Otto giorni dopo la Venere dell'amico mio innamorava tutti i visitatori della Mostra Permanente di Belle Arti; si destò intorno al nome di Valente Nebuli quell'onda di simpatia, specie di febbre ammirativa, che accompagna sempre i nuovi venuti.
Non si parlò più che della spuma del mare; perfino le gazzette si svegliarono dai loro sonni politico-amministrativi, per dare un'occhiata alla Mostra Permanente, ove era apparso un ospite illustre, un ospite celebre, un capolavoro. La critica, o generosa o crudele, andava fino a maltrattare quante Veneri erano venute, prima di questa, a domandarle la sanzione d'una voga capricciosa. Vidi io stesso, coi miei occhi li vidi, maestri canuti, e buoni, e generosi, come tutti gli artisti veri, pittori celebri da mezzo secolo, che sarebbero stati felici di stringere la mano al loro giovine collega — li vidi, con questi miei occhi li vidi, arrestarsi mutoli dinanzi al quadro e guardarsi sospettosi intorno, come temendo d'essere mostrati a dito per buoni da nulla; e li vidi qualche volta passare accanto a Valente, e non guardarlo, o guardarlo e fingere di non conoscerlo, e non volersi voltare anche se un amico ingenuo, che camminava al loro fianco senza sentire come batteva il loro cuore, li avvisava allungando il dito per mostrare il giovine pittore divenuto celebre in un quarto d'ora, il quale era così felice e tanto modesto da non accorgersi di nulla.
Ed avrei voluto andare incontro a quei vecchi e dire: — stringiamoci tutti la mano e facciamo noi la critica alla critica; sorridiamo degli entusiasmi ciechi della folla, che si tirano dietro le loro sorelle cieche — le dimenticanze ingiuste; il capriccio e lo stordimento non ci rendano capricciosi e storditi; l'arte è un palio, noi che siamo.... cioè no, voi che siete gli arrivati non offenda il plauso frenetico che saluta noi.... cioè gli altri che arriveranno — è un quarto d'ora che passa per tutti — noi siamo l'arte, noi dobbiamo essere l'amore.
Avrei voluto dir tutte queste cose, e le avrei dette meglio di così, mi pare, ma con quale autorità entrare io di mezzo, anche potendo, a conciliare i celebri d'ieri coi celebri d'oggi, io che non era celebre niente affatto e non speravo di diventarlo mai? In qual modo dir noi senza cacciarci me come un intruso? Perchè.... sappiatelo, sotto la mia gran gioia di vedere Valente arrivato alla gloria, ci era il mio gran dolore, il mio sconforto immenso di non essere capace io pure di fare alcuna cosa di buono.
Nei primi giorni mi era come venuta la febbre di far miracoli, misuravo il mio studiolo a gran passi, sollevavo la fronte e nel soffitto guardavo audacemente i cieli dell'arte, e stemperavo i colori, dai quali mi proponevo di ricavare un superbo quadro di genere, e lavoravo, lavoravo; ma di repente svaporava la mia ubbriacatura, mi cadevano di mano i pennelli — ridiventavo me stesso, vale a dire un dodicesimo di una qualsiasi dozzina, il rifiuto delle matematiche e della filosofia, a cui l'arte aveva fatto l'elemosina.
In quest'occasione mi si fece palese più che mai l'indole generosa di Valente; avendo egli avuta una grossa fetta di gloria, e spiacendogli tenerla tutta per sè, nè sapendo in qual modo farmi entrare a dividerla, cominciò a trovare così grazioso il concetto, così giusto il disegno, così sobria l'espressione del mio nuovo quadro di genere, che finì col farci fare la pace.
— Ti sta bene medicare le mie ferite, — gli dicevo, — perchè sei stato tu, cioè stata la tua Venere, a sollevarmi prima fino alla sua altezza, a lasciarmi poi cadere di peso sul lastrico della via; tutte le opere di genio sono crudeli colla gente, che ha solo della buona volontà.
— Ma, tu sei un artista!
— Ah! Oh! Non me lo dire; io sono un uomo ordinato....
Calunniavo l'ordine, ma dicevo la verità; qualche volta, pigliandomi la febbre, mi pareva di dover incominciare di lì appunto, dal mettere cioè a soqquadro il mio studiolo, le tele capovolte, i pennelli coi manico immerso nel secchiello.... ma oltre che non sapevo immaginare che un disordine ordinato, pensavo: — È inutile, non resisterei a lungo, domani rimetterei le cose come stanno oggi, e la mia arte non farebbe un passo innanzi.
Il mio buon senso non mi abbandonava mai. Oh! se bastasse il buon senso per far tele meravigliose, come quelle che sogno alla notte, quando il mio buon senso dorme!
Valente fece di più, mi obbligò ad esporre alla Mostra Permanente le mie tele rimaste invendute.
— Quanto chiedi di prezzo?
— Cinquecento lire ciascuna, — balbettai.
— Vergognati, ecco perchè non le hai vendute.... se ne avessi domandato 1000, avrebbero lasciato lo studio da un pezzetto.
— E della tua Spuma del mare allora quanto chiederai?
