucevano sui suoi antichi monili d’argento. «Devi promettermi, Will, che non la rivedrai mai più.»

«Ma, Rowena!», esclamò lui, cercando di assumere un tono scherzoso e, soprattutto, di non pensare alla confessione di April, la sera prima. «Non ti sembra che io sia maggiorenne già da molti anni?»

Ma la vecchia non sorrise.

«Io sono cieca, Will», e piegò un poco la testa canuta, come se vedesse dietro le lenti nere, «ma non a tutto. Ho partecipato all’attività di mio marito fin da quando ero ragazza. Ho avuto la mia piccola parte nella strana, solita­ria guerra terribile che lui ha combattuto per tanti anni. Ora è morto... assas­sinato, ho tutte le ragioni per crederlo.»

La cieca fece una pausa, e si eresse sulla persona.

«E quell’affascinante tua April Bell», soggiunse con voce ancor più som­messa, «deve essere il nemico segreto che lo ha ucciso!»

Barbee aprì la bocca per rispondere, ma s’accorse che non poteva dir nulla. L’impulso di difendere a ogni costo April Bell fu tuttavia più forte d’ogni altra considerazione.

«Non lo credo, possibile», riuscì a dire.

«Quella donna ha assassinato mio marito», disse Rowena con voce improv­visamente così aspra che Turk si alzò, inquieto, e venne a porsi alle sue spal­le. «E ora sei tu in pericolo.»

«Andiamo, Rowena!», disse lui, cercando ancora di ridere. «April è una ragazza simpaticissima, e io non soffro di allergie.»

«April Bell non cercherà di ucciderti, Will», riprese con voce più calma la cieca. «Il pericolo che ti minaccia è qualcosa di diverso dalla morte, qualcosa di più orribile. Perché lei cercherà di cambiarti... di destare in te qualcosa che non dovrebbe mai essere risvegliato.»

Col pelo improvvisamente irto, Turk venne a sfiorare col fianco la gonna nera della cieca.

«È una donna perfida, Will. Io posso vedere il male in lei, così come so che vuole acquisirti alla sua specie perversa. Sarebbe meglio per te morire, come il mio povero Marck, anziché seguirla sulla via in cui tenterà di portarti. Cre­dimi, Will!»

La donna gli aveva preso le mani, in un gesto di materna implorazione. Dolcemente, Barbee si liberò da quelle mani fredde e dolenti, e cercò di dominare il brivido che sentiva venire.

«No, Rowena», disse penosamente, «temo di non poterti credere. Ritengo che la morte di tuo marito sia dovuta a un eccesso di sforzi e di strapazzi, inevitabilmente fatali per un uomo di settant’anni e da troppo tempo sof­ferente.» Si alzò e fece qualche passo verso il pianoforte. «Non vuoi suonar­mi qualche cosa? Potrebbe farti bene, Rowena.»

«No, non ho tempo di pensare alla musica, ora», rispose la cieca, accarez­zando nervosamente la testa del cane. «Devo unirmi a Sam, e a Nick e Rex, nella lotta che il mio povero Marck ha dovuto abbandonare. Senti, Will, non vuoi proprio riflettere su quanto ti ho detto e stare lontano da April Bell?»

«Dammi retta, Rowena», rispose lui, cercando di assumere il tono più affet­tuoso possibile, «ho l’impressione che a forza di pensare e riflettere tu ti sia stancata più del necessario. Io non posso persuaderti del contrario, se pensi quello che pensi, ma sono convinto che dovresti dare un po’ di riposo alla tua mente affaticata. Vuoi che telefoni per te al dottor Glenn?»

La cieca si ritrasse da lui indignata, mentre il cane faceva sentire un cupo brontolio.

«No, Will, non sono pazza. E non ho bisogno delle cure di nessuno psichia­tra.» Addolcì il tono. «Tu, forse, ne avrai bisogno... prima che la tua amicizia con April Bell si concluda.»

«Scusami, Rowena», disse lui bruscamente. «Devo andare.»

