Chi mai ha detto che nelle gran gioie o nei gran dolori è impossibile conoscere il proprio simile? Qualcuno l'ha detto di sicuro, ed a costui rispondo che negli eccitamenti della passione appunto, e soltanto in essi, è possibile conoscere e giudicare il proprio simile. Guardate l'uomo di tutti i giorni: superficie lisciata dalle convenienze, dal sussiego, dall'abitudine; applicate all'uomo di tutti i giorni la lente di un dolore, d'una gioia, d'uno sgomento, d'un dispetto, e subito ciò che vi pareva liscio, diventa scabro. Intendiamoci: saper guardare bisogna; perchè se una pagnotta veduta col microscopio mi diventa una montagna, non mi è lecito sentenziare che ha cessato d'essere una pagnotta.

Fu quando io mi trovai innanzi agli occhi il grande affanno di Valente, che per la prima volta vidi come attraverso un microscopio il segreto delle sue abitudini indeterminate, neghittose e fantastiche.

Egli era propriamente trasformato, tanto esagerava sè stesso: la sua indolenza, da cui soleva uscire a scatti nervosi, mi diventava apatia, d'onde lo toglievano bizze, tenerezze, puntigli, sussulti di umor caparbio; già era motteggevole, eccolo pungente; non più bizzarro soltanto, ma stravagante; irto insomma come un'alpe alla superficie, ma sempre la stessa buona pagnotta di uomo nella sostanza.

Era il suo grande affanno che me lo faceva così; e se una volta mi rallegrai d'essere un po' filosofo, fu in quei giorni d'ansia muta e crudele.

Ogni mattina egli veniva su a prendermi, ma non lo voleva dire; ed io fingevo d'essere proprio sulle mosse, o di ricordarmi a un tratto d'un affaruccio che mi chiamava fuor di casa, tanto per potergli far compagnia.

Senza nemmeno fiatare, era cosa intesa — si andava alla posta. Era lui che si affacciava allo sportello a dire — Nebuli — era io che pigliavo le lettere e ne facevo l'esame. «Questa viene da Roma, questa da Napoli, questa da Torino....» Mi faceva cenno di aprirle, le aprivo «questa incomincia: caro Valente! ed è sottoscritta Serpoli — quest'altra dice: Illustre signore, ed è sottoscritta.... ecc.» Allora egli si pigliava le sue lettere, le guardava un po' in distanza con un resto di paura e le cacciava in tasca sbadato.... — Tornavamo a casa un po' più ciarlieri di prima, ma niente affatto ciarlieri — a domani! — a domani!

Se gli domandavo: — che hai fatto tutt'oggi? — mi rispondeva: — che vuoi ch'io faccia?... nulla!

— Te io dirò io che cosa hai fatto; — ti sei tormentato; — hai sofferto — di' la verità.

— Ebbene sì, mi sono tormentato; — è qualche cosa anche questo, e non so far altro; finchè non giunga quella maledetta lettera che ha da venire....

— E quando non aspettavi la lettera, ci era la lite....

— Ci è ancora.

— E quando non ci era la lite, aspettavi l'eredità....

— Allora avevo i miei venticinque anni che non ho più, aspettavo i trenta ed ora non ho più nemmeno quelli — aspettavo l'avvenire. —

Ed io, facendomi forza per non pigliare un tono solenne:

— L'avvenire, Valente mio, è il più gran nemico del presente ed è nemico fatale, perchè ci lusinga, perchè si nasconde — bisogna placarlo o domarlo l'avvenire.

— E come si placa, e come si doma?

— Lavorando.

— Ne sei sicuro? —

Veramente non ne ero sicuro, perchè non sempre, neppure lavorando, si placa o si doma; ma se la cosa non riesce, rimane il conforto.... voi sapete quale — io v'infastidisco e smetto.

Dicevo a me stesso: — quando Valente abbia vinta o perduta la lite, quando abbia intascato l'eredità e restituito la moglie — o viceversa, allora forse metterà un po' d'ordine nelle sue idee, e non è possibile che si lasci corbellare dall'avvenire.

Così dicevo a me stesso, ma senza fidarmi troppo.

Una mattina eravamo usciti dalia posta; le lettere erano molte, ed io me n'ero impadronito per forza d'abitudine e niente più, poichè, dopo tante paure vane, anche l'amico Nebuli cominciava a pigliar coraggio e sarebbe stato capacissimo di far di meno della mia assistenza.

