Sotto la cupola

Quando raggiunsero la cresta delle colline e per la prima vol­ta arrivarono in vista della città lontana, con la sua cupola che scintillava nella pianura ai pallidi raggi del sole, Kenni­ston capì che un lungo istante di perplessità e di dubbio do­veva percorrere quell’esercito in marcia, di fronte a uno spet­tacolo così incredibile.

Persino lui, vedendola per la seconda volta, si sentì incerto ed esitante. Col ricordo recente della familiare città che ave­va appena lasciata, quella strana, solenne e trascendentale metropoli, protetta da una cupola, gli appariva come un im­possibile rifugio. Cercò di frenare quel senso di timore, dove­va frenarlo a ogni costo, perché bisognava andare là dentro, o rassegnarsi a morire.

«Avanti! Non fermatevi!» ordinò urlando e facendo ge­sti autoritari di comando. «Avanti!»

Superò quel breve attimo di smarrimento, riuscendo a far rimettere in moto la colonna, che si diresse giù per il versan­te delle colline, avvolta in densi nuvoloni di polvere.

Intravide il sindaco Garris, con la faccia grassoccia, spa­ventato e pallido. Cercò anche di indovinare quali pensieri passassero per la mente di Carol, mentre osservava quella specie di bolla, solitaria e risplendente, nella triste distesa de­solata e deserta.

L’interminabile carovana, avvolta nella polvere, era già a metà strada nella discesa del versante delle colline, quando Kenniston udì un rabbioso suonare di clacson e si volse a guardare. Una vecchia berlina si era fermata proprio in mez­zo allo stretto sentiero aperto dagli autocarri di testa nel ter­reno accidentato. Le macchine sopraggiungenti si raggrup­pavano attorno a essa, affondando nel terreno molle, e for­mando una confusione inestricabile. Dietro, la colonna inte­ra si andava arrestando.

Kenniston urlò a Lauber di mantenere la colonna in mar­cia verso la cupola lontana, e quindi mosse velocemente, con la sua jeep, verso il punto dell’incidente. Un gruppo di perso­ne era raccolto attorno alla vecchia berlina, causa di tutto quel pandemonio. Kenniston si fece strada fra di esse.

«Ma che diavolo succede, qui?» domandò. «Di chi è questa macchina?»

Un uomo di mezza età, dal viso abbronzato, si volse verso di lui con viso spaventato, in tono di scusa.

«È la mia... la mia macchina» disse. «Sono John Borzak.»

Fece un gesto vago in direzione del sedile posteriore della vecchia berlina. «Mia moglie sta avendo un bambino là dentro.» Poi aggiunse, a guisa di commento: «Il mio quin­to bambino.»

«Per l’amor del Cielo! Ci mancava anche questa!» gridò Kenniston, mentre Borzak assumeva un’espressione contrita. Ma Borzak appariva talmente spaventato, che Kenniston scoppiò in una risata. Allora tutti si misero a ridere, e questo valse ad allentare la tensione nervosa.

Stando in testa alla colonna, Kenniston era fuori del pol­verone e poteva guardare avanti, verso la misteriosa città lontana. Era ancora una piccola bolla scintillante all’oriz­zonte, un piccolo punto splendente, sperduto e soffocato nel­la vasta solitudine desolata... Quanti chilometri mancavano? Tutto il vasto mondo morto, gli oceani immensi, i luoghi do­ve sorgevano le grandi città, era diventato tutto così? Era co­sì il fondo dell’Atlantico? Erano così i posti dove un tempo sorgevano New York e Parigi? Erano così anche i poli?

Erano ormai arrivati sullo stradone di cemento che porta­va all’ingresso della città. La cupola dell’ultimo rifugio del­l’uomo sulla Terra torreggiava, colossale, immensa, di fronte a loro.

Kenniston vide che gli uomini di Hubble avevano chiuso la grande porta. Quella era, naturalmente, la prima cosa da fare, per conservare il massimo calore possibile e difendere l’interno dal vento gelido. La grande porta si aprì e un uomo armato alzò le braccia in atto di saluto e sorrise. Poi saltò sul predellino della jeep per indicare la strada.

