Edmund Orcutt aveva avuto torto. Anziché in mezz’ora, la richiesta di fondi per il progetto del dottor Costigan fu approvata dal Consiglio direttivo della “Inland Electronic” in ventotto minuti, e molto del successo fu dovuto alla sua presentazione. Spiegò che il denaro doveva servire per ricerche nel campo fisico, si accalorò nell’enumerare le possibilità, per ora ipotetiche, del progetto, pur sottolineando a ciascun membro l’importanza che queste possibilità avrebbero avuto.

Il Consiglio si era lasciato suggestionare così facilmente che Devan comprese ora come un gruppetto di uomini potesse a volte rovinare una grossa organizzazione. Eppure i membri del Consiglio avevano tutte le ragioni di aver fiducia nel Comitato esecutivo, il quale non era mai venuto meno alle loro aspettative. Proprio per questa stessa ragione, ogni anno gli azionisti eleggevano le stesse persone, per questo e per i grossi assegni di dividendo. Ma Devan si chiedeva che cosa avrebbe fatto il Consiglio se avesse cercato di spiegare “esattamente” a che cosa serviva il denaro. Certo non si può andare a spiegare a persone sensate che si vuole infilare un uomo in un tubo che vale un milione di dollari e pretendere di essere capiti.

Nell’ufficio di Orcutt c’era da bere per tutti i componenti del Comitato esecutivo. Persino Tooksberry, sempre imbronciato, prese un bicchiere e si rilassò un momento. Devan si eclissò dopo aver bevuto due bicchieri e il dottor Costigan, che era già al quarto, gli strinse la mano con calore, mentre Sam Otto, al quale Devan riuscì a sfuggire, stava parlando a vanvera.

Nel suo ufficio, Devan disse a Beatrice Treat di andare a casa a preparare le valigie per il suo viaggio in astronave. Poi tirò fuori una bottiglia di gin e si preparò un drink che centellinò soddisfatto in completa solitudine.

Poteva tornare in Florida, si disse, con Beverly e i piccoli; sapeva di doverci tornare, ma l’idea del tubo e di ciò che sarebbe accaduto lo affascinava molto di più. Era preso dal brivido del “nuovo” e dall’idea che zone sconosciute alla mente umana stessero per essere scoperte da un fisico relativamente poco noto, un certo dottor Winfield Costigan.

Prese il ricevitore e chiese un’interurbana. In pochi minuti parlò con sua moglie.

— Che cosa succede, Dev? — gli chiese lei. — È qualcosa di veramente grave, come ha detto la Treat? Non ho fatto che aspettare, facendo mille ipotesi.

— La crisi è scongiurata — ripose Dev — tutto è a posto, sistemato.

— Allora torni?

Devan tossì. — Be’, non subito. Io…

— Allora “non” è tutto a posto!

— Ascolta, Beverly, c’è un nuovo progetto in aria. Una cosa grandiosa, assolutamente fuori del comune. Voglio aspettare un po’ per vedere come si mette la faccenda. Penso che sarà questione di pochi giorni, di una settimana. Poi piglierò l’aereo.

— Oh, Dev! — La voce si spezzò un momento. — Sono così sola da quando sei partito. Non conosco nessuno qui. Non so nulla senza di te!

Devan immaginava i suoi occhi azzurri pieni di lacrime, e ciò lo commuoveva.

— Ma i bambini! — obiettò debolmente.

— Anche loro sentono moltissimo la tua mancanza.

— E io la loro — disse in fretta — ma non starò via tutto l’inverno. C’è bisogno di me, qui. per un po’.

— E credi che non ce ne sia altrettanto bisogno qui, Dev?

— Vorresti ritornare con i bambini? — e il tono della sua voce era aspro.

— Sai benissimo che non sarebbe un bene far loro interrompere la scuola.

— No certo, Beverly, sarà questione di pochi giorni e poi verrò.