«Will, no!» Il grido risuonò mentre lui era già in anticamera. «Non fidar­ti...»

Non udì altro, era già fuori.

Ritornò in città e si recò al giornale, ma gli fu difficile concentrarsi sul suo lavoro in cronaca. Aveva l’intenzione di andare a trovare April, ma chissà perché continuò a rimandare. Divorato dal desiderio di vederla, non aveva tuttavia trovato nella chiara luce del sole un solo pensiero capace di dissipare le sue incertezze e i suoi dubbi sulla misteriosa ragazza. E quando alla fine uscì dal giornale era troppo tardi per fare una visita, si disse con un senso di penoso sollievo.

Si fermò per bere un bicchierino al bar sotto il giornale; finì per berne tre o quattro, e anzi si prese anche una bottiglia da portarsi a casa, nel suo malin­conico appartamentino da scapolo in Bread Street. Una doccia calda, si dis­se, avrebbe aiutato l’alcool a distendergli i nervi. Si stava spogliando, quando si ritrovò in tasca la spilla di giada.

Rimase a lungo a fissare con aria assente il minuscolo oggetto, mentre lo faceva girare sulla palma umida...

Il piccolo occhio di malachite aveva lo stesso colore degli occhi di April, nei suoi momenti più ostili e combattivi. Ricordando la pelliccia bianca della ragazza, Barbee pensò improvvisamente che per lei quel piccolo lupo doveva essere un simbolo molto importante. Il dottor Glenn doveva averla trovata, dal punto di vista psicanalitico, un soggetto molto interessante. Barbee desi­derò poter andare a leggere nella sua cartella clinica, che Glenn indubbia­mente conservava.

Gli occhi gli bruciavano e s’accorse di avere un tal sonno che il lupo, sem­brava, gli strizzava il verdastro occhio di malachite. Quella dannata spilla quasi quasi lo stava ipnotizzando. Resistette al selvaggio impulso di scagliarla giù nello scarico della toilette, e la depose in una vecchia scatola da sigari, a far compagnia a un ditale, al suo vecchio orologio da tasca, a una penna stilografica rotta e a molte lamette arrugginite. Per l’ennesima volta, si disse che doveva bere meno, se non voleva diventare isterico e impressionabile come una vecchia zitella.

Pure, non gli era possibile sottrarsi alla considerazione, anche se estrema­mente improbabile, che April fosse — ed era riluttante ad accettare la parola — una strega.

Una creatura diversa dalle altre, preferiva pensare Barbee. Ricordò di ave­re letto a suo tempo qualcosa sugli esperimenti di Rhine sulla parapsicologia, alla Duke University. La scienza aveva potuto dimostrare in quel caso che vi sono individui i quali percepiscono il mondo esterno mediante qualcosa che è al di là della normale percezione dei sensi.

Alcuni sì, altri no. April Bell non poteva essere nata con quella stessa diffe­renza, spinta al massimo grado?

Il calcolo delle probabilità... Si ricordò d’una lezione che Mondrick aveva fatto sull’argomento quando ancora insegnava antropologia. La probabilità, aveva detto Mondrick, era il concetto chiave della fisica moderna. Le leggi di natura non erano assolute, aveva precisato, ma semplicemente stabilivano delle medie statistiche. Il fermacarte sul suo tavolo — una piccola lampada di terracotta, scavata tra le rovine dell’antica Roma, con la lupa che allatta i gemelli fondatori dell’Urbe — era tenuto insieme soltanto dalle collisioni ca­suali d’un certo numero di atomi in vibrazione. In qualsiasi momento c’era una probabilità, minima ma definita, che potesse disintegrarsi e cadere attra­verso l’apparente solidità del tavolo.

Senza contare che i fisici moderni, si disse Barbee, interpretavano l’intero universo in termini di probabilità. La stabilità degli atomi era una questione di probabilità, così come lo era l’instabilità, nel caso della bomba atomica. Il diretto controllo mentale della probabilità avrebbe certamente consentito possibilità terrificanti, e gli esperimenti di Rhine avevano a quanto pareva stabilito questo controllo.