«Andate diritto per questo viale, poi voltate. Vi mostrerò la strada da percorrere. Sì, è tutto pronto. No, nessun segno di vita, sinora. Credo che qui non abiti più nessuno, nemme­no un topo.» Una pausa, poi proseguì: «Sono molto con­tento che siate venuti. Questo posto è talmente silenzioso che spaventerebbe chiunque.»

Gli altissimi, bianchi e silenziosi edifici si susseguivano da­vanti a loro, come torri gigantesche. Sembrava osservassero, coi loro milioni di occhi sbarrati, la lunghissima fila di mac­chine e autocarri polverosi che sfilavano lungo i viali deserti.

Il frastuono dei motori, enormemente ingrandito, echeg­giava e rimbalzava dalle facciate degli edifici e si ripercuote­va debolmente sotto l’altissima cupola. Il rumore di quegli echi faceva rabbrividire Kenniston.

All’infuori di tutto quel fragore meccanico, un curioso, strano silenzio si era impadronito dei nuovi venuti. Tutte le teste si sporgevano dai finestrini delle macchine, guardando attonite, esaminando l’altezza degli edifici dei quali non riu­scivano nemmeno a vedere la cima, osservando i colori e le forme che erano del tutto inconsuete per loro, in quell’in­quietante silenzio che tutto pervadeva.

Era una cosa troppo enorme, troppo inconsueta, e Kenniston capiva benissimo ciò che essi sentivano. Persino un abi­tante di New York sarebbe rimasto stupefatto davanti a quel­le immense torri. Gli abitanti di Middletown, poi, abituati al­le loro piccole case coperte di ardesia, ai loro piccoli edifici di mattoni, dovevano sentire un senso di oppressione, non di­sgiunto da un vago timore.

La testa della carovana raggiunse un punto sbarrato da corde. Queste vennero tolte e le macchine proseguirono.

La squadra di avanguardia di Hubble era pronta. Senza quegli uomini risoluti, la sistemazione di quasi diciassette­mila persone in quartieri improvvisati, sarebbe stata impos­sibile. Per merito loro, dopo i primi momenti di caos, ogni cosa fu sistemata senza molto rumore. Uomini e donne si muovevano con una specie di attonita docilità, osservando di sfuggita la polvere e le ombre, le grandi finestre e le alte stan­ze deserte, quasi timorosi di alzare il tono della voce. Grada­tamente il rombo dei motori si spense e le strade assunsero un aspetto spettrale nel loro immenso, soprannaturale silen­zio. Era un silenzio tanto profondo che neppure il suono di molte voci, nemmeno il lavoro di scarico degli autocarri e delle macchine, potevano turbarlo. Ogni rumore andava di­sperso in quel cupo silenzio.

Kenniston fece il suo rapporto a Hubble e andò quindi in cerca di Carol. Qua e là, alcune persone sedevano ancora nel­le macchine, rifiutando di muoversi da quell’ultima loro fa­miliare realtà. Più avanti, una vecchia era accucciata nella polvere della strada e piangeva, stringendo a sé un fagotto di coperte. Quel sentimento di disperazione si impadronì an­che di Kenniston. Quella gente non si sarebbe mai adattata. Aveva persino paura di incontrarsi con Carol; ma continuò a cercarla, finché la trovò.

Stava in una grande sala a volta, a livello della strada. In quell’ambiente stagnava un odore di polvere e di stantio. Al­tissime finestre lasciavano entrare quel poco di luce che era possibile, ma ciò nonostante, tutto l’interno era immerso nel­la penombra. Vi erano, in quella sala, venti donne di tutte le età e di tutte le condizioni. Tutte si affaccendavano attorno alle valigie e ai pacchi di viveri, non cessando però di lamen­tarsi sconsolatamente. Fra quelle venti donne c’erano Carol e sua zia.

Si erano un poco appartate dalle altre, in modo tutto ca­ratteristico. La signora Adams si era lasciata cadere su un let­to improvvisato e Carol stava mettendo un po’ d’ordine, co­me poteva, tra le poche cose che avevano portato.