— Quella non è da vendere.
Accettai il consiglio dell'amico, ed otto giorni dopo, avvicinandomi alle mie tele, una ne vidi che portava la scritta venduta.
— Sarà uno sbaglio, — pensai. Non è eccesso di modestia, ma vi giuro che pensai così, ed allo stesso tempo ero sicuro che non poteva essere uno sbaglio...
Corsi all'ufficio della Presidenza — il compratore era una straniera, la quale aveva snocciolate le mille lire, promettendo di mandar a prendere, il quadro lei stessa.
Gioie simile a quella di Annetta ed alla mia non si descrivono. Tenendoci per mano come due fanciulli, si corse giù a portare un po' della nostra allegria in casa Nebuli. La signora Chiarina baciò in volto l'amica, e rise, e rise. Così faceva sempre quando era contenta! Ed ah! come mi faceva bene sentire nelle note di quel riso l'eco della mia felicità, veder la nostra allegria riflessa in quel visino da fata! Valente invece stette serio. — Te lo diceva io! — così disse, niente più.
Come potete immaginare, la mia nuova tela andò più innanzi in due giorni che non avesse fatto in due settimane; m'interrompevo a volte, per andar gravemente a sollevare coll'indice la faccia soave della mia Annetta, china sul cucito, e dirle un'altra idea, che m'era venuta allora allora, un'altra, un'altra. Mi pullulavano le idee.
— Purchè non mi scappi! — dicevo.
E lei:
— La terrò a mente io. —
Quella sua testina pensosa divenne in pochi giorni uno scrigno.
— Se non mi buscherò un malanno, — pensavo, — se dura la vena, e se avrò fortuna, insomma se mi lasciano fare, provvederò di quadri di genere tutte le straniere che vengono in Milano e visitano la Mostra Permanente.
Valente era felicissimo di questo mio entusiasmo, mi diceva bravo stando seduto a fumare la mia pipa nella mia poltroncina filosofica, dandomi i suoi consigli senza averne l'aria.
— E tu, — gli domandai, — che fai ora?
— Io? Nulla.
— Non pensi a dare un successore al tuo quadro?
— Gliene ho dati cento nella mia fantasia, uno più bello dell'altro. Ma non provo nessun bisogno di mettermi al lavoro. Li vedo, sono cento, belli tutti, o almeno mi piacciono — e basta. Però un giorno o l'altro ne incomincierò uno.... domani forse!
— Eccolo lì l'uomo del domani. —
Invece di rispondere, continuava a far capolavori col fumo della mia pipa, ed i domani venivano e se ne andavano.
Dirò ora l'origine di quello che vien riputato il capolavoro mio — perchè ho io pure un capolavoro relativo, e tutti lo possono avere, pittori, scultori e letterati, birboni, purchè abbiano fatte delle birbonate grosse, mezzane e piccine; la più piccina — non si sbaglia — è il capolavoro.
Parlo d'una mattina di novembre, in cui Valente aveva costretto la mia Annetta e me a scendere da basso per far colazione con lui. Aveva qualche cosa da dirmi, ne ero sicuro, e me ne persuasi tanto più, quando vidi che a tavola non diceva nulla.
Alla fine del pasto dissi:
— Ho indovinato; tu hai qualcosa da dirmi.
— Hai indovinato, — rispose.
E non disse nulla.
— E indovino di che si tratta.... —
In quel punto — proprio in quello, ne sono sicuro — la signora Chiarina si levò da tavola, fece un cenno all'amica e sparvero entrambe.
— Tu hai un quadro nuovo in mente. —
La corbelleria era volontaria; sapevo benissimo che non di un quadro mi doveva parlare; ma bisognava pur sbagliare per farmi correggere.
Mi rispose sbadato, come ripetendo frasi che sapeva a memoria:
— Incominciare una tela è incominciare a sciuparla; finire una tela è sciuparsela del tutto. Quanti capolavori sono morti così, dopo aver agonizzato mesi e mesi sotto il pennello!... —
Lo interruppi:
— Tu non pensi a quello che dici.... —
Ed egli:
— Hai ragione, ma dico cose che ho pensato tante volte. Veniamo a noi; ho bisogno di tutta la tua amicizia, per chiederti il più gran servigio che si possa domandare ad un uomo: serbare un segreto.
— Scusa, — ribattei, colpito dalla solennità di queste parole, — hai proprio bisogno che te lo conservi io il tuo segreto? Non potresti custodirlo tu stesso? Sono curioso, lo confesso.... sono curiosissimo; ma la regola è questa; ci è anche un proverbio che dice....
— Lo so che cosa dice il proverbio; ma ciò che ti devo dire io mi pesa; non lo posso sopportare da me solo; la responsabilità è troppo grave; la spartiremo in due.... Ti accomoda? Mi darai un consiglio....
