“Sono Casey Morrow, giovane uomo d’affari (o meglio, exuomo d’affari), appena arrivato da Los Angeles. Sono stato tutta notte in camera mia da bravo ragazzo, non ho mai visto Phyllis Brunner né ho avuto nulla a che fare con l’uccisione di suo padre. La manica della mia giacca non è sporca di sangue e non ho cinquemila dollari incriminati in tasca. Se vedo un poliziotto non ho nessun bisogno di aver l’aria colpevole e non ho ragione alcuna di fuggire…”

Quando l’ascensore giunse nell’atrio aveva a malapena finito di recitarsi questa litania. Uscì con passo frettoloso, adatto a chi vada a prendere un treno, e allontanò con un gesto l’inserviente che voleva prendergli la valigia.

— Faccio io — disse, avviandosi verso il banco della direzione.

“Se fossi stato furbo e avessi ricordato di aver pagato in anticipo avrei potuto dare la chiave a quel giovinastro. Ma forse è meglio così. Non mi pare di vedere nessuno che abbia l’aspetto del poliziotto… o mi sbaglio?”

Un uomo maturo, dal viso austero, stava parlando con un impiegato della direzione, appoggiato al banco. Occhi azzurri e cappello della stessa sfumatura, sotto la cui falda s’intravedevano i capelli grigi. Indossava un impermeabile grigio sgualcito e ormai piuttosto consunto e aveva un aspetto comune, quanto lo può avere un poliziotto. Casey stesso non avrebbe saputo spiegare questa sua erudizione in materia, ma sapeva di vedere giusto. Era inoltre presente una terza persona, un individuo piccolo, con un inizio di calvizie, vestito di scuro, con la cravatta a farfalla, e Casey non dubitava che rispondesse al nome di Ernie. In quel momento stava parlando lui:

— Personalmente — insisteva — non credo che troverete quel tizio registrato qui. Era al verde e contava ogni dollaro come se fosse l’ultimo.

Casey si era avvicinato abbastanza per udire, tenendo la testa girata, e, mentre consegnava la chiave, trasse di tasca il portafogli in modo da far notare quanto fosse rigonfio.

— Un momento, tenente — mormorò l’impiegato, accostandoglisi. — Buon giorno, signore. Ci lasciate?

— Appunto.

— Tutto è stato di vostro gradimento?

— Perfetto, perfetto. Ho dormito come un neonato.

Dopo aver compilato le necessarie schede, l’impiegato sorrise. — Mi pare che il vostro conto sia già saldato, signor Morrow — osservò.

— Davvero? Ah già, ora ricordo. — Stava andandosene, evitando con cura i due all’altro capo del banco, quando gli venne un’idea geniale. — Se qualcuno mi cercasse — aggiunse — dite che ho concluso i miei affari e sono tornato sulla costa.

— Senz’altro, signor Morrow. Volete lasciare un indirizzo?

Era inutile strafare, e riuscì a rispondere con un sorriso: — Chiunque abbia comunicazioni che m’interessano conosce il mio indirizzo.

Tutto andava a gonfie vele. Si trattava di procedere piano, con prudenza. Mantenere un passo misurato e cauto. Si scostò dal banco e si fermò volutamente per guardare l’orologio; ciò gli permise di udire qualche stralcio della conversazione con il tenente della polizia.

Quello dagli occhi azzurri stava dicendo: — So che è una descrizione un po’ vaga, ma Ernie dice che se ci fosse un confronto potrebbe identificarlo in modo positivo.

— Non dimentico mai un viso — intervenne Ernie. — Riconoscerei quel tizio dovunque.

Lentezza e prudenza. Un passo, poi un altro. Quelle simpaticissime porte girevoli non erano poi tanto lontane. Procedere piano, con cautela.

— Ehi! Signore!

Casey s’irrigidì. Sapeva che le parole erano rivolte a lui e sapeva anche chi fosse stato a pronunciarle. Avrebbe potuto mettersi le gambe in spalla, e il vantaggio l’aveva, ma già mentre il pensiero attraversava la sua mente, un grosso agente in divisa era entrato e stava parlando con uno degli inservienti. Rimase dov’era e quando si volse con mossa lenta si trovò a faccia a faccia con il barista.

— Stavate dimenticando la valigia — disse Ernie.

— Ah… grazie. Grazie infinite.

Fuori faceva un tempo freddo e uggioso, e cadeva un fitto nevischio, ma Casey avrebbe accettato con piacere anche una vera e propria tempesta. L’importante era di essere fuori e libero. Quando un tassì rasentò il marciapiede, fu pronto a fermarlo, ma dove andare? Non a Los Angeles, quello era indubbio.

