L’assassinio di Darius Brunner occupò le prime pagine dei giornali finché un bambino, classificato nella categoria dei piccoli prodigi, nelle statistiche scolastiche, abbatté un’ascia su un compagno, dando al pubblico qualcosa di più interessante cui appassionarsi. Ormai tutta la città era talmente familiarizzata con le foto della ereditiera scomparsa e con le descrizioni del “misterioso uomo in grigio” (grazie ai colori falsati che creava l’illuminazione del bar Nuvola) che quasi erano finite nel dimenticatoio. Intanto Casey Morrow e la sua sposa “non premeditata” erano andati a vivere in un piccolo appartamento nel quartiere nord. Non molto lussuoso, comprendeva un salottino grande come una scatola di fiammiferi, completo di divano Rinascimento, una camera da letto, una cucina e una stanza da bagno con gli impianti refrattari. Data l’urgenza, Maggie non aveva trovato di meglio.

Non appena Casey aveva smesso di interrogare il proprio animo, Maggie aveva detto: — Non potete restare qui. Prima di tutto non c’è posto, e in secondo luogo gli allievi di Papà Danikoff si accorgerebbero subito della presenza di Phyllis. Terzo… — il suo aspetto severo scartava la possibilità di uno scherzo — … non ho nessuna intenzione di passare i miei ultimi anni dietro le sbarre.

E così aveva trovato l’alloggio e aveva fatto anche alcune spesucce, comprando camicie e biancheria per Casey e qualcosa di meno appariscente del visone, per Phyllis. Mentre Casey tirava fuori il contante la ragazza gli aveva detto:

— Tieni nota delle spese e, quando tutto sarà chiarito, ti rimborserò.

Lo sposo riluttante aveva risposto: — Va bene… come vuoi.

Il mattino dopo, e cioè due giorni esatti dopo il delitto, Casey, che era seduto davanti al caffè per la prima colazione, disse, cercando di avere un’espressione severa: — Dunque, Genio, dal momento che siamo riusciti a evitare la galera fino ad ora, qual è la prossima mossa?

Non si sentiva soddisfatto. Sebbene non gli fosse stato ancora detto, che il divano nel salotto era per lui. Ma non era tanto questo a turbarlo, quanto l’aspetto di Phyllis. Nessuna donna aveva il diritto di essere tanto bella al mattino presto, e infatti prima d’allora non ne aveva mai incontrate. Anche con la vestaglia economica comprata da Maggie, e i capelli radunati in cima al capo in una crocchia, era una creatura eccezionale. Per di più dotata di una calma esasperante.

— Te l’ho già detto, quando eravamo da Maggie. Dobbiamo scoprire perché Lance ha ucciso mio padre.

— Soltanto?

— Faremo quello che occorre! Tu stesso hai detto che non aveva nessuna ragione logica di uccidere la fonte delle sue rendite, quindi una ragione ci deve essere.

Quella sua maledetta logica faceva quasi dimenticare a Casey ciò che aveva letto nel giornale. — Gorden dice di essere stato in campagna la sera in cui tuo padre è stato ucciso — l’informò. — Dichiara di esserci andato per pranzo e di averci pernottato, ricevendo là la notizia della sua morte. Per di più tua madre conferma.

— Naturalmente. Se Lance le ha detto che gli occorre un alibi, sarebbe pronta a mentire per lui.

— Ne sei certa?

— Sicurissima. Te l’ho detto, l’ha ipnotizzata.

Casey sospirò, ripiegando il giornale. — Va bene, correrò qualche rischio per cercare di scoprire qualcosa sul tuo amico. Mi convincerò anche della sua colpevolezza, se questo potrà essere di aiuto. Mentre sarò fuori a indagare, tu però stai al coperto. Non preoccuparti, che torno.

— Lo so.

Sulla porta Casey si volse a guardare indietro. Lei la sapeva lunga. Aveva scelto bene il suo uomo di paglia, e se ne rendeva conto. “Devo essere ancora sbronzo” si disse. “Sbronzo o in pieno sogno.” Poco dopo scendeva le scale e aveva in tasca un indirizzo e un numero telefonico scritto a matita.

— Il signor Gorden non c’è. No, non rientra per ora. È andato al funerale di Darius Brunner.

Il funerale. Casey se n’era completamente scordato. Depose il ricevitore del telefono e aprì la porta della cabina, turbato da un nuovo pensiero. Aveva detto a Phyllis di non muoversi e non era possibile che lei fosse tanto imprudente da svignarsela per assistere al funerale del padre. Si trastullò per un attimo con l’idea di tornare ad accertarsene, ma poi ricordò il famoso colloquio in casa di Maggie e come Phyllis fosse rimasta seduta sul divano a raccontare senza interruzioni e senza lacrime. Ciò non significava che fosse arida, ma semplicemente che sapeva dominarsi. Concluse che un maggior dominio di se stesso non avrebbe fatto male neanche a lui.