La sentiva piangere e mentre da un lato ciò lo inteneriva e lo faceva sentire colpevole per il suo mancato ritorno, dall’altro non poteva fare a meno di irritarsi per quelle lacrime che volevano essere un’arma di costrizione nei suoi riguardi.

— Beverly… sei sempre lì?

— Sì — essa singhiozzò — e tu sei sempre lì?

— Smettila di fare la bambina e ascoltami — gridò. — Mi fermerò qui il meno possibile e poi prenderò un aereo. Tra una settimana al massimo. Mi senti?

— Va bene. Ma presto, per favore.

Devan si fermò davanti allo stabile della “Rasmussen Stove Company” e notò che c’erano ancora molti lavori da fare, per almeno due mesi buoni.

A chi l’avesse osservato superficialmente, lo stabile poteva apparire tale e quale era stato negli ultimi vent’anni. Ma Devan sapeva che a un attento osservatore non sarebbero sfuggiti certi cambiamenti. Intanto i vecchi vetri erano stati tutti sostituiti con vetri smerigliati, e poi c’erano state altre modifiche.

Immaginava però che i vicini avessero assistito con molta curiosità a tali cambiamenti, tanto più che essi erano stati tutti apportati in sei giorni. I lavori dovevano essere stati febbrili, con carriole piene di calce che si alternavano all’ingresso secondario a intervalli regolari e gli operai avanti e indietro tre volte al giorno, mentre il fumo usciva ininterrottamente dal fumaiolo.

Per i lavoratori del Loop e gli abitanti del rione, lo stabile era ovviamente occupato di nuovo. E chi avrebbe potuto immaginare l’esistenza di un’altra costruzione in quella già esistente? E anche se lo avessero potuto immaginare, avrebbero forse potuto indovinare la ragione?

All’interno infatti era sorta una nuova costruzione, completamente rinforzata. Di questo era sicuro. I vecchi muri di mattoni all’esterno non erano che il guscio, la mimetizzazione dello stabile interno che era più piccolo di venti metri per ogni lato. Ma i vecchi piani che stavano tra la vecchia costruzione e i muri esterni erano stati conservati, altrimenti il guscio non avrebbe resistito: i piani formavano quindi un corridoio intorno al perimetro della casa.

Ci dovevano essere ancora un sacco di cose da finire, ma non aveva avuto modo di sapere come i lavori procedessero. Le lettere di Orcutt erano state troppo generali e le sue spiegazioni al telefono troppo controllate per essere chiare. Aveva desiderato ardentemente di tornare, per poter rendersi meglio conto.

Si calcò bene il cappello contro il vento insistente di marzo, attraversò la strada ed entrò nel palazzo.

— Signor Traylor! — Allo sportello delle informazioni c’era una ragazza di cui non ricordava bene il nome, che si alzò e gli sorrise. Osservò che il muro interno era disseminato di pannelli e che l’area esistente fra questo e la facciata dello stabile era occupata da diversi tavoli messi un po’ a caso.

— Siete il signor Traylor, vero?

— Già. — Le ricambiò il sorriso e oltrepassò il cancelletto divisorio. — Come va?

— Tutto bene — ma appariva un po’ a disagio. — Scusatemi ma debbo accertare la vostra identità.

— Naturalmente — disse Devan e tolse dal portafogli la patente. — Non mi ricordo come vi chiamate.

— Sono Dorothy Janssen — rispose la ragazza, prendendo la licenza di Devan con mani tremanti.

— Stavate nella parte est dell’impianto, no?

— Sì — essa rispose e apparve più sollevata dopo avergli reso il documento con un magnifico sorriso.

— Grazie, signor Traylor.

— E mi raccomando, continuate ad accertarvi dell’identità di quelli che entrano.

Indisturbato, oltrepassò poi la porta che conduceva a un corridoio della lunghezza dello stabile. A destra c’era il muro della vecchia costruzione, a sinistra la parete di cemento della costruzione interna.