— Certo.... —
Ma in quella si aprì l'uscio ed apparve a' miei occhi sbigottiti il più bizzarro spettacolo che si possa immaginare: una signora bianca bianca, che teneva per mano un'ombra, no, una cosuccia nera, no, un'inezia animata e nera, con due occhi di porcellana in mezzo ad una faccia di carbone. Tutta la mia rettorica fu messa a cimento: io vidi ad un tratto l'Alba ed il figliuolo della Notte; Proserpina costretta a far da mamma ad un marmocchio di primo letto di Plutone; la luce meridiana fatta persona, che si tirava dietro la sua ombra tozza e sbilenca, e non so quante altre cose vidi nella signora Chiarina, che dava mano a quello spazzacamino.
La vaghissima donna doveva fare uno sforzo perchè il piccino si faceva un po' tirare.
— Guardatelo, — diceva essa — guardatelo come è bellino; con questa sua casacca a brandelli, che lo ingrossa, è più largo che lungo..... Guardatelo, non è vero che è bellino?
Annetta anch'essa guardava con occhio tra pietoso e meravigliato, sorridente.
— Sì, è bello, è bellissimo. —
Io non dissi nulla, perchè concepivo il mio capolavoro.
Allora la padrona di casa abbandonò la sua piccola preda, che barcollò tutta; e chinandosi per mettere il suo viso da Madonna in faccia al musetto vergognoso del bimbo:
— Vediamo — gli disse con un accento che era una carezza, — vediamo un po', come ti chiami? —
L'omino così interrogato era propriamente sbigottito; aveva perduto la parola e non la ritrovò che alla promessa d'un bel panetto bianco tutto per lui — cosa fenomenale, inaudita!
— Dillo; come ti chiami?
— Giovanni....
— E che Giovanni?
— Battista....
— Giovanni Battista che cosa? —
Silenzio.
— La mamma ce l'hai?
— No.
— Il babbo?
— No.
— E quanti anni hai? —
Quella cosuccia nera si rinfrancava; non gli splendori della sala lo avevano sbigottito, poichè era avvezzo a vederne, ma quei modi, quella bontà, quel panetto bianco, che appariva sul suo orizzonte.
— Vai alla scuola? — domandò Annetta.
— Sì.
— E che cosa impari?
— A leggere, a fare le aste.
— Conosceresti l' o? — Chiese ad un tratto la signora Chiarina.
L'amico fe' cenno modestamente di sì.
— Vediamo.... —
E prese una gazzetta, un Pungolo. Lo scolaro nero non si era vantato: egli non solo riconobbe tutti e due gli o del titolo, ma fece festa all' u come ad un vecchio amico.
— Bisogna conoscerle tutte, — disse la signora Chiarina — ci vai volentieri a scuola? E studii? Ecco, se a Natale conoscerai tutte le lettere, io ti darò uno scudo d'argento, ed una veste nuova.... — e vedendo che l'amico dell' o e dell' u pareva innamorato più che altro del panetto bianco, la signora soggiunse: — e dei panetti bianchi....
— Tanti? —
— Tanti, tanti.
Oh! la purissima gioia!
— Ora va a casa, non hai freddo?
— No.... —
Ed uscì di corsa. La signora Chiarina e la mia Annetta dietro.
— Ho il mio capolavoro, — dissi ridendo, — Venere ha trovato Amore nascosto nella carbonaia dell'Olimpo, e lo presenta agli Dei seduti a mensa; un bel quadro di genere, che farebbe la sua brava figura nelle pareti d'un paradiso pagano.
— Bravo! —
Io diceva per ridere; la mia idea seria era di riprodurre tal quale la scenetta di poc'anzi e d'intitolarla....
— Venere ed Amore! — suggerì Valente.
— Accettato.
— E se dai retta a me, quando te l'abbi messo bene in mente, ce lo lascierai in sempiterno, senza guastartelo per metterlo in mostra al pubblico. —
Ma si corresse, e disse:
— Al contrario devi farlo subito subito, per conto mio, mettendoci la mia Chiarina, la tua Annetta e me stesso; per il prezzo c'intenderemo. —
Rientrarono le nostre donne, raggianti in volto tutte e due.
La signora Chiarina corse alla finestra e l'aprì; si affacciarono entrambe. E noi, che ci eravamo messi alle loro spalle in silenzio, senza sapere che accadeva, sentimmo ad un tratto una vocetta acuta fendere l'aria, e salire, su, su, più in alto del più alto dei camini.
— È Giovanni Battista! — disse Chiarina senza voltarsi — Se ne va colle mani in tasca, saltelloni... È scomparso. Come è bastato poco a farlo felice! — disse voltandosi e chiudendo la finestra.
— Tornerà a Natale a pigliare lo scudo?
— Tornerà. —
Quanto era adorabile e bella la signora Chiarina!
Annetta faceva forse la stessa riflessione, perchè di repente si buttò al collo dell'amica, e la baciò più volte. Avrei fatto anch'io come Annetta, senza i benedettissimi riguardi del mondo. E dissi a Valente:
— La devi baciare per me.
Così dissi, e non mi pare che ci fosse del male a dirlo, ma Valente faceva un risolino impacciato, e sua moglie divenne di bragia.
Tanto fu essa la prima a muoversi: si fece innanzi, appoggiò le manine sugli omeri del marito, e sollevandosi in punta di piedi, depose sulla sua guancia un bacio timido e discreto, uno di quelli che non fanno rumore.