Forse recarsi direttamente a casa di Gorden non era la mossa più abile. Chissà. Sapeva soltanto che doveva pur cominciare da qualche parte e che Gorden in quel momento era fuori. Altro problema era sapere chi avesse risposto al telefono, ma l’avrebbe affrontato sul posto, tanto più che c’erano molte probabilità che il suo interlocutore non lo avesse mai visto.

Alla sua scampanellata venne ad aprire un tipo magro dalle folte sopracciglia, i capelli arruffati e piedi piccolissimi. Casey notò in modo particolare i piedi, perché bloccavano l’ingresso, e vide che l’individuo dal viso inespressivo indossava calzoni neri e giacca bianca.

— Mi dispiace che Gorden non ci sia — disse Morrow. — Ma non ho fretta, lo aspetterò.

Nobile tentativo, che però non sortì alcun effetto.

— Il signor Gorden sarà assente tutto il giorno — insistette il domestico. — Può darsi che torni molto tardi e forse soltanto domani.

— Davvero? — Casey tirò fuori una smorfia, sperando di farla apparire come un sorriso genuino. — Come ai vecchi tempi — aggiunse.

— Come?

— Eravamo compagni di università, e anche allora il vecchio Gorden non ci teneva troppo a rincasare la sera. Peccato che non fosse al corrente della mia venuta, altrimenti avrebbe potuto trovare una ragazza anche per me.

Continuava a sprecare tempo. Il viso indifferente non mutò espressione, e i piedi non si scostarono dalla soglia. Non c’era nulla da fare per schivare quel cane da guardia, e non sarebbe neppure valso mostrargli una sua fotografia con Gorden in braccio alla stessa balia. Ci voleva un tipo più scaltro di lui per scoprire se c’era qualcosa di sospetto nell’appartamento ricco di lucidi legni che s’intravedevano dalla porta. Si allontanò per avviarsi verso l’ascensore, ma giunto a metà del corridoio, si fermò per guardarsi alle spalle. L’uscio era stato richiuso, e doveva esser effetto dei suoi nervi se continuava a sentirsi fissare da quegli occhi scuri.

Era logicissimo che Lance Gorden alloggiasse in un quartiere di lusso tanto diverso dalla zona a cui era abituato Casimir Morokowski, in quella casa austera, fronteggiata da un prato vellutato che serviva da parcheggio, e con l’autorimessa privata sul retro. Incerto sul da farsi, Casey entrò appunto nell’autorimessa per attaccare discorso con il negro che stava sfregando una macchia invisibile sul cofano di una Cadillac chilometrica.

— Questo tempaccio deve darvi molto da fare — osservò.

L’inserviente interruppe il lavoro per scrutarlo dalla testa ai piedi, poi chiese: — Vi manda un giornale?

Casey stava convincendosi di avere sbagliato professione, a meno che non fossero i suoi abiti a necessitare di una stiratura. — Perché? — fece. — Sono stati qui a seccarvi i reporter?

— Non me particolarmente, ma sono venuti. Anche la polizia.

— Grande agitazione, eh?

— Niente agitazione, soltanto domande.

— Come per esempio, se Lance Gorden è uscito o no la sera in cui è morto Brunner?

— Forse.

— Era uscito, naturalmente.

— Forse. Non mi immischio nelle faccende che non mi riguardano.

Riprese a lucidare, dando chiaramente a capire che la conversazione era conclusa, ma Casey non era dello stesso parere e ammise: — In genere è più saggio, ma quella ragazza fa proprio pena. Era bella, vero?

— Così dicono.

— Non l’avevate mai vista?

— Sentite un po’, vi ho già detto che non m’immischio…

— Lo so, e per di più le domande non vi garbano. Ma io dovrò pur guadagnarmi il pane, non vi sembra?

— Anch’io devo guadagnarmelo.

Casey cominciava a sentirsi molto avvilito. Aveva sperato di udire qualche pettegolezzo su Gorden e sulle sue abitudini, ma a quanto pareva aveva scelto la fonte sbagliata. E va bene, se non gli riusciva di strappare qualche bocconcino interessante, tanto valeva tenersi ai fatti.

— C’è un custode di notte, qui? — chiese.

— In teoria.

— Voi?

— Credete che lavori sempre, io?

— M’informavo. Allora non sapete a che ora ha tirato fuori la macchina il signor Gorden la notte in cui è stato ucciso Brunner?

— Da quello che ho sentito dire, non ne aveva bisogno, perché era già fuori.

— È stato fuori tutta notte?

— So soltanto che l’ha riportata la mattina dopo di buon’ora. L’ho lavata io stesso prima di mezzogiorno.

— Era sporca?

— La pioggia non lava le automobili. Se c’è altro che volete sapere…

— Vorrei sapere tante cose — fece Casey, sorridendo con ironia — ma non desidero strapparvi al vostro lavoro.

