Le nebbie striscianti di Venere si addensavano in un fitto strato giallo sui portelli delle stive. Quando Raven entrò nella cabina principale per osservare lo schermo radar, una linea luminosa seghettata segnava la gigantesca catena delle Sawtooths Mountains. Dietro, fino alle grandi lussureggianti pianure dove l’uomo aveva stabilito il più forte caposaldo, si stendevano digradanti le foreste pluviali.

Una vibrazione costante scosse il Fantôme durante tutta la manovra più difficile, quella della decelerazione del gigante progettato per velocità incredibile. Non era una cosa semplice. Non lo era mai.

In basso, profondamente nascosti dal verde delle foreste giacevano quattro cilindri contorti di vecchie astronavi. In quel momento i piloti del Fantóme si preoccupavano unicamente di non far salire il numero a cinque.

Anche i passeggeri sapevano che quello era il momento più critico del viaggio. Gli accaniti giocatori di carte si fecero tesi e silenziosi, le discussioni terminarono e i bevitori di tambar divennero improvvisamente sobrii.

Tutti gli occhi erano intenti a osservare sullo schermo radar i denti di roccia che ingigantivano per poi sparire dietro lo scafo in fase di discesa.

Dagli altoparlanti giungeva la voce monotona di un ufficiale che si trovava nella cabina di pilotaggio.

— Quarantaduemila, quarantamila, trentaseimila…

Senza partecipare all’ansietà generale, Raven osservò lo schermo in attesa del momento opportuno. Le catene di montagne sorpassarono il centro dello schermo, scivolarono verso il basso e scomparvero. Qualcuno sospirò di sollievo.

Apparve l’estremità ovale della grande pianura, che a poco a poco diventò più chiara, più dettagliata. E comparvero i grandi fiumi, le vibrazioni dello scafo si fecero violente sotto lo sforzo di controbilanciare la forza di gravità del pianeta.

— Seimila. Cinquemilacinquecento…

Raven abbandonò il suo posto e uscì dalla cabina. Alcuni lo guardarono sorpresi per l’insolito comportamento.

Camminando in fretta lungo un corridoio metallico, raggiunse il portello anteriore. Quello era il momento migliore. L’equipaggio aveva il suo da fare, e tutte le menti erano occupate in tutt’altro. I passeggeri, invece, si preoccupavano per la salvezza della loro pelle.

Per quanto abituato al grande senso di autoconservazione degli esseri umani, Raven trovò la cosa divertente. Essere in apprensione, per quanto li riguardava, era un caso di totale ignoranza. Se fossero stati meglio informati…

Nel manovrare la porta automatica sorrise tra sé. Poi entrò nella camera stagna e richiuse il portello. Quell’azione avrebbe fatto accendere una lampadina rossa nella cabina di pilotaggio e avrebbe fatto squillare un campanello di allarme. Qualcuno sarebbe accorso per vedere chi era il pazzo che si divertiva con le uscite in quel momento delicato dell’atterraggio. Ma non aveva importanza. Il furente ufficiale sarebbe arrivato con almeno mezzo minuto di ritardo.

Il piccolo altoparlante della camera stagna, sintonizzato con la cabina di pilotaggio, continuava a dare informazioni.

— Quattromiladuecento, quattromila, tremilaseicento…

Raven manovrò rapidamente la leva del portello esterno, e lo spalancò. Non il minimo soffio d’aria uscì dallo scafo. Fu anzi l’atmosfera del pianeta a entrare, con il suo calore, la sua umidità e il forte odore della vegetazione.

Qualcuno cominciò a battere con violenza contro il portello interno, con il rabbioso vigore dell’autorità sfidata. In quello stesso momento dall’altoparlante giunse uno scatto, e una nuova voce cominciò a gridare: — Voi, nel Compartimento Quattro, chiudete il portello esterno e aprite quello interno. Vi avvertiamo: la manovra dei portelli da parte di personale non autorizzato comporta la pena di…

Raven fece uno scherzoso gesto di saluto all’altoparlante e saltò dallo scafo. Cadde a testa in avanti nell’aria umida e cominciò a rotolare su se stesso. Un attimo dopo, il Fantôme era un cilindro nero che volava alto sopra di lui, mentre un mondo di piante e di fiumi gli correva incontro.

Se qualcuno dall’astronave fosse stato tanto pronto da afferrare un binocolo per osservare la figura allargata nell’aria, che rotolava in caduta apparentemente incontrollata, avrebbe avuto qualcosa di strano cui pensare. Di solito, soltanto due tipi di persone saltavano da un’astronave in volo: i suicidi e i levitanti che volevano fuggire. Questi ultimi usavano le loro capacità extranormali per discendere a velocità di sicurezza. Soltanto i suicidi cadevano come pietre. Due tipi di persone saltavano da una astronave in corsa… e non era concepibile che ci fossero esseri che non erano esattamente persone.