April Bell era forse nata con quello straordinario e pericoloso potere men­tale di controllare il fenomeno della probabilità?

Molto difficile, si disse Barbee. D’altra parte, nulla, come aveva ripetutamente affermato Mondrick, era del tutto impossibile in siffatto universo statistico. La più remota impossibilità diveniva soltanto remotamente impro­babile.

Barbee, con un’alzata impaziente di spalle, si mise sotto la doccia. La nuova fisica, con il Principio di Indeterminazione e il rigetto dei vecchi, comodi concetti di materia, spazio e tempo, e le bombe atomiche, diveniva di colpo così sconvolgente come il nero enigma della morte di Mondrick.

Sotto la doccia, Barbee finì col chiedersi che cosa quella lampada di terra­cotta avesse significato realmente per Mondrick. Quale ricordo ancestrale della razza poteva essere simboleggiato in quel mito degli eroi fondatori del­l’Urbe, generati dalla lupa? Barbee, che non era Jung, non avrebbe saputo dirlo. Si asciugò stancamente, si versò un robusto whisky per dormire meglio e se ne andò sotto le coperte con una rivista.

Ma la sua mente si rifiutava di lasciarsi deviare da quel genere di pensieri. Perché Mondrick e i suoi amici, che erano evidentemente in preda al terrore, avevano preso precauzioni così complesse all’aeroporto, per poi mostrare di non averne prese a sufficienza? Questo evidentemente indicava la presenza di un pericolo ancora più grande di quanto i quattro uomini avessero imma­ginato.

Gli occhi brucianti di Barbee a poco a poco avevano finito per chiudersi, mentre lui s’immaginava l’avvento del misterioso Figlio della Notte, il demo­niaco profeta che avrebbe dato il via ai saturnali della rivolta. Vedeva un’alta figura imperiosa, ritta fra le rocce scheggiate di un fosco paesaggio alla Doré, terribile e cupo in una lunga tunica con cappuccio. Col fiato mozzo, Barbee si sporgeva a scrutare nell’ombra di quel cappuccio calato, nella speranza di riconoscere la faccia: e un candido teschio lo accoglieva col suo sogghigno.

Si destò di colpo; ma non era stata l’impressione di quel sogno ossessionan­te che lo aveva svegliato, bensì la fremente intensità di un nebuloso stimolo che non sapeva definire. Una trafittura ferma, sottile e tenace come uno spillone, lo tormentava alla nuca. Si versò un’altra dose di liquore per atte­nuarla. Aprì la radio, udì un untuoso comunicato commerciale e richiuse in fretta. Un sonno terribile lo colse...

E insieme la paura di dormire.

Non riusciva a capire quel vago terrore del letto. Una graduale, strisciante apprensione, come se sapesse che lo strano malessere che ora lo ossessiona­va lo avrebbe posseduto del tutto quando si fosse addormentato. Ma non era soltanto... paura. Frammisto a essa, c’era il desiderio rodente che lo aveva svegliato, l’ansiosa aspettazione d’una fuga oscura e trionfale da tutto ciò che odiava.

Né riusciva a capire bene ciò che provava per April Bell. Pensava che avreb­be dovuto sentire dell’orrore per lei. Dopo tutto, o era la strega che afferma­va di essere, o, più probabilmente, non era che una povera squilibrata. In un modo o nell’altro, aveva quasi certamente causato la morte di Mondrick. Ma ciò che gli faceva più paura era quel misterioso qualcosa che ridestava in lui.

Disperatamente, cercò di non pensare a lei. Ormai, era troppo tardi per telefonarle. E poi non era affatto sicuro di volerla vedere, sebbene quel vago desiderio interiore glielo facesse sospettare. Caricò la sveglia e se ne tornò a letto. Il sonno premeva su di lui con un’insistenza divenuta irresistibile.

April Bell lo chiamò.

