Ai primi di ottobre, Devan riuscì ad avere la sua parte di vetri per le finestre della casetta. Durante il giorno l’aria non dava molto fastidio, ma le notti erano già fresche. Così si diede da fare per avere il vetro, pensando che se questo Illinois del Nord assomigliava all’altro, presto si sarebbero avuti temporali e venti gelidi anche di giorno.
Gli venne annunciato, una domenica pomeriggio, che il suo vetro era pronto e con Betty si recò al negozio di Basher a prenderlo. Betty e lui furono tra gli ultimi nel campo ad avere il vetro, e questo perché Devan non voleva assolutamente approfittare della sua privilegiata situazione, in quanto amico di Orcutt, e per di più c’erano famiglie che ne avevano maggior bisogno di loro, famiglie con gente anziana, bebé e malati, sebbene di questi ultimi ce ne fossero pochissimi. Veramente pochi, pensò Devan, per quanto avessero per ogni evenienza un ospedale che era stato una delle loro prime realizzazioni.
Il primo vetro ottenuto era fragilissimo, verde, quasi opaco e Basher stava cercando di migliorarlo, quando Elmo Hodge, l’astronomo dilettante, seppe dei suoi tentativi e gli diede utilissimi consigli tra i quali come correggere il colore con l’aggiunta di sostanze chimiche che ne avrebbero creato uno complementare, eliminando ogni tinta non desiderata. Sapeva tutto ciò perché, per il suo lavoro intorno ai telescopi, era venuto a contatto con lenti e ottici. Hodge si interessò molto della cosa e si affiancò a Basher aiutandolo a costruire dapprima semplici vetri per finestre, ma progettando però la costruzione di lenti per telescopi, binocoli e microscopi.
— Se ben ricordo — disse Hodge — dovete sostituire il potassio per avere un vetro solido, e un po’ di calcio con del piombo per ottenere il vetro adatto alle lenti. — Si fregò le mani: — Dopo di ciò, potremo dedicarci a diversi tipi di vetro, tra cui il Pyrex e le lenti affumicate. Ci vorrà del tempo, ma ne varrà la pena. — Queste ultime parole Devan, ultimamente, le aveva sentite spessissimo e lui stesso le aveva dette mille volte.
Il vetro che Devan e Betty si portarono a casa era già migliore rispetto al primo: infatti aveva solo una traccia di verde ed era quasi del tutto trasparente. Le finestre erano state costruite in base a una misura standard, adottata dal campo, i vetri fabbricati secondo questa misura, uguale per tutte le finestre, potevano essere inseriti con la massima facilità.
Devan prese ogni precauzione nel sistemarli al loro posto e Betty insisté per aiutarlo e così mentre Devan sparse il mastice tutt’intorno al legno che formava l’intelaiatura della finestra, il compito di Betty fu quello di inserire i vetri nello spazio apposito e di far sì che aderissero perfettamente al mastice. Poi si preoccupò di aggiungere il mastice anche esternamente.
Quando Devan ebbe finito il lavoro alla prima finestra, Betty era solo a metà del suo. Non perché fosse più lenta, ma perché aveva altro da fare per la casa. Così Devan girò intorno al “cottage” e la trovò intenta a curare i suoi fiori.
— Siete il capo? — chiese lei.
— Già. Ci andate un po’ piano col lavoro.
— Se non mi aumentate la paga, certo.
— Avete una ricompensa più che sufficiente.
— Bene, mi dimetto da questo momento.
Betty gli sorrise. Era rimasta sempre la stessa che aveva conosciuto nello stabile della “Rasmussen”. Nonostante il molto lavoro da lei svolto nella Nuova Chicago, l’intensa espressione dei suoi occhi pervinca era quella di allora e sull’occhio cadeva sempre la stessa ciocca ribelle. Betty era abbronzata e certo, Devan decise, era la più bella donna del campo.
Ricambiò il suo sguardo. — A che cosa stavi pensando?
— A te.
— Non lo devi dire se non è vero.
— Non lo direi, se non fosse vero.
Gli sorrise di nuovo con una espressione così meravigliosa che lo costrinse a baciarla.
— Facciamo male, Devan?
— Che cosa? — Devan sapeva quello che Betty intendeva e, come lei non rispose, lui disse a bassa voce: — Non credo che facciamo male.
Tutti e due pensavano ai bambini che avevano lasciato là e di cui non parlavano mai, per non fare riferimento alcuno alle loro precedenti famiglie. Quando parlavano di bambini, lo facevano molto genericamente e vagamente. Ora avevano una ragione di parlarne apertamente, specificatamente.
Tutt’a un tratto, sentirono un insolito trambusto lungo la strada principale, chiamata Orcutt Street, strada che attraversava tutta la città fino al cancello che avevano costruito nei primi giorni, ma che non era mai chiuso.
— C’è qualcuno che urla fuori — disse Betty. — La gente sta uscendo dal cancello.
Capitava così di rado qualcosa, che tutti e due si precipitarono fuori a vedere. Quando si furono avvicinati, Devan e Betty videro un uomo nudo, nel quale riconobbero Eric Sudduth, disteso su una barella rudimentale fatta di canne e rami. Era pallidissimo in volto, il suo respiro era rapido, il suo corpo sudato e ansante, si guardava in giro con occhi sbarrati.
— Datemi una mano — disse Devan, sollevando la barella da un lato. — Portiamolo all’ospedale.
— Lasciatemi morire — urlò Sudduth. — Lasciatemi morire. Dio vuole che io muoia.