La caduta durò più a lungo di quanto sarebbe durata sulla Terra. Una persona cade con accelerazione regolare finché non viene frenata dall’aumento della pressione atmosferica, e lì, la densa atmosfera del pianeta si accumulò contro il corpo in movimento.

Quando Raven fu a cento metri dalla cima degli alberi, il Fantôme era ormai ridotto alle dimensioni di una matita e stava iniziando l’ultima fase dell’atterraggio. Era impossibile che da bordo lo potessero vedere. In quel momento Raven rallentò la velocità di caduta.

La frenata fu un curioso fenomeno, senza niente in comune con i contorcimenti di volo e gli sforzi mentali che compivano i levitanti. Il rallentamento avvenne con regolarità, in modo naturale, come quando un ragno cambia improvvisamente idea e riduce di colpo l’emissione del filo.

All’altezza delle piante, a circa cento metri dal suolo, Raven scese come sospeso a un paracadute invisibile. In mezzo agli enormi rami, grossi quanto il tronco di un vecchio albero terrestre, cominciò a volteggiare come una foglia. Toccò il suolo lasciando soltanto una leggera impronta di tacchi sul terriccio.

Era disceso a poco più di un chilometro dal limite della grande pianura. Lì le gigantesche piante crescevano più distanziate l’una dall’altra, lasciando filtrare raggi di luce simili a quelli che piovono dalle vetrate di una cattedrale. Cinquanta o sessanta chilometri a ovest cominciava la vera giungla venusiana, con tutta la moltitudine di feroci creature da incubo, che solo ultimamente avevano imparato a mantenersi debitamente lontane dall’ancora più pericolosa creatura chiamata Uomo.

Raven non era affatto preoccupato dalla possibilità di veder comparire un solitario esemplare di qualcuno dei mille tipi di bestie feroci che abitavano le foreste del pianeta, e non si preoccupò nemmeno degli ancora più terribili cacciatori di uomini che si sarebbero lanciati fra poco alla sua ricerca.

La notizia del suo salto avrebbe irritato quelli che lo stavano aspettando allo spazioporto. Ma l’irritazione non sarebbe durata a lungo. Il messaggio di Kayder, se l’avevano ricevuto, doveva descriverlo, come un fenomeno telepatico al quale personaggi terrestri come Heraty e Carson sembravano attribuire più importanza di quanto meritava. Da questo avrebbero dedotto che tutta la sua importanza doveva essere ricercata in qualcosa che Kayder non aveva notato e che loro dovevano scoprire. Ora sapevano che aveva lasciato l’astronave alla maniera dei levitanti, ma che era precipitato nel vuoto in modo diverso. Senza esitazione avrebbero accettato l’esistenza di un nuovo e insospettato essere di talento para-levitante. Sommando la notizia a quanto già sapevano, sarebbero giunti a classificarlo quale primo esempio della creatura spesse volte immaginata e terribilmente temuta: una creatura dotata di molti talenti, che discendeva dall’unione di mutanti diversi. Mettendosi a sedere su uno spesso pezzo di corteccia verde, Raven sorrise tra sé divertito. Un esempio di “mutante multiplo”nato dall’unione di mutanti diversi. Un essere simile, per quanto i tre pianeti fossero tenuti costantemente sotto controllo, non era mai stato scoperto. E c’erano ottime ragioni genetiche per credere che un mutante del genere non sarebbe mai stato trovato, né che potesse esistere.

Per ragioni sue la Natura aveva stabilito che i figli nati dall’unione di mutanti diversi dovessero ereditare il solo talento dominante, o nessuno. L’attitudine secondaria scompariva sempre. Spesse volte il talento dominante saltava una generazione. In questo caso, la generazione saltata contava esseri assolutamente normali.

Il concetto di supertelepatico superlevitante era decisamente assurdo… ma quelli che lo affermavano si sarebbero rimangiati tutto il giorno in cui fosse apparsa la prova evidente della loro esistenza. Quando avrebbero saputo che la prima mossa della pedina posta sulla scacchiera dai Terrestri era stata quella di abolire una legge naturale, ai capi del movimento clandestino sarebbe venuto un considerevole aumento di pressione sanguigna. Avrebbero voluto catturarlo a ogni costo e con la massima rapidità, prima che potesse sconvolgere anche altre leggi che l’uomo aveva creato per conquistare ricchezza o potere.

Il pensiero fu di grande soddisfazione per Raven. Fino a quel momento non aveva compiuto niente di spettacolare per gli standard di quell’epoca, e aveva fatto benissimo. Non conveniva essere troppo spettacolari. Proprio come la pensava Leina: interferire il meno possibile. Per questo aveva disapprovato certe sue azioni come quella di trasferirsi nel corpo di un altro essere vivente. Era necessario restare sempre nell’ombra e non lasciarsi mai tentare dall’azione.