Io avevo preso un tono corbellatorio, una specie di solennità nasale, di cui (chi sa?) Valente era anche capace di ridere.

Quel giorno dicevo:

— «Al celebre signor Valente Nebuli, pittore.... Sampierdarena — 20 novembre....» — è uno che ti vuol tentare a vendergli la Spuma del mare; se non ti lasci sedurre questa volta, ti metteremo sotto una campana di vetro.... indovina quello che ti offre.... mille lire.... e più se occorre, ma naturalmente spera che non occorra.... Che cosa dobbiamo rispondere al signor Campori?... Rispondiamogli che egli ha a Sampierdarena un mare meglio riuscito del tuo.... faccia mettere in cornice quello; spenderà meno.... —

Valente rideva.

— Questa è d'uno che ha conosciuto un certo Salvioni.... bresciano, studente di medicina a Pavia.. biondo.... non aveva ancora cicatrici, dice lui.... ma può essersele fatte dopo.... si rimette alla tua generosità pella mancia.... quest'altra.... —

Ma qui trovai un intoppo, un intoppo enorme. Non mi pareva vero, e tornavo a leggere.... non risi più.

Quella lettera diceva:

«Al signor V. Nebuli — ferma in posta — Milano.

«Stimatissimo signore,

«Se Giorgione è morto, me ne dispiace assai, perchè era certo migliore di tanti che sono vivi; mi si dica quando e dove posso trovare la persona che desidera le notizie su Giuseppe Salvioni; io gliele darò autentiche, perchè Giuseppe Salvioni sono io. — Scrivere fermo in posta; — Milano.»

Certo Valente mi lesse in faccia la brutta notizia, perchè, senza dir parola, mi tolse la lettera di mano, e mi guardò in volto ridendo d'un riso amaro.

— Ci siamo finalmente, — balbettò, — ebbene, tanto meglio, la farsa ha durato troppo. —

Piegò la lettera senza leggerla, la pose in tasca, e abbottonato il pastrano, s'avviò a gran passi.

Non sapendo che dirgli, gli camminavo al fianco in silenzio. Nel passo, nel modo di tenersi ritto e di guardare innanzi, l'amico mio aveva una bizzarra energia che era disperazione.

A un tratto si fermò, estrasse la lettera, lesse, impallidì.

— Egli qui, a Milano! Ah! povera Chiarina! —

E la sua falsa energia si sfasciò.

— Senti, gli dissi commosso, — tutto non è ancora finito, forse vi è un rimedio....

— Uno solo.... fuggire.... invertire le parti; essere io il colpevole, lui il purissimo.... no, no, venga, lo aspetto! —

Ma gli tremava la voce dicendo queste ultime parole.

— Gli scriverai?

— Sì.

— Gli confesserai ogni cosa?

— Sì. —

Non era il momento di dirgli quanto pensavo, ma pensavo che quello era il modo migliore di far la peggiore delle corbellerie — e mi proponevo di farglielo toccare con mano più tardi.

La signora Chiarina ci venne incontro, ed interrogò collo sguardo. — Valente ebbe la forza di ridere per ingannarla, ma la cara donnina leggeva cogli occhi dell'amore, e continuava ad interrogare lui e me.

Finalmente disse:

— Egli vive, non è vero? —

E siccome nessuno le rispose, — Ah! Valente! — mormorò; e stette immobile, nel mezzo della stanza, cogli occhi aperti, fissi e lagrimosi.

A un tratto Valente cacciò la testa fra le mani e fuggì per nascondermi le sue lagrime. Io guardai l'uscio, dietro il quale era scomparso, poi le finestre, a cui s'affacciava un raggio allegro di sole, poi il visino bianco e gli occhi aperti, fissi e lacrimosi della signora Chiarina. Sentii che me le dovevo accostare, mi accostai, ma nessuno mi suggerì una parola di conforto. All'ultimo le pigliai una mano che ella mi abbandonò senza resistere.

— Se sapeste quanto ci amavamo!... —

Questo solo disse: poi si asciugò le lagrime, tolse delicatamente la mano dalle mie, e chiedendomi scusa collo sguardo, andò a portare una carezza al mio povero amico.

Ed io le venni dietro come uno smemorato.