Sul dietro c’erano le stesse scale che aveva salito con Orcutt per arrivare alla baracca di legno del secondo piano, baracca che ora non c’era più, sostituita da una stanza molto più grande.

Devan girò a sinistra e, attraversando il vecchio pavimento di legno, si diresse a una porta praticata sul muro interno. Lì vicino ci doveva essere un’entrata molto grande per il passaggio di mezzi di qualsiasi dimensione.

Premette un bottone rosso nel muro. La porta si aprì quasi subito e si trovò in un piccolo locale dalla luce bassa, mentre alle sue spalle la porta si richiuse con uno scatto metallico.

Fu interpellato da un apposito addetto che si affacciò al banco, dicendosi già informato del suo arrivo dalla signorina Janssen; gli consegnò un contrassegno da sistemare dietro il risvolto della giacca. Devan stupito riconobbe una sua vecchia foto e si chiese dove diavolo l’avessero pescata. Firmò poi il registro nella colonna che gli venne indicata e notò che, vicino a quella, ce n’era un’altra nella quale si doveva riportare l’ora di uscita dallo stabile interno.

L’agente addetto premette un altro bottone e così poté passare nell’enorme locale adibito a laboratorio. Notò come i lavori fossero stati condotti con grande alacrità e precisione. Molti strumenti erano in funzione e i loro rumori si fondevano in un assordante concerto di martelli, trapani e cento altre voci che non riusciva a distinguere. Nel centro della stanza troneggiava una impalcatura quasi completa, sulla quale venivano già montati i primi pezzi del gigantesco tubo di Costigan.

Alcuni operai stavano disponendo lungo i muri alla sua destra i pannelli di controllo, mentre a sinistra si staccavano dalla parete i box di cemento che costituivano gli uffici di ricerca. Su tutto dominava il vasto progetto che non rivelava, all’aspetto, la sua vera natura.

Si diresse verso gli uffici a sinistra dove, in fondo, ci doveva essere l’ufficio di Costigan. Vide facce nuove, in giro. A tratti qualcuno riconoscendolo lo salutava con la mano.

Entrato nell’ufficio di Costigan, completamente isolato dai rumori dell’esterno, notò con stupore che il dottore era assente.

— Il dottor Costigan non c’è. — Chi aveva parlato era una ragazza che sino a quel momento era stata china sul tavolo da disegno, manovrando un tiralinee in su e in giù. Con un gesto tipicamente femminile spostò una ciocca di capelli da un occhio. — Posso fare qualcosa per voi? — Era la prima volta che la vedeva e Devan si sorprese a fissare con vivo interesse i suoi occhi azzurri che lo osservavano, affascinato dal gesto pieno di grazia col quale si era ricacciata indietro i capelli ribelli. Poteva avere venticinque anni. La piccola testa aveva capelli neri lunghi sino alle spalle: sopra il vestito portava un camiciotto da pittore.

— È via da molto? — chiese Devan.

— Non tanto. Desiderate aspettarlo? — Lo esaminò con curiosità.

— Sentite — disse Devan — mi chiamo Devan Traylor. Arrivo in questo momento dalla Florida per vedere a che punto è il progetto. Credevo di trovare il dottor Costigan nel suo ufficio. Dove può essere?

— Ma… — Evidentemente non voleva parlare. — Non è lontano di qui. Lo posso rintracciare se si tratta di una cosa importante. Vi chiamate Traylor, vero?

— Sì. Ma prima di uscire, vi spiacerebbe dirmi dove si trova?

— Mi spiace, ma non posso.

Non insistette e ne osservò intanto i preparativi rapidi per uscire dall’ufficio, che consistettero nel togliersi il camiciotto e infilare un “cardigan”. Veramente attraente con quel golfino. “Chi può essere?” si chiese di nuovo.

La ragazza uscì, sorridendogli e assicurandogli che sarebbe tornata subito.

