Devan procedeva sul selciato, svelto, energico, sentendo con piacere il sottile venticello notturno che proveniva dal lago. Vide la parte superiore dell’Ago II che emergeva dalla costruzione in legno e tra sé le disse: “Dieci anni della mia vita, dieci anni di cui non saprò il valore sin che non saprò se tu funzioni”.

Rise al pensiero che dapprincipio avevano creduto di poter ricostruire l’Ago in pochi anni, cinque al massimo.

L’impresa si era invece rivelata molto più difficile, sia per la ricerca delle materie prime, sia per l’arrovellato studio fatto intorno ad alcuni processi di cui non avevano le formule esatte e che nessuno ricordava alla Nuova Chicago.

A un certo punto era sembrato che l’Ago non avrebbe mai potuto diventare realtà e, ora che lo era, sorgeva una nuova pressante questione: avrebbero potuto tornare a Chicago? La risposta gli sarebbe stata data all’indomani notte.

— Quel dannato Ago! — Quante volte la gente aveva pronunciato queste parole in quei dieci anni! E questo perché l’Ago, a poco a poco, assorbiva tutte le nuove risorse della città, fili, tubazioni e altri accessori necessari alla costruzione della macchina, oltre alla mano d’opera del personale più specializzato, che aveva dovuto abbandonare il lavoro accanto a motori, refrigeratori, impianti ausiliari utili per la città, al fine di dedicarsi a questo mostro eternamente insoddisfatto.

C’erano altri problemi. Nel caso che si fosse riusciti ad arrivare a Chicago, quale sarebbe stata la reazione di quei cittadini nel trovarsi di fronte, sbucati da non si sa dove, uomini completamene nudi?

Immerso sempre nei suoi pensieri, salì i gradini di legno della costruzione che ospitava l’Ago II. Che differenza nell’illuminazione modesta di questo loro laboratorio con la dovizia di luce che regnava alla “Rasmussen Stove Company”!

Del resto tutto l’ambiente era nettamente inferiore e per qualità e per dimensioni. Tutto era stato sacrificato per dar vita alla macchina, che era essa pure un po’ in scala ridotta rispetto alla prima, ma non tanto piccola da non permettere il passaggio delle persone.

Il dottor Costigan lavorava intorno allo strumento toccando qua e là. — Ancora al lavoro? — gli chiese Devan, sedendosi in disparte a osservarlo mentre manovrava alcuni fili collegati a una delle cassettine, la cui funzione era importantissima agli effetti del funzionamento. Nonostante fossero passati tanti anni, Costigan non aveva rivelato il segreto di quelle parti che lui stesso, come l’altra volta, aveva eseguito.

— Ho sistemato tutti i circuiti. Sono a posto, tranne un collegamento da completare.

Costigan era rimasto quello di dieci anni prima, si disse Devan, forse solo un pochino più pesante, ma per il resto assolutamente uguale.

— Pensate che si potrebbe provarlo stanotte?

Il dottore si girò lentamente. — Certamente. Il collaudo generale è per domani notte, però. Ma se credete, possiamo fare una prova di controllo.

— Ma abbiamo fatto già tanti di quei controlli. Con l’Ago piccolo, voglio dire. E già sappiamo che dall’altra parte non fa più caldo né più freddo di così e che la superficie è dura e cede solo leggermente.

— Lo so. Ma può darsi che si tratti del tappeto di qualche stanza di soggiorno o dell’asfalto di una strada. Ò un cortile in cui dei ragazzini giochino a baseball. Lo vedremo comunque domani definitivamente.

— Potremmo vederlo stasera.

— E chi si offrirebbe per la prova? Chi entrerebbe? — Il dottore si volse subito verso Devan.

— Io potrei farlo.

— Voi? — Il dottore rimase a bocca aperta. — Oh, non voi, Devan!

Devan rise. — So quello che pensate. Ma ci ho riflettuto bene. — Fissò l’Ago illuminato da tutti e due i lati, molto più piccolo del primo, ma con aspetto altrettanto efficiente. — Per lo meno non ci si cadrà dentro. La gente dovrà fare una certa fatica per entrarci.

— Anch’io ci ho pensato — disse il dottore brevemente. — Non lo volevo dire ma vedete, questa volta non abbiamo fatto nemmeno la prova con il coniglio. Solo con le nostre mani. E io ho ormai troppe capsule in bocca per provare a infilarci la testa.

Devan accese una sigaretta e si avvicinò al dottore. — Mi domando se ci porterà a Chicago. E se non fosse Chicago, ma qualche altro luogo simile a questo? O magari diverso?

— È possibile — disse il dottore. — Non voglio negarlo.

— Ma non ci pensate?

Devan quasi gli stritolò il braccio nell’angoscia di questo interrogativo.

Il dottore glielo fece notare e poi aggiunse che avrebbe acceso un momento la macchina per dare una guardatina.

Il cuore di Devan batteva all’impazzata. Stava combattendo una lotta interna, diviso tra il desiderio e il dubbio di fare una scoperta che facesse crollare tutti i loro calcoli di tanti anni.

— Mettete in marcia la macchina — disse infine — daremo un’occhiata.

Il dottore fece di no col capo. — Le vostre capsule. Le perderete tutte di nuovo.