Lui, comunque, aveva creato un considerevole disagio nelle file del nemico fin troppo fiducioso. Infatti, se gli avversari, digerita l’idea dell’esistenza di un mutante dai molti talenti, avessero pensato alla possibilità dell’arrivo di nuovi esseri forse ancora più potenti, avrebbero avuto ogni ragione di temere. E i loro timori li avrebbe portati sempre più lontano dalla verità, da quella verità che non avrebbero mai dovuto sapere, per evitare che altri la potessero poi leggere nelle loro menti.

Peccato che non si potesse dire loro la verità… Ma ci sono cose che non possono essere raccontate agli immaturi.

Nessuna legge naturale era mai stata o poteva essere abolita. Un fenomeno soprannaturale è qualcosa che obbedisce a delle leggi che ancora non si conoscono o che non sono state identificate. Non esistevano mutanti multipli. C’erano solo falene dagli occhi lucenti che svolazzavano nell’infinità del buio eterno.

Raven lanciò un raggio mentale di chiamata su una banda molto più alta di quella telepatica normale.

— Charles!

— Sì. David?

La risposta giunse immediatamente, mostrando che dall’altra parte stavano aspettando la sua chiamata. Gli impulsi mentali in arrivo urtarono i centri di ascolto con una lieve distorsione.

Raven girò la testa in direzione di chi gli aveva risposto, istintivamente, come si fosse girato verso una persona presente.

— Sono saltato dall’astronave. Forse non era necessario, ma non ho voluto correre rischi.

— Lo so — rispose la mente lontana. — Mavis è stata chiamata da Leina. Come al solito, hanno chiacchierato per un’ora di faccende personali, poi, finalmente, Leina si è ricordata di aver chiamato per dirci che eri sul Fantôme.

— Le donne rimarranno donne per tutta l’eternità — disse Raven.

— Così sono venuto allo spazio-porto — continuò Charles. — In questo momento mi trovo vicino al cancello d’ingresso. Non sono riuscito a entrare perché hanno proibito l’accesso al pubblico. Il campo è completamente circondato. Quelli che sono venuti a ricevere parenti e amici stanno camminando nervosamente avanti e indietro, formulando le congetture più insensate. Lo scafo è ormai a terra, e un gruppo di bellicosi ufficiali si sta comportando come se qualcuno avesse appena rubato gli assegni delle loro paghe.

— Temo che sia tutta colpa mia.

— A ogni modo, perché venire con un’astronave? — chiese Charles. — Se per qualche misteriosa ragione dovevi compiere il viaggio lentamente, avresti potuto gonfiare un piccolo pallone per fare la traversata, non ti pare?

— A volte ci sono considerazioni molto più importanti della velocità — rispose Raven senza stupirsi di quello che l’altro aveva detto. — Per esempio, sto indossando un corpo.

— È proprio al tuo corpo che stanno dando la caccia. È una maniera sicura per tradirsi.

— Forse. Ma io voglio che mi cerchino. Dare la caccia a un corpo impedisce loro di pensare ad altro.

— Hai ragione — disse Charles. — Vieni da noi?

— Certo. Ho chiamato per accertarmi che foste lì.

— Bene. Ci vediamo tra poco.

— Parto subito.

S’incamminò tra le ombre del bosco verso la pianura. Avanzava in fretta, vigile più con la mente che con gli occhi. Per lui era sempre possibile percepire gli esseri che lo potevano osservare, perché era impossibile spiarlo senza irradiare un pensiero, anche se elementare come quello dei due gufi che lo stavano guardando dal buco di un albero, a una cinquantina di metri dal suolo.

— Cosa-uomo sotto! Aaargsh!

Ai margini della foresta comparvero i primi segni della caccia scatenata contro di lui. Raven si nascose nell’ombra di un grosso albero e lasciò passare l’elicottero che volava sopra il grande ombrello di rami. Era un grosso apparecchio sostenuto da quattro rotori a più pale, e trasportava un equipaggio di dieci elementi. Raven riuscì a contare le menti mentre gli uomini scrutavano il groviglio che si stendeva sotto di loro.

C’erano sei telepatici che ascoltavano, ascoltavano, attenti a raccogliere il primo impulso mentale che lui avesse avuto l’imprudenza di lasciarsi sfuggire. E c’era un insettivora con una gabbia di formiche-tigri volanti, da lanciare sul punto che i telepatici avessero indicato.