Mentre si dirigevano all’ospedale, i portatori della barella si imbatterono in Orcutt. — Cosa succede? — chiese, poi vide l’uomo disteso.
— L’hanno portato sino al cancello e l’hanno lasciato lì — gli spiegarono.
— Lasciatemi morire — ripeté Sudduth. — Dite loro di lasciarmi morire.
All’ospedale, dopo un rapido esame, gli fu riscontrata una appendicite e venne perciò portato subito in sala operatoria. — Pensate un po’: verrà anestetizzato con etere che Renthaler ha ricavato dall’alcool distillato di Costigan.
— Sarebbe molto meglio non farglielo sapere.
— E sarà operato con strumenti fatti di acciaio carbonico, lavorati da Gus Nelson che pure ama bere.
— Di una cosa sono sicura — disse Betty. — Non potrebbe essere in mani migliori di quelle dei due dottori che lo stanno operando.
— Erano interni al “Cook County Hospital” solo sette mesi fa, e non sapevano quali sviluppi avrebbe preso la loro carriera. Ora, hanno in mano la salute di tutta la Nuova Chicago.
Si trovavano al capezzale di Sudduth la notte seguente nel momento in cui riprese conoscenza.
— Andatevene — disse con un fiato ancora carico di etere.
— Non parleremo se non lo volete — disse Devan — e non vi daremo alcun fastidio.
Era una atmosfera lugubre quella della rustica stanza in cui tremolava la luce di una candela. Sudduth stava abbandonato senza forza alcuna e fissava il soffitto con occhi gonfi che spiccavano nel volto devastato.
— Me ne voglio andare — disse finalmente.
— Starete qui tutto il tempo necessario — gli disse Devan.
— Chi siete voi, il dottore?
— Indovinato.
— Quanto devo restare ancora?
— Ancora una settimana, e a letto.
— Il vostro campo è così lontano, Eric — disse Betty — che non potete certo pensare di tornarvi molto presto. Pensate a tutta la strada che c’è.
Sudduth emise una specie di rantolo: — Orvid Blaine mi ha portato qui. E quei cretini di uomini mi hanno trasportato per tutta la strada. Ma Dio voleva che morissi. Perché non mi avete lasciato morire?
— Forse sarebbe stata una buona idea quella di lasciarvi morire. Almeno non avremmo a che fare con una persona così ingrata.
— Il fatto che si lamenti — disse Betty — indica che sta migliorando.
Infatti, durante la convalescenza, Eric Sudduth migliorò sensibilmente. Betty riuscì persino a convincerlo che, dal momento che si trovava all’ospedale, tanto valeva che si lasciasse riparare anche i denti.
Devan era felice di riconoscere che la causa di questo mutamento andava ricercata in Betty, che aveva chiesto di occuparsi di persona di Sudduth avendo compreso che il vecchio aveva bisogno di un po’ di affetto. Così lo andava sempre a trovare, portandogli buone cose da mangiare. Ai primi di novembre, Sudduth stava già decisamente meglio e spesso trascorreva ore e ore nella veranda, sulla sedia a sdraio, con un buon sigaro in bocca, contento di parlare con tutti quelli che lo andavano a trovare.
Ma la seconda settimana di novembre, a detta di Betty, le cose cambiarono.
— Eric guarda di traverso la gente — raccontò Betty a Devan — di notte non dorme bene, me lo ha detto l’infermiera.
La terza settimana dichiarò che voleva tornare dalla sua gente. Betty pregò Devan di andare da lui e di parlargli.
Devan lo trovò seduto nella veranda con un’aria preoccupata.
— È il mio dovere — spiegò a Devan, dopo che questi gli ebbe parlato in proposito. — Dio vuole che torni dalla mia gente.
— Ma quella vita non fa per voi — rispose Devan. — Non siete ancora guarito completamente.
— Non sono mai stato così in gamba — disse Sudduth, percuotendosi il petto, il che però, con suo visibile imbarazzo, lo fece tossire. — Comunque, ho deciso di andarmene.
— Fuori sta venendo l’inverno e, per giunta, un inverno molto rigido. Siete sicuro di desiderare veramente di andarvene?
— Quello che io desidero non ha importanza. Devo fare il mio dovere. Questo è tutto. — Guardò fuori dalle finestre le foglie che cadevano e: — Dio mi darà la forza.
— Ne avrete bisogno.
— Domani parto. Fatelo sapere per favore ai dottori e alle infermiere.
Il giorno dopo Devan gli portò all’ospedale una scatola di sigari e gli disse che lo avrebbe accompagnato fino all’uscita della città.
Quando furono fuori dall’ospedale, un vento gelato li accolse e furono obbligati a stringere bene i mantelli addosso.
Giunti al cancello, Sudduth porse a Devan il suo mantello e Devan fu sbalordito di vedere che sotto era completamente nudo.
— Non fate lo sciocco! — gli urlò. — Morirete di freddo!
— Non voglio che la mia gente si lamenti di una simile ingiustizia!
Quindi si allontanò, grottesca figura con una scatola di sigari sotto il braccio, procedendo a piedi nudi sul terreno.
Devan sapeva che non si sarebbe allontanato di molto. Infatti dopo un po’ lo vide ritornare. Era paonazzo per il freddo.
— Non sono più abituato a camminare — disse — ritenterò un’altra volta.
Devan gli tese il mantello e insieme ritornarono all’ospedale, dove Devan si affrettò a fargli bere qualcosa.
Per un po’ l’uomo fu scosso dai brividi, poi sollevando un braccio: — La mia scatola, per favore — disse, indicando la scatola di sigari — ho bisogno di un sigaro.