Devan fu tentato di seguirne i movimenti, ma si trattenne. Sperava solo vivamente che non fosse andata a. telefonare in qualche altro ufficio per scovare il dottore, magari, in una taverna. Rientrò dopo pochi istanti.

— Viene subito — disse. — Sarà questione di qualche minuto.

— Viene da lontano? — chiese Devan.

— Non proprio.

— Non parlate molto, direi.

— Dipende.

— Ottima cosa.

— Che cosa?

— Parlare solo all’occorrenza e non fuori luogo. Come vi chiamate?

— Betty Peredge.

— A quanto pare lavorate per il dottor Costigan.

— Infatti. Sono qui da un mese.

— Mai lavorato per la “Inland”, prima?

— No, sono venuta al posto della signora Tudor che lavorava per il dottor Costigan prima di me, ora è ammalata. Fu proprio per coincidenza che sia capitato a me di avere questo posto.

Devan aveva intanto notato due piante sulla finestra. Una aveva lunghe foglie strette orlate di giallo e l’altra era una pianta di violette, dalle foglie insolitamente carnose e dai fiori veramente stupendi.

— Sono vostre quelle piante o della signora Tudor? Immagino che non siano del dottor Costigan.

— Sono mie, infatti. Mi piacciono e il dottor Costigan mi ha permesso di tenerle qui. Quella fiorita è una qualità di violetta africana, l’altra ha strani nomi come “pianta del serpente” e “lingua della suocera”, oltre naturalmente quello botanico.

— Che cosa pensate del progetto, signorina Peredge?

Chiuse con il tappo la bottiglietta dell’inchiostro e si volse divertita verso di lui. — Sono piuttosto attaccata all’“Ago di Costigan”.

— L’Ago di Costigan?

— Be’ — rispose la ragazza — dovete ammettere che assomiglia stranamente a un ago con la cruna in fondo.

Infatti, a pensarci bene, ammise Devan, nonostante le enormi proporzioni, assomigliava veramente a un ago dalla cruna individuabile nella grossa cavità praticata alla base.

— E chi gli ha dato questo nome?

— Non lo so, ma non l’ho sentito chiamare con nessun altro nome. Anche il dottor Costigan lo chiama così, adesso.

— Siete la sua segretaria o qualcosa del genere?

— In un certo senso sì. Il mio lavoro consiste nel ricavare dai suoi schizzi disegni schematici che servono agli elettricisti per seguire il loro lavoro.

Mentre la ragazza si rimetteva al lavoro, Devan si avvicinò al tavolo di Costigan e ne esaminò con curiosità le carte. In cima c’erano diversi disegni di circuiti che lui stesso aveva senz’altro tracciato. Ne prese tre e li esaminò uno alla volta.

Si trattava di tre differenti sistemazioni di un circuito, importanti molto probabilmente tutte e tre, formati con molte parti unite insieme: lastre di solenoide, interruttori automatici, batterie, ecc.

Si sedette, concentrandosi sullo svolgimento di alcuni fili nel disegno in alto, fili che proseguivano sino al termine della pagina dove erano segnate le parole “alla cassetta N. 6”.

Invano cercò un diagramma con questo nome o qualunque altro disegno che vi facesse riferimento.

— Sentite, signorina Peredge — disse, indicando il disegno in alto. — Tutti questi fili vanno a una “cassetta N. 6”, ma non ne trovo il disegno. O forse è quello che state facendo?

La donna scosse il capo. — No, non lo sto facendo. Ma in quasi tutti i disegni i fili vanno a una cassetta — e lo mostrò sugli altri disegni. — Da quando sono qui non ho mai fatto disegni di “cassette”. — Si interruppe un momento: — Un’altra cosa — disse. — Sono la signora Peredge.

— Mi spiace.

Lei lo guardò seccata e Devan lasciò che attribuisse alle sue parole il significato che preferiva.

— Sapete a che cosa serve l’Ago?

— Gesù, no! Ma ho sentito che la gente ne parlava. Chi dice che si tratta di un proiettile radiocomandato e chi è in dubbio. Voi lo sapete?