La sua voce gli giungeva limpida, sopra il mormorio echeggiante del traf­fico. Era come uno squillo d’oro, più penetrante di un occasionale colpo di clacson o del lontano clamore di un tram. Giungeva dalle tenebre in onde di pura luce, verde come i suoi occhi di malachite. Poi gli parve di scorgerla, in distanza, come perduta nella città addormentata.

Soltanto, April non era più una donna. La sua voce insistente, vellutata, era umana. I suoi lunghi occhi erano gli stessi, con la loro obliquità orientale. Ma ora la pelliccia bianca faceva parte del suo corpo. Perché April era diventata una lupa bianca, agile, aggressiva, potente. E la sua limpida voce umana lo chiamava, distinta nelle tenebre.

«Vieni, Barbee, vieni, ho tanto bisogno di te!...»

Lui era consapevole di trovarsi nella sua povera camera, sentiva il ticchettìo della sveglia, la comoda durezza del materasso sotto il suo corpo, la puzza di zolfo che veniva dalle fabbriche vicine dalla sua finestra aperta. Era evidente che non dormiva del tutto, ma quella voce che lo chiamava era così reale che cercò di rispondere.

«Ciao, April», mormorò con voce dormiente, «domani, ti prometto che ven­go davvero a trovarti. Chi sa, forse possiamo anche andare a ballare.»

Bizzarramente, la lupa parve udire.

«È ora che ti voglio, Barbee. Perché abbiamo una cosa da fare insieme... una cosa che non si può assolutamente rimandare. Devi venire subito a rag­giungermi... Ti insegnerò come si fa a cambiare.»

«Ma io non voglio cambiare», mormorò lui a bocca chiusa.

«Lo vorrai anche tu. Tu hai la mia spilla di giada, vero? Ebbene, tienila stretta nella mano.»

Gli parve di alzarsi, sempre addormentato, a tentoni, e di andare verso il comò, a frugare nella scatola da sigari in cerca della spilla. Poi, tenendola stretta nella palma, tornò a buttarsi sul letto.

«Ora, Will», e la sua voce vibrante sembrava colmare il nero vuoto che li divideva, «ascoltami: tu devi cambiare, come sono cambiata io. Sarà facile per te, Will. Tu puoi correre come corre il lupo, seguire una preda come fa il lupo, uccidere come uccide il lupo!»

Sembrava essersi fatta più vicina, nella buia nebbia.

«Su, andiamo, ti aiuterò io, Will. Tu sei un lupo, e la tua guida è la spilla che hai nella mano. Abbandonati, lascia che il tuo corpo sfumi...»

Il suo cervello sembrava immerso in una foschia viscosa. Strinse la spilla, e cercò di obbedire. C’era come un lento, penoso fluire del suo corpo, come se si fosse attorto in posizioni mai assunte, tendesse muscoli mai usati. Un im­provviso dolore lancinante lo soffocò, sprofondandolo in un abisso di tene­bre.

«Resisti, Will.» La voce insistente di April sembrava trafiggere le tenebre opprimenti. «Abbandonare ora, che sei già in parte mutato, potrebbe ucciderti. Ma riuscirai. Io ti aiuto, fino a quando non sarai libero. Ecco, lasciati andare, lascia che il tuo corpo si trasformi, così... tu stai fluendo come una corrente...»

E a un tratto fu libero.

I ceppi che lo avevano oppresso per tutta la vita s’erano bruscamente spez­zati. Balzò leggero dal letto, e rimase per un istante a fiutare gli odori che appesantivano l’aria del suo appartamentino: il sentore forte di whisky che saliva dal bicchiere vuoto sul comò, l’umidità saponosa della camera da ba­gno e il putrido odore della sua bianchiera nella cesta dei panni sporchi. Era un’atmosfera irreparabile, aveva bisogno d’aria pura.

