La città morta

Kenniston si concentrò tutto sul volante, stringendolo tanto da farsi dolere le mani. Guardava fissamente il terreno da­vanti a sé; guidava con attenzione, cercando di evitare ogni roccia, ogni cunetta, ogni crepa, assorto in quei gesti mecca­nici come se, in tutto l’universo, non vi fosse stato nulla di più importante. Invidiava la macchina per la sua abilità di poter superare senza alcuna emozione quel percorso terribile, ver­so la fine del mondo. Questo pensiero gli parve così strano che scoppiò a ridere.

Poco dopo, la macchina cominciò a salire il fianco di una di quelle colline, col motore che scoppiettava e ruggiva. Il fa­miliare brontolio del motore accentuava ancora di più il si­lenzio assoluto che regnava tutt’attorno, in quella luce crepu­scolare di morte. Kenniston avrebbe voluto che Hubble di­cesse qualche cosa, qualsiasi cosa. Ma l’altro taceva, e Kenniston non riusciva a parlare. Gli pareva di essere sperduto in un incubo, nel quale non doveva far altro che guidare.

Un urlo stridulo risuonò a un tratto davanti a loro. Ambe­due sobbalzarono con violenza. Con le mani coperte di sudo­re freddo, Kenniston fece fare alla macchina uno scarto di fianco e intanto scorse un bruno animale peloso, della gros­sezza di un piccolo cavallo, che saltava al di là di un crepac­cio e si allontanava a lunghi balzi irregolari. Tutto tremante Kenniston fermò la macchina.

«Allora, c’è ancora una vita animale, sulla Terra... in qualche modo. E, guarda un po’ là...» Additò un piccolo pozzo nel teneno polveroso, con un breve orlo di terra fresca e bruna attorno. «Quell’animale stava scavando in quel punto. Probabilmente cercava acqua. La superficie è arida, perciò deve scavare per poter bere.»

Esaminarono il pozzo e l’orlo di terra fresca che lo circon­dava. Vi erano segni di denti sulla corteccia dei pochi miseri arbusti che spuntavano sull’orlo del pozzo.

«Denti di roditore» osservò Hubble. «Enormemente più sviluppati, però, dei denti di qualsiasi animale del nostro tempo.»

Si guardarono, ritti nella luce fredda e rossastra. Poi Hub­ble tornò verso la macchina.

«Andiamo avanti» disse.

Proseguirono il cammino lungo il crinale della collina. Scorsero due altri pozzi scavati da quegli animali, ma erano più vecchi e dovevano essere stati abbandonati. L’occhio ros­so e opaco del sole sembrava guardarli freddamente. Kenni­ston pensava con ossessione a quell’animale peloso e spaven­tato che fuggiva a balzi su quella pianura desolata, che era stata una volta la Terra degli uomini.

Raggiunsero, più avanti, un punto elevato della collina, e Kenniston arrestò la macchina in modo da poter osservare la pianura che si stendeva davanti a loro a perdita d’occhio.

Hubble guardò verso sud e le sue mani tremarono visibil­mente.

«Ken, guarda! Vedi anche tu?»

Kenniston guardò nella direzione indicata.

Il sollievo gli allargò il cuore. Provò una gioia selvaggia, nello scoprire che non erano più soli, su una Terra senza vita!

Laggiù, sulla pianura desolata, si ergeva una città. Una città di bianchi edifici, completamente racchiusa e protetta da una cupola trasparente.

Guardarono a lungo, assaporando un sentimento di scon­finato sollievo. Data la distanza cui si trovavano, non riusci­rono a scorgere nessun movimento entro la città, ma la sua stessa esistenza indicava chiaramente che dovevano esserci degli abitanti.

Poi, lentamente, Hubble disse: «Può darsi che non ab­biano bisogno di strade. Forse usano aerei per spostarsi.»

Istintivamente, ambedue alzarono il capo per esaminare il cielo cupo; ma non vi erano che il vento e le stelle e quel sole con la sua corona di brevi raggi, come la testa di una Medusa.