— Non mi sembra che potrebbe essere un proiettile radiocomandato. Sarebbe sproporzionato dare tanta importanza e fare tanti preparativi per uno solo di questi proiettili. Io penso che abbia qualcosa a che fare con le ricerche atomiche, considerando tutto il segreto in cui si svolgono i lavori e le precauzioni prese per la sorveglianza dello stabile. Forse è un ciclotrone verticale. Di solito i ciclotroni sono rotondi e piatti, no? Ma forse vi sto divertendo con le mie ipotesi. Mi sono almeno avvicinato?

Improvvisamente si aprì la porta e un’ondata di suoni penetrò dall’esterno.

— Signor Traylor! — Il dottor Costigan gli strinse con effusione la mano. — Quando siete tornato?

— Proprio oggi.

— Che bella sorpresa. Mi era sembrato di sentire la signora Peredge annunciare che eravate qui, ma non ne ero ben sicuro. Non è possibile capire bene attraverso quella porta così spessa. Come vanno le cose in Florida? — Sistemò due sedie pieghevoli e continuò: — Sedetevi.

— Tutto bene, dottore. E qui come va?

— Come vedete, andiamo benissimo, siamo anzi in anticipo sul previsto. Un paio di settimane e tutto sarà a posto.

— Ne sono lieto.

— Mi chiedevo quando sareste tornato. Non volevate perdere il collaudo, vero? E starete qui per un po’?

— Credo che non me ne potranno staccare. Non ho fatto che pensarci in Florida.

— È il pensiero dominante di noi tutti.

— Ma dov’è Sam?

— Gli abbiamo affidato l’incarico degli acquisti, è molto in gamba. Riesce, non si sa come, a procurarsi materiale notoriamente introvabile. Adesso è fuori per questo.

— E Orcutt?

— Sempre in giro. Con Basher, Holcombe, Tooksberry, e…

— Tooksberry? Viene qui a curiosare?

— Pur non apprezzando ciò che stiamo facendo, viene anche lui ogni tanto. Non andiamo molto d’accordo lui e io!

— Neanch’io — aggiunse Devan e poi espresse al dottore la sua curiosità sulla porta che aveva nominata poco prima. — È la porta del mio laboratorio personale — rispose il dottore. — È in fondo al lato degli uffici, che sono stati costruiti tutti un po’ più stretti per far spazio a questa mia stanza.

— Non capisco, dottore: personale, avete detto? Ma non vi basta l’intero stabile per le vostre ricerche?

Il dottore apparve leggermente imbarazzato: — Vedete, ci sono diverse cassettine da costruire per l’Ago. Ne sono parti vitali e per me è estremamente importante che la loro costruzione rimanga segreta. Per questo le sto costruendo io stesso.

— Così la cassetta N. 6 è una di quelle alle quali state lavorando?

— Già, ce ne saranno dieci.

— Ma tutte le parti che avete indicato nel progetto, servono veramente per il funzionamento dell’Ago?

Il dottore sorrise: — Alcune sì e alcune no. Solo quelle che servono sono collegate al meccanismo funzionante. Le altre costituiscono una precauzione in più.

— Divertente, davvero; e così in due settimane sarà tutto pronto?

Costigan guardò Betty Peredge che comprese al volo il suo significato.

— So quando non sono desiderata — disse sorridendo, preparandosi rapidamente per uscire.

“Veramente attraente” pensò Devan “non una bellezza perfetta, ma così piena di vita, così incantevole, nel sorriso…” Si ricordò dopo tutto di essere sposato e cercò quindi di distogliere il suo pensiero dal golfino azzurro.

— Dicevo delle due settimane — riprese Devan, volgendosi al dottore.

— Già, ma c’è un problema — il dottore gli rispose, facendoglisi più appresso.

— Che problema?

— Evidentemente nessuno ha pensato a chi entrerà nell’Occhio dell’Ago. Ci avete riflettuto?