«Va tutto bene?» le domandò Kenniston, ansiosamen­te, ed ella fece col capo un cenno affermativo. Dal suo giaci­glio sul pavimento, la signora Adams bisbigliò, con voce lagrimosa: «Ma perché ci hanno portati qui, in questo posto orribile? Perché non ci hanno lasciati nelle nostre case?»

Carol le fece cenno di tacere, come se fosse una bambina capricciosa e testarda.

Due ragazze in lacrime si erano avvicinate a Kenniston per rivolgergli delle domande. Dietro di loro, una donna di mezza età, piccola e massiccia, andava su e giù sbattendo le porte.

«Dove sono i gabinetti?» chiedeva, in tono bellicoso.

Kenniston condusse Carol nel vano di una porta, dove avrebbero potuto stare un momento tranquilli, anche se non era possibile rimaner soli.

«So che per te è una cosa molto dura, ma è solo per po­co... voglio dire... questa specie di promiscuità. C’è posto in abbondanza per tutti, qua dentro, e potrete scegliervi i locali che più vi piacciono, tutti per voi. Posso portarti qualsiasi co­sa ti occorra, da casa tua, i tuoi libri, gli oggetti che preferisci, anche i mobili, se vuoi...»

Ma Carol lo interruppe.

«No! Non voglio che si tocchi nulla, là. Voglio che tutto rimanga come l’ho lasciato. Potrò almeno ricordare la mia casa così com’è sempre stata, e chissà che...» Scosse il ca­po, poi proseguì: «Ken, il vecchio signor Peters, che abita­va nella nostra via, ha avuto un altro colpo, quando siamo giunti qui. Lo hanno portato via in una barella. Stava mo­rendo, e ho visto il suo viso. Guardava quegli enormi e spa­ventosi edifici, con un viso così smarrito e pieno di spaven­to. Cercava di capire, di capire, e non poteva.» La fanciulla rabbrividì.

«La morte non è una cosa bella, in qualsiasi luogo avven­ga» disse Kenniston. «Ma siamo giovani e forti e non stia­mo per morire.» Prima di lasciarla, aggiunse: «Un bambi­no è nato durante il percorso. Pensa a questo, Carol, invece di pensare a quel povero vecchio moribondo.»

Se ne andò, depresso e turbato. Carol gli era apparsa di­versa, e non credeva che fosse unicamente a causa della stanchezza. Forse Carol aveva legami tanto profondi con Middletown, con la mentalità di quella cittadina, col suo modo di vi­ta, da non riuscire a dimenticare. Ebbene, quel modo di vive­re era andato in frantumi, ora, e lei e tutti gli altri avrebbero dovuto adattarsi.

Immerso in questi angosciosi pensieri, Kenniston aveva oltrepassato due piazze, prima di accorgersi che un muta­mento era avvenuto nelle strade. Cercò di capire che diavolo fosse. La gente si era quasi tutta riparata negli edifici, ora, e pochissimi erano rimasti nelle automobili, ma non era que­sto. Vi era qualche cosa, qualche cosa...

Le strade erano diventate improvvisamente vive e non ca­piva perché.

Poi, d’un tratto, capì. Erano stati i bambini. Intimoriti dap­prima dalla stranezza del posto e dal comportamento dei grandi, avevano infine compreso che c’era tutta una città a lo­ro completa disposizione... enormi edifici vuoti, pieni di mi­steri e di tesori, nuove strade, nuovi stretti passaggi, novità do­vunque, un territorio assolutamente vergine, da esplorare... A due, a tre per volta, quegli spiriti avventurosi si erano accinti alla grande avventura. Grida e piccoli piedi in corsa risonava­no ora dovunque, piccole figure apparivano qua e là sui mar­ciapiedi, le loro ombre guizzavano in movimento, si udivano le loro voci e il loro riso dovunque, insieme ai rimproveri adi­rati dei parenti. Un monello dal viso intelligente e furbo aveva scoperto che poteva provocare l’eco. Un altro, affascinato dal­le immacolate distese di muri bianchi e lisci, vi stava traccian­do con un pennarello dei caratteri calligrafici che gli parvero diventare sempre più grandi. Quel piccolo accidente!, pensa­va Kenniston, divertito. Affrettò il passo, subitamente rinfran­cato. Capiva che tutto sarebbe andato bene, ormai. La razza umana era una razza dura a morire, dopo tutto!