Non si sentiva molto soddisfatto, mentre si allontanava con passo lento dallo stabile, ed era sul punto di intavolare un monologo con se stesso. Phyllis aveva detto: “Scopri perché Lance ha ucciso mio padre”. Scopri. Bazzecole. Per il momento, i risultati delle sue indagini erano nulli, e il suo cervello non pullulava certamente di idee utili a migliorare la situazione. Aveva però in tasca altri indirizzi. Uno forse sarebbe stato utile soltanto dopo il funerale, ma l’altro poteva servire. Sprofondò il mento nel bavero e riprese a camminare contro vento. La mèta non era lontana e, se pensava allo stato di subbuglio del suo stomaco, era addirittura troppo vicina.

Erano passati tre giorni da quando era stato trovato il cadavere di Darius Brunner, ma Casey avanzava lemme lemme verso la casa. Quando vi giunse, sostò sul lato opposto del marciapiede per accertarsi che non ci fosse ombra di poliziotto, e una volta entrato continuò a procedere con cautela, guardandosi attorno. Tempo sprecato. Soltanto í suoi passi risuonavano nei corridoi coperti di tappeti, e quando suonò il campanello, non ottenne risposta. Aprì cautamente l’uscio con la chiave che gli aveva dato Phyllis ed entrò.

Buio pesto. Attraverso le persiane chiuse, la giornata nuvolosa faceva filtrare nelle stanze sottili strisce di luce grigia. Nello studio regnava una oscurità ancor più profonda a causa delle pesanti tende tese davanti alle finestre, e Casey dovette cercare la lampada sulla scrivania e accenderla. Si trovava in una stanza per lui nuova, eppure aveva trovato il lume con facilità e sapeva con altrettanta sicurezza in che punto del tappeto fossero le chiazze scure. Sebbene cercasse di ricordare di essere già stato in quella camera, tutto ciò che Phyllis gli aveva raccontato restava in una zona d’ombra. Eppure si orientava benissimo. Mentre fissava la macchia di sangue, si diceva che non era una ragione sufficiente per correre il rischio di entrare nell’appartamento di Brunner, e sempre più sentiva che il gioco non valeva la candela. Comunque la logica consigliava di cominciare le indagini frugando nella scrivania.

Darius Brunner doveva essere un uomo ordinato. Lo spazio lasciato libero dalla lampada e dal telefono era occupato da accessori d’argento da scrivania e da una fotografia di Phyllis in cornice pure d’argento. Nessuna carta ingombrava il tavolo né spuntava da sotto la cartella; il ripiano era stato spolverato di recente, e il calendario aggiornato.

Il grande cassetto centrale, che pareva il punto logico da cui iniziare le ricerche, si aprì facilmente, e anche all’interno regnava l’ordine. Buste, carta da lettere, scatoletta dei francobolli, tutto a posto. Più in fondo s’intravedeva un oggetto di maggior interesse e cioè un libretto degli assegni, e fin dal primo rapido sguardo alle matrici compilate con cura, Casey capì che Darius Brunner aveva usato la penna con facilità. Sebbene fosse di misura commerciale, il libretto concerneva ovviamente il suo conto corrente personale, e la maggior parte delle matrici si riferiva a conti, ad assicurazioni e così via; in più ve n’erano alcune intestate ad Arvid Petersen che, come Casey ricordava d’aver letto sui giornali, era il domestico. Non poche matrici si riferivano a enti definiti “opere di beneficenza”, mentre a quelle che portavano il nome della signora Brunner e di Phyllis era aggiunta la parola “personale”. Casey esaminò ogni matrice, ma non gli riuscì di trovarne intestate a Lance Gorden. O questi riceveva uno stipendio annuo oppure veniva pagato con gli assegni adibiti alle spese d’ufficio.

Era ormai giunto alle ultime due matrici, quando notò qualcosa di un certo interesse. Gli ultimi assegni scritti da Brunner portavano entrambi la data del suo ultimo giorno di vita. Il primo della somma di cinquemila dollari, era intestato a Phyllis, e nel leggere Casey ebbe un sorriso amaro. La ragazza non aveva certamente comunicato al padre l’uso che intendeva fare di quel denaro. Aveva forse inventato una malinconica favola, dichiarando di essere ridotta al solo visone dell’anno prima, o era davvero tanto facile spillare denaro a Brunner? Prima o poi glielo avrebbe chiesto. Passato all’ultima matrice, vide che rappresentava una strana somma, e cioè milleduecento ottantasette dollari e quaranta cents, pagati personalmente a un certo Carter B. Groot.

Fu la parola “personale” a richiamare la sua attenzione. Una somma di quel genere faceva pensare al saldo di un conto, eppure tutti gli altri assegni erano stati accuratamente specificati. Perché quell’eccezione? Casey riandò con la mente a tutti i nomi che la stampa aveva collegato con Brunner: Petersen, Huntly, Gorden, ma nessun Carter Groot. Forse era una pista, forse no, ma in quel momento non ebbe il tempo di decidere. Oltre la porta dello studio aveva afferrato l’inconfondibile rumore di una chiave infilata nella serratura, e trascorse appena un attimo fra il momento in cui lui spense la luce e quello in cui si apri la porta esterna.