«Non si vede nemmeno una luce» disse Hubble.

«È ancora giorno» osservò Kenniston. «Non avranno bisogno di luci. Dovrebbero essere abituati a questa specie di crepuscolo.»

Un’improvvisa ansietà si impossessò tuttavia di lui. Riuscì a compiere con difficoltà i movimenti per rimettere in mar­cia il motore, fece urlare gli ingranaggi del cambio e avviò la macchina con uno strappo.

«Va’ adagio, e sta’ calmo» disse Hubble. «Se c’è gente, non abbiamo fretta. E se non c’è nessuno...» La sua voce tremava un poco, e dopo un momento finì la frase «... allora non c’è fretta, egualmente.»

Parole. Null’altro che parole. A Kenniston pareva di non poter sopportare quell’attesa. La pianura si stendeva, infini­ta, davanti a lui. La macchina sembrava procedere lentissi­ma. Rocce e crepacci e screpolature parevano inserirsi mali­gnamente sul percorso. La città dava l’idea di beffarli e allon­tanarsi sempre più.

Kenniston si mordeva le labbra, impaziente e agitato.

Poi, a un tratto, la città protetta dalla cupola enorme ap­parve loro in piena vista. Si alzava alta nel cielo, come una montagna di vetro sorta per incanto da una fiaba. Dal punto in cui si trovavano, la superficie ricurva della cupola riflette­va i deboli raggi del sole.

Trovarono infine una strada, larga e liscia. Quella strada portava direttamente verso una grande porta ad arcata, aper­ta nella cupola. La grande porta era spalancata.

«Se hanno protetto questa città con una cupola per ripa­rarsi dal freddo» disse Hubble «perché questa porta è aperta?»

Kenniston non diede risposta. Non poteva rispondere nul­la. Si rifiutava di accettare il pensiero che gli era sorto nella mente.

Attraversarono la porta, e si trovarono entro la città, sotto la grande cupola trasparente. Dopo la desolazione della pia­nura, la vista della città e della sua possente veste protettiva aveva qualcosa di miracoloso.

Era anche più caldo, dentro. Non proprio caldo, nel vero senso della parola, ma l’aria era priva di quel tono mordente di gelo che si provava all’esterno. Percorsero lentamente un largo viale, mentre i battiti dei loro cuori si facevano sempre più forti. Il rombo del motore si levava, altissimo, nel silen­zio, e si ripercuoteva a lungo, alto, irriverente, in quel silen­zio di tomba.

Una coltre pesante di polvere copriva i marciapiedi e si sollevava al passaggio della macchina; era anche più spessa nei punti più riparati e nascosti, negli androni delle porte e degli archi, e sui davanzali delle finestre.

Gli edifici erano alti e massicci, infinitamente più belli e semplici, nelle loro linee, di quanto Kenniston avesse mai po­tuto immaginare. Una città piena di grazia, di simmetria e di dignità, resa anche più incantevole dalle tinte morbide delle lisce superfici in materia plastica, dalla lucentezza dei metal­li e dalla bellezza delle pietre.

Milioni di finestre guardavano quella macchina e quei due uomini provenienti da un’altra epoca; sembravano milioni di occhi, offuscati da cataratte di polvere, occhi vuoti, ciechi. Alcuni di quegli occhi erano aperti, altri chiusi, ma tutti era­no privi di vita e non vedevano più nulla.

Il freddo vento, penetrando dalla grande porta spalanca­ta, sibilava su e giù per le strade, vagando senza tregua attra­verso i grandi parchi che non erano più verdi e splendenti di fiori, ma solo coperti di desolati cespugli e di una densa pol­vere. E nulla, assolutamente nulla si udiva, all’infuori del vento.

Eppure, Kenniston andò avanti. Quella visione sembrava troppo orribile, per poterla accettare. Era impossibile che quella grande città, sotto l’immensa cupola di protezione, non fosse che uno scheletro, un cadavere abbandonato, e che Middletown fosse veramente sola nella Terra morente.

