Ecco dunque il sogno. Casey ne emerse lentamente, si stirò e aprì gli occhi. Nulla più ebbe alcun senso. Giaceva prono su una sorta di lettino stretto e in apparenza senza molle, e, quando si sollevò, vide per prima cosa una donna seduta su una sedia di cucina, all’altro capo della camera.

Non era uno spettacolo particolarmente piacevole, ma gli venne fatto di pensare che era una visita piuttosto inconsueta, data l’ora mattutina. Si rizzò sul gomito per guardare di nuovo, e a poco a poco notò altre stranezze, fra le quali un pesce morto e una bottiglia di vino, per non parlare d’un cielo cosparso di dischi volanti tra cui spiccava un ukulele dalla forma bislacca. Sorrise divertito. Erano quadri accatastati contro le pareti.

Ripensandoci bene, però, le tele non avevano maggior senso logico della prima impressione avuta. Benché un cerchio di ferro gli attanagliasse le tempie, riuscì a mettersi a sedere sul lettino e a guardarsi attorno. La stanza, piccola e quadrata, era illuminata solo da un lucernario distante un chilometro, lassù nel soffitto, e, con l’acume di cui disponeva sempre dopo una sbornia, Casey dedusse di essere nello studio di un artista ove non mancavano l’intonaco scrostato, la vernice graffiata e i soliti accessori. Non rammentava di conoscere artisti, ma ciò non valeva a far luce sulla situazione, e nemmeno spiegava quale buon samaritano gli avesse allentato la cravatta e tolto le scarpe, rincalzandolo poi in una coperta militare. Certo era dovuto al medesimo buon samaritano il rincorante aroma di caffè caldo, che proveniva da dietro un cavalletto ricoperto da un telo. S’infilò le scarpe e partì per indagare, incerto su ciò che avrebbe scoperto, ma lontano mille miglia dalla verità.

Non appena le sue corde vocali si decisero a funzionare, disse: — Scusate, non ci conosciamo credo.

La donna non era un dipinto. Alta per lo meno quanto lui, che non aveva nulla del gigante, aveva capelli color mogano, corti e arruffati. Indossava sul pigiama un camice imbrattato di colori, ai piedi portava pantofole foderate di pelo, e nei suoi occhietti vivaci era palese uno sguardo bonario e divertito.

— Chiamatemi pure Maggie — disse. — Vi secca bere da una tazza senza manico?

— È casa vostra, questa?

— Finché pago l’affitto.

La cucina era poco più grande di una cabina telefonica, ma Maggie pareva avere tutto sotto mano. Si allontanò un attimo dal fornello a gas, aprì il rubinetto del lavandino da bambola e tese al suo ospite una cartina di bicarbonato, dicendo: — Tutto sommato, credo che vi servirà poco, ma è, per lo meno, un pensiero gentile.

— Grazie. A proposito, come mai sono qui?

— Speravo che poteste spiegarmelo voi.

— Non lo sapete?

— So appena che, quando vi attaccate a un campanello, non mollate più. Non so che cosa vogliate vendere, giovanotto, ma io compro di rado dai viaggiatori di commercio che vengono dopo le due del mattino.

Ora che i suoi occhi si erano abituati a stare aperti, Casey vedeva più chiaramente il viso di lei; non poteva dirsi grazioso: tondo, con il naso all’insù, e con tante piccole rughe che lo solcavano, quando sorrideva. Un viso espressivo che rivelava molto, anche se le labbra restavano chiuse.

— Per questo mi avete accolto in casa e mi avete dato un letto? — le chiese.

— Pioveva.

Non era una ragione sufficiente. Casey lo sapeva, ma non ebbe modo di approfondire perché Maggie aggiunse subito: — In fondo al corridoio, c’è la stanza da bagno, e a lasciarla scorrere per circa un quarto d’ora, l’acqua si scalda un po’. Nel frattempo, avrò già bruciato le uova e carbonizzato il pane tostato.

A Casey Morrow, uomo navigato, capitava spesso di trovarsi in luoghi inattesi, all’ora grigia dell’alba, ma non lo aiutavano certo a rimettersi in carreggiata le voluttuose sirene sul soffitto della stanza da bagno, né le visioni alla Salvador Dalì, sulle pareti. La casa, vecchia e buia come un granaio, pareva quasi un avanzo del famoso incendio; ma d’un tratto, Casey cominciò a domandarsi se era proprio a Chicago. Dai suoi ricordi mancava una grossa fetta di tempo. Il mattino della vigilia, (era proprio la vigilia?) era andato in quell’albergo di lusso di fronte a Grant Park e, dopo aver pagato in anticipo la pensione di un giorno, era uscito, deciso a festeggiare il ritorno in modo consono a chi abbia fatto da poco bancarotta. Mancava davvero una fetta notevole, e la lacuna era colmata soltanto dal sogno pazzesco di una ragazza dagli occhi color fumo. Mentre percorreva il corridoio per tornare nello studio di Maggie, rimuginava su quel sogno, ma fini col decidere di non farne cenno. L’unico comportamento ammissibile, in casi come quello, era di scusarsi, ringraziare e filare.