— Alla Stazione Centrale — disse, appoggiandosi poi allo schienale e respirando per la prima volta con un minimo di tranquillità da quando aveva avuto inizio l’incubo.

Quello stato d’animo non durò molto. Bastarono pochi minuti per arrivare alla Stazione, ma furono sufficienti a fargli capire che mai più avrebbe respirato liberamente se avesse tagliato la corda. Una strana riflessione per Casey Morrow, che amava prendere sempre la strada più comoda.

Casey Morrow? Perché gabbare se stesso? Casey Morrow non esisteva. C’era, o meglio c’era stato, Casimir Morokowski, un ragazzetto dal viso sparuto, dagli occhi sgomenti, in stretti calzoni a sbuffo e lunghe calze nere che si attorcigliavano di continuo attorno alle magre gambe. In famiglia lo chiamavano “Cas”, e gli avventori puzzolenti del bar di Big John gli gridavano: “Ehi, tu!”. Per un certo tempo era esistito il sergente Morrow, ma poi era morto. In fondo, nessuno tornava da quel genere di guerra. Quanto a Casey Morrow non era che un abito vistoso e un paio di scarpe fatte su misura, un sogno infranto su una lontana costa di cui non era rimasto neppure di che fare un funerale decente.

Il tassi si fermò davanti alla stazione, ma quando fu entrato, Casey non comprò nessun biglietto. Andò invece a sedersi su una panca nella sala d’aspetto e cercò di riflettere. Non valse gran che. Si accorse di essere all’erta per avvistare la presenza di un uomo con un cappello azzurro e un impermeabile grigio, perché tutto era stato troppo facile. Fumò due o tre sigarette, poi andò a depositare la valigia in uno degli armadietti metallici disposti a file. Forse era una buona idea tenersi leggero, in vista del piano che aveva in mente.

Quando gli riuscì finalmente di ritrovare la casa nella Erie Street, Maggie non c’era. La maggior parte degli edifici nel quartiere erano uguali l’uno all’altro, e non aveva che il nome Maggie come punto di riferimento. Supponeva che fosse il diminutivo di Margaret, ma si sbagliava. Si chiamava proprio Maggie, Maggie Doone, e quando premette il pulsante sotto quel nome, nella fila di cassette per le lettere, non accadde nulla. Forse era stata un’idea balorda. Tornò sul marciapiede davanti alla casa e rimase un attimo incerto, cercando di prendere una decisione.

Tutto il piano consisteva nel trovare Maggie prima che avesse letto il resoconto del delitto e soprattutto prima che le successive edizioni pubblicassero la deposizione del barista. Poteva darsi che la stampa fosse meno esplicita del fattorino, ma un tipo dalla lingua lunga come Ernie non avrebbe certamente nascosto nulla ai giornali. Prima o poi Maggie avrebbe appreso dell’esistenza del compagno di Phyllis Brunner al bar Nuvola, ed era possibile che cominciasse a ricordare alcune cose, da donna intelligente qual era. Per esempio un ubriaco con la manica imbrattata di sangue. Un ubriaco i cui abiti portavano etichette di Beverly Hills.

Più che altro era stata la macchia di sangue a ricondurre Casey nella Erie Street. Una donna disposta a lavare la giacca di un estraneo poteva essere altrettanto disposta a prestare orecchio a un racconto inverosimile quanto il suo. Rischioso, ma a volte trovare un orecchio pronto ad ascoltare può essere la cosa più importante del mondo.

La vide arrivare quando distava ancora mezzo isolato. Senza cappello, indossava un voluminoso cappotto di tweed, che probabilmente odorava di trementina e di tabacco, e reggeva una borsa di provviste, particolare questo di maggiore interesse. Non era plausibile che una donna, uscita precipitosamente per dare ragguagli su un presunto assassino, stesse rincasando con passo noncurante, carica di viveri. Casey sperava.

Davanti alla gradinata, lo scorse e lo apostrofò, con la fronte aggrottata: — Non dite nulla, lasciate che indovini. Avete dimenticato il fazzoletto?

— Devo parlarvi. È importante.

Parve sul punto di protestare, ma l’espressione preoccupata di lui la dissuase.

— Parlate pure.

— Non qui.

— Sentite, giovanotto, la mia buona azione l’ho già compiuta.

— Non qui — ripeté Casey.

Attraversarono l’ingresso e, mentre salivano su per la stretta scala, dall’espressione di Maggie si capiva che la faccenda cominciava a preoccupare anche lei.

Appena giunti nel piccolo studio, Casey si guardò attorno. Neanche un giornale, tanto di guadagnato. Ma poi dalla borsa delle provviste vide spuntare il quotidiano piegato.