Continuò a procedere, gridando, urlando a piena voce, suonando il clacson della macchina come impazzito, mentre aguzzava gli occhi verso strade tenebrose e deserte. Certa­mente in qualche posto di quel luogo che gli uomini avevano costruito, doveva nascondersi un viso umano, una voce umana! Certamente almeno in una di quelle innumerevoli stanze e sale deserte, doveva pulsare la vita!

Ma non vi era nessun segno di vita!

Kenniston procedette più lentamente, sempre più lenta­mente. Cessò di gridare e di suonare il clacson. Cessò persino di guardare. Lasciò che la macchina si fermasse in una gran­de piazza centrale. Fermò il motore, e un silenzio pauroso scese su di lui e su Hubble.

Poi Kenniston si strinse il capo tra le mani e rimase sedu­to, così, per lungo tempo. Udì la voce di Hubble, che diceva: «Sono tutti morti o scomparsi.»

Kenniston sollevò il viso.

«Sì, morti e scomparsi. Tutti, molto tempo fa.» Si guardò attorno, guardò quegli splendidi edifici. Poi riprese: «Sai che cosa significa questo, Hubble? Significa che sulla Terra la vita umana non è più possibile. Persino in questa città, protetta da una cupola, non sono riusciti a vivere.»

«Ma perché non ci sono riusciti?» disse Hubble. Indicò una vasta estensione di serbatoi bassi, aperti, che ricoprivano una grande area al limite della città. «Quelli erano serbatoi idroponici, credo. Potevano coltivare in essi ciò che volevano.»

«Se avessero avuto acqua. Forse è l’acqua che mancava. Hubble scosse la testa.»

«Quegli animali che abbiamo visto trovano l’acqua. An­che gli uomini avrebbero potuto trovarla. Voglio dare un’oc­chiata.»

Scese dalla macchina e si diresse verso i serbatoi polverosi più vicini. Kenniston rimase immobile a osservarlo.

Poi si decise a scendere anche lui e cominciò a curiosare dentro gli edifici attorno alla piazza. Vi erano camere piccole ma alte e ben arredate, illuminate solo dalla triste luce che filtrava attraverso le finestre polverose. In alcune di quelle camere vi erano mobili di metallo, pesanti e massicci, ma graziosi. In altre, invece, soltanto polvere.

Una grande tristezza, un sentimento di inutilità, scese su Kenniston mentre girava lentamente lungo le strade silen­ziose. Che importava, dopo tutto, che una città, scaraventata fuori della sua epoca, si trovasse a fronteggiare la morte? Là, tutta una razza era morta, e la Terra che li ospitava non era che una solitudine selvaggia.

Kenniston fu scosso dalle sue morbose riflessioni dalla vo­ce di Hubble.

«C’è ancora acqua, là dentro, Ken... grossi depositi, sotto quei serbatoi: non è la mancanza d’acqua, che li ha fatti scomparire. È stato qualche cosa d’altro.»

«Che importanza può avere per noi, ora, sapere ciò che li ha fatti scomparire?» domandò Kenniston, cupamente.

«Ci importa molto, invece» disse Hubble. «Stavo pen­sando che... Ma non abbiamo tempo di parlarne, ora. La not­te e il freddo stanno sopraggiungendo. É meglio che ce ne an­diamo.»

Con sorpresa, Kenniston si accorse in quel momento che il sole stava calando a ovest e che le ombre degli edifici im­mensi si allungavano, nere, sui marciapiedi. Rabbrividì un poco e tornò verso la macchina con Hubble. Nuovamente, il frastuono del motore profanò quel silenzio mortale, mentre rifacevano la strada percorsa e uscivano dalla grande porta.

«Dobbiamo tornare indietro» stava dicendo Hubble. «A Middletown non sanno nulla di quanto li attende.»

«Se li informiamo della esistenza di questa città» os­servò Kenniston «se vengono a sapere che non vi sono altri esseri umani, che sono forse del tutto soli sulla Terra, impaz­ziranno per il terrore.»