Altre prove ne ebbe nei due giorni che seguirono. Le gran­di ondate di evacuazione riversarono altre migliaia e mi­gliaia di persone, attraverso le colline polverose, entro la grande porta che si apriva per lasciarle passare. E per quelli che vennero il secondo e il terzo giorno, la prima impressio­ne non fu tanto brutta come per la prima carovana di evacua­zione. I primi diciassettemila pionieri avevano spezzato l’in­canto e la maledizione di quel vuoto silenzio. Cucine comu­ni, funzionanti a petrolio e a benzina, riempivano l’aria col casalingo e ravvivante odore del caffè. Vi erano cibi caldi, l’eccitazione di ricercare gli amici, il desiderio di scambiarsi impressioni. Massaie infaticabili si affaccendavano con le scope, inducevano i mariti a pulire le finestre, sculacciavano i bambini irrequieti. E le automobili si allineavano, in file in­terminabili, lungo le strade e i viali di quella specie di città di sogno, in una Terra più vecchia, una Terra del futuro.

Il terzo giorno furono trasportati i malati, che vennero ospitati in un grande edificio convertito in ospedale. Arriva­rono anche i carcerati, che furono rinchiusi in un altro edifi­cio. Un enorme palazzo della piazza centrale diventò il nuo­vo Municipio. E al cadere della terza notte non restò più, a Middletown, anima viva. Tutti i suoi abitanti erano stati ac­colti sotto la grande cupola della città sconosciuta.

«Chiameremo questo posto Nuova Middletown» aveva proclamato il sindaco Garris. «Ci sarà più simpatico.»

Kenniston passeggiava con Carol, quella sera, lungo i viali scuri della città. Candele e lampade brillavano alle porte e al­le finestre. Un bambino piangeva, in qualche posto, e la voce di una mamma lo acquietò cantando una ninnananna. Dei cani abbaiavano in lontananza. La voce metallica di un fono­grafo cantava: Non posso darti che l’amor, bambina.

Kenniston pensò che gli altissimi edifici dovevano ora guardare giù con occhi stupefatti... Quella città, sotto la sua cupola incastonata di stelle, era stata in silenzio tanto a lun­go; su quel silenzio immenso, il sole smorto e gelido si era av­vicendato innumerevoli volte; e ora...

Poteva una città ricordarsi del passato? pensava Kenni­ston. Ricordava, quella città, i giorni lontanissimi dei suoi co­struttori, degli amanti che avevano passeggiato per le sue stra­de, dei bambini che avevano conosciuto i suoi angoli e i suoi nascondigli più segreti? Era lieta, quella città, che gli uomini fossero ritornati ancora, o le spiaceva di aver perduto quel si­lenzio e quella pace, che si perdevano negli abissi del tempo?

Carol rabbrividì e si abbottonò il pesante cappotto.

«Sta facendo più freddo.»

Kenniston fece un cenno affermativo col capo.

«Ma non tanto freddo come a Middletown... Solo come in una notte di ottobre, nel mondo di una volta. Questo è un freddo che possiamo sopportare.»

La fanciulla lo guardò, con gli occhi scuri nel pallore del viso.

«Ma come faremo a vivere qui, Ken? Voglio dire, come faremo a vivere quando i rifornimenti portati dai magazzini di Middletown finiranno?»

Tanto Kenniston quanto Hubble sapevano bene che quella domanda sarebbe stata fatta, presto o tardi, ma avevano pronta una risposta. Non una risposta precisa, ma la sola possibile.

«Vi sono grossi serbatoi idroponici alla periferia di que­sta città, Carol. Gli antichi abitanti coltivavano le loro derra­te in quei serbatoi. Noi potremo fare la stessa cosa. Abbiamo una quantità di sementi a Middletown.»