Maggie tuttavia, non aveva l’aria di aspettarsi niente di simile. Anzi, insistette: — Bevete almeno il caffè. Me ne infischio che gli altri inquilini di questa topaia vedano uscire un uomo dal mio appartamento a quest’ora, ma mi seccherebbe se pensassero che do ospitalità a un fantasma.

Casey cominciò a sorbire il caffè, sospirando: — Suppongo che vi aspettiate una spiegazione — disse. — Spiacente, ma non ne ho. Per me, la serata di ieri è una zona buia, e non ricordo assolutamente che cosa sia successo. — Vedendo che la donna lo fissava in modo strano (a meno che non fosse il suo viso a essere strano di per sé), aggiunse: — Mi dispiace.

— Lasciate perdere. Non lo sapete che Chicago è una città accogliente? A noi piace che i turisti di classe si divertano.

Per un attimo Casey non capì, ma ben presto ricordò le etichette nella giacca e nell’impermeabile acquistati in un negozio di lusso di Beverly Hills. Era chiaro che Maggie ne aveva tratto conclusioni errate.

— Non alluderete a me, spero. Io sono un “indigeno” tornato all’ovile.

— Però venite dalla California! Non vorrete dirmi che siete stanco della terra del sole e dell’eterna gioventù!

— Per viverci non è male, ma odierei doverci andare in gita.

— Mancate da molto tempo?

— Sono sempre stato via. Anche quando vivevo qui, perfino da bambino. Capite che cosa voglio dire?

— Credo di sì.

— Tanto meglio, perché io non ne sono troppo sicuro.

— E dove andavate?

Era facile chiacchierare con Maggie, quasi troppo facile. — Ovunque, in qualsiasi luogo — le rispose. — In posti dove la vita era comoda… cristalli, nichelature, bei mobili, tutto elegante, bello. Niente vicoli pieni d’immondizie, niente tuguri soffocanti, finita la gente che ti salta agli occhi per un nonnulla perché ha i nervi tesi…

Tremendo, come il passato si affollava alla mente, annullando il tempo finché i vecchi odi, i vecchi terrori diventavano di nuovo vivi e ossessionanti.

— Sogni piacevoli, per l’avvenire, ma quando tutto è finito si resta con un pugno di mosche.

— Eh già — confermò Maggie con tono asciutto. — Quando si è vecchi, con i capelli grigi, non resta che stare a sedere davanti alla tazzina del caffè nelle mattinate fredde e umide, e rivangare sulla passata gioventù.

Casey non poté fare a meno di sorridere, La compagnia di Maggie faceva quell’effetto. — Non mi sembrate molto compassionevole — disse, in tono di rimprovero.

— E perché dovrei esserlo? Tutti gli esseri umani hanno dei guai, me compresa. Parlando tra compaesani, dove avete pescato ricordi tanto di lusso?

— Frequentando chi di dovere.

— Gente importante?

— Teste vuote. Un paio di tipi sul mio stampo, usciti dalle scuole superiori, con pochi quattrini e troppe idee.

Era proprio facile chiacchierare con Maggie. Con quei discorsi, però, riaffioravano le nostalgie e le nostalgie non erano lussi che Casey potesse più concedersi. Respinse la sedia e, come parlando a se stesso, osservò: — Non mi lamento, sono fatalista. Un giorno si è padroni del mondo e l’indomani s’impara che un vestito da duecento dollari sembra esserne costati trentasette, dopo averci dormito dentro.

La giacca che Maggie stava traendo dal piccolo armadio non offriva quell’aspetto, ed era evidentemente stata stirata da poco. — L’ho rinfrescata — disse con aria vaga. — Era sporca.

Pareva quasi timida, e Casey provò una sensazione di tenerezza non del tutto fraterna per quella strana donna dal camice imbrattato e dal naso solcato da piccole rughe. Come se gli avesse letto nel pensiero, Maggie gli tese bruscamente l’impermeabile e aprì la porta.

— Se rimarrete da queste parti farete bene a comprarvi un cappello — gli consigliò, — Non siete più in California.