Il sole era molto basso all’orizzonte; non era più che una striscia di rosso sul limite lontano del cielo. Le stelle si erano fatte più lucenti, quelle stelle che avevano assistito impassi­bili alla scomparsa degli uomini sulla Terra. Il freddo si face­va sempre più penetrante, e l’oscurità più fitta.

Tutto l’orrore della notte che scendeva sul pianeta moren­te afferrò il cuore di quei due uomini come in una morsa. En­trambi si sentirono sollevati quando la macchina arrivò infi­ne sulla sommità dell’ultima collina.

Di fronte a loro, irreale in quella Terra morente, scintilla­vano le luci familiari delle strade di Middletown. Si vedevano le brillanti trasversali di Main Street e di Mill Street, le luci più deboli delle vie secondarie, le insegne rosse al neon delle birrerie di South Street... e tutto risplendeva nella notte geli­da di un mondo morto.

«Mi sono dimenticato di mettere l’anticongelante nel ra­diatore della macchina» disse Kenniston.

Il freddo era intensissimo, ora. Il vento era tagliente come la lama di un rasoio e ambedue rabbrividivano continua­mente, anche sotto i loro indumenti pesanti.

Hubble fece col capo un cenno affermativo, poi aggiunse:

«Bisognerà avvertire la popolazione anche di questo. Non sanno ancora che freddo farà, stanotte.»

«Ma dopo questa notte... quando il combustibile e i vive­ri saranno finiti, che accadrà? Vale forse la pena di lottare?»

«Certamente no, se la pensi a questo modo! Non ne vale assolutamente la pena» disse Hubble. «Ferma la macchi­na: ci stenderemo a terra e moriremo comodamente conge­lati.»

Kenniston continuò a guidare per un poco, poi convenne: «Già, hai ragione. Ne vale sempre la pena.»

«La situazione non è del tutto disperata» riprese Hub­ble. «Vi possono essere, sulla Terra, altre città protette da cupole, altre città che non siano morte. Potremmo trovare gente, aiuto, compagnia. Ma dobbiamo resistere, finché avremo trovato tutto ciò. È proprio questo, che stavo pensan­do prima.»

Mentre si avvicinavano alla città, aggiunse: «Andiamo prima di tutto al Municipio.»

Accanto alla barriera di Jefferson Street era stato acceso un grande falò. Le guardie di polizia e un piccolo gruppo di guardie nazionali senza uniforme, li stavano aspettando, aguzzando gli occhi nell’oscurità. Accolsero l’arrivo della macchina con grida eccitate, facendo domande ansiose, mentre il loro respiro fumava nell’aria gelata. Ma Hubble si rifiutò di dare qualsiasi risposta. Vi sarebbero stati presto dei comunicati. Dovevano attendere.

Ma il piccolo capitano di polizia che faceva loro strada aveva anche lui le sue domande da fare.

«Ho sentito dire al Municipio che tutta la Terra è morta. Che cosa significa questa storia della caduta attraverso il tempo?»

Hubble rispose evasivamente.

«Non siamo ancora sicuri di nulla. Ci vorrà tempo, pri­ma di accertare ogni cosa.»

Il capitano di polizia domandò ancora: «Ma che avete trovato, laggiù? Qualche segno di vita?»

«Già, qualche segno di vita lo abbiamo trovato» rispose Hubble. «Non abbiamo trovato alcuna persona, ma vi sono segni di vita.»

Solo un animale, furtivo e timido, in cerca del suo scarso cibo, pensò Kenniston. L’ultimo segno di vita, le ultime pove­re creature che erano le sole eredi della Terra.

Frustata da un vento gelido, la South Street era deserta co­me in una notte di febbraio. Ma le insegne delle birrerie e dei bar erano ancora accese e i locali apparivano affollati.

Alcuni ragazzi erano riuniti attorno allo stagno del parco di Mill Street. Kenniston capì la ragione del loro eccitamento e delle loro grida quando si accorse che un sottile strato di ghiaccio ricopriva l’acqua dello stagno. Il freddo aveva già posto in fuga la folla di Main Street. Uomini perplessi e gesti­colanti discutevano tuttavia ancora, agli angoli delle strade.