«Ma... e l’acqua?»

«Ce n’è una quantità» rispose prontamente Kenniston. «Enormi serbatoi sotterranei, che debbono essere in comu­nicazione con sorgenti a grandi profondità. Hubble l’ha fatta esaminare. È perfettamente potabile.»

Camminarono lentamente verso la piazza. Ora la Luna era sorta. Quella Luna color rame, irrealmente grande, tanto più vicina alla Terra che nelle epoche di una volta. La sua lu­ce cupa filtrava attraverso la cupola immensa della città. Le bianche torri degli edifici sembravano perdute in un sogno.

Kenniston pensava alla storia della Terra. Milioni di anni, trilioni di vite umane piene di dolori, di speranze e di lotte, e tutto per che cosa? Per questo?

Anche Carol provò un senso di vuoto e di nullità, e si strin­se più forte a lui.

«Ma sono tutti morti, Ken? Tutta la razza umana, eccetto noi?»

Anche per questa domanda, Kenniston e Hubble avevano preparato una risposa, la risposta che avrebbero dovuto dare a tutti.

«Non c’è alcuna ragione di ritenerlo. Ci possono essere altre città ancora abitate. Se è così, ci metteremo presto in contatto con esse.»

Carol scosse il capo.

«Parole, Ken. Non ci credi nemmeno tu.» Si allontanò un poco da lui. «Siamo soli» aggiunse. «Ogni cosa che avevamo è scomparsa: il nostro mondo, tutta la nostra vita, e siamo completamente soli.»

Kenniston le passò un braccio attorno alla vita. Avrebbe voluto dirle qualcosa che la confortasse, ma la ragazza rima­neva rigida e tremante, e d’improvviso sbottò: «Ken, in cer­ti momenti credo quasi di odiarti.»

Troppo sorpreso per potersi arrabbiare, Kenniston la la­sciò andare.

«Carol» disse «sei troppo stanca e preoccupata per...»

Ma la voce di lei era lenta e aspra. Le parole le venivano al­le labbra come se non avesse più potuto trattenerle.

«Troppo stanca e preoccupata? Può darsi. Ma non posso fare a meno di ricordare che se tu, e altri con te, non foste ve­nuti a Middletown con quel laboratorio segreto, cinquanta­mila persone non avrebbero dovuto soffrire di una cosa simi­le. Questa sventura ce l’avete procurata voi...»

Kenniston cominciò a capire, ora, la causa delle rigide maniere di Carol e dei suoi silenzi poco amichevoli.

Rimase per un momento furiosamente indignato, tanto più perché la fanciulla lo aveva ferito in un punto sensibile. Rimase a guardarla con occhi accigliati, poi la sua ira svanì, ed egli l’afferrò per le spalle.

«Carol, parli a vanvera, e lo sai bene! Sei amareggiata perché hai perduto la tua casa, il tuo modo di vivere, il tuo mondo, e per tutto questo fai di me un capro espiatorio. Ma non puoi farlo! Abbiamo bisogno l’uno dell’altro, ora più che mai, e non dobbiamo perderci per cose di questo genere.»

Carol lo guardò freddamente, poi cominciò a singhiozza­re, e si appoggiò a lui, piangendo.

«Oh, Ken, non credermi una stupida! Sono così turbata, e non capisco più nemmeno me stessa.»

«Tutti siamo in questo stato d’animo» la confortò Ken­niston. «Ma tutto finirà bene. Dimentichiamo, Carol!»

Ma mentre la teneva stretta fra le braccia cercando di cal­marla, guardava quelle altissime torri punteggiate di milio­ni di finestre e l’aspetto di quella luna strana, e capiva che Carol non avrebbe mai potuto completamente dimenticare. Quel profondo risentimento non sarebbe facilmente svani­to, e avrebbe dovuto lottare a lungo, contro di esso. Sarebbe stata una lotta dura, perché nelle parole di Carol c’era una parte di verità, che tuttavia non avrebbe voluto sentirsi rin­facciare mai.