Il secondo pilota era un notturno, felice di restare a riposo in attesa del suo turno, nel caso che la caccia fosse continuata anche durante la notte. Gli altri due erano un ipnotico che imprecava contro Raven perché era stato strappato a una partita di jimbo-jimbo che stava vincendo e un supersonico con le orecchie a sventola tese nello sforzo di percepire il lievissimo sibilo del cronometro al radio che erroneamente secondo loro la preda doveva avere.

Il gruppo dei mutanti passò proprio sopra la sua testa e si allontanò zigzagando, senza immaginare minimamente di essergli stato tanto vicino. Un secondo equipaggio simile stava sorvolando una zona parallela, due chilometri circa più a sud, e un terzo tre chilometri più a nord.

Raven lasciò che si allontanassero parecchio, poi uscì dal nascondiglio e riprese il cammino. Seguì il margine della foresta fino a una strada, e da lì si diresse verso la città, con minore precauzione.

Le squadre aeree di ricerca potevano essere composte da esseri umani con doti eccezionali, molto superiori a quelle comuni, ma tendevano a cadere negli errori degli esseri normali: pensavano cioè che nessun uomo in marcia lungo una strada, alla vista di tutti, potesse avere qualcosa da nascondere. Ma nella eventualità che uno di questi gruppi, preso da eccesso di zelo, fosse sceso verso di lui per scrutare nel suo cranio, lui avrebbe fornito una selezione di banali pensieri come: Cosa ci sarà da mangiare? Se trovo ancora pesce fritto faccio una scenata!

Rimaneva comunque il rischio, anche se minimo, che le squadre avessero la sua fotografia, e che uno degli apparecchi scendesse a bassa quota per poterlo osservare in faccia.

Ma nessuno gli prestò particolare attenzione. A poca distanza da Plain City, un elicottero andò a volteggiare sopra la sua testa, e lui sentì quattro menti frugare nella sua. Per il disturbo che si erano presi, Raven elargì un quadro dettagliato di una violenta lite familiare tra le pareti di un tugurio. Nell’attimo in cui si ritiravano dalla sua mente, riuscì quasi a sentire il disprezzo che avevano provato. Immediatamente i rotori cominciarono a girare con maggiore velocità, e l’apparecchio si diresse di nuovo verso la foresta.

Alla periferia della città, Raven si portò al margine della strada per lasciar passare un enorme trattore che trascinava a rimorchio una grande gabbia di ferro. Due ipnotici e un telecinetico avevano l’incarico di svolgere quella tardiva parte della caccia con i gatti selvatici che si trovavano nella gabbia. Quegli animali potevano seguire una traccia vecchia di una settimana e salire agilmente in cima a tutti i giganteschi alberi della foresta che non fossero coperti di spine.

Dovendo fingersi un essere comune, Raven prese a masticare un filo d’erba rossa e fissò con occhi pieni di curiosità il gruppo di persone che gli stava passando accanto. Le menti di tutti risultarono aperte come libri: uno degli ipnotici era impegnato a smaltire rapidamente una sbornia di tambar, l’altro aveva passato una notte insonne e aveva la sola preoccupazione di restare sveglio. Stranamente, il telecinetico era preoccupato dal fatto di catturare la preda e di essere poi accusato dalle autorità terrestri. In gioventù aveva subito diverse volte le conseguenze dell’aver obbedito a certi ordini, e non l’avrebbe mai dimenticato.

Anche i gatti selvatici trasmettevano i loro desideri felini. Da dietro le sbarre, dieci animali fissarono Raven sbavando, e promisero a se stessi che un giorno o l’altro avrebbero finito con l’assaggiare la carne della razza che dominava. Sei pensavano alla possibilità di fuggire nella foresta e di trovare riparo dove l’uomo non poteva raggiungerli. Gli altri quattro pensavano a cosa avrebbero fatto nel caso che la pista dell’uomo da inseguire si fosse incrociata con quella di una gatta selvatica. Evidentemente gli sarebbe piaciuto unire l’utile al dilettevole.

Il ridicolo gruppo si allontanò lungo la strada sotto gli occhi della preda. Probabilmente sarebbero tornati verso sera, rossi d’orgoglio per il successo, dopo aver fatto a pezzi qualche povero diavolo che vagabondava nella giungla, o qualche distillatore clandestino di tambar.

Continuando il cammino verso la città, Raven raggiunse una piccola casa in granito, con brillanti orchidee dietro i vetri delle finestre. Non ebbe difficoltà nel trovare la strada, anche se era la prima volta che visitava Plain City. Raggiunse la destinazione come se si fosse trattato di raggiungere una luce lontana nel pieno della notte. E quando arrivò alla porta non ebbe bisogno di bussare. Quelli che lo stavano aspettando avevano contato ogni suo passo e sapevano perfettamente che lui sarebbe arrivato in quel momento.