Hubble, guardandoli, disse all’improvviso: «Ken, biso­gna dir loro come stanno le cose. Ora, subito. Finché non sa­pranno la verità, non riusciremo a convincerli a fare ciò che è necessario.»

«Non ci crederanno» rispose Kenniston. «Oppure, se ci crederanno, nascerà un pandemonio.»

«Può darsi. Ma dobbiamo correre questo rischio. Dirò al sindaco di trasmettere un comunicato dalla stazione radio.»

Quando Kenniston stava per scendere a sua volta, davanti al Municipio, Hubble lo fermò.

«Non ho bisogno di te, per ora, Ken. So che sei preoccu­pato per Carol. Va’ a vederla e cerca di tranquillizzarla.»

Kenniston proseguì in macchina verso nord, nelle strade già quasi completamente deserte. Il freddo era sempre più intenso e le foglie degli alberi e dei cespugli pendevano stra­namente, rigide e senza vita. Si fermò al suo alloggio. La pa­drona di casa lo accolse con un torrente di domande, alle quali Kenniston rispose brevemente informandola che avrebbero trasmesso un esauriente comunicato radio. La donna corse ad accendere l’apparecchio. Kenniston salì in camera sua e ingollò un bicchiere di whisky. Poi si affrettò verso la casa di Carol.

Dal camino della casa di lei, come da tutti i camini della città, si levava il fumo. Trovò Carol e sua zia accanto al cami­netto acceso.

«Non sarà abbastanza» disse Kenniston alle due don­ne. «Bisogna accendere subito la caldaia del termosifone. Bisogna anche mettere i doppi vetri alle finestre.»

«In giugno?» balbettò perplessa la signora Adams.

«Tu sai molte cose che non vuoi dirci, Ken» disse Carol. «Forse lo fai per non impressionarci, ma... desidero sapere cosa accade.»

«Non appena accesa la caldaia e montate le doppie fine­stre, ti dirò ogni cosa» replicò Kenniston con voce stanca. «Accendete la radio, intanto, signora Adams, e tenetela ac­cesa.»

Gli sembrava strano che, per difendersi dalla fine del mondo, occorresse affaccendarsi attorno a una caldaia in un freddo sotterraneo, montare doppi vetri e imprecare contro i ganci arrugginiti. Lavorava all’esterno, in una oscurità quasi totale, con le mani irrigidite dal gelo.

Come se non potesse più sopportare l’attesa, Carol uscì anche lei, mentre Kenniston finiva il suo lavoro. Un’esclama­zione della ragazza lo fece sobbalzare, pronto a qualsiasi eve­nienza. Ma Carol, ritta, guardava il cielo a oriente. Una luna enorme, mostruosa, di un color rame opaco, stava salendo nel cielo. Non era come erano abituati a vederla, era una Lu­na ingrandita innumerevoli volte, coi crateri, le pianure e le catene di montagne perfettamente visibili a occhio nudo: un’immagine paurosa. Kenniston ebbe un momento di verti­gine, quasi la sensazione che quella massa enorme cadesse su di loro e li schiacciasse. Carol lo aveva afferrato per le braccia, in una stretta così angosciata che Kenniston dimen­ticò del tutto l’orribile spettacolo.

«Ma che cosa accade?» gridò la fanciulla, e per la prima volta la sua voce si fece stridula, come se stesse per soccom­bere a una crisi di nervi.

In quel momento, la signora Adams li chiamò dalla porta.

«Venite, presto! Sta parlando il sindaco. Deve fare di­chiarazioni importanti!»

Kenniston condusse Carol in casa. Sì, importanti dichia­razioni davvero, pensava. Le più importanti che fossero mai state udite.

La fine del mondo avrebbe dovuto essere annunciata da una voce di tuono, che venisse dal cielo: dalle trombe degli arcangeli, non dalla voce spaventata e tremante del sindaco Bertram Garris.