Trotterellò rapido verso la finestra aperta e grattò con impazienza il chiavistello della persiana. Cedette, alla fine, e lui si lasciò cadere sulla terra umida dell’aiuola della sua padrona di casa. Si scrollò, fiutando con voluttà l’odore pulito di quel pezzettino di terra smossa e si diresse sul marciapiedi, nel sen­tore nauseante di benzina bruciata e gomma surriscaldata che si levava dal­l’asfalto della strada. Tese ancora l’orecchio al richiamo della lupa bianca e infine con un balzo si lanciò come una freccia lungo la strada.

Libero...

Non era più imprigionato in quel lento, goffo e insensibile corpo bipede. La vecchia spoglia umana gli era completamente estranea ora, gli sembrava qua­si mostruosa. Quattro agili piedi erano senza dubbio meglio di due, e inoltre sembrava che una pesantissima cappa fosse stata tolta ai suoi sensi, che ne erano stati come ottenebrati.

Libero, forte, veloce!

«Sono qui, Barbee, vicino all’università», chiamava la lupa bianca, oltre la città addormentata. «Corri, ti prego!»

Si diresse per Commercial Street, verso lo scalo merci e l’aperta campagna, che si stendeva oltre il fascio di binari. A un tratto, si trovò davanti un poli­ziotto che faceva il suo turno di notte, ma con suo grande stupore l’uomo non lo vide, come se fosse stato trasparente.

Attraversò i binari, proprio davanti a una sbuffante locomotiva in manovra, e corse verso ovest, a lunghi salti, sulla strada maestra, per sfuggire al lezzo di caldo vapore, cenere e metallo ardente. Scese nel fossato accanto all’acre asfalto della strada, e la terra era fresca e umida sotto i cuscinetti delle sue zampe elastiche come molle.

In distanza, dietro un filare di alberi, un cane s’era messo ad abbaiare spaventato, ansimante. Annusò l’aria fredda e colse l’odore disgustoso del nemico atavico, vago per la distanza ma non per questo meno nauseante. Il vello che gli ricopriva il collo come una criniera si levò irto. Avrebbe insegna­to ai cani a non ululare contro di lui.

Ma il richiamo della lupa bianca lo raggiunse ancora, più pressante che mai.

«Non perdere tempo dietro un cane randagio, Barbee. Abbiamo nemici di gran lunga più feroci da affrontare questa notte. Vieni!»

Riluttante, si mosse verso la voce lontana, e il furioso abbaiare del cane si perse in lontananza. Qualche minuto più tardi, passava davanti a Trojan Hills, come Preston Troy aveva battezzato la sua lussuosa villa, a sud-ovest di Clarendon, sulla ondulazione collinosa dominante la valle che racchiudeva la città e gli stabilimenti industriali di Troy. Le luci erano spente nella villa maestosa, ma si vedeva una lanterna in movimento nelle scuderie, dove forse gli stallieri si affaccendavano intorno a un cavallo ammalato. Si soffermò per fiutare l’odore forte e gradevole dei corpi equini.

«Fa’ presto, Barbee!», pregò April Bell.

A malincuore riprese la sua corsa a lunghi balzi, finché non gli giunse alle nari l’odore della lupa, acuto e fragrante come quello dei pini. La sua rilut­tanza scomparve e lui balzò innanzi, cercandola ardentemente.

La lupa gli venne incontro sull’erba del prato, trotterellando, dopo essere sbucata fuori dalle siepi che circondavano l’università. I lunghi occhi verda­stri della creatura rilucevano a mo’ di benvenuto, quando gli toccò la punta del muso con un freddo bacio solleticante.

«Quanto tempo ci hai messo!», e balzò via da lui. «Gran parte della notte è già trascorsa e noi abbiamo i nostri nemici da incontrare. Andiamo!»

«Nemici?» Lontanissimo, dalla parte da cui era venuto, giunse loro il latrare disperato d’un cane. Emise un ringhio di odio. «Quello, intendi? I cani?»

Gli occhi verdi rifulsero d’una luce maligna.

«Chi può aver paura di quei botoli?» Le sue candide zanne lampeggiarono di scherno. «I nostri nemici sono esseri umani.»