— Non ha importanza — disse Devan — la prova generale è comunque domani e perderle oggi o domani è la stessa cosa.

— Visto che siete deciso, sarete prudente, vero? — gli chiese il dottore, attenuando il consiglio con un sorriso.

Mezz’ora dopo, il dottor Costigan premette il pulsante principale che dava luce ai tubi e li metteva in moto. Con Devan controllò importanti parti con un voltametro e prese alcune annotazioni.

Devan infilò la sua mano nell’Ago e con soddisfazione notò che spariva. — Funziona magnificamente.

— Siete sempre sicuro di volerlo, Dev? — chiese Costigan con la voce resa acuta dalla preoccupazione. — Cosa accadrà se non tornerete?

— Tornerò. — Spinse la sua mano nella parte inferiore dell’Ago e sentì la dura superficie poco al di sotto dell’apertura. Poi si sedette sul bordo dell’Ago e il suo piede vi sparì. Sentì sotto della terra. Guardò il dottore e lo salutò.

— Buona fortuna — gli disse Costigan.

Devan scivolò dentro.

Vide grosse nuvole che si accalcavano nel cielo in un mondo di pietra e di erba. Sopra la luna, alta e lucente, la cui luce faceva risaltare colline rocciose e cespugli uno dietro l’altro.

Non faceva freddo, ma Devan rabbrividiva all’aria che pareva sospingerlo un poco.

“Questa non è Chicago”.

Aveva cercato di essere preparato all’eventualità, ma ciononostante la scoperta lo annientò: “Non è Chicago”.

Non c’era segno di vita all’intorno.

Si chinò e toccò la roccia. Era dura, ma non tanto da non cedere un pochino. Non si fidò di allontanarsi da lì per non perdere di vista l’Occhio nel quale avrebbe potuto infilarsi in fretta, qualora fosse successo qualcosa.

Gridò. La sua voce fu portata via dal vento e nessuno gli rispose. Nulla si muoveva; solo il vento che agitava un poco l’erba. Non era alcun luogo che lui conoscesse.

Dieci anni di lavoro perduto. Ora si sarebbe dovuto cercare di correggere o di rifare tutto. Guardò ancora per un momento il luogo deserto, poi retrocesse. Il dottor Costigan era là, in attesa. La stanza illuminata gli parve, per contrasto, allegra.

— Ebbene? — Gli occhi del dottore erano ansiosi.

— Non è Chicago — Devan disse. — Solo una landa deserta e sassosa. Credo che non ci sia nulla. Almeno da quanto ho potuto vedere.

Il dottore lo guardò a lungo, prima di fermare la macchina. — Raccogliete le vostre capsule.

Devan si curvò e nello stesso tempo sentì le cavità nei denti toccandole con la lingua. Quando le ebbe raccolte, il dottore gli porse un bicchiere.

— Beviamo — disse il dottore. — Beviamo per commemorare ciò che voi probabilmente considerate dieci anni di lavoro sprecati.

— Non dico nulla — rispose Devan, lasciando che il dottore gli riempisse di vino il bicchiere. — Abbiamo l’Ago per fare altre prove. Possiamo trovare qualche altra via.

Il dottore scosse il capo con gravità. — Non ci sono altre vie.

Devan lo guardò acutamente. — Nessun altro mezzo? Cosa volete dire?

— Esattamente ciò che ho detto. Non possiamo farci niente.

— Possiamo invertire la polarità e vedere cosa succede. È già una cosa.

— Ma non potrà servire a niente.

— E perché?

— Lo feci con il primo Ago — disse Costigan, guardando nel suo bicchiere semivuoto. — Per caso cambiai la polarità e ciò non portò a nessun cambiamento. Infatti Basher ci entrò quando essa era in un senso, e il poliziotto quando era nell’altro. E tutti e due finirono qui.

Devan sentì di aver bisogno di un altro bicchiere, e si versò ancora da bere. Il dottore lo imitò.

— No, Devan, credo che non torneremo più a Chicago. Potremmo ora andare in un altro universo e poi in un altro ancora, sempre diverso, passando dall’Ago, e quindi siamo fortunati di esserci stabiliti qui.

— Penso — disse Devan — che se, come voi dite, noi ci mettessimo a peregrinare da un universo all’altro, alla fine troveremo quello da cui proveniamo.

— È solo una supposizione. E poi dovremmo passare attraverso un numero infinito di questi universi.

Devan finì di bere e osservò: — E poi non potreste mai più fabbricare un altro Ago dall’altra parte. A meno di farlo di rocce e d’erba.

— Sono solo un vecchio scienziato — rispose pensosamente Costigan. — Quando venimmo qui, avevamo tutti terribilmente bisogno di un motivo che ci tenesse uniti. E Orcutt ci diede il tesoro e la sua organizzazione. E io diedi la speranza del ritorno con questa macchina. Era semplice dire “inverti la polarità e il resto verrà da sé”. Ma in realtà nemmeno allora io ero sicuro che saremmo riusciti a tornare.

— Maledizione!

— Berrò ancora, non posso farne ameno — disse il dottore. — Il pensiero che mi ha perseguitato per dieci anni, e che non ho mai confidato a nessuno, si è purtroppo avverato e davanti a questa rivelazione è necessario un po’ di conforto, e dove lo trovo, se non nell’alcool?