Quando uscì dall’edificio, gli occorsero alcuni momenti per orientarsi. Era ancora presto, e il cielo pareva una distesa di flanella grigiastra, mentre il vento che proveniva dal lago si era fatto più tagliente. Non se la sentiva di affrontarlo, perciò svoltò a sinistra e andò fino al primo angolo, dove il cartello lo informò che si trovava nella Erie Street, molto lontano da casa.

Il vento serviva perlomeno a chiarirgli le idee. Valutò la distanza che doveva percorrere, poi pensò agli effluvii e alla folla ondeggiante di un filobus, e fini per concludere che era preferibile andare a piedi. Dopo tutto aveva tempo fino a mezzogiorno per ritirare la valigia nell’albergo, e tutta la vita per decidere dove andare in seguito. Il suo pensiero corse al quartiere di nord-ovest e al misero appartamento di cinque stanze della madre, sopra il bar di Big John, e poi al patrigno, appunto Big John, e all’odore di birra stantia e di salsicce unte. Cominciò a chiedersi perché mai fosse tornato, e fin da prima aveva saputo che avrebbe finito per chiederselo.

Nella Vallata di San Fernando il sole brillava caldo e filtrava attraverso i lucernari del tetto a merletti. In un mondo tanto gaio e promettente, era stato facile sperdersi nel roseo sogno di produrre un nuovo sensazionale televisore, che sulla carta pareva una cannonata, ma che in effetti costava troppo costruire. Ora la piccola fabbrica era sprangata, ma Casey non si lamentava: che importanza poteva avere una vittima in più o in meno del dopoguerra, in questo nuovo mondo coraggioso?

Aveva fatto sogni assai diversi, quando la luna brillava rotonda sul Pacifico e al suo fianco, nell’elegante decappottabile, sedeva una rossa coi fiocchi. Ma anche quello era stato un fiasco e sempre per la medesima ragione: fondi insufficienti. Comunque, non era stato costretto a tornare a casa. Fin dal giorno in cui si era arruolato, otto anni prima, aveva evitato quell’estremo gesto, eppure adesso eccolo qua. La bolla era scoppiata in frantumi e ora via, corri a casa come un moccioso dal naso sanguinante.

(Ricordava benissimo quei ritorni da scuola con il naso sanguinante. Nessuna possibilità di spiegare, nessuna scusa accettata quando voleva giustificare la camicia strappata o i calzoni a brandelli. Quella terribile espressione sul viso della mamma che allungava la mano per afferrare la frusta.)

Ormai stava camminando verso sud, in direzione del fiume, dove cominciavano a levarsi i rumori mattutini, e le luci parevano sfidare la giornata grigia da dietro le file di finestre umide di pioggia. Giunto al fiume, gli toccò aspettare che il ponte si abbassasse dopo il passaggio di una nave da trasporto. Gli piaceva quel quartiere. Il quartiere e le stazioni. Tutto ciò che si muoveva, tutto ciò che viaggiava. Nell’attesa cominciò a notare i passanti, uomini d’affari con le cartelle sotto il braccio e impiegate che lanciavano occhiate nervose all’orologio, che spiccava su un tabellone gigante sull’altra sponda del fiume. Un giornalaio ammucchiava le prime edizioni nel suo chiosco…

Il ponte si abbassò di nuovo, e il traffico riprese a snodarsi, ma Casey non si mosse. Fissava la fotografia in prima pagina di uno dei giornali e restava paralizzato. Un volto di ragazza. Ricordava perfettamente il profumo dei suoi capelli color miele quando gli avevano sfiorato il viso, ricordava quegli occhi leggermente obliqui dallo strano color fumo. Rivedeva il sogno, ma non era più un sogno; un viso in prima pagina, sovrastato da grossi titoli:

FINANZIERE UCCISO: EREDITIERA SCOMPARSA

— Volete che volti la pagina?

La frase sarcastica del giornalaio spezzò lo stato quasi ipnotico in cui si trovava e lo fece indietreggiare di alcuni passi. Gli occorreva quel giornale, più di qualsiasi altra cosa al mondo gli occorreva quel giornale, ma ricordava d’un tratto gli ultimi due dollari stesi sul ripiano di vetro del tavolo.

Si frugò in tasca nella vana speranza di raggranellare qualche moneta sparsa e le sue dita sfiorarono qualcosa. Piegati con cura, in fondo alla tasca. Li trasse fuori lentamente, e lisciò col pollice lo spessore dei biglietti da cento, nuovi e fruscianti. Senza neppure contarli sapeva a quanto ammontavano. Cinquemila, aveva detto il sogno. Cinquemila dollari.