— Avete già visto? — chiese.

— Visto che cosa? Che volete, insomma?

Era perfettamente inutile tergiversare con una donna come Maggie Doone. O parlar chiaro o sparire.

— C’era del sangue sulla mia giacca, non è vero? — le chiese.

Non rispose, ma impallidì leggermente.

— Non vi è sembrato strano… sangue sulla mia giacca?

— No, potevate aver avuto una rissa.

— Senza neppure uno sgraffio?

— Non vi ho esaminato! Dove volete arrivare?

Volle afferrare il giornale, ma non era ancora il momento, e Casey glielo impedì, dicendo: — Ve lo darò soltanto quando mi avrete ascoltato. Prima dovete sentire la mia versione, che corrisponde alla verità.

Le riferì i fatti per filo e per segno, così come si erano svolti. Il bar, gli ultimi due dollari sul tavolo, la ragazza, il suo aspetto, la sua conversazione… le cose pazzesche che aveva detto… — Siamo poi usciti insieme, o per lo meno così mi dicono. A questo punto la mia memoria non funziona più.

— So che gli uomini scarseggiano — fece Maggie lentamente — ma non sapevo che le ragazze andassero in giro con la dote nella borsetta…

Tacque, fissando con gli occhi sbarrati la pila di banconote, che Casey aveva posato sul tavolo di cucina. Nel suo sguardo divampava la curiosità.

— Li ho trovati nella tasca dell’impermeabile pochi minuti dopo essere uscito da qui stamattina — spiegò Casey. — Sono proprio cinquemila, come aveva detto lei.

Maggie mormorò: — Non capisco.

— Siamo in due a non capire.

— Ma non sapete neppure chi fosse?

— Ora lo so.

A questo punto poteva intervenire il giornale, e Casey glielo tese, guardandosi poi attorno in cerca di una sedia, su cui prese posto a cavalcioni, incrociando le braccia sullo schienale e appoggiando il mento sulle mani. Guardava Maggie leggere le notizie in prima pagina, ma dal volto di lei non trapelò nulla. Poco dopo depose il giornale.

— Ora potete avvertire la polizia — disse Casey — oppure prestar fede alla mia versione. In fondo, sia l’una sia l’altra cosa mi sono piuttosto indifferenti.

— Phyllis Brunner — mormorò Maggie.

— Come vedete, non ho sognato.

— Altri sono al corrente?

— Alcune persone. Quando ho lasciato l’albergo, circa un’ora fa, il barista stava fornendo la mia descrizione a un tenente di polizia dall’aria molto sveglia. Non sono mai stato un genio, ma so bene che cosa significa. Quando i giornali del pomeriggio pubblicheranno i miei connotati, nessuno in città scotterà quanto il sottoscritto. E non è per vantarmi, ma penso che ci sarà anche una taglia.

— Non inducetemi in tentazione! — fece Maggie irritata. Era pallida, visibilmente preoccupata, e Casey capiva il suo stato d’animo. Non era indicato avere ospite un uomo ricercato per omicidio e fors’anche per due. Tuttavia non chiedeva aiuto, almeno per il momento.

— Perché siete tornato qui? — chiese all’improvviso. — Perché mi raccontate tutto questo?

Nessuna risposta avrebbe potuto suonare plausibile, e Casey infatti tacque. Maggie si protese a toccare il denaro come per garantirsi che almeno quello fosse vero.

— Ne ho già speso — le disse.

— E se i biglietti fossero marcati?

— Marcati? — Strano, quell’idea non gli era mai venuta. Era stato troppo indaffarato a fuggire da se stesso, troppo intimorito dall’ipotesi del fattorino, che forse era davvero personale, per pensare a una simile possibilità. Se Phyllis Brunner avesse voluto tendere un tranello a qualcuno, non avrebbe potuto trovare un soggetto più adatto. Comunque, Maggie era stata davvero amichevole a suggerirlo.

— Per lo meno ho imbroccato il campanello giusto — osservò Casey.

— Siete proprio sicuro di averlo imbroccato voi?

Era davvero uno spettacolo affascinante osservare Maggie, e l’unico paragone che gli venne in mente fu quello di un cane da caccia pronto a balzare sulla preda.

— Comincio a dubitare che siate finito davanti alla mia porta per caso. Siete stato piantato qui volutamente.

Non parlava a vanvera. Era andata all’altro capo della stanza e ora tornava, spingendo davanti a sé una grande tela. — Conosco una sola persona capace di questo — aggiunse, voltando il quadro. Non c’erano dubbi: si trattava di un ritratto